Orosio, Paolo

Enciclopedia Dantesca (1970)

Orosio, Paolo

Antonio Martina

L'autore degli Historiarum adversus paganos libri VII (nato a Tarragona, Spagna, verso la fine del sec. IV, e morto in data sconosciuta nell'Africa del nord), opera che abbraccia il periodo dalla creazione del mondo al 417 d.C., scritta su suggerimento di s. Agostino e a lui dedicata (" ex te ad te redit ", Hist. Prol. I 8), riteneva la storia dell'umanità dominata dall'intervento della Provvidenza (II III 5) e nello svolgimento dei fatti intravvedeva il compiersi del disegno divino, che doveva tradursi nella realizzazione dell'impero universale sotto la guida di Roma: una concezione, questa, che, col carattere di centralità assegnato ai destini di Roma, era destinata a trovare vasta eco nel grandioso disegno dantesco della monarchia universale.

L'opera di O. fu nota anche col titolo di Ormista (anche Hormesta), che probabilmente va spiegato come " Or[osii] M[undi] ist[ori]a ", e godette grande diffusione nel Medioevo: fu tradotta in anglosassone, in una versione liberamente compendiata, da Alfredo il Grande, in italiano tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo da Bono Giamboni.

A lui probabilmente allude D. in Pd X 118-120, dove s. Tommaso, nel cielo del Sole, dopo aver indicato al poeta tra i grandi dottori della Chiesa (spiriti sapienti) Alberto Magno, Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, Dionigi Areopagita e prima di indicargli le anime di Boezio, Isidoro, Beda, Riccardo di San Vittore, Sigieri, gli dice: Ne l'altra piccioletta luce ride / quello avvocato de' tempi cristiani / del cui latino Augustin si provide.

Alcuni commentatori antichi (Lana, chiose Cassinesi, Anonimo), hanno ritenuto che con avvocato de' tempi cristiani debba intendersi s. Ambrogio, arcivescovo di Milano (340-397), per merito del quale s. Agostino si convertì al cristianesimo.

Ma l'opinione più diffusa e forse anche più vicina al vero è quella che indica l'avvocato in O., " che fece libro nel quale raccolse tutti li mali che erano stati nel mondo dal diluvio infino ai suoi tempi, dimostrando che minori sono stati li mali nel mondo nel tempo dei cristiani e tra i cristiani che nel tempo dei pagani e tra i pagani; e questo libro scrisse a Santo Agostino che ne l'aveva pregato [secondo che l'autore stesso afferma nel proemio dell'opera], perché li fusse ad aiuto al libro che santo Agostino voleva fare De civitate Dei. E però dice che Orosio fu avvocato dei tempi cristiani, cioè difenditore ". Così il Buti, che precisa il suo pensiero interpretando " si provide: facendolo [cioè il libro di O.] fare innanti [ che scrivesse il De Civitate Dei], per avere poi meno fatica a ritrovare le storie ". Del resto, l'espressione " Christiana tempora " ricorre, com'è già stato notato dal Toynbee, spessissimo nell'opera di O. (cfr., per es., I XX 6, II III 5, III IV 4, VIII 3, IV VI 35, XXIII 10, V XI 6, VI XXII 10, VII V 3, VIII 4, XXVI 2, XLIII 16 e 19).

Inoltre, lo stesso s. Agostino (Epist. 166: De Origine animae hominis liber ad Hieronymum) scriveva a s. Girolamo: " Ecce venit ad me religiosus iuvenis, catholica pace frater, aetate filius, honore compresbyter noster, Orosius, vigil ingenio, promptus eloquio, fragans studio, utile vas in domo Domini esse desiderans ad refellendas falsas perniciosaque doctrinas, quae animas Hispanorum, multo infelicius quam corpora barbaricus gladius, trucidarunt ". A questa opinione si attengono i più dei moderni, dallo Scartazzini, al Pietrobono, al Grabher, per il quale O. è " una ‛ piccioletta luce ' rispetto agli altri spiriti più sublimi e meritevoli di lui ", ma anche in segno di affettuosa ammirazione; il Provenzal, che spiega l'espressione avvocato de' tempi cristiani col titolo dell'opera di O.; il Momigliano, il Porena, Casini-Barbi. L'opera di O. si collega col III libro del De Civitate Dei; e sebbene O. stesso dichiari di aver poco da aggiungere (" ut pauca subiciam " VI I 12) a quanto detto nell'opera di s. Agostino, e sebbene il Mancini adduca a prova " definitiva e incontrastabile " (p. 339) che s. Agostino non poté utilizzare per il De Civitate Dei l'opera di O., il fatto che quando O. pubblicò la sua opera erano stati già pubblicati (come appare da un passo del proemio delle Historiae) i primi dieci libri del De Civitate Dei, non può affatto valere come prova a difesa della tesi di quanti si oppongono all'identificazione di quest'anima con O., perché il verso dantesco del cui latino Augustin si provide si può spiegare che Agostino " procurò che quell'opera venisse composta perch'essa fosse di aiuto e conferma alla propria " (Casini-Barbi, sulle orme di Benvenuto che dice: " requisivit eum in suum subsidium ut sic fortius duo quam unus certarent contra adversarios Christi ").

D. mostra di avere altissima stima del latino di O. in VE II VI 7, dov'egli l'include nel canone degli autori latini da prendere a modello di stile, proprio in un passo che contiene un'idea centrale per la sua teoria linguistica, in quanto D. si propone d'indicare agli altri e a sé stesso la via attraverso la quale il volgare può acquistare altezza e nobiltà espressive. Per D. la lingua del poeta dev'essere modellata su quella dei poeti latini e deve perseguire un costrutto d'arte che rispecchi le leggi tradizionali della poetica e della retorica latina. Egli sembra suggerire (così è da intendere l'espressione et fortassis utilissimum foret... vidisse) che si può trarre grandissima utilità dallo studio di quelli che sono ritenuti i più perfetti poeti e prosatori latini e che egli indica a modello per chi voglia acquistare un determinato abito mentale (ad illam habituandam): tra coloro qui usi sunt altissimas prosas vi è Orosio.

Il nome dello scrittore latino ricorre altre sei volte nel corpus dantesco. In Cv III XI 3 D. lo chiama a testimone per indicare l'intervallo di tempo che corre tra la fondazione di Roma sino a Cesare Augusto, che fu [sette]cento cinquanta anni [innanzi], poco dal più al meno, che 'l Salvatore venisse. Per questo calcolo D. si sarà basato più che su Hist. IV XII 9 (" per annos prope septingentos, id est ab Hostilio Tullo usque ad Caesarem Augustum, una tantummodo aestate Romana sanguinem viscera non sudarunt "), come nota il Toynbee (D. Obligations to O., p. 387), su Hist. VII III 1(" Igitur anno ab Urbe condita DCCLII natus est Christus salutarem mundo adferens fidem "), che spiega bene sia il dantesco quasi dal principio de la costituzione di Roma (" ab Urbe condita "), sia la precisazione poco dal più al meno, determinata dall'indicazione di O. (" anno... DCCLII "), e giustifica così la correzione del Moore.

Nella Monarchia il primo riferimento a O. è in II III 13, dove D. cita direttamente dalle Historiae (I II 11) per provare che il monte Atlante si trova in Africa. Ancora, in Mn II VIII 3 D. indica in Nino il primo della serie di coloro che tentarono di stabilire un impero universale prima dei Romani, i soli destinati dalla Provvidenza divina a realizzarlo per accogliere il miracolo dell'incarnazione, e cita esplicitamente O., ut Orosius refert (cfr. Hist. I IV 1-8 e II III 1), quando osserva che Nino quamvis cum consorte thori Semiramide per nonaginta et plures annos... imperium mundi armis temptaverit et Asiam totam sibi subegerit, non tamen occidentales mundi partes eis unquam subiectae fuerunt, accostando, infine, all'autorità dell'Ormista Ovidio di Met. IV 58 e 88 (Piramo e Tisbe).

D. evidentemente teneva presente Hist. I IV 1-8, dove O. indica la durata delle imprese di Nino (" non contenta terminis mulier, quos a viro suo tunc solo bellatore in quinquaginta annis adquisitos susceperat, Aethiopiam... imperio adiecit "), ma per elaborare il suo calcolo (per nonaginta et plures annos) si fondava su Hist. II III 1, dove O. precisa: " Regnavit Ninus annis LII. Cui successit, ut dixi, uxor sua Semiramis: quae cum et ipsa XLII annis regnaverit... ". Dalla stessa fonte (ma cfr. pure Iustin. Hist. Philippic. ex Trogo Pomp. I 20), anche se non menzionata, D. dipende in If V 54-60, dove Semiramide è ricordata come esempio di lussuria sfrenata; e questi versi si spiegano con O. (Hist. I IV 4-8; v. NINO; SEMIRAMIDE).

Il v. 54 (fu imperadrice di molte favelle) si spiega, fuori dal contesto orosiano, probabilmente, come suggerisce il Filalete, con allusione alla confusione delle lingue, essendo Babilonia inclusa nell'impero assiro, mentre il v. 60 (tenne la terra che 'l Soldan corregge) denuncia una vera e propria confusione tra l'antico regno di Babilonia e Babilon (antica Cairo) in Egitto, terra del Sultano (cfr. E. Moore, Contributions to the textual criticism of the D.C., Cambridge 1889, 285-286). L'errore di D. fu notato già da Benvenuto, che tentò di giustificarlo supponendo che il poeta " vult dicere quod Semiramis in tantum ampliavit regnum, quod non solum tenuit Babiloniam antiquam, sed etiam Aegiptum, ubi est modo alia Babilonia ", e, tra i moderni, sottolineato dal Mandeville (Voiage and Travaile, Londra 1727, 39, 47-48).

Altra menzione di O. è in Mn II VIII 5, dove si parla del secondo tentativo di stabilire un impero universale operato da Vesogete, re di Egitto. Il passo trova effettivamente riscontro in O. (I XLV 1-4) e sebbene D. abbia ridotto ai termini essenziali la sua fonte, ricca di particolari, è pure possibile stabilire delle corrispondenze espressive che denotano la cura riposta dal poeta nell'attenervisi (si confronti quamvis meridiem atque septentrionem in Asya exagitaverit con Hist. I XIV 1 " meridiem et septentrionem... aut miscere bello aut regno iungere studens ").

Nella Monarchia (II IX 15) O. è ricordato ancora a conferma della narrazione liviana dell'episodio degli Orazi e Curiazi. Dal confronto con O. (II IV 9) si possono dedurre elementi per asserire con certezza che D. teneva sott'occhio questo passo (cfr. Mn II IX 15 in conspectu regum et populorum altrinsecus expectantium decertatum est, che richiama Hist. II IV 9 " et diu altrinsecus spe incerta "), ma anche per supporre che egli non si è attenuto esclusivamente a questa fonte, priva in questo caso dei particolari che invece leggiamo nel passo dantesco. O., infatti, si limita a rilevare che " pessimos exitus et dubios eventus conpendiosa tergeminorum congressione finisse " (IV 9). D. sembra derivare alcuni precisi elementi caratterizzanti l'episodio dallo storico patavino (I XXIV), che, pur accettando l'opinione più diffusa, aveva sottolineato l'impossibilità di stabilire con certezza da quale parte stessero gli Orazi e da quale i Curiazi (I XXIV 1); e D., nel passo della Monarchia, sembra voler rispettare l'incertezza della fonte, indicando con hinc e inde le due parti senza ulteriore specificazione, e trova modo d'informarci della scrupolosità di Livio, che hoc diligenter... in prima parte contexit, e, di riflesso, della sua, intesa a non deformare la fonte (v. LIVIO).

O. è ricordato infine in un passo (§ 19) della Quaestio dove D., seguendo la geografia del tempo, determina i confini del mondo abitato seguendo Hist. I II 7 (cfr. If XXVI 108 dov' Ercule segnò li suoi riguardi, e Porena, ad l.) e 13.

O., come Aristotele, s. Tommaso, Alfragano, dai quali D. deriva la sua dottrina astronomica, assegnava alla terra abitata un'estensione di 180° di longitudine, dalle foci del Gange alle colonne d'Ercole. Questa indicazione è un punto fermo della conoscenza geografica di D.; senza di essa non si possono spiegare gli esordi astronomici dei vari canti della Commedia (per es. Pg II 1 ss.), né altri passi (If XX 124-126, XXXIV 112-115; Pg III 25-27, IV 137-139, XV 1-6), nei quali si afferma che Gerusalemme è posta al centro del quadrante abitato, quindi a 90° a est e a ovest dal Gange e dalle Colonne d'Ercole (si tenga presente che. D. poteva conoscere solo carte piane con paralleli rettilinei. Si veda, inoltre, P. Gambera, Due nuove note dantesche, in " Atti R. Accad. Scienze Torino " XXXV [1899-1900] e la recensione di F. Angelitti, in " Bull. " VIII [1900-1901] 205; E. Moore, Studies in D., II, Oxford 1899, non sempre d'accordo con Angelitti).

Ma l'utilizzazione delle Historiae da parte di D. va ben oltre i passi considerati. L'Ormista è, infatti, alla base di numerosi luoghi del corpus dantesco, che a essa si possono ricondurre, in tutto o in parte, o per la presenza di suggestioni e motivi direttamente ispirati dalle Historiae e della cui influenza sono spesso documento espressioni e calchi danteschi, o per la ripresa di concetti e idee, centrali nell'opera orosiana e pienamente rispondenti alla concezione e all'interpretazione dantesca della storia umana e cristiana. È necessario perciò considerare gli altri passi dove, pur non essendo O. ricordato per nome, è possibile rintracciare, attraverso il confronto, innegabili elementi comuni.

Infatti, come ha già visto lo Schück (pp. 269-270), seguito dal Moore (Studies in D., I 274-275), O., e non Livio, è la fonte per Cv IV V 19 e If XXVIII 10-12 - sebbene in quest'ultimo passo proprio allo storico patavino egli attribuisca l'autorità della testimonianza -, poiché Livio (XXIII XII 1) riferisce il particolare delle tre moggia d'anella solo per negarlo. È evidente che se D. avesse tenuto scrupolosamente presente Livio, avrebbe dovuto rispettare la rettificazione dello storico.

Dello scoraggiamento dei Romani in seguito alla sconfitta e dell'intervento provvidenziale di Scipione giovane parla Livio (XXII LIII); ma il passo del Convivio sembra rispecchiare O. anche per questo particolare (come, del resto, è già stato notato dallo Scherillo [p. 325] e dal Toynbee [D. Studies, p. 124, e D. Obligations to O., p. 387]), soprattutto se si tien conto del periodare in D. e di alcune particolari rispondenze strutturali, spiegabili solo se si ammette la derivazione da O. (IV XVI 5-6). Per l'espressione Scipione giovane cfr. Hist. IV XVII 13 (" Scipio... admodum adulescens ").

Un altro passo di O. (II XII 8) è spesso indicato come fonte per l'episodio di Cincinnato, ricordato da D. in Cv IV V 15 e Mn II V 9, dov'egli si appella all'autorità di Livio (ut Livius refert), e subito dopo cita un passo di Cicerone (Fin. II IV 12; cfr. Senect. XVI 56). Ma Livio (III XXVI 7 ss., XXIX 7) è da escludere, in quanto non dice nulla del ritorno di Cincinnato ai buoi, particolare che invece D. mette in evidenza (Mn II V 9, e Cv IV V 15 a lo arare essere ritornato). Anche il richiamo a O. (II XII 8 " victoriamque quasi stivam tenens subiugatos hostes prae se primus egit ") fatto dal Fraticelli, cui si oppone lo Schück (p. 270), e dal Witte citato dal Moore (Studies in D., I 276), e accolto dal Toynbee, deve considerarsi soltanto formale. D. ha certamente letto l'episodio in O., oltre che in s. Agostino (Civ. V 18) e in altre fonti scolastiche (cfr. D.A., Monarchia, a c. di G. Vinay, p. 137), ma, come già notato dal Moore e dallo Scherillo (pp. 332 ss.), egli ha derivato il particolare del ritorno ai buoi da Floro (I 5 [I 11] " sic expeditione finita redit ad boves rursus triumphalis agricola ").

Sulle orme del Toynbee (D. Studies,. p. 127, e D. Obligations to O., p. 390) si è d'accordo nel ritenere che D. dipenda da O. anche in Mn II IV 10, dove si fa menzione della traversata del Tevere compiuta da Clelia. Tuttavia, in questo caso il problema non viene risolto, come fa il Toynbee, escludendo Livio e asserendo che " from Dante's fraseology " risulta evidente che D. avesse sott'occhio O., il quale in Hist. II V 3 dice soltanto: " nisi hostem... virgo Cloelia admirabili transmeati fluminis audacia permovisset ". È opportuno ricordare, invece, che di Clelia fa menzione Virgilio (Aen. VIII 651 " et fluvium vinclis innaret Cloelia ruptis "; cfr. Giovenale VIII 264-265), che presenta una rispondenza terminologica molto profonda con il passo della Monarchia, dove tra l'altro si legge abruptis vinculis... transnavit Tiberim. Inoltre lo stesso contesto dantesco esclude che l'episodio si possa ritenere derivato da una sola fonte. A prescindere da Virgilio, citato sopra, dobbiamo credere a D. quando dice sicut omnes fere scribae romanae rei ad gloriam ipsius commemorant, dove il fere non esclude neanche Floro (com'è propenso a credere il Vinay nel commento alla Monarchia, p. 130), che parla, anche se assai succintamente, di Clelia, ricordandola come uno di " illa tria Romani nominis prodigia atque miracula " (I 4 [10]).

Già il Witte, nel suo commento alla Monarchia, ha ritenuto che O. e non Livio è in realtà la fonte tenuta presente da D. quando in Mn II IV 9 egli ricorda - come esemplificazione del principio che romanum Imperium ad sui perfectionem miraculorum suffragio est adiutum; ergo a Deo volitum; et per consequens de iure fuit et est (II IV 4) -, chiamando a testimone Livio, la minaccia di Annibale, giunto alle porte di Roma, evitata solo a causa di un violentissimo temporale. Anche allo Scherillo (p. 334) il passo di O. (IV XVII 5) appare più vicino che non il corrispondente passo di Livio (XXVI 11). Ma in questo caso il problema va posto in termini diversi, perché non vi è chi non veda la strettissima corrispondenza nella terminologia e nella struttura del periodo tra O. e Livio, fatto questo sufficiente a togliere validità alla supposizione del Witte e di quanti lo hanno seguito. La soluzione dipende qui dall'espressione Livius in ‛ Bello punico ' inter alia gesta conscribit, che insieme con la citazione di Mn II IV 5 (Livius in prima parte testatur), a proposito di Numa, e di Mn II IX 15 (hoc diligenter Livius in prima parte contexit), a proposito degli Orazi e Curiazi, costituisce un indizio a favore dell'ipotesi che D. abbia conosciuto direttamente, anche se parzialmente e senza possibilità di disporne in seguito per i necessari riscontri, le deche. Infatti, il Vinay ritiene che in questo caso D. (che del resto poteva conoscere l'episodio anche da altre fonti, per es. da s. Agostino Civ. III 20) sembra volersi richiamare espressamente alla narrazione della guerra annibalica nella III deca di Livio.

Il passo della Monarchia (II VIII 8) dove D. parla di Alessandro Magno come dell'ultimo della serie di coloro che tentarono di stabilire un impero universale prima dei Romani, e nello stesso tempo come di colui che più di tutti si era avvicinato alla palma imperiale, non trova conferma in Livio, che D. cita, ma nemmeno in O. (III XX 1-4), come pure qualcuno ha supposto (per es. lo Scherillo, p. 335). Infatti, se si prescinde dal fatto che tanto in D. quanto in O. si parla di ambasciatori inviati al conquistatore dell'Oriente dai popoli di Occidente (cfr. Hist. III XX 2 e Mn II VIII 8, che fa pensare che D. tenesse presente ‛ anche ' O.), non è possibile operare nessun ulteriore preciso riscontro col corrispondente passo delle Historiae, di cui D. ovviamente disponeva, e neanche con le tarde fonti medievali (Chronicon di Ottone di Frisinga II 25, citato dal Toynbee, che ha molti elementi in comune con O.; Goffredo da Viterbo Pantheon XI; Gualtiero di Châtillon nella Alessandreide [cfr. R. De Cesare, Glosse latine e anticofrancesi nella Alexandreis, Milano 1951, 14]), che ci consenta di rendere conto dei molti particolari caratterizzanti il passo dantesco: l'indicazione della fonte, o delle fonti, di questo passo è quindi ancora per noi questione insoluta.

Ancora più complesso è il problema dell'identificazione dell'Alessandro ricordato in If XII 107 (Quivi è Alessandro e Dïonisio fero) tra i violenti contro il prossimo immersi nel sangue bollente del Flegetonte (v. ALESSANDRO di FERE).

O. è forse presente in un altro passo dell'Inferno (XXVII 7-12) dove si parla del bue cicilian costruito da Perillo per Falaride di Agrigento, il quale volle che mugghiasse per la prima volta per le grida di dolore dello stesso artefice. Già Pietro indicava come possibili fonti Valerio Massimo (IX 2, ext. 9), Ovidio (Ars am. I 653-656, cui va aggiunto Trist. III XI 41-54; cfr. Moore, Studies in D., I 215, 296; vedi inoltre A. Ronconi, Per D. interprete dei poeti latini, in " Studi d. " XLI [1964] 22) e O. (I XX 1-4), che si sofferma sull'episodio con abbondanza di particolari. Il passo delle Historiae ha esercitato sicuramente forte impressione sulla fantasia di D., ma non si può considerare qui fonte principale. Non si può, infatti, prescindere dai versi di Ovidio se si vuole intendere bene la genesi dell'episodio dantesco, che in alcune espressioni sembra modellato su di essi (cfr. If XXVII 7-9 e Ovidio Ars am. I 655 " Iustus uterque fuit: neque enim lex aequior ulla, / quam necis artifices arte perire sua "; If XXVII 10 e Ovidio Trist. III XI 47 " Protinus inclusum lentis carbonibus ure: / mugiet, et veri vox erit illa bovis ").

D. dipende da O. in Pg XII 55-57 (cfr. Mn II VIII 6) per l'episodio di Ciro e Tamiri, che costituisce la decima rappresentazione di superbia punita sul pavimento della prima cornice. O., infatti, si sofferma sull'episodio, la cui narrazione favolosa risale a Erodoto I 105 ss. ed è ripresa da Giustino I 8, in Hist. II VII 6 (cfr. II VI 12). Il v. 57 ricalca l'espressione orosiana (" satia te, inquit, sanguine quem sitisti "), sicché non vi possono essere dubbi sulla derivazione da O., come rilevano concordemente tutti i commentatori, anche se D. poteva leggere l'episodio in Valerio Massimo (IX 10, ext. 1), dal cui riscontro non si può ricavare alcun elemento che possa inficiare questa conclusione.

Della crudele persecuzione dei cristiani a opera di Domiziano, ricordata da Stazio in Pg XXII 83-84, parla O. in Hist. VII X 1 esagerandone, come altri scrittori cristiani (cfr. per es. Eusebio Hist. eccles. III XVIII 2, Tertulliano Apol. V), la portata e il significato, come ha visto la critica moderna, che ha riconosciuto che nulla di certo si può stabilire intorno a tale persecuzione.

I passi del Convivio, della Monarchia e della Commedia ora esaminati mostrano già quanta eco abbia suscitato nell'animo di D. l'opera di Orosio. Fu l'Ormista, in realtà, il suo storico; poco importa che D. si appelli all'autorità di Livio, del quale, in seguito a una lettura forse frettolosa, certo parziale, intuì la grandezza, cogliendo l'immenso spirito poetico che pervade la sua narrazione. Furono le Historiae a suggerire al suo animo ardente di passione l'esemplare rassegna delle operazioni storiche attestanti nel Convivio il processo provvidenziale dell'impero romano e sistematicamente sviluppate nella Monarchia, dove egli riconosce al popolo romano la legittimità dell'Impero e il carattere di universale giurisdizione. Parimenti le Historiae gli offrirono nel VI canto del Paradiso lo spunto a quella grandiosa concezione che, fondendo in unità scienza, filosofia, teologia e storia, gli consentì di esprimere con estrema intensità tragica in una raffigurazione grandiosa, dove appunto dottrina e retorica, scienza e arte si contemperano in una sintesi di equilibrata misura pienamente rispondente al ‛ suo ' mondo morale e poetico, le vicende dell'umanità, la cui storia diventa dramma rivissuto al di là del tempo. Ancora meno importa sottolineare i limiti dell'Ormista, dal quale D. coglieva solo lo spunto, consapevole del suo compito di " intentatas ostendere veritates ".

Sino a oggi si era d'accordo nel ritenere che Pd VI 61-72, dove D. rievoca le imprese compiute dal sacrosanto segno nelle mani di Cesare, risalisse in ultima analisi a O. (VI XV 2, 3, 6, 18, 22, 25, 28 e 29; XVI 3, 6 e 7). Si deve al Mariotti (in Nuove lett. V) l'aver notato la corrispondenza tra i vv. 64-72 e Floro II 13 [IV 2], che ci consente un riscontro sicuro, confermato da riecheggiamenti puntuali di termini ed espressioni floriane (v. FLORO). Ciò non esclude tuttavia un atteggiamento di larga adesione da parte di D. a O., che nella sua particolareggiata narrazione consente di rintracciare numerosi dati presenti nei versi danteschi sopraindicati e ripropone ancora una volta il problema del modo in cui D. utilizzava la sue fonti.

Un caso in certo senso analogo è nei vv. 55-57 (Poi, presso al tempo che tutto 'l ciel volle / redur lo mondo a suo modo sereno, / Cesare per voler di Roma il tolle), che richiamano Cv IV V 4 (cfr. Mn I XVI 1-2, dove il riferimento agli ystoriographi omnes fa subito pensare a O. e a Vincenzo di Beauvais Spec. histor. VI c. 61, e quello ai poetae illustres a Virgilio Buc.IV), che riflette sì s. Tommaso (Sum. theol. III 35 8), il quale cita s. Girolamo (super Isaiam 2), ma che indubbiamente ci riconduce, come ha già notato il Toynbee (D. Studies, p. 132), a O. (VI XXII 5 e VI XXII 9) che però, a nostro vedere, sembra molto vicino ai vv. 55-57. Ci limitiamo a rilevare, poiché non è stato fatto sinora, l'intima rispondenza in primo luogo tra l'attacco del v. 55 (Poi, presso al tempo che...) e Hist. VI XXII 5 (" Igitur eo tempore, id est eo anno ") e VI XXII 9 (" Quamobrem quia ad id temporis perventum est, quo... "); in secondo luogo tra i vv. 55-56, che riprendono, più che il primo, il secondo dei due passi orosiani (ma cfr. anche Hist. III VIII 8), dove sorprende leggere " Quamobrem quia ad id temporis perventum est, quo et dominus Christus hunc mundum primo adventu suo inlustravit ", giacché non possiamo fare a meno di chiederci fino a che punto " hunc mundum... inlustravit " abbia ‛ generato ' in D. volle / redur lo mondo a suo modo sereno.

In Mn I XVI D. nota che dal peccato originale in poi il mondo conobbe un periodo di pace solo dopo il definitivo trionfo di Augusto sugli avversari. Il concetto di ‛ pax universalis ' ricorre già, a prescindere da Ep V 26, in Mn I IV 5 e in Cv IV V 7-8, in un contesto assai importante per la conoscenza delle idee politiche di D. (cfr. Toynbee, D. Studies, p. 132; Solmi, Il pensiero politico, p. 79; Moore, Studies in D. I 279). Esso è ripreso, con ben diversa intonazione, in Pd VI 80-81 (con costui puose il mondo in tanta pace, / che fu serrato a Giano il suo delubro), che ci richiama numerosi passi delle Historiae: III VIII 3, 5, 7 e 8, VI XVII 10, XXII 5, VII I 11, II 15-16, III 4 e soprattutto I I 6 (" cum facta pace cum Parthis Iani portae clausae sunt et bella toto orbe cessarunt "), VI XX 1-2 (" ipse Iani portas sopitis finitisque omnibus bellis civilibus clausit "), VI XXII 1-2 (" quas... obseratas otio ipsa etiam robigo sighavit ", e cfr. VII IX 9 " obseratis... claustris ").

È questo il punto di arrivo nell'attuarsi del disegno provvidenziale dell'impero universale. Le premesse non sono solo nei tentativi, falliti, di Nino o di Vesogete, che D., come O., ricorda, collocandole con giuste dimensioni nel grandioso mosaico della storia universale, ma anche in certi spunti o echi che in lui poteva suscitare la lettura, per es., di Hist. II II 4, III 5, IV XVII 11, e soprattutto VI XX 4 (" ut per omnia venturi Christi gratia praeparatum Caesaris imperium conprobetur "), come si può desumere da un'attenta lettura di Mn II VIII, che tradisce, all'inizio, una certa suggestione operata sull'autore dai passi orosiani. Né si può qui tralasciare di ricordare, leggendo Mn II VIII 14, X 4, 6 e 8, ed Ep VII 3, sebbene altre siano le fonti citate dallo stesso D., che non rimase in lui senza traccia la lettura di O. Hist. VI XXII 6, 7 e 8, e VII III 4, dove si dice che Cristo, fattosi uomo, divenne Romano (" dicendus utique civis Romanus census professione Romani ", VI XXII 8).

Da O. (VII III 8 e IX 8-9) D. trasse, inoltre, lo spunto per i vv. 92-93 del VI canto del Paradiso, dove Tito (di cui parla già Stazio in Pg XXI 82-84) è ricordato come distruttore di Gerusalemme e vendicatore della morte di Cristo.

A O. (I XIX 1; cfr. anche Cic. Tusc. V XXXV 101), infine, ci riconduce, sebbene non come a fonte principale, il ricordo di Sardanapalo, fatto da Cacciaguida in Pd XV 107-108, che contrappone all'innocenza dei costumi della Firenze di un tempo la depravazione che corrode la città nei tempi di Dante. Giustamente però in questo caso già alcuni commentatori antichi (Pietro, e Benvenuto che chiama in causa Giustino) richiamano Giovenale X 362 (cfr. Moore, Studies in D. I 257). Alcuni dei moderni (cfr. Torraca, e Toynbee in " Bull. " II [1894-95] 203, IV [1896-97] 131) si sono richiamati a un passo di Egidio Romano (De Regimine principum II 17), dove ricorre l'espressione " in cameris " e a un'antica traduzione italiana risalente circa al 1288, dove l'espressione " nella camera " è ancora più rilevante.

Altre tracce evidenti o meno evidenti della presenza orosiana nel corpus dantesco si potrebbero trovare. È chiaro però che ogni spunto o immagine offerta dalle Historiae viene sempre rivissuta da D. in modo originalissimo, sicché ovunque si nota sempre e solo l'impronta della sua anima.

Bibl.-Per il testo di O.: Paolo Orosio, Historiarum adversum paganos libri VII, a c. di K. Zangemeister, Vienna 1882 (Olms, Hildesheim, 1967). Sulla fortuna di O. nel Medioevo: M. Manitius, Geschichte der Lateinischen Literatur des Mittelalters, Monaco 1911-1931, ad indices. Per la geografia in D., con riferimenti a O., cfr. O. Baldacci, I recenti contributi di studio sulla geografia dantesca, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 213-225, con ampia bibliografia. Sui rapporti tra D. e la storia: A. Graf, Roma nella memoria e nella immaginazione del Medio Evo, I, Torino 1882, 214 ss.; G. Rossi, D. e il mondo classico, Pavia 1925; Gerald G. Walsh, D. Philosophy of History, in " The Catholic Review " XX (1934) 117-137; G. Funaioli, D. e il mondo antico, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di B. Nardi, I, Firenze 1955, 321-338; C. Till Davis, D. and the idea of Rome, Oxford 1957; F. Groppi, D. traduttore, Roma 1962², 178; G. Martellotti, D. e i classici, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1905) 125-137, con bibliografia; G. Padoan, D. di fronte all'umanesimo letterario, in Atti del Congresso internaz. di Studi danteschi, II, Firenze 1966, 377 ss. Si vedano inoltre: J. Schück, Dantes classische Studien und Brunetto Latini, in " Neue Jahrbücher für Philologie und Paedagogik " XCII (1865) 265 ss.; E. Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, ad indicem; A. Mancini, Chi è " l'avvocato de' tempi cristiani "?, in " Giorn. d. " II (1892) 338 ss.; E. Zama, O. e D., in " La Cultura " n.s., II (1892) 429-435; P. Toynbee, D. Obligations to O., in " Romania " XXIV (1895) 385-398; M. Scherillo, D. e Tito Livio, in " Rend. Ist. Lombardo " s. 2, XXX (1897) 330 ss.; N. Zingarelli, D. e la Puglia, in " Giorn. d. " VIII (1900) 388 ss.; P. Toynbee, D. Studies and Researches, Londra 1902; ID., Ricerche e note dantesche, I, Bologna 1899, 13 ss.; L. Meyer, Les légendes des matières de Rome, de France et de Bretagne dans le ‛ Pantheon ' de Godefroy de Viterbe, Parigi 1933, 108-112; T. Silverstein, On the Genesis of ‛ de Monarchia ' II 5, in " Speculum " XIII (1938) 326-349; U. Bosco, Particolari danteschi, in " Annali R. Scuola Norm. Sup. Pisa " s. 2, XI (1942) 131-136 (rist. in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 369-378); A. Pézard, Du ‛ Policraticus ' à la ‛ D.C. ', in " Romania " LXX (1948) 21; A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1952, ad indicem; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi 1954, ad indicem; utile anche A. Ronconi, Per D. interprete dei poeti latini, in " Studi d. " XLI (1964) 1-44.

TAG

Riccardo di san vittore

Medioevo e rinascimento

Arcivescovo di milano

Dottori della chiesa

Dionigi areopagita