TIBALDI, Paolo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TIBALDI, Paolo

Luca Di Mauro

– Nacque a Piacenza il 26 gennaio 1824 da Giovanni e da Caterina Ferrari.

Benché nelle sue memorie egli affermi di essere nato il 27 gennaio 1827 – forse per mostrarsi ventenne al momento del proprio arruolamento volontario – dai registri dello Stato civile di Piacenza risulta che la nascita debba essere retrodatata di tre anni.

Ultimo di dieci figli, rimase orfano di padre all’età di cinque anni e, incoraggiato dalla madre, durante la giovinezza si dedicò alla scultura, trasferendosi a metà degli anni Quaranta a Roma, dove divenne apprendista nella bottega dell’artista bergamasco Giovanni Maria Benzoni, all’epoca tra i più affermati nel panorama artistico capitolino.

Nella capitale pontificia, Tibaldi associò all’interesse per l’arte la passione politica, iniziando a frequentare giovani patrioti e circoli mazziniani clandestini che miravano all’unità nazionale e all’istaurazione della repubblica. Alla vigilia dello scoppio della prima guerra d’indipendenza – pur non essendo iscritto ad alcuna facoltà – si arruolò volontario nel battaglione universitario romano e nei suoi ranghi ebbe il proprio battesimo del fuoco alla battaglia di Cornuda dell’8 e 9 maggio 1848.

Nominato sergente e poi sottotenente, Tibaldi partecipò alla difesa di Treviso e, dopo la caduta della città, a quella di Vicenza. Il 10 giugno 1848, negli scontri presso la Rotonda del Palladio, fu doppiamente ferito al petto e alla gamba, ricevendo in seguito i gradi di capitano.

Dopo la resa, ritornò a Roma con il resto del battaglione universitario per difendere la Repubblica appena instaurata.

Combatté contro i francesi a Villa Pamphili il 3 giugno 1849 e, dopo la caduta della capitale, fece parte della colonna di volontari che coprì la ritirata verso nord di Giuseppe Garibaldi e, mentre questi raggiungeva Venezia, difese la Repubblica di San Marino durante l’assedio del contingente austriaco. Caduta anche questa piazza, Tibaldi fu condannato a morte, ma in realtà venne tenuto prigioniero per tre mesi dagli austriaci per essere in seguito riconsegnato ai francesi e liberato.

Rifiutò di tornare nella natia Piacenza, poiché questa era sotto occupazione asburgica, preferendo l’esilio volontario a Parigi, dove giunse il 10 gennaio 1850. Nella capitale francese trovò alloggio presso un ottico – tal Jamas – che oltre a ospitarlo gli insegnò la professione, tanto che Tibaldi poté, dopo tre anni e mezzo, aprire il proprio laboratorio al n. 122 di boulevard Ménilmontant.

Pur portando avanti un’attività redditizia, l’esule italiano non smise di frequentare gli ambienti repubblicani; non solo i connazionali, ma anche quei deputati transalpini che denunciavano le mire autoritarie di Luigi Napoleone Bonaparte. Dopo il colpo di Stato del 2 dicembre 1851, partecipò alle manifestazioni e agli scontri di piazza dei giorni successivi, tanto da doversi rifugiare a Londra per qualche mese.

Il 13 giugno 1857 Tibaldi fu arrestato dalla polizia francese insieme al cesenate Paolo Grilli e al bolognese Giuseppe Bartolotti con l’accusa di progettare un attentato alla vita di Napoleone III. Per lo stesso attentato erano processati in contumacia Giuseppe Mazzini, Federico Campanella, Gaetano Massarenti e Alexandre Ledru-Rollin: secondo l’accusa la centrale terroristica di Londra avrebbe armato la mano dei tre sicari a Parigi per uccidere l’imperatore dei francesi. Durante il dibattimento, Tibaldi fu l’unico dei tre arrestati a rimanere fermo nel diniego di qualsiasi accusa, mentre Grilli e soprattutto Bartolotti si diedero a confessioni piene, anche oltre i fatti e i legami che potevano conoscere.

Nelle sue memorie il patriota piacentino indica nella confessione sconsiderata di Bartolotti l’origine della propria condanna; è invece vero che l’Alta Polizia del Secondo Impero aveva da tempo identificato il falso nome (Stalford) con cui Mazzini firmava le lettere ai propri seguaci e ne sorvegliava la corrispondenza: l’esistenza di un progetto di attentato non fu dunque un’invenzione del bolognese, ma era provata dagli ordini provenienti da Londra oltre che da una valigia con pugnali e pistole portata dallo stesso Tibaldi dalla capitale inglese sei mesi prima e depositata presso una vicina: Grilli e Bartolotti avrebbero dovuto essere gli esecutori materiali dell’omicidio, mentre Tibaldi era incaricato di assicurare il sostegno logistico all’azione.

Il procuratore generale parigino poté tuttavia abilmente servirsi della loquacità di Bartolotti per coinvolgere nella trama anche Ledru-Rollin, del cui contributo invece non si aveva alcuna prova concreta. Il 4 agosto 1857 Grilli e Bartolotti furono condannati a quindici anni di reclusione, mentre Tibaldi, insieme agli imputati contumaci, fu condannato alla deportazione perpetua alla Caienna.

Giunto in Guyana nell’estate del 1858, fu confinato, insieme agli altri detenuti per crimini politici, sull’Ile du Diable, dove ebbe modo di apprezzare la vita ‘comunitaria’ che a essi era concessa e, soprattutto, di stringere amicizia con l’avvocato democratico Louis-Charles Delescluze.

L’amnistia del 16 agosto 1859 – decretata da Napoleone III per festeggiare la fine della guerra in Italia – liberò il suo compagno francese, ma fece peggiorare sensibilmente le condizioni di detenzione di Tibaldi (che come Ledru-Rollin fu escluso dal provvedimento di clemenza per ordine del ministro della Giustizia): dalla residenza coatta sull’Ile du Diable egli passò alla detenzione in una cella sotterranea del carcere detto Château Rouge sull’Ile Royale, sottoposto alle angherie del personale carcerario, restando in tale durissima condizione per dieci anni.

Delescluze, nel frattempo, aveva organizzato una campagna tanto sulla stampa della Francia metropolitana quanto su quella delle colonie per la scarcerazione di Tibaldi e una lettera del detenuto italiano del 21 dicembre 1869 fu pubblicata sui giornali dell’opposizione: il racconto delle condizioni di vita nella segreta tropicale provocò una notevole impressione nell’opinione pubblica.

Il 6 febbraio 1870 Tibaldi fu amnistiato e, essendogli interdetto il territorio francese, scelse Londra come nuova tappa del proprio esilio; nella capitale britannica entrò in contatto con i circoli repubblicani, con la loggia massonica dei Filadelfi e con le sezioni dell’Associazione internazionale dei lavoratori. Numerosi banchetti furono offerti in onore del ‘martire’ dell’odio bonapartista ed egli ebbe occasione di ritrovare Louis Blanc e conoscere Gustave Flourens, Karl Marx e Friedrich Engels. Lettere di sostegno e congratulazioni gli giunsero da Garibaldi, Mazzini e Victor Hugo.

Accusato dalla polizia francese insieme a Flourens di un ennesimo complotto (cui si dichiarò completamente estraneo), intraprese un viaggio in Italia per rivedere l’anziana madre, senza sapere che costei era morta mentre lui si trovava alla Caienna.

A Firenze ebbe modo di rincontrare vecchi commilitoni, ormai tutti ai vertici del nuovo regio esercito italiano; in particolare il generale Nicola Fabrizi e Francesco Crispi, di cui fu ospite per un mese. I due si erano conosciuti a Parigi nel 1856 quando il patriota siciliano era andato da lui con una lettera di presentazione di Mazzini. Crispi e Tibaldi rimasero in corrispondenza fino alla morte, dimostrandosi una cordiale amicizia malgrado la svolta monarchica del primo.

A Piacenza fu eletto presidente onorario del circolo repubblicano nato in occasione della sua visita.

Nonostante una nuova condanna alla deportazione del tribunale di Blois, Tibaldi, tornato a Londra, decise di rispondere all’appello di Léon Gambetta che il 5 settembre 1870 lo richiamava per la difesa di Parigi, dove accorse due giorni dopo alla testa di una piccola legione di esuli.

In Francia ritrovò Delescluze, Auguste Blanqui, Flourens e numerosi altri ex compagni di detenzione e cospirazione; dopo un iniziale entusiasmo per la ‘legione tibaldina’, il nuovo governo provvisorio rifiutò di vestirla e armarla, con il pretesto che ciò avrebbe creato attriti con il governo italiano, date le note sfavorevoli dell’ambasciatore di Vittorio Emanuele II, ma in realtà preoccupato per un contingente interamente composto da democratici e radicali.

Alla testa dei suoi uomini, Tibaldi si recò all’hôtel de ville il 31 ottobre 1870 (giorno della resa di Metz) per domandare armi e partecipò alla temporanea occupazione dell’edificio e al primo tentativo di instaurare la Comune di Parigi: questo gli valse un nuovo arresto su ordine del presidente del governo di Difesa nazionale Louis-Jules Trochu e una nuova detenzione, prima alla Conciergerie e poi nel forte di Vincennes, fino al 27 gennaio 1871.

Durante la prigionia fu eletto all’Assemblea nazionale di Bordeaux, cui rifiutò decisamente di far parte, e nominato generale della guardia nazionale di Parigi, carica che cedette a Garibaldi, ritenendolo maggiormente meritevole: per portare personalmente la nomina a Caprera, Tibaldi lasciò Parigi il 20 marzo 1871, non avendo così più alcun ruolo diretto nell’esperienza comunarda.

Impossibilitato a tornare a Parigi, decise di restare in Italia, malgrado il sequestro ordinato dal governo sui suoi beni di famiglia e lo stretto controllo cui era sottoposto: nella seconda metà del XIX secolo Tibaldi era diventato per le polizie del continente una sorta di virtuoso dell’attentato politico, tanto che il suo nome venne associato, pur senza nessun legame apparente, all’omicidio di Carlo III di Borbone-Parma nel 1854 e al tentativo contro Amedeo I di Spagna nel 1872.

Nel 1873 pubblicò a Roma e a Milano le proprie memorie, intitolandole Da Roma a Caienna, lotte, esigli, deportazione, in evidente omaggio a quelle di Delescluze – caduto sulle barricate della Comune – chiamate De Paris à Cayenne, journal d’un transporté (Paris 1869).

Morì a Roma il 17 gennaio 1901.

Fonti e Bibl.: Parigi, Archives nationales de France, Ministère de la Justice – BB – 30/419.

A. Zévaès, Les proscrits français de 1848 et 1851 à Londres, in Revue d’histoire du XIXe siècle – 1848, 1924, vol. 104, pp. 94-114; E. Ottolenghi, Pagine del Risorgimento, in La strenna dell’anno XV, Piacenza 1937, pp. 66-74; M. Vuilleumier, Les papiers d’Angelo Umiltà, quatre lettres inédites de Mazzini à Attilio Runcaldier, in Rassegna storica del Risorgimento, LVII (1970), 2, pp. 233-240; A. Bassoli, P. T., un emiliano e la Comune di Parigi, in Bollettino storico piacentino, LXIX (1974), 1, pp. 39-54; M. Sageman, Turning to political violence, the emergence of terrorism, Philadelphia 2017, ad indicem.

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