Pàolo Veronese

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Pittore (Verona 1528 - Venezia 1588). Nella grande civiltà pittorica veneziana del sec. 16º, P. V. si distingue per la peculiare armonia delle sue tinte limpide, brillanti, gioiose e per la trasparenza delle sue atmosfere; mezzi espressivi e libertà di atteggiamenti che ne faranno un punto di riferimento per la pittura veneziana del Settecento.

Vita e opere

Suo primo maestro fu G. A. Badile; anche i bresciani G. Romanino, il Moretto e G. G. Savoldo, presenti con opere a Verona, contribuirono alla sua prima formazione, orientata verso le novità cromatiche di cui Venezia era la fonte. Ma ancora altri elementi si inseriscono nella sua cultura figurativa: le eleganze manieristiche del Parmigianino, la grandiosa ampiezza della figura umana di Giulio Romano. Accenti variamente commisti, che tuttavia s'intonano in una pittura ampiamente decorativa. Al 1548 risale la sua prima opera datata: la pala Bevilacqua (Verona, museo di Castelvecchio). Nel 1551 decorava la villa Soranzo presso Castelfranco, e nel 1552 dipingeva la pala con le Tentazioni di s. Antonio (museo di Caen). Infine, giunto a Venezia, dove la sua arte limpida e serena s'impose, cominciò (1553) a dipingere una serie di quadri: i soffitti delle sale del Consiglio dei Dieci e dei Tre Capi del Consiglio nel Palazzo Ducale, rappresentanti Giunone che versa i suoi tesori su Venezia, la Gioventù e la Vecchiaia, ecc.; opere nelle quali lo stile dell'artista appare perfettamente definito, in un felicissimo senso degli accordi cromatici, cui si aggiunge un senso grandioso dei valori spaziali. Nel 1555 aveva terminato il soffitto della sacrestia di S. Sebastiano, a cui seguirono a varie riprese (fino al 1570) il soffitto della chiesa stessa, e poi l'intera decorazione del tempio. Negli anni che corsero tra il 1557, data presumibile dell'inizio di un lungo soggiorno a Venezia, e il 1566, anno in cui tornò a Verona per sposare Elena figlia di G. A. Badile, eseguì numerosi cicli di affreschi, oggi perduti, nei palazzi veneziani (restano frammenti nella casa Trevisani a Murano e il ciclo, eseguito prima del 1560, nella palladiana villa Barbaro a Maser, che costituisce uno dei più interessanti complessi della pittura veneziana, con pitture che coprono quasi da cima a fondo le pareti della mirabile costruzione palladiana e costituiscono uno dei più estesi, complessi e stupendi cicli pittorici, che mai siano usciti da pennello d'artista). Autore a Verona della pala di S. Giorgio in Braida, nel 1563 dipinse a Venezia la più famosa delle sue Cene, le Nozze di Cana ora al Louvre; dieci anni dopo eseguì la Cena in casa di Levi, ora all'Accademia di Venezia, che, nell'ambito della Controriforma, gli procurò il processo dell'Inquisizione: pitture ove le capacità scenografiche, la freschezza e la novità del colorito si affermarono altamente. Fra le sue opere più significative vanno ancora ricordate: le Cene di Dresda, di Brera e di Monte Berico. Contemporaneamente a questi conviti, dipinse moltissime altre tele di vario argomento, dove però sempre s'affermano quella sua tendenza al sogno gaio, brillante, ritmato, e quella sua virtù d'esprimerlo, non già con la densa e profonda orchestrazione tizianesca, o col balenante notturno del Tintoretto, ma con l'accordo, leggerissimamente tramato, dei colori squillanti e vivi: e insieme quel suo carattere, impropriamente detto esteriore, che lo porta a scegliere argomenti profani o a trattare profanamente argomenti sacri. Si ricordano: la Famiglia di Dario ai piedi di Alessandro (1565-67, Londra, National Gallery); i ritratti, o gruppi di ritratti, a Firenze, a Dresda, ad Amsterdam, e alcune composizioni di soggetto sacro. Sensibile negli ultimi anni agli esempi di Tiziano, del Tintoretto, del Bassano che ne arricchirono tecnicamente l'arte, per il rinnovamento del Palazzo Ducale, dopo l'incendio del 1576, eseguì le magnifiche tele di soggetto allegorico, la Vittoria di Lepanto, la prodigiosa decorazione della Sala del Maggior Consiglio. La pittura di P. V. fu tra le poche di altezza veramente suprema, e di una purità forse unica. Giacché in nessun artista, come in lui, il cosiddetto contenuto non vale se non in quanto dà concretezza all'armonia delle forme raffaellescamente equilibrate in un riposato ritmo, e al brillare dei colori, i quali, pur impeccabilmente accordandosi in un insieme intonatissimo, non rinunciano mai all'individualità del loro timbro particolare, alla chiarezza della loro voce, all'intensità della loro vita. Storicamente fu un rinnovatore formidabile, sebbene a scadenza assai lunga: il seme ch'egli gettò nel Cinquecento, difatti, non fiorì rigoglioso che nel Settecento. Al suo tempo ebbe l'incondizionata adorazione dei contemporanei; fu posto tra i tre grandi numi tutelari della pittura veneziana (alla quale, poi che si faceva per via dell'eredità tizianesca piuttosto nebulosa, diede quasi una nuova verginità); rialzò il tono emotivo della città inspirandole una rinnovata e trionfante gioia di vivere. ׫P. V. educò all'arte i figli Carlo e Gabriele, e il fratello minore Benedetto: v. Caliari, Carlo; Caliari, Benedetto.

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