COSTA, Paolo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 30 (1984)

COSTA, Paolo

Leandro Angeletti

Nato a Ravenna il 13 giugno 1771 da Domenico e Lucrezia Ricciarelli, il C. visse il clima politico-culturale, contraddittorio e velleitario, successivamente sconvolto, a cavallo dei due secoli, nell'Italia settentrionale, dagli echi della Rivoluzione francese prima, dall'esperienza napoleonica subito dopo, e infine dalla Restaurazione.

Già influenzato dalla filosofia francese (Condillac) fin da quando frequentava il ginnasio di Ravenna, fu all'università di Padova (1793) che la sua formazione si arricchì delle nuove idee che venivano d'Oltralpe; a Padova, come in altre città del Nord, la rivoluzione aveva suscitato enorme impressione contribuendo a diffondere le idee illuministiche che ne erano alla base. A Padova, inoltre, poté seguire le lezioni dei Cesarotti, le sue teorie di rinnovamento linguistico, ed ebbe come amico U. Foscolo. Aderì subito alle nuove idee, e il suo acceso giacobinismo lo portò a partecipare alle vicende politiche: capeggiato il movimento giacobino a Ravenna, fu ufficiale della guardia nazionale, poi presidente della nuova Municipalità, e "moderatore" del Circolo costituzionale (1797). Nello stesso anno pubblicò a Ravenna la Canzone ai patriotti cisalpini, piena d'invettive contro la Curia romana, e tenne a Brescia un discorso sui Pinzocheri e i falsi preti al tribunale della libertà (Brescia 1798). Durante la reazione austro-russa venne condannato ai lavori forzati, ma riuscì a fuggire a Bologna (11 apr. 1799). Nel 1801 fu deputato ai Comizi di Lione e nel 1805, quando Bonaparte entrò a Bologna, scrisse L'inno all'imperatore dei francesi e re d'Italia (in Opere, IV, pp. 56 s.). Dal governo napoleonico ebbe la nomina di professore di filosofia al liceo di Bologna. Seguì, forse nel 1808, il Murat a Napoli, per ritornare a Bologna nell'agosto dello stesso anno. Accusato d'ateismo, quando il governo pontificio abolì il liceo di Bologna, rimase senza impiego. Tuttavia non venne perseguitato, e nel 1822 aprì una scuola privata.

Le scuole private s'erano diffuse, nel periodo della Restaurazione, in molte regioni italiane; frequentate da chi cercava una cultura al di fuori delle limitazioni delle cattedre ufficiali, queste scuole, che non avevano alcuna finalità pratica perché non riconosciute dal governo, erano di altissimo livello culturale, con un carattere apertamente antigovernativo. La scuola privata del C. acquistò subito vasta risonanza, sia per la fama del C. di liberale perseguitato, sia per le accuse di ateismo e di materialismo che si attirò, svolgendo un'azione culturale e politica di primo piano nell'evoluzione dell'intellettualità bolognese. Per questo la nomina del C. alla cattedra di scienza ideologica, istituita dal governo provvisorio con decreto 1º anno 1831, fu accolta con entusiasmo e dimostrazioni. Le sue lezioni erano dei trionfi, ma il 21 marzo dovette interromperle per l'ingresso in città degli Austriaci e dei Papalini. Il C. fu tra i primi ad essere perseguitato, in quanto "principale propagatore della rivoluzione" come suona il rapporto che il cardinale Oppizzoni mandò alla segreteria di Stato. Rifugiatosi a Corfù, poteva tornare a Bologna nel 1832 per la "clemenza del sommo pontefice" (lettera al Biondi del 28 giugno 1833, in Opere, IV, pp. 326 s.). Il governo pontificio gli ingiungeva, però, di risiedere nella sua villa Il Cipresso, e di non rientrare più in città. In questa villa continuò la sua opera di educatore privato fino al giorno della morte, il 21 dic. 1836.

"Maestro di letteratura e filosofia", l'importanza storica del C. non va valutata nei suoi contributi ai vari generi letterari - poesia, narrativa, teatro - cui s'applicò con l'ardore polemico che gli era proprio; né in quelli del pensiero, dove, se riuscì a elaborare con notevole chiarezza le idee che dominavano l'ambiente della sua formazione (il sensismo), non propose nulla di nuovo, e dove anzi, "non sono neppure avvertiti i problemi più ardui" e il tutto è trattato con estrema superficialità (M. Minghetti, I miei ricordi, p. 50). Se la sua figura poté contribuire alla formazione d'uno spirito liberale e attrarre la gioventù intellettuale del tempo, ciò avvenne sia per la foga che seppe mettere nelle sue posizioni, sia per la ristrettezza dell'ambiente dove operò - le Legazioni pontificie nel periodo della Restaurazione - dove bastava la polemica netta, anche se spesso fumosa, superficiale e contraddittoria, per suscitare entusiasmi rivoluzionari. La sua opera va considerata essenzialmente in una funzione didattico-educativa, la stessa, d'altronde, che il C. intendeva profondere in tutti gli aspetti della propria attività; e come testimonia la sua scuola privata, da cui uscirono molti dei protagonisti intellettuali della rivoluzione del '48: C. Mattei, M. Minghetti, C. Montanari, C. F. Ferrucci.

Superficiali e irte di contraddizioni le sue posizioni filosofiche: imbevuto della filosofia sensista (Locke, Condillac, Tracy), di cui elabora un compendio nel suo Modo di comporre le idee e di contrassegnarle con vocaboli precisi a fine di ben ragionare e delle forze e dei limiti dell'umano intelletto (propositi che restano solamente nel titolo) - pubblicato a Corfù nel 1831, e di cui aveva fatto un vessillo per combattere ogni trascendentalismo idealistico, identificato dal C. con ogni potere politico reazionario - tenterà, nel mutato clima della Restaurazione, un'improbabile conciliazione con esigenze religiose. Questo intento di "riconciliare coi principi e col sacerdozio la filosofia che il delirio dei molti... aveva reso odiosa a tutti quelli ai quali sta a cuore la morale, la buona politica e la religione", come si legge in un'incredibile lettera al Biondi (in Opere, IV, p. 318), oltre che da fini opportunistici - difendersi dalle accuse di materialismo e di ateismo che gli erano costate l'ingresso al Collegio dei filologi nell'università e all'Accademia Clementina, 6 luglio 1829 - era mosso soprattutto dal ripiegamento su posizioni meno intransigenti e spesso ossequienti alla "buona politica" dei governi restaurati. Si spiega, così, come il feroce giacobinismo della Canzone ai patriotti cisalpini del '97, potesse arrivare, nel Laocoonte del '17 (ed. in Opere, I, pp. 49-61), in occasione del recupero delle statue asportate da Napoleone, all'auspicio di un perpetuo governo del papa a Roma; e nel '31, nei primi giorni dell'insurrezione, a elaborare un Discorso intorno al governo costituzionale, per istruzione di quelli che non sono versati nelle scienze politiche (Bologna 1831) dove il C. si mostra contrario al decreto di decadenza del dominio temporale del papa emanato l'8 febbraio dal governo provvisorio bolognese, e dove anzi richiede espressamente la sovranità del pontefice.

Nessuna questione teorica, nella tentata revisione del sensismo di partenza; il C. non avverte le secche di una filosofia che si andava rivelando inadeguata, nel suo soggettivismo scettico, alle esigenze di rinnovamento politico-morale della realtà italiana. Testimonianza di ciò la liquidazione che fece degli elementi che della filosofia tedesca (Kant, Schelling, Hegel) conobbe attraverso due francescani, padre Tonini e padre Trulet, che nel '35 capitarono a Bologna. La sua Confutazione intorno al Nuovo Saggiosull'origine delle idee del signor Rosmini, in difesa delle dottrine di Locke e del Condillac (Opere, I, pp. 20-251) e la Vanità dei principi sopra i quali si fondano le teoriche dei filosofitrascendentali (Opere, II, pp. 133-447) rivelano solo "la ignoranza sua e nostra degli studi filosofici" (M. Minghetti). Tutto resta non spiegato, semplicemente avvicinato con sorprendente spregiudicatezza; il sensismo può tranquillamente convivere con lo spiritualismo cristiano senza un accenno di argomentazioni. Un "conciliatorismo" che giustamente ha destato sospetti di doppiezza e di falsità (Brocchi), senza arricchire l'immagine del C. filosofo, per la quale così il Leopardi: "La sua filosofia non dimostra altro che la gran miseria degli italiani in questo particolare, come in tutti gli altri" (Epistolario, I, p. 295) Lo stesso "conciliatorismo" il C. manifestò nelle polemiche letterarie che lo videro protagonista di primo piano, intorno alla questione del classicismo e del romanticismo, ch'era la questione del secolo, e che polarizzava, oltre a posizione estetiche, nette posizioni politiche. Il C. operò tenacemente tutta la vita nelle file dei classicisti, ed è stato uno dei maggiori protagonisti della scuola classico-romagnola. Nata dalla fusione della scuola erudita e della scuola classica, la scuola classico-romagnola aveva trovato diversi centri d'irradiazione: Bologna con l'Angelelli, le Marche col Marchetti, Roma coi Biondi. Successivamente s'era riunita intorno alla figura del Perticari, e con il Giornale arcadico aveva dato vita ad un lavoro culturale in diversi settori: traduzioni (il C., Stocchi, Angelelli); teatro (il C., Stocchi); genere didascalico (Biancoli, Landoni); filologia (Amati, Perticari). Il fine comune era una difesa degli studi classici sia contro le "stramberie" del '600-'700. sia contro l'influsso preponderante delle letterature d'Oltralpe; con un ritorno alle fonti della cultura nazionale (culto di Dante). Gli esiti di questo programma furono, da una parte la formazione d'un certo nazionalismo che precorreva quello risorgimentale; dall'altra, però, la chiusura alla formazione d'una coscienza europea, sebbene questo "classicismo" polemizzasse nei confronti del "purismo" più intransigente a proposito della lingua (Cesari) e avesse svolto, nei primi tempi della Restaurazione, un'opera antireazionaria: sia per la spinta che dette a superare il regionalismo linguistico sulla base dell'italiano tradizionale, sia perché mantenne in sé un moderato laicismo illuministico.

L'appartenenza del C. alle file dei classicisti è contrassegnata datali ambiguità da indurre al sospetto che il suo sia stato un classicismo di "volontà", sovrapposto, se risolverlo, ad un romanticismo "viscerale che spesso emergeva a sua insaputa e che gli attirava aspri rimproveri da parte degli amici classicisti (Biondi, Odescalchi). Questi rimproveri riaccendevano i suoi furori contro i romantici: "Scimmie ultramontane, contro le quali bisogna alzare il bastone. Turba di scimmiotti che si gloria di imitare certi strilli che risuonano sul Tamigi, sulla Senna e sul Reno" (Colloqui con A. Scannabue, in Opere, III, p. 553), ma non gli impedivano di scrivere un dramma, l'Ildegonda, perfettamente romantico, al punto che, in seguito alle sfuriate del Biondi, cui l'aveva presentato (1835), s'affrettò a distruggerlo e a scusarsi delle sue letture romantiche (Schiller, Goethe). Se fu uno dei più attivi del gruppo che operava nel Giornale araldico, ed egli stesso pensò ad una rivista (1830) dove raccogliere le superstiti voci classiciste da opporre all'Antologia fiorentina che, chiuso il Conciliatore, ne continuava l'opera; quando espose direttamente le sue idee in proposito (I classici e i romantici, in Opere, IV, pp. 109 ss.). si trovò a condividere le principali posizioni romantiche, sui toni moderati che andava assumendo il movimento in Italia, invocando esempi tratti dalla stessa classicità. Difende il romanzo storico dall'accusa di falsa re il vero riconoscendogli un alto valore formativo: come in Omero, dove s'intrecciano fatti veri e fatti leggendari; difende il teatro romantico dall'accusa di puntare sugli effetti delle passioni esagerate a scapito della verosimiglianza; esalta l'allontanamento della mitologia dalle lettere e l'introduzione dell'elemento patriottico e della religione cristiana al posto dell'Olimpo, perché anche i Greci avevano parlato dei propri dei e non di quelli dell'Egitto o di Babilonia (questo in aperto contrasto col Monti e la sua schiera); non rimprovera ai romantici d'esser venuti meno alle regole aristoteliche. Se rimprovera loro "gli spettri e i sepolcri", il sentimentalismo morboso, la melanconia di fondo, le voci prosaiche, l'abuso di metafore stravaganti, i costrutti forzati, l'esotismo esagerato e la mania d'imitare Inglesi e Tedeschi, avverte anche che questi sono in fondo i vizi di qualche scrittorello che vuole travestirsi da romantico, più che l'essenza del movimento. Arriva a chiedersi se tutta la polemica non si basi su un equivoco verbale e se i due termini, classico e romantico, non indichino la stessa cosa; se fra i "Pazzi" (i romantici) e i "Pedanti" (i classicisti), non si possa trovare una formula conciliativa che, radicandosi alla contemporaneità, sappia mantenere una "nobilità" di linguaggio e una "convenienza" di stile.

Nella parte creativa della sua opera, il C. non seppe trovare nessuna delle due, né la contemporaneità né la "convenienza" di stile. Il suo teatro, oltre ad essere irrappresentabile, è anche illeggibile, farragginoso: La donna ingegnosa, Bologna 1825, tratta da un episodio del Gil Blas di Lesage; il Don Carlo, ibid. 1831, catastrofico rimaneggiamento da Schiller, con spostamenti d'episodi e soppressioni di personaggi ritenuti minori al punto da risultare incomprensibile; la Properzia dei Rossi (Milano 1833), dove elementi classici (Menandro, Plauto) si mischiano ad elementi romantici in forzature e oscurità. La sua produzione poetica, se rivela una certa abilità di rimatore, rivela anche un vuoto poetico irrimediabile; per lo più d'occasione (matrimoni, onomastici, natalizi, decessi, feste), anche nelle opere migliori (il Laocoonte, l'Inno a Giove [in Opere, IV, pp. 27-30]) emerge solo uno scoperto intento didattico. Dove, invece, il C. raggiunge risultati ancora oggi apprezzabili, è nelle traduzioni: le ventidue Odi anacreontiche, tradotte in gara col Marchetti nel '18 (ibid., pp. 96-108); alcune poesie di Orazio, l'Ovidio del canto X delle Metamorfosi (ibid., pp. 123-147), la Batracomiomachia (ibid., pp. 109-122) che non sfigura nei confronti di quella del Leopardi. Accenni veritieri il C. trova anche nelle poesie satiriche, dettate da un'ira che gli fa perdere ogni controllo, come nei sonetti della Muzziade e in altri versi conservati inediti in un manoscritto della Bibl. di Bologna, il Capitolo contro due prelati e la Pasqualeide (mss. nella Classense di Ravenna). Importanti per il suo tempo, tanto da essere molto usati nelle scuole, una biografia dell'Alighieri e il trattato Sulla elocuzione, - integrato molto più tardi con l'ultimo suo lavoro, L'arte poetica - scritto per rimediare ai discordi "pareri degli uomini d'Italia intorno allo stile". Dell'Alighieri il C. si era occupato con un fortunato commento alla Commedia (una ventina di edizioni dal 1819-21 al 1873) che tuttavia, pur presentando soluzioni originali per passi controversi, resta, in prevalenza, un lavoro eclettico. Ne La Vita di Dante il C. cerca d'inserire l'opera e la biografia del poeta negli avvenimenti politici del tempo (fino al 1302), senza tuttavia andare oltre una certa sommarietà, nell'intento d'esaltare, romanticamente, in Dante, l'uomo-patriota, attento anche ai valori estetici sulla base delle categorie sensiste. Da ricordare il suo vocabolario, al quale lavorò dal '19 al '28, dove, pensando di correggere quello della Crusca, tenta un'ennesima conciliazione: fra il purismo del Cesari e gli insegnamenti del Cesarotti. Le Opere complete furono pubblicate in quattro volumi: il primo a Bologna nel 1825, gli altri tre a Firenze nel 1829-1839.

Fonti e Bibl.: Un elenco dettagliato delle opere del C. si trova in Elogio di P. C. di G. I. Montanari, in Giorn. arcadico di scienze lettere ed arti, 1839, pp. 314 ss. Gli studi più importanti sul C. sono: L. Rava, P. C. commediografo, in Riv. politica e letter., II (1898), 2, pp. 52-65; G. Allegretti-Chiari, La scuola privata di P. C. e la rivol. del 1831, in Atti e memorie della R. Deputaz. di storia patria per le prov. di Romagna, s. 4, XVIII (1928), pp. 265-304; A. Torre, P. C., in Convegno di studi su Dionigi Strocchi, Faenza 1962, pp. 191 ss.; V. Brocchi, La scuola classico-romagnola: P. C., in Atti dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, s. 7, t. IX (1897-98), pt. I, pp. 967-1047; pt. II, pp. 1411-72; cfr. inoltre M. Minghetti, I miei ricordi, Torino 1888, pp. 45- 55.

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