CELESTINO V, papa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979)

CELESTINO V, papa

Peter Herde

Pietro del Morrone, il futuro papa, nacque nel 1209 o all'inizio del 1210: la fonte più sicura a proposito, la Vita C., racconta che aveva 87 anni al momento della morte avvenuta il 19 maggio 1296 (pubbl. in Anal. Bollandiana, XVI[1897], p. 431). Era originario della contea di Molise, allora, insieme con la Terra di Lavoro, una provincia del Regno di Sicilia, ma non si è potuto stabilire con piena certezza il luogo di nascita. Sono stati indicati a favore di Isernia due documenti che lo qualificano come cittadino di quella città, ma la loro autenticità è piuttosto dubbia. Ci sono invece più indizi a favore della tradizione raccolta per la prima volta nella Vita in volgare di Stefano Tiraboschi di Bergamo, dell'inizio del sec. XV, che lo vuole nato nella località di Sant'Angelo Limosano (Venezia, Bibl. Marc., cod. It., cl. V, 68 [= 5619], f. 31v: "...in uno castello che si chiama Sancto Angelo nasce lo gratioso Celestin..."). Questa tradizione è avvalorata soprattutto dalla circostanza che il giovane Pietro entrò nel vicino monastero benedettino di S. Maria di Faifula (presso Montagano) separato da Sant'Angelo Limosano solamente dalla valle del Biferno (Vita C., p. 404). I genitori, Angelerio e Maria, erano semplici contadini. Pietro era il penultimo di dodici fratelli e fu affidato dalla madre, rimasta presto vedova, prima del 1230 al suddetto monastero, contro l'opposizione dei fratelli, dopo che un altro fratello più grande non era riuscito nella carriera ecclesiastica.

Intorno al 1231 Pietro decise di farsi eremita. Con l'obiettivo di ottenere dal papa il permesso e, se possibile, di farsi consacrare da lui sacerdote, si mise in viaggio per Roma, ma per strada si fermò a Castel di Sangro, poi al monte Porrara, la vetta più meridionale dellaMaiella, dove visse alcuni anni come eremita. Comunque, intorno al 1233-34 andò finalmente a Roma, dove fu consacrato, anche se probabilmente non da Gregorio IX. Secondo il Tiraboschi (f. 36rv), avrebbe passato poi un certo periodo nel monastero benedettino di S. Giovanni in Venere (presso San Vito Chietino) per ritirarsi poi, verso il 1235-40, sulla montagna del Morrone, situata a oriente della Conca Peligna, dove visse alcuni anni in una caverna. La santità della sua vita attirò molti pellegrini, e per evitarli, nel periodo tra il 1240 e il 1245, Pietro, che d'ora in poi sarà chiamato Pietro del Morrone, fuggì nei monti della Maiella, ancora più a est e più difficilmente accessibili, dove insieme con altri eremiti fondò sul lato nord-ovest della montagna, a più di mille metri di altezza e a poca distanza da Roccamorice, un eremo, S. Spirito a Maiella, che fu dotato da vari personaggi (già nel 1252 dal conte Gualtieri da Palearia, conte di Manoppello; nel 1278 dal vescovo Nicolò di Chieti e da altri). Nel 1259 Pietro ottenne dal vescovo di Valva e Sulmona il permesso di costruire una chiesa (S. Maria) ai piedi del Morrone, anch'essa dotata di beni e nel 1268 anche di un'indulgenza da parte di Clemente IV.

Pietro non av9va in mente di fondare un nuovo Ordine, anche perché questo era proibito dal diritto canonico. Perciò la sua Congregazione di eremiti fu incorporata nell'Ordine dei benedettini: il 1º giugno 1263 Urbano IV incaricò il vescovo di Chieti, della cui diocesi faceva parte, di incorporare S. Spirito a Maiella in quell'Ordine e il giorno seguente accolse l'eremo sotto la protezione della S. Sede (il vescovo di Chieti assolse al suo compito il 21 giugno 1264).

Anche se la nuova Congregazione accettava donazioni e pertanto non perseguiva gli ideali di povertà degli spirituali francescani, Pietro dev'essere presto entrato in contatto con loro. L'eremo e le altre chiese consacrate al S. Spirito rivelano l'influsso degli spirituali i quali, infatti, sulla scia di Gioacchino da Fiore, aspettavano l'età dello Spirito Santo e avrebbero identificato più tardi proprio in Pietro-Celestino il papa angelico, il quale, secondo una profezia che circolava fin dalla metà del sec. XIII, doveva precedere quell'epoca come purificatore della Chiesa. Contatti di Pietro con i capi degli spirituali quali Pietro da Macerata e Angelo Plareno esistevano infatti già prima della sua elevazione al pontificato. Non dovevano però essere troppo stretti se si considera che Pietro si preoccupò d'incrementare le proprietà della sua Congregazione e incoraggiò i donatori, rimanendo saldamente ancorato all'Ordine benedettino.

Visto che l'incorporazione operata dal vescovo di Chieti - che era in urto con il pontefice a causa dei suoi legami con re Manfredi - poteva dare adito a contestazioni esponendo il monastero a ingerenze da parte dei vescovi di Chieti e di altri, Pietro si recò personalmente, verso la fine del 1274, con due confratelli, alla Curia pontificia a Lione, dove giunse dopo la conclusione del concilio. Ottenne da Gregorio X, in data 22 marzo 1275, un solenne privilegio, redatto secondo lo schema in uso per l'Ordine benedettino (si trattava dunque di un atto di routine), il quale regolava definitivamente l'incorporazione della Congregazione in quell'Ordine e ne confermava le proprietà, in quel momento già abbastanza consistenti.

Queste si dividevano in due complessi: S. Spirito a Maiella, con le chiese circostanti di S. Giorgio di Roccamorice, S. Giovanni di Maiella, S. Bartolomeo di Legio, S. Cleto di Mosilullo, S. Maria e S. Angelo di Tremonti (presso Popoli) nei monti della Maiella e nella vicina valle del fiume Orte; poi S. Maria del Morrone, S. Antonio di Campò, di Giove, S. Giovanni di Acquasanta (a nord di Castel di Sangro) e S. Comizio ad Acciano (ad ovest di Popoli) nel Morrone, nella Conca Peligna e nelle valli dei fiumi Vella, Sagittario, Aterno e Sangro. Ma c'erano anche possedimenti sparsi altrove: S. Spirito a Isernia, S. Maria de Agello (Aielli ad est di Celano), S. Antonio a Ferentino, S. Antonino ad Anagni, S. Leonardo a Sgurgola (diocesi di Anagni), S. Francesco a Civita d'Antino (a sud di Avezzano). Ad esse si aggiungevano proprietà e diritti a Sulmona, Roccamorice, Tocco (da Causaria) e, più in generale, nelle diocesi di Chieti, Valva e Sulmona, Isernia, Anagni, Ferentino e Sora. Tutto fa pensare che la Congregazione svolgesse un'intensa attività agricola (ne facevano parte anche numerosi frati conversi). Grazie all'abilità di Pietro essa aveva ormai raggiunto un'importanza che andava oltre i confini della provincia dov'era sorta, estendendosi fino alle porte di Roma. A Roma stessa possedeva la chiesa di S. Pietro in Montorio sul Gianicolo. Niccolò IV aggiunse l'11 giugno 1289 la chiesa di S. Eusebio nelle vicinanze di S. Maria Maggiore, che continuò però ad essere legata al titolo cardinalizio. Pietro visitò personalmente molte di queste case, preoccupandosi del loro benessere spirituale e materiale, e continuò ad attirare molti pellegrini. Non si immischiò però mai nei contrasti tra il Papato e gli Svevi e pare essersi rassegnato, come del resto la maggior parte dei vescovi di Valva e Sulmona e di Chieti, alla dominazione di Manfredi, nonostante la sua fedeltà al pontefice come si rassegnò successivamente al dominio del nuovo sovrano del Regno, Carlo I d'Angiò.

Dopo il suo ritorno da Lione (1275) fu celebrato a S. Spirito a Maiella il primo capitolo generale della Congregazione, nel corso del quale fu riconosciuta come vincolante la regola di s. Benedetto e furono promulgate costituzioni relative alla liturgia e alla disciplina. Gli anni successivi segnano il culmine dell'attività di Pietro. Fino ad allora aveva diretto come priore di S. Spirito a Maiella la Congregazione da lui fondata. Nel 1276 diventò anche abate del monastero di S. Maria di Faifula, nel quale era entrato da giovane; l'arcivescovo Capoferro di Benevento gliene aveva affidato la riforma e con l'occasione l'aveva consacrato abate. Per due anni Pietro fu a capo di questo monastero, risollevandone le sorti economiche. In questo periodo entrò per la prima volta in contatto diretto con Carlo I d'Angiò, il quale il 27 sett. 1278 accolse S. Maria di Faifula sotto la protezione regia. Nell'atto relativo il re qualificò Pietro (come già due mesi prima) come "devotus noster". Le molestie cui era esposto da parte di Simone da S. Angelo (Limosano) indussero però Pietro, tra il 27 sett. 1278 e l'8 marzo 1279, a ritirarsi. Si recò in Puglia, dove assunse la direzione del monastero di S. Giovanni in Piano nella diocesi di Lucera (presso Apricena, oggi abbandonato). Sebbene vi soggiornasse solo per un breve periodo, dette l'avvio al risanamento di questo monastero caduto in rovina, che più tardi, al tempo del suo breve pontificato, riunì, il 20 ott. 1294, con quello di S. Spirito di Sulmona. E fu a S. Giovanni in Piano che progettò la fuga oltremare dopo la sua abdicazione. Nell'estate del 1280 fece un viaggio in Tuscia, ma non sappiamo per quale motivo; forse intendeva recarsi alla corte di Niccolò III che allora risiedeva a Soriano. Durante il viaggio di ritorno visitò, a Roma, S. Pietro in Montorio che faceva parte della Congregazione. Al più tardi nell'ottobre 1291 era di ritorno a S. Spirito a Maiella, dove lo troviamo di nuovo come priore.

Il suo viaggio a Lione, che certamente aveva allargato i suoi orizzonti, e l'instancabile attività per l'organizzazione della sua Congregazione e l'incremento delle proprietà, dimostrano che Pietro non era inesperto delle cose del mondo, anche se al centro delle sue preoccupazioni erano soprattutto questioni monastiche. Considerata la durata media della vita di allora, egli aveva ormai oltrepassato di parecchio il culmine della propria, ma non aveva ancora saputo risanare il conflitto tra l'attività volta alla guida dei suoi monasteri e il desiderio di solitudine. Continuava l'afflusso dei pellegrini, e, come raccontano le Vite e affermano le testimonianze rese durante il processo di canonizzazione, egli avrebbe operato guarigioni e miracoli. Pietro, come molti monaci di allora, doveva avere cognizioni di medicina pratica, e ricorrendo a queste e anche alle famose acque minerali della Maiella, probabilmente ottenne qualche effettivo successo nella cura dei malati, interpretati più tardi dai suoi biografi in senso agiografico. La sua fama oltrepassò ben presto l'ambiente abbruzzese dove operava: Pietro era conosciuto ormai in Curia, nel Collegio cardinalizio, alla corte di Napoli.

Ai suoi confratelli Pietro impose regole che rassomigliavano a quelle dei mendicanti. Completando la regola di s. Benedetto dispose che le loro vesti dovessero essere di panno semplice e le scarpe aperte davanti; era loro proibito indossare indumenti fini e caldi; dovevano accontentarsi di cibi semplici; il vino era permesso solo la domenica. Tranne che nell'estate vigevano severe regole di digiuno. Negli anni tra il 1280 e il 1290 la Congregazione acquistò altri monasteri e chiese. Il 6 nov. 1285 il monastero S. Pietro di Vallebona (a sud di Manoppello, oggi abbandonato), che sin dal 1149 era appartenuto all'abbazia di S. Maria di Pulsano nel Gargano, fu unito con S. Spirito a Maiella. La chiesa più interessante dal punto di vista architettonico, S. Maria di Collemaggio davanti alle mura dell'Aquila verso sud-est, è menzionata per la prima volta il 6 maggio 1287: il vescovo Niccolò dell'Aquila esentò allora la chiesa, ancora in costruzione, dalla sua giurisdizione.

Dal 1281 al 1283 Pietro era priore di S. Spirito a Maiella e dunque capo della Congregazione, la cui organizzazione interna fu sempre di più perfezionata. Dopo il primo, capitolo generale se ne erano riuniti altri nella casa madre, forse già allora annualmente.

Di quest'organizzazione informa dettagliatamente la bolla di C. V del 27 sett. 1294, ma una buona parte dei particolari ivi elencati erano stati introdotti sicuramente già in precedenza. A partire dal 1287, pare, la Congregazione era retta da un priore generale e più tardi da un abate generale ("pater abbas"), secondo il modello dell'abate generale dei cisterciensi, ma a differenza di questi, l'abate della Congregazione del Morrone non era eletto a vita, bensì ogni tre anni (poteva però essere rieletto). Il "pater abbas" doveva essere confermato dal capitolo di S. Pietro, visto che il monastero principale di S. Spirito a Maiella e più tardi quello di S. Spirito di Sulmona (del Morrone) ne dipendevano, finché Pietro, diventato papa, il 27 sett. 1294 non abolì questa dipendenza. Pietro stesso nel 1286 si era ritirato di nuovo come eremita a S. Giovanni Evangelista sopra la valle dell'Orfento. Dal 1287 infatti fungevano come priori generali altri abati di S. Spirito a Maiella e di S. Pietro di Vallebona, anche se per brevi periodi Pietro stesso pare abbia esercitato questa dignità. L'esenzione delle chiese e dei monasteri della Congregazione dalla giurisdizione vescovile, ottenuta in precedenza solo per singoli monasteri e chiese, sembra essere stata estesa già da Onorio IV a tutta la Congregazione; di Niccolò IV è una bolla che la accordava ai monasteri e alle chiese nelle diocesi di Chieti, Aquila, Isernia e Trivento (non è fatta però menzione di Valva e Sulmona).

Allora Pietro si tratteneva ancora nella Maiella, montagna di difficile accesso, ma cominciò a rendersi conto della necessità di trasferire il centro della sua Congregazione in una località più facilmente accessibile, raggiungibile a tutti i fedeli. Fu scelto il luogo dove Pietro aveva iniziato la sua attività, ai piedi del Morrone, a nordest di Sulmona, dove già si trovava la chiesa di S. Maria del Morrone, la quale, con il contributo dei cittadini di Sulmona, fu allargata e trasformata, negli anni dopo il 1285, in un grande monastero, S. Spirito di Sulmona (del Morrone), il quale costituisce il monumento più insigne della Congregazione, benché oggi degradato a carcere. Nel 1293, quando i lavori erano, pare, a buon punto, Pietro vi si trasferì, ma non volle abitare nel grande edificio ai piedi del monte. Si fece sistemare una grotta a metà altezza del monte circa (m 637), a est dell'abbazia, che gli era servita come cella probabilmente durante il primo soggiorno nel Morrone: S. Onofrio. In questo piccolo eremo, danneggiato nel corso della seconda guerra mondiale, si conserva ancora un affresco con il suo primo ritratto. La sua nuova dimora attirò un gran numero di pellegrini. Quando fu inaugurato il monastero di S. Spirito Pietro stesso celebrò la messa su un palco elevato per essere ben visibile a tutti.

Quando Pietro fece ritorno al Morrone, il trono pontificio era vacante da più di un anno (Niccolò IV infatti era morto il 4 aprile 1292), e sebbene il conclave, rispettando le disposizioni di Gregorio X, si fosse riunito già dieci giorni dopo la morte del papa, i cardinali non si erano ancora messi d'accordo sul nome del suo successore: il Collegio cardinalizio era diviso da contrasti interni e non si riuscì a raggiungere la maggioranza di due terzi prescritta dalla costituzione di Alessandro III.

Le scissioni erano originate dal conflitto tra i due cardinali Colonna, Iacopo e Pietro, e i tre cardinali di casa Orsini, Matteo Rosso, Napoleone e Latino Malabranca. Propendeva verso il primo gruppo Pietro Boccarnazza della casata romana dei Savelli; era partigiano degli Orsini il più dotto tra i cardinali, Matteo d'Acquasparta. Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII, manteneva un atteggiamento indipendente cercando di aumentare il proprio prestigio. Il cardinale parmense Gerardo Bianchi era guardato con sospetto dagli Orsini, perché li aveva abbandonati durante il conclave del 1280-81 votando per il suo amico Simon de Brion (Martino IV); dato che aveva sempre agito in modo autonomo e non aveva partecipato né all'elezione di Onorio IV né a quella di Niccolò IV, faceva parte a sé. Il milanese Pietro Peregrosso, anch'egli un uomo al di fuori della mischia, propendeva piuttosto verso i Colonna, e passò alla loro fazione nell'estate del 1293. I due francesi Hugues Aycelin e Jean Cholet (quest'ultimo morì già nell'agosto 1292) rappresentavano gli interessi francesi e angioini e non avevano possibilità personali. Alle rivalità tra Orsini e Colonna si aggiungevano quelle tra domenicani e francescani. Ma non erano in fondo i motivi politici a determinare le divisioni all'interno del Collegio cardinalizio. Nel conflitto per la Sicilia, occupata dagli Aragonesi in seguito al Vespro siciliano, nessuno dei cardinali era a favore della cessione dell'isola all'Aragona, ma gli italiani nel Collegio non appoggiavano più incondizionatamente la politica di Carlo II d'Angiò e della Francia, seguendo piuttosto un corso indipendente italiano e guelfo, anche se propendevano sempre più per l'Angiò che per Giacomo II d'Aragona. Quasi tutti ricevevano elargizioni da parte di Carlo II.Stando così le cose, è difficile pensare che esistessero fra di loro divergenze d'opinione circa la conclusione della guerra tra l'Aragona da un lato e gli Angioini e la Francia dall'altro, che durava ormai da dieci anni. Erano soprattutto rivalità personali a impedire che uno di loro raggiungesse gli otto voti necessari per essere eletto papa. La calura estiva e disordini scoppiati in città indussero nel 1292 e nel 1293 alcuni cardinali ad abbandonare Roma. Un tentativo intrapreso nell'estate del 1293 dai Colonna rimasti a Roma, di procedere all'elezione, in conformità con le disposizioni di Gregorio X, nel luogo giusto, ma con solo quattro voti, fallì per considerazioni di natura giuridica; ma fu raggiunto per lo meno l'accordo di riaprire il conclave il 19 ott. 1293 a Perugia. Qui però i fronti si erano troppo irrigiditi per permettere una candidatura di compromesso (per es. di Gerardo Bianchi o di Matteo d'Acquasparta). L'elezione di un papa si presentava d'altra parte sempre più urgente, dopo che Carlo II, nel corso di un incontro avvenuto all'inizio del 1293 a Junquera, aveva raggiunto un accordo con Giacomo II sulla Sicilia, in base al quale l'isola doveva passare nel 1297 dall'Aragona alla Chiesa e poi alla fine ritornare agli Angioini; questo accordo, che non teneva conto degli interessi del fratello di Giacomo II, Federico, luogotenente del re d'Aragona nell'isola, doveva ottenere l'assenso del papa quale signore feudale della Sicilia.

Durante il viaggio di ritorno dalla Francia Carlo II si fermò a Perugia dal 21 al 29 marzo 1294, cercando di ottenere la ratifica del trattato di Junquera da parte del Collegio cardinalizio in quanto competente durante la sede vacante, ma nonostante che i cardinali si mostrassero ben disposti, non ottenne il suo obiettivo, perché non voleva rivelare i particolari dell'accordo. Qualche cosa dovette però alla fine trapelare, con la conseguenza che i Colonna informarono Federico d'Aragona, chiedendo con l'occasione aiuti finanziari; scoperti, dovettero desistere dai loro intrighi. Dopo questo primo fallito tentativo Carlo II cercò di influenzare direttamente l'elezione, presentando ai cardinali una lista di quattro candidati, tra i quali avrebbero dovuto scegliere. Ma neanche questa volta riuscì nei suoi intenti, perché il Collegio non era disposto a farsi ricattare da un re debole e incalzato da tutti i lati; pare che in quest'occasione Benedetto Caetani abbia duramente attaccato il sovrano.

Non è possibile stabilire se nella lista figurasse già allora il nome di Pietro del Morrone. L'eremita era ben noto alla corte del re; Carlo Martello, il figlio di Carlo II e suo vicario generale nel Regno, nel luglio del 1293 era stato a Sulmona, dove sicuramente aveva fatto visita a Pietro, prima di proseguire il viaggio per Firenze, dove avrebbe incontrato nel febbraio 1294 il padre di ritorno dalla Francia. Ma già prima del suo ritorno, il 15 gennaio del 1294, il sovrano aveva rilasciato ad Aix-en-Provence alcuni privilegi a favore di Pietro, accogliendo tra l'altro il monastero di S. Spirito a Sulmona sotto la protezione regia. Nei documenti l'eremita è qualificato come pio, onesto e in grande favore presso il re. Nel marzo del 1294, a Perugia, la figura di Pietro doveva dunque essere ben presente al re e a suo figlio. Mentre tornavano a Napoli tutt'e due lo andarono a trovare, il 6 aprile, nella sua cella a S. Onofrio presso Sulmona ed è probabile che lo abbiano informato dei fatti di Perugia, sollecitandolo forse anche a mettere in gioco tutto il peso della sua autorità per far notare ai cardinali, in una lettera, quanto fossero deprecabili le loro beghe e dannosa la lunga sede vacante.

Mancano prove sicure che il re abbia promosso l'elezione di Pietro esclusivamente per motivi egoistici. Pietro era da tempo in contatto anche con Latino Malabranca, senza però averlo mai incontrato personalmente, a motivo delle proprietà della Congregazione a Roma; lo dovevano conoscere anche gli altri Orsini, visto che i monasteri nella Maiella erano sottoposti alla giurisdizione di S. Pietro a Roma, con cui gli Orsini avevano rapporti. In effetti Pietro del Morrone scrisse in data non esattamente precisabile, ma probabilmente dopo la partenza del re da Sulmona, una lettera al Collegio cardinalizio, che non cadde nel vuoto. Da allora i pensieri di Latino Malabranca andarono all'eremita. Il cardinale, allora già gravemente ammalato e forse presago della prossima fine, nutriva simpatie per il movimento degli spirituali; ma più che altro deve aver influenzato la sua decisione il senso di colpa per il lungo conclave e il desiderio di non aumentare ancora, al cospetto della morte, queste colpe. Non ci sono prove che egli abbia intrigato con Carlo II per imporre l'elezione di Celestino V.Per qualche settimana il Malabranca non pare aver forzato il suo progetto. Alcuni avvenimenti - disordini nel maggio e nel giugno 1294 a Roma, dove il popolo voleva eleggere senatore Federico d'Aragona, l'attacco del Comune di Orvieto contro i possedimenti pontifici nel Val del Lago e la conquista di Bolsena da parte degli Orvietani - indussero finalmente i cardinali a riunirsi di nuovo in conclave il 5 luglio, assenti Napoleone Orsini e Pietro Peregrosso malato di gotta. I cardinali erano profondamente impressionati dall'improvvisa morte di un giovane fratello di Napoleone Orsini e così presero finalmente una decisione: Latino Malabranca raccontò della sua visione, nella quale un pio eremita gli aveva predetto il castigo di Dio sul mondo nel caso che la sede vacante si fosse protratta ancora più a lungo; una cinica domanda di Benedetto Caetani rivelò che si trattava di Pietro del Morrone, la cui lettera non era rimasta senza effetto; dopo una breve allocuzione latina Malabranca, quale decano del Collegio, gli dette il suo voto. Nella forma di una elezione per ispirazione lo seguirono Gerardo Bianchi, Matteo d'Acquasparta, Giovanni Boccamazza, Benedetto Caetani e Hugues Aycelin. Dette il suo consenso anche Napoleone Orsini, accorso all'ultimo momento, e, dopo qualche esitazione, Matteo Rosso. Era stata raggiunta così la maggioranza di due terzi ed in conseguenza anche i due Colonna votarono per l'eremita abruzzese, come, dal suo letto di infermo, Pietro Peregrosso.

L'elezione era così avvenuta all'unanimità. Avevano contribuito vari fattori a questo risultato: gli avvenimenti sconvolgenti delle ultime settimane e giorni, attese escatologiche, ma anche il pensiero segreto di eleggere un candidato di compromesso come soluzione di transizione, scegliendo un eremita inesperto, molto avanti negli anni, che prometteva di diventare un papa non troppo severo. Era certamente una decisione insensata, perché a Pietro mancavano tutti i presupposti per reggere la Chiesa con successo: la conoscenza del complicato apparato curiale, del diritto canonico, dei problemi spirituali e politici; inoltre era troppo vecchio per potersi adeguare ai nuovi compiti.

Dopo qualche contrasto sulla sua composizione, l'11 luglio fu mandata un'ambasceria da Pietro a Sulmona, di cui non faceva parte nessun cardinale bensì un Orsini, notaio pontificio, il che indusse il cardinale Pietro Colonna a precipitarsi a Sulmona, nonostante gli accordi presi. Ivi la notizia dell'elezione di Pietro era arrivata già prima dell'ambasceria. Venutone a conoscenza Pietro fa preso dal panico, prova evidente - checché avesse avuto in mente Carlo II durante la sua visita, a Sulmona - che egli non partecipava a un gioco concordato. Il 18 luglio ricevette nella sua cella gli emissari del Collegio cardinalizio e il cardinale Pietro Colonna e accettò l'elezione quando gli fu detto che, rifiutando, avrebbe commesso un peccato mortale. Carlo II giunse a Sulmona il 21 luglio per rendere omaggio al neoeletto e per non perdere l'occasione che gli si presentava; da quel momento egli non si scostò più dal nuovo pontefice. Dette subito ordini per preparare l'incoronazione di Pietro all'Aquila, città facente parte dei suoi domini, dove, grazie alla generosa attività architettonica promossa da Carlo I, c'era spazio sufficiente, e dove, data l'altitudine, esistevano condizioni climatiche favorevoli anche in piena estate. La città era ben nota anche a Pietro che vi aveva fondato S. Maria di Collemaggio.

Il 28 luglio, a dorso di un asino, sull'esempio di Cristo, Pietro fece il suo ingresso all'Aquila. Il gesto suscitò la critica dei cardinali, ma dal popolo accorso in folla fu interpretato come la prova che il papa angelico delle profezie era finalmente arrivato. Ancora prima dell'arrivo dei cardinali, che dapprima avevano insistito perché l'incoronazione avvenisse a Perugia o a Rieti, Carlo II aveva abilmente esercitato la sua influenza sul vegliardo: i suoi uomini più fidati assumevano cariche nella corte pontificia, mentre la Congregazione di Pietro ottenne ulteriori privilegi regi. L'opposizione dei cardinali contro l'incoronazione in una città del Regno che minacciava l'indipendenza della Chiesa, si affievolì ben presto, soprattutto dopo la morte di Latino Malabranca avvenuta il 10 agosto. La sua dignità di decano del Sacro Collegio fu conferita dal papa al favorito del re Hugues Aycelin, già arrivato all'Aquila, che fu nominato cardinale vescovo di Ostia. Già il 15 o il 16 agosto si svolse la cerimonia della vestizione del papa con il manto purpureo come simbolo dell'assunzione del dominio su Roma e sull'orbe. Quest'atto toccava, secondo la tradizione, al più anziano tra i cardinali diaconi, ma poiché Matteo Rosso Orsini non era ancora arrivato, fu eseguito da Napoleone Orsini. Poco dopo Pietro scelse il suo nome: Celestino. Con questa scelta non intendeva probabilmente ricollegarsi ai predecessori dello stesso nome (l'ultimo papa di questo nome, Celestino IV, era morto nel 1241,due settimane dopo la sua elezione, senza essere stato né consacrato né incoronato); si riferiva invece certamente ai legami che lo univano con le forze celesti.

Ora, anche gli altri cardinali decisero di trasferirsi all'Aquila. Ultimo giunse Benedetto Caetani, il quale temeva il re, con il quale egli aveva litigato così aspramente a Perugia. Alla presenza di una grande folla, il 29 agosto C. V fu consacrato, papa da Hugues Aycelin e incoronato da Matteo Rosso Orsini. Nella successiva cavalcata attraverso la città C. V non si servì più di un asino, ma di un cavallo bianco. Nel frattempo Carlo II aveva deciso di non lasciare andare il papa a Roma, ma di condurlo con sé a Napoli, nella capitale del suo Regno. Fin dall'inizio di settembre iniziò i preparativi.

Già all'Aquila si cominciò con la riorganizzazione degli uffici curiali, in primo luogo della Cancelleria. Il vicecancelliere Johannes Monachus (Jean Lemoine) il 18 settembre fu elevato alla dignità cardinalizia e sostituito con un uomo di fiducia di Carlo II, Giovanni de Castrocoeli arcivescovo di Benevento, nonostante che questi avesse subito un processo davanti alla Curia al tempo di Niccolò IV. Cominciarono ad affluire all'Aquila anche notai e scrittori pontifici; tra questi ultimi era un N. de Limosano, forse un nipote del papa. Più tardi a Napoli troviamo come "auditor litterarum contradictarum" Giovanni "dictus Muccula" da Napoli, il che lascia pensare che anche l'"audientia", un reparto della Cancelleria e contemporaneamente, tribunale di Curia, avesse ricominciato a funzionare. Ma le funzioni più importanti nella Cancelleria di C. V furono esercitate dal giurista e protonotaro di Carlo II, il "miles" Bartolomeo da Capua, il quale, senza rinunciare al suo posto a capo della Cancelleria regia, entrò in quella pontificia come notaio apostolico, unico funzionario laico, e redasse i documenti più importanti del pontefice. È molto probabile che C. V, inesperto com'era degli affari di Curia, sia stato ingannato più di una volta dal suo entourage, quando si trattava di concedere grazie e privilegi; il suo successore Bonifacio VIII criticò aspramente il modo indiscriminato con cui aveva concesso le sue bolle. Il rimprovero mossogli dai contemporanei di aver rilasciato pergamene in bianco, ma regolarmente sigillate per permettere a chiunque di confezionarsi una bolla secondo i propri desideri, non è comprovato dagli originali conservati, che sono tutti redatti secondo lo schema e le regole in vigore. Non pare che sia stato tenuto un registro, cosa essenziale per il regolare funzionamento della cancelleria; o, per lo meno, se esisteva, non è stato conservato. Tuttavia all'inizio di settembre del 1294 si trovano su singole bolle delle annotazioni relative alla registrazione, il che fa pensare che si progettasse di aprirne uno.

Alcune lettere di C. V conservate nel manoscritto Lat. 4047 della Biblioteca nazionale di Parigi lasciano supporre che anche la Camera avesse ripreso a funzionare. Come camerlengo figura in un primo momento Pietro da Sorra, vescovo eletto di Arras e chierico del re francese, che all'inizio di ottobre fu mandato in Francia presso Filippo IV (Parigi, Arch. nat. J 700, n. 91) e sostituito poi da Teodorico. Carlo II introdusse uomini di sua fiducia: anche in altri rami dell'amministrazione pontificia: Rainaldo de Lecto diventò maresciallo di corte, altri controllavano come "hostiarii" l'accesso al papa, altri furono nominati alla carica di rettore nelle province dello Stato della Chiesa (Oderisio da Aversa nel Patrimonio di S. Pietro, Roberto de Cornay in Romagna, Gentile di Sangro nella Marca d'Ancona). Anche il senatore di Roma era persona di fiducia del re: Roberto di Sanseverino. Ma Carlo II stesso ambiva a questa carica e ottenne dal papa (13 dicembre), per sé e i suoi eredi, la revoca della disposizione di Niccolò III del 1278 che vietava l'accesso alla carica senatoria a principi e altri personaggi eminenti. L'abdicazione di C. V impedì però la realizzazione di questo progetto.

Il 18 settembre C. V creò nuovi cardinali. Il lungo conclave ne aveva dimostrato il bisogno, ma anche Carlo II doveva aver spinto il papa a questo passo. Era molto importante per il re introdurre nel Collegio cardinalizio persone di sua fiducia, anche in previsione del prossimo conclave. Le fazioni nobiliari romane non videro rafforzare le proprie file; anzi, tra i nuovi cardinali neanche uno proveniente dallo Stato della Chiesa. Dei dodici cardinali elevati da C. V (il numero dodici si riferiva, evidentemente, in senso escatologico, al numero degli apostoli) solo cinque erano italiani: Tommaso di Ocre e Francesco da Atri (morto già il 13 ottobre a Sulmona), tutti e due frati della Congregazione del papa, il benedettino Pietro dell'Aquila, vescovo eletto di Valva e Sulmona, il napoletano Landolfo Brancaccio, uomo di fiducia dell'Angioino, e Guglielmo Longo da Bergamo. Tra i sette francesi c'erano due monaci che C. V non aveva mai visto e che arrivarono solo più tardi in Curia: Roberto, abate di Cîteaux e Simone, priore del monastero cluniacense di La Charité. Ad essi si aggiungevano Simone de Beaulieu (arcivescovo di Bourges e intimo del decano del Sacro Collegio, Hugues Aycelin, e del re francese), l'arcivescovo di Lione Berardo de Got, cacciato dalla sua diocesi in seguito al conflitto con il capitolo sostenuto dal re di Francia, Jean Lemoine (Johannes Monachus) il noto canonista e inizialmente vicecancelliere pontificio, Guglielmo de Ferrières, preposito di Marsiglia e probabilmente un provenzale, precedentemente vicecancelliere e famigliare di Carlo II, infine Nicola de Nonancour, cancelliere dell'università di Parigi e decano del capitolo parigino. Contemporaneamente C. V riconfermò l'ordinamento di Gregorio X per il conclave, secondo il quale il conclave doveva essere inaugurato dieci giorni dopo la morte del papa e nella stessa località dove era avvenuto il decesso (anche quest'ultimo punto rientrava nelle preoccupazioni del re per la prossima elezione a Napoli).

Già all'Aquila il papa confermò le disposizioni della pace di Junquera (1° ottobre), soprattutto la clausola che prevedeva la restituzione dell'isola di Sicilia alla Chiesa da parte di Giacomo II d'Aragona entro tre anni dalla festa di Ognissanti del 1294; dopo essere rimasta per un anno sotto il dominio della S. Sede, l'isola doveva essere concessa di nuovo a Carlo II d'Angiò. Fu mandata contemporaneamente un'ambasceria pontificia alla corte francese per rendere nota la ratifica. Un altro inviato fu mandato presso Edoardo I d'Inghilterra con l'incarico di mediare nel conflitto tra quest'ultimo e Filippo IV di Francia (in precedenza Roberto di Winchelsey, consacrato in Curia il 12 settembre arcivescovo di Canterbury, aveva probabilmente già intavolato trattative con il pontefice per incarico di Edoardo). Non pare invece che siano stati stabiliti contatti diretti con il re dei Romani Adolfo di Nassau, in trattative con il re inglese per un'alleanza, il quale mirava alla corona imperiale ed aveva cominciato a rivendicare i diritti dell'Impero in Toscana. Questi rapporti internazionali non nascevano certamente dall'iniziativa di C. V, ma erano promossi da Carlo II e dai cardinali più esperti in politica; sarebbero stati ripresi con nuova intensità da Bonifacio VIII.

Il papa era invece più interessato a colmare di favori la sua Congregazione: il monastero delle benedettine di S. Pietro presso Benevento fu unito con quello di S. Spirito di Sulmona, le monache trasferite altrove; S. Maria di Collemaggio ricevette un privilegio insolito (fu abilitata a concedere, nell'anniversario dell'incoronazione del papa, un'indulgenza che comportava l'assoluzione completa da colpe e pene dopo la contrizione e la confessione). Questo privilegio fu revocato da Bonifacio VIII, ma produsse una serie di falsificazioni dello stesso tipo. Tutti i monasteri della Congregazione furono esentati definitivamente dalla giurisdizione vescovile e fu abolita la dipendenza di S. Spirito a Maiella e di S. Spirito di Sulmona dal capitolo di S. Pietro. I monaci ricevettero ampi diritti parrocchiali. Altre lettere di grazia andavano ad Ordini con tendenze spiritualistiche o di eremiti. Tra l'agosto e l'inizio di ottobre C. V ricevette i capi dei francescani spirituali tornati dall'esilio in Grecia e in Oriente, Angelo Clareno, Pietro da Macerata, Tommaso da Tolentino e Trasmundo. Per tenerli sotto controllo pensava di accoglierli nella sua Congregazione, ma, quando rifiutarono, concesse loro di poter vivere indipendentemente come poveri eremiti e fratelli del papa Celestino secondo la regola severa di s. Francesco e il testamento del santo. Bonifacio VIII annullò anche questo privilegio, costringendo gli spirituali nuovamente alla fuga, ma nella lotta contro di lui i frati si vendicarono esaltando C. V come papa angelico.

Il 6 ottobre il papa e il re lasciarono L'Aquila per recarsi a Napoli. Attraverso Sulmona, Castel di Sangro, San Vincenzo al Volturno, dove C. V insediò come abate un monaco della sua Congregazione, il 17 ottobre raggiunsero San Germano e Montecassino. Il papa intendeva incorporare nella sua Congregazione anche la più venerabile tra le abbazie della cristianità latina, nominando abate Angelerio, frate del monastero di S. Spirito a Maiella, ma incontrò la più decisa resistenza dei monaci, molti dei quali andarono in esilio. L'abito grigio degli eremiti del Morrone sostituì soltanto per poco quello nero dei benedettini: nell'aprile 1295 Bonifacio VIII annullò tali deliberati e destituì Angelerio. Il 28 ottobre C. V elevò alla dignità cardinalizia l'ambizioso Giovanni de Castrocoeli, ma dovette ripetere l'atto a Napoli per la protesta di alcuni cardinali.

Il 5 nov. 1294 Carlo II d'Angiò e C. V fecero il loro ingresso a Napoli. Il papa prese alloggio in una cella sistemata appositamente per lui nel Castelnuovo, dove lo andavano a trovare numerosi ambasciatori e pellegrini, tra i quali il capo ghibellino Guido da Montefeltro, che fu assolto dalla scomunica, e forse Dante, venuto in veste di ambasciatore fiorentino (nell'Inferno, III, 60, il poeta riconosce subito "colui che fece per viltade il gran rffluto": lo aveva dunque incontrato forse già prima). Era sempre più evidente che l'ingenuo vegliardo non era in grado di reggere la Chiesa. Nella - "pienezza della sua semplicità", come sottolineavano i suoi avversari, distribuì, talvolta doppiamente, benefici, dignità, prebende personali; la sua dabbenaggine fu sfruttata cinicamente da cardinali come Iacopo Colonna e Hugues Aycelin e dai funzionari della Curia. In questa situazione anche quelli che fino ad allora lo avevano sostenuto, cominciarono a criticarlo; Iacopone da Todi, in una delle sue laudi, lo avvertì dei pericoli inerenti al suo ufficio.

Così il pontefice cominciò a pensare egli stesso alle sue dimissioni, già immediatamente dopo il suo arrivo a Napoli. Intendeva conferire a tre cardinali il governo della Chiesa per il periodo del digiuno d'Avvento, ma fu impedito da Matteo Rosso Orsini. Quando poi, ai primi di dicembre, cominciarono a circolare voci che egli volesse abdicare definitivamente, i suoi seguaci e Carlo II organizzarono manifestazioni di simpatia davanti al Castelnuovo per convincerlo a desistere dalle sue intenzioni, ma non riuscirono a calmare i tormenti di coscienza del vegliardo. I suoi progetti d'abdicazione dovettero dunque essere esaminati scrupolosamente dal punto di vista giuridico.

La dottrina canonistica, a partire dal 1200 circa, aveva ammesso la possibilità delle dimissioni diun papa; motivi validi erano ritenuti tra l'altro l'età avanzata e la malattia. Mentre Uguccio (1190 c.) aveva ancora insegnato che le dimissioni dovevano avvenire davanti a un concilio, oppure davanti ai cardinali, senza che questi fossero tenuti ad esaminare i motivi, secondo i canonisti successivi il papa poteva abdicare senza l'autorizzazione dei cardinali; la giustificazione era dovuta solo a Dio. Quest'opinione era sostenuta tra l'altro anche da Jean Lemoine, elevato da poco alla dignità cardinalizia.

C. V si fece consigliare da cardinali esperti in diritto canonico come Benedetto Caetani e Gerardo Bianchi (cappellano di quest'ultimo era il famoso canonista Guido da Baisio, autore di buone argomentazioni molto valide su questo tema, nelle quali con buona probabilità utilizzò la discussione concreta del novembre-dicembre 1294) e forse anche da Jean Lemoine. Ma sembra che soprattutto Benedetto Caetani lo abbia convinto - in modo giuridicamente corretto - della validità canonica delle dimissioni di un papa, il che gli valse l'accusa, ingiustificata, di aver agito per motivi personali. Certamente Benedetto, che nel frattempo aveva ristabilito rapporti abbastanza buoni con Carlo II, ambiva alla carica suprema della Chiesa; ma è altrettanto evidente che C. V, sopraffatto dal senso della sua impotenza, non aveva nessun bisogno di essere convinto ad abdicare.

Verso l'8. dic. il papa manifestò per la prima volta le sue intenzioni ai cardinali riuniti in concistoro, ma questi lo sconsigliarono, perché temevano che un passo così insolito potesse rivelarsi pregiudizievole per la Chiesa. Dopo essersi consigliato ancora con Benedetto Caetani, il 9 o il 10 dicembre C. V fece mettere per iscritto, in una forma che corrispondeva alla semplicità della sua mente, le ragioni che lo spingevano all'abdicazione: soprattutto, l'infermità, ma anche mancanza di sapere e il desiderio di ritirarsi nella pace della cella da romito. Poco dopo, forse non prima del concistoro del 13 dicembre, fece redigere una costituzione sull'abdicazione papale, il cui testo è andato perduto e che è nota solo attraverso l'analoga bolla di Bonifacio VIII (Sextus, 1.7.1) basata su di essa; probabilmente non aveva assunto la forma di una bolla. Per maggior sicurezza C. V decise di abdicare alla presenza del Collegio cardinalizio, la qual procedura corrispondeva alla dottrina canonistica più ampia e anche agli interessi del Collegio cardinalizio che così vide rafforzata la propria posizione. Il 13 dicembre, nel Castelnuovo, lesse davanti ai cardinali riuniti (solo alcuni francesi di recente nomina non erano ancora giunti in Curia, Napoleone Orsini e Pietro Peregrosso erano assenti) la dichiarazione di rinuncia (pregò soltanto che gli fosse permesso anche in seguito di usare le insegne pontificie durante la celebrazione della messa, ma Matteo Rosso Orsini glielo rifiutò) e successivamente la costituzione sull'abdicazione pontificia. Visto che dal punto di vista giuridico non c'era niente da eccepire, i cardinali dettero il loro consenso. C. V si spogliò dei paramenti pontifici ed indossò di nuovo la tonaca grigia della sua Congregazione: il papa era ridiventato, Pietro del Morrone. In un ultimo appellò sollecitò i cardinali a eleggere al più presto un nuovo papa, per il bene della Chiesa. Il suo pontificato era durato cinque mesi e nove giorni.

Dieci giorni dopo, come prescriveva la costituzione di Gregorio X, i cardinali si riunirono per eleggere il nuovo papa. Già il giorno successivo, il 24 dicembre, uscì dal conclave (non è bene chiaro come si sia svolto) Benedetto Caetani che assunse il nome di Bonifacio VIII. Pietro del Morrone aveva lasciato intendere che dopo le sue dimissioni avrebbe voluto tornare nel suo eremo al Morrone. Temendo però che egli potesse revocare la sua abdicazione, provocando uno scisma nella Chiesa, Bonifacio VIII, a dispregio degli accordi presi in precedenza, decise di non permetterglielo e di porlo sotto sorveglianza. Il 27 dicembre il nuovo papa dichiarò nulli la maggior parte dei privilegi, dispense, provvisioni, ecc., concessi da C. V e confermò questa misura con una bolla dopo la sua consacrazione ed incoronazione. Rimasero in vigore soltanto le nomine di cardinali e di vescovi (ma quanto a questi ultimi Bonifacio VIII intervenne più tardi in alcuni casi singoli).Poi predispose la partenza per Roma.

Per evitare l'impressione di condurre con sé un prigioniero, Bonifacio VIII fece partire Pietro alcuni giorni prima del Sacro Collegio, pare agli ultimi di dicembre, affidandolo alla sorveglianza del confratello Angelerio, nominato abate di Montecassino da Celestino V. Ma giunto ai piedi del monte di Cassino Pietro, con l'aiuto di un prete, sfuggì ai suoi accompagnatori per tornare a S. Onofrio presso Sulmona. Quando Bonifacio VIII venne a sapere della sua fuga incaricò di cercarlo Angelerio e il camerlengo pontificio Teodorico da Orvieto. Insistendo sugli accordi che gli consentivano di vivere da eremita dopo l'abdicazione, Pietro, trovato dagli emissari pontifici nella sua cella, promise di non allontanarsene e di mantenere contatti soltanto con i suoi confratelli più intimi. Gli emissari ripresero dunque il viaggio per Roma, ma per strada incontrarono una seconda delegazione inviata, con l'appoggio di re Carlo II, dal pontefice nel frattempo informato della dimora di Pietro, e che aveva l'ordine preciso di riportare l'eremita in Curia con il suo consenso o con la forza. Tutti quanti insieme si recarono dunque a Sulmona, dove però non ritrovarono più Pietro, fuggito per nascondersi in montagna. Angelerio, destituito come abate di Montecassino, fu duramente punito per la sua negligenza: rinchiuso nel carcere sull'isola Martana nel lago di Bolsena, vi sarebbe morto non molto tempo dopo. Nonostante le dure rappresaglie nei confronti dei compagni di Pietro, non si riuscì a trovare l'eremita, il quale, verso la metà di marzo, fuggì in Puglia, dove prese contatto con la sua abbazia di S. Giovanni in Piano. L'abbazia possedeva un casale a Rodi Garganico dove fu messa a disposizione di Pietro e dei compagni una piccola nave, con la quale egli intendeva fuggire in Grecia, come già prima di lui avevano fatto gli spirituali. Ma, ai primi di maggio, venti avversi fecero fallire la fuga: spinto a riva, Pietro fu catturato dal capitano di Vieste e consegnato alla fine del mese a un'ambasceria mandata appositamente da Carlo II d'Angiò, che lo portò a Benevento e a Capua fino al confine dello Stato della Chiesa. Durante questo viaggio Pietro avrebbe fatto miracoli e operato tra l'altro esorcismi.

Il 14 o 15 giugno giunse alla corte pontificia ad Anagni, dove in un primo momento fu tenuto prigioniero in un edificio accanto al palazzo del papa. Dopo essersi consultato con i cardinali, questi lo fece portare nella seconda metà di agosto a Castel Fumone ad est di Ferentino (prima della partenza Pietro avrebbe guarito dal mal di pietra l'arcivescovo Ruggiero di Cosenza, che in quel momento si trovava in Curia). A Castel Fumone il vecchio eremita visse agli arresti in una piccola cella nella torre, al riparo da indesiderati pellegrini. Indebolito dagli sforzi degli ultimi due anni, poté ancora celebrare la Pentecoste del 1296 (13 maggio). Il lunedì successivo si ammalò di un'infezione causata da un ascesso e morì la sera del 19 maggio, nell'ottantasettesimo anno di età.

La messa funebre fu celebrata a Roma da Bonificio VIII in persona; le esequie il 25 maggio dal confratello del defunto, il cardinale Tommaso di Ocre, nella chiesa di S. Antonio a Ferentino che apparteneva alla Congregazione del Morrone e dove era stata trasportata la salma. In questa piccola chiesa fuori le mura di Ferentino Pietro-Celestino trovò la sua prima sepoltura. All'inizio del 1327, in occasione di una guerra tra Ferentino e Anagni, le spoglie furono traslate nella chiesa di S. Agata dentro le mura e poi all'Aquila, dove furono sepolte definitivamente nella chiesa di S. Maria di Collemaggio fondata da Pietro. Qui nel 1517 l'arte della lana della città gli fece erigere un sontuoso sepolcro in stile rinascimentale lombardo-veneto, che corrisponde assai poco allo spirito del pio eremita votato alla povertà.

Ben presto la leggenda s'impadronì della sua figura. La sua abdicazione, avvenuta in forma canonicamente corretta, fu considerata illegittima già durante la sua vita; si accusò Bonifacio VIII di averlo spinto all'abdicazione con l'inganno e di aver istigato le guardie di Castel Fumone ad assassinarlo. Perciò la figura del papa eremita fu coinvolta sin dall'inizio nel violento conflitto tra Bonifacio VIII e i suoi avversari: i Colonna, Filippo il Bello di Francia, gli spirituali. Tra i cardinali intrigavano contro Bonifacio VIII soprattutto Hugues Aycelin e Simon de Beaulieu; quest'ultimo diffuse in Francia la voce che Bonifacio VIII, travestito da angelo, si sarebbe presentato a C. V per indurlo alle dimissioni. I monaci della Congregazione di C. V, nonostante la forte avversione nei confronti di Bonifacio VIII, non misero però in dubbio la legalità dell'abdicazione e quest'opinione fu condivisa anche da alcuni francescani spirituali convinti della validità degli argomenti giuridici. Ciò non impedì che si cominciasse ben presto a individuare in Pietro-Celestino, sulla scia delle speculazioni escatologiche di Gioacchino da Fiore, quel papa angelico, il quale, secondo le profezie diffusesi a partire dalla metà del sec. XIII, avrebbe inaugurato l'epoca dei monaci, purificato la Chiesa, riconquistato Gerusalemme e preparato il ritorno di Cristo. Nel suo commento all'Apocalisse (1295 circa) Pietro Giovanni Olivi aveva ancora attribuito a s. Francesco l'inaugurazione del terzo regno, nel quale, secondo Gioacchino da Fiore, si sarebbero verificati il rinnovamento della vita evangelica e la conversione finale degli ebrei e dei pagani alla fede di Cristo: una simile profezia è contenuta anche nell'Arbor crucifixi Iesu (del 1305) di Ubertino da Casale, deluso dal rapido crollo del pontificato di Celestino V.

Pare che le profezie relative al papa angelico (applicate a C. V per la prima volta dal domenicano Roberto da Uzès nel 1295-96 c.) siano uscite invece dalla comunità degli spirituali della Marca d'Ancona protetta da Celestino V. A tale ambiente si attribuiscono infatti certi vaticini, che costituiscono la traduzione dal greco di altri vaticini tramandati sotto il nome dell'imperatore Leone il Saggio. Il testo dev'essere stato rintracciato in Grecia dagli spirituali, che vi si erano rifugiati di nuovo dopo l'avvento di Bonifacio VIII, tradotto in latino in una versione piena di allusioni oscure e riferito, anziché all'imperatore, al papa. Le attese escatologiche del papa angelico si avvicinano dunque a quelle che hanno come soggetto l'imperatore dell'ultima età. La conseguenza fu una nutrita serie di scritti profetici sorti per la maggior parte, come il Liber de Flore, dopo il trasferimento della Curia ad Avignone, che sviluppavano l'idea del papa angelico incarnato in quattro persone successive, una tradizione rimasta viva fino al sec. XVI. Tale interpretazione fu propagata davanti a Carlo IV da Cola di Rienzo, che ne aveva avuto conoscenza attraverso i monaci di S. Spirito a Maiella, e poi da Nostradamus e dallo Pseudo-Malachia alla fine del sec. XVI.

Predicatori come il Savonarola la resero temporaneamente popolare a Firenze e a Roma. Voci critiche nei confronti di Pietro-Celestino come quella di Dante (Inf., III, 58 ss.) rimanevano l'eccezione. Al di là delle speculazioni escatologiche impressionarono i contemporanei e i posteri l'umiltà del vegliardo che spontaneamente aveva rinunciato alla più alta carica della Chiesa. Petrarca, che sosteneva il principio della "vita solitaria", giudicò la rinuncia non come un atto di viltà, ma come l'atto di uno spirito veramente celeste. L'abdicazione significò però anche la fine definitiva delle illusioni di tutti quelli che, come Dante, avevano sperato in un rinnovamento della Chiesa. Con Bonifacio VIII il Papato continuò, in modo ancora più evidente, sulla strada del potere gerarchico-politico e della grandezza terrena.

La canonizzazione dell'eremita del Morrone, il 5 maggio 1313, ad opera di Clemente V, preceduta dall'interrogazione di numerosi testimoni appartenenti all'ambiente in cui era vissuto, fu il riconoscimento della santità della sua vita, ma fu adombrata dalla lotta per la memoria di Bonifacio VIII. Fu riconosciuta ancora una volta la legittimità della sua abdicazione. Non fu tuttavia C. V, ma Pietro del Morrone a essere canonizzato.

Fonti e Bibl.: Le vite: 1) La cosidetta Autobiografia (erroneamente detta tale). Fu redatta probabilmente subito dopo la morte di Celestino V da un suo confratello che si basava sui racconti del papa; pubblicata in A. Frugoni, Celestiniana, Roma 1954, pp. 56 ss.; 2) l'Opus metricum dell'uomo di Curia e, dal 17 dic. 1295, cardinale Iacopo Caetani Stefaneschi, testimone oculare dell'elezione e del pontificato di Celestino V. Fu scritto, in tre parti, tra il 1294 e il 1314; è pubblicato in F. X. Seppelt, Monumenta Coelestiniana, Paderborn 1921, pp. 3 ss. e riedito con correzioni (anche peggiorative) da R. Morghen, Il cardinale Iacopo Gaetani Stefaneschi e l'edizione del suo Opus metricum, in Bull. dell'Ist. stor. italiano per il Medio Evo, XLVI (1931), pp. 1 ss.; 3) una Vita, di cui esistono tre redazioni, scritta da confratelli del papa. La redazione più antica, che è anche quella migliore (detta Vita C, secondo le sigle dei bollandisti), fu scritta probabilmente tra il 1303 e il 1306, si pensa da Bartolomeo da Trasacco e da Tommaso da Sulmona. Le redazioni A e B sono dei rimaneggiamenti posteriori. Edizioni: Vita C: Analecta Bollandiana, XVI (1897), pp. 393 ss.; vedi anche ibid., XVIII (1899), pp. 38 ss., XX (1901), pp. 351 s.; Vita A: ibid., IX(1890), pp. 147 ss.; Vita B: ibid., X(1891), pp. 385 ss.; 4) una Vita ampliata che trae elementi da tutte le vite sopraindicate. Si conserva nella Bibl. Apostolica Vaticana, Vat. lat. 8883 (sec. XIV), ff. 5r-44v (il "texte remanié" dei bollandisti). Sarà pubbl. da P. Herde, del quale v. Die Herkunft…, 1976, pp. 173 s.; 5) una Vita in dialetto lombardo del celestiniano Stefano Tiraboschi da Bergamo (prima metà del secolo XV) conservata a Venezia, Bibl. naz. Marciana, cod. It. c.l. V, 68 (= 5619) (sec. XV), ff. 35r-58v: si basa sul n. 4, e contiene particolari nuovi. Sarà pubbl. da P. Herde, del quale v. Die Herkunft...,1976, pp. 174 s.; Archivio Segreto Vaticano, Reg. Vat. 46A, ff. 1r-8r; Arch. Arcis Arm. C, nn. 157-167; Arch. Arcis I,18, nn. 3358 s.: Armadio XXXIX, 6, ff. 207v ss.; Abbazia di Montecassino, Archivio, S. Spirito di Sulmona; C.Telera, S. Petri Caelestini opuscola omnia…, Napoli 1640; J. Chr. Lünig, Codex Italiae diplomaticus, II,Frankfurt-Leipzig 1726, pp. 1043 ss.; Franciscus Pipinus, Chronicon, in L.A. Muratori, Rer. It. Script., IX,Mediolani 1726, coll. 735 s.; Tolomeo da Lucca, Historia eccles., ibid., XI, ibid. 1727, coll. 1199 ss.; O. Raynaldus, Annales eccles., IV,Lucca 1749, pp. 153 ss.; Chronicon Suessanum, a cura di A. A. Pellicia, in Raccolta di varie croniche...,I, Napoli 1780, pp. 59 ss.; Syllabus membranarum ad regiae Siclae archivum pertinentium, a cura di A. De Aprea, II, 1, Napoli 1832, passim; P. Villani, Cronica, a cura di F. G. Dragomanni, II, Firenze 1845, pp. 10 ss.; Bartholomaei de Cotton Historia Anglicana, in Rolls Series, XVI,a cura di H. R. Luard, London 1859, pp. 251 ss.; Acta Sanctorum Maii, IV, a cura di F. Baertius-C. Ianningus, Paris-Roma 1866, pp. 418 ss.; C. Minieri Riccio, Studi stor. su fascicoli angioini dell'Archivio della Regia Zecca di Napoli, Napoli 1863, pp. 45 s.; A. Potthast, Regesta Pontificum Roman., II, nn. 23946 ss.; C. Minieri Riccio, Saggio di Codice diplomatico, Suppl. I, Napoli 1882, passim; Regestrum Clementis papae V, a cura dell'Ordine di S. Benedetto, Roma 1884-92, n. 9668; Les registres de Boniface VIII, a cura di G. Digard, Paris 1884-1939, ad Indicem; F. Faraglia, Codice diplom. Sulmonese, Lanciano 1888, pp. 73, 115 s.; F. Carabellese, Una bolla ined. e sconosciuta di C. V, in Archivio storico italiano, s. 5, XVI (1895), pp. 161 ss.; G. Celidonio, L'archivio di S. Panfilo in Sulmona. Una bolla ined. diPP. 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