CONONE, papa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 28 (1983)

CONONE, papa

Paolo Bertolini

Non conosciamo la sua patria di origine: l'anonimo autore della biografia inserita nel Liber pontificalis della Chiesa romana equivoca quando lo dice "oriundus ex patre Thraceseo", perché l'appellativo Θρακησιος - "Thraceseus", appunto - non sta ad indicare una regione di provenienza, ma l'appartenenza ad un corpo dell'esercito imperiale, dislocato di norma nell'Asia Minore. C. era dunque figlio di un ufficiale al servizio di Bisanzio. Circa la sua nascita, non si può indicare una data sicura; ma, tenendo presenti le poche tappe della sua vita per le quali abbiamo precisi riferimenti cronologici, e ricordando che, quando fu eletto al soglio pontificio, era già avanti negli anni, si può ritenere con molta approssimazione che nacque nel terzo decennio del sec. VII.

Le prime notizie in nostro possesso relative a C. riguardano il periodo del suo soggiorno in Sicilia, dove la sua famiglia si era stabilita, forse in seguito al trasferimento, per motivi di servizio, del padre. Nell'isola C. fece i suoi studi, formandosi in un ambiente in cui erano vive le esigenze religiose, ma in cui si facevano sentire più forti l'influenza della civiltà bizantina e l'azione del potere e della burocrazia imperiali. Passato, per motivi a noi sconosciuti, a Roma, vi completò la sua formazione culturale e, abbracciata la vita religiosa, nel clero romano percorse tutti i gradi della carriera ecclesiastica, sino a giungere "ad presbyterii honorem". Per quanto sia certo che trascorse la maggior parte della sua vita a Roma, è altrettanto indiscutibile che dovette mantenere sempre stretti rapporti con la terra e con gli ambienti nei quali aveva passato la sua giovinezza. Lo provano, da un lato, gli avvenimenti connessi con la sua elezione al pontificato; e, dall'altro, uno dei più discussi provvedimenti da lui presi quand'era papa. Era già avanti negli anni allorché, scomparso Giovanni V (2 ag. 686), venne designato dal clero romano come candidato alla cattedra di S. Pietro: l'anonimo autore della sua biografia dice infatti di lui che era allora un vecchio dall'angelico aspetto, di veneranda canizie, schietto nel parlare, di animo semplice e di costumi riservati. Tutto dedito al suo ministero sacerdotale, non si era mai immischiato, a detta dello scrittore, "in causis actusque saeculares". La scelta di C., tuttavia, traeva origine dalla necessità di raggiungere un compromesso che ponesse fine ad una difficile vacanza della Sede apostolica, piuttosto che dal riconoscimento dei suoi meriti di sacerdote o dall'apprezzamento della santità della sua vita e della purezza dei suoi costumi.

Ristabilita, grazie all'opera dell'imperatore Costantino IV, la pace religiosa e ripresa la collaborazione fra Bisanzio e la Sede apostolica, erano risorte a Roma le rivalità tra gli antichi gruppi di potere e le nuove forze sociali e politiche insorgenti. La morte di Giovanni V aveva provocato una radicalizzazione di queste tensioni, dividendo fra loro, per interessi particolari di casta, le componenti cittadine coinvolte nell'elezione del nuovo pontefice: il clero, il ceto militare (exercitus) e quello degli alti funzionari dell'amministrazione laica (iudices). Ne era derivato un conflitto, nel quale si erano inserite le autorità imperiali, protese a rompere quel vincolo di solidarietà in funzione antibizantina che si era creato fra le diverse classi sociali della cittadinanza romana nel corso della controversia monotelitica. Al candidato del clero, l'archipresbitero Pietro, sacerdote di una certa ed ed assai vicino ai circoli più legati alle tradizioni e agli interessi della Chiesa di Roma, il ceto militare ne aveva contrapposto uno proprio, il presbitero Teodoro, più giovane e meno avanti nella carriera ecclesiastica, ma persona conosciuta e bene accetta a Bisanzio, se in lui si deve identificare l'omonimo presbitero che, come legato apostolico, aveva preso parte ai lavori del VI concilio ecumenico. Sapendo - come è molto probabile - di poter contare sull'appoggio bizantino, le autorità militari cittadine si erano subito mostrate chiaramente decise ad imporre al resto del corpo elettorale la loro volontà. Avevano infatti disposto che l'exercitus romano si concentrasse sul Celio, dove venne occupata la basilica di S. Stefano Rotondo, ed avevano inviato reparti armati a presidiare S. Giovanni in Laterano. I soldati avevano impedito al clero, che si era adunato nella piazza antistante la basilica, di entrare nella cattedrale e di procedere all'elezione del suo candidato. Ne era derivata una situazione di stallo, che si era protratta, tesa, per qualche tempo, fra convulse trattative, aspre polemiche e tentativi di mediazione. Finalmente, preso atto dell'impossibilità di vincere la tenace opposizione del ceto militare e di superare il veto occulto delle autorità bizantine, nel corso di una tempestosa assemblea tenutasi nel palazzo del Laterano, "sacerdotes et clerus unanimiter" avevano deciso di abbandonare la candidatura di Pietro per concentrare i loro suffragi sulla persona del presbitero Conone.

I precedenti della carriera di C., svoltasi tutta nell'ambito della Chiesa romana, lo rendevano accetto all'alto clero dell'Urbe e alla burocrazia pontificia - e cioè a quei circoli ecclesiastici che condividevano i sentimenti nazionalistici dell'aristocrazia laica delle alte cariche civili. L'essere egli figlio di un ufficiale dell'esercito imperiale e l'essere vissuto da giovane in Sicilia gli assicuravano il favore dell'elemento militare e delle stesse autorità bizantine: queste ultime potevano sperare di avere in lui un interlocutore più malleabile e meno tenace nella difesa degli interessi spirituali e materiali di Roma e della sua Chiesa. Gli alti funzionari laici e le maggiori cariche dell'esercito romano accolsero infatti di buon grado la designazione di C., forse anche nella speranza che un pontificato di transizione avrebbe consentito un rafforzamento delle loro posizioni. Sicché, accantonata per il momento la candidatura di Teodoro, "omnes iudices una cum primatibus exercitus" si affrettarono a presentarsi e a rendere omaggio all'anziano presbitero scelto dal clero: con tale gesto piegarono le perplessità del resto del ceto militare e resero possibile l'elezione di C. alla cattedra di S. Pietro. La notizia venne immediatamente comunicata all'esarca Teodoro per la necessaria ratifica, giusta la nuova prassi introdotta da Costantino IV all'epoca del pontificato di Benedetto II.

Nel dispaccio inviato a Ravenna i "presbiteri, diaconi et familiares universus clerus", gli "axiomatici seu exercitus et populus huius Romae urbis" sottolineavano l'unanimità dei consensi riscossi dall'eletto; ricordavano quindi come "plura sint capitula et alia ex aliis cottidie procreentur, quae cure et sollicitudini pontificalis favoris expectent remedium"; facevano infine presenti le "provinciales vero cure vel queque sunt subinde causarum utilitates", per la soluzione delle quali urgevano il parere e la decisione di una "perfecte auctoritatis". Supplicavano pertanto l'esarca perché "celerius, Deo cooperante vestrisque precordiis inspirante" desse il tanto atteso ordine di "Apostolicam sedem de perfecta eiusdem nostri patris ordinatione adornare". Con altri messaggi, l'elezione di C. venne contemporaneamente notificata anche all'arcivescovo e agli "iudices" di Ravenna, nonché all'apocrisiario pontificio ivi accreditato.

La ratifica venne concessa con la richiesta tempestività e C. venne consacrato solennemente il 23 ott. 686. Si risolse in tale modo, sul finire dell'anno, senza più gravi conseguenze, con un compromesso, il primo scontro fra i gruppi di potere, che si contendevano il predominio sulla città. Roma aveva il suo vescovo e il mondo cattolico il suo pastore; ma il compito che attendeva il nuovo papa era senza dubbio difficile.

La situazione interna non si era infatti chiarificata e, d'altro canto, i rapporti con Bisanzio sembravano doversi avviare verso una nuova crisi dopo che Giustiniano II, una volta rimasto unico imperatore (circa metà del 685), si era affrettato a insediare nuovamente sulla cattedra di Costantinopoli, nel febbraio del 686, Teodoro, il patriarca favorevole alle dottrine monotelitiche, che Costantino IV aveva a suo tempo deposto nell'intento di facilitare la sua riconciliazione con la Sede apostolica.

Subito dopo la sua consacrazione episcopale, C. ricevette una "divalis iussio" di Giustiniano II, datata 17 febbr. 687 e indirizzata al suo immediato predecessore, Giovanni V. In essa il giovane sovrano annunciava al papa che un'assemblea di dignitari ecclesiastici e laici da lui convocata nel palazzo imperiale gli aveva solennemente consegnato la copia ufficiale degli atti del VI concilio ecumenico, dopo averne dato pubblica lettura e dopo averli sigillati per impedime ogni falsificazione, e gli aveva affidato il compito di custodirli e di fame scrupolosamente osservare l'applicazione.

Se lo scopo della missiva imperiale era stato con ogni evidenza quello di dissipare le preoccupazioni della Sede apostolica nei confronti dei propositi di Giustmiano II, il tono generale del messaggio non lasciava tuttavia dubbi sui progetti del sovrano e sulla visione, che egli aveva, circa i ruoli spettanti all'imperatore. Nella lettera veniva infatti ribadito il concetto - già presente nella pubblicistica bizantina vicina agli ambienti di corte all'epoca del VI concilio ecumenico - della missione religiosa di custode dell'ortodossia dottrinale dalla provvidenza divina affidata non già ai successori di s. Pietro, ma al mégasbasiléus di Costantinopoli.

Poco dopo Giustiniano II con sue "divales iussiones" disponeva considerevoli alleviamenti fiscali per i patrimoni della Chiesa romana nella Lucania e nei Bruttii: diminuzione delle unità d'imposta (annonocapita) e dei quantitativi di grano da versare alle autorità a prezzi imposti (coemptiones). Dette inoltre ordine che venissero liberati e riconsegnati ai coloni del patrimonium b. Petri in Sicilia i servi, che gli agenti del fisco imperiale avevano posto sotto sequestro a garanzia del pagamento degli arretrati dovuti. Dato il silenzio delle fonti, che non forniscono ulteriori particolari in proposito, non possiamo sapere se Giustiniano II abbia preso queste misure per dimostrare la sua buona volontà nei confronti del nuovo pontefice e per dissipare i timori degli ambienti del patriarchio lateranense; o se in esse non si debba vedere, invece, il felice risultato di una precisa azione condotta da C., come farebbero piuttosto pensare e l'evidente compiacimento con cui il suo anonimo biografo registra la notizia, ed il precedente degli alleviamenti fiscali concessi nel 681 da Costantino IV ai patrimoni della Chiesa romana in Calabria e in Sicilia in seguito alle vibrate proteste ed alle insistenze del papa Agatone.

Non buoni furono i rapporti fra C. ed il clero romano, parte del quale doveva essersi acconciato con una certa riluttanza alla sua candidatura, prima, alla sua ascesa, poi, al soglio pontificio. Lo provano, da un lato, i maneggi in vista di una prossima vacanza della Sede apostolica avviati dalle diverse componenti interessate all'elezione papale già subito dopo l'avvento di C.; e, dall'altro, le violente reazioni che seguirono la nomina di un suddiacono della Chiesa di Siracusa, Teodoro, a rettore del patrimonio della Chiesa romana in Sicilia. I risentimenti aumentarono quando il papa volle concedere a Teodoro l'uso dei mappolum per la cavalcatura, particolare privilegio dei clero dell'Urbe. Questi provvedimenti rappresentavano senza dubbio, come fa osservare il biografa, una grave deroga alla prassi sin'allora seguita e secondo la quale i rettori dei diversi patrimonia b. Petri dovevano essere scelti fra i diaconi o i suddiaconi della Chiesa di Roma. Essi costituivano però soprattutto una violazione di antiche e gelose consuetudini, ed un atto lesivo di interessi anche materiali del clero romano, che teneva molto a quelle cariche in quanto prestigiose e lucrative. L'operato di C. fu giudicato severamente negli ambienti del patriarchio lateranense di tali risentimenti si fece interprete il biografo, il quale riferisce che il pontefice fu indotto ad agire "ex immissione malorum hominum, in antipathia ecclesiasticorum".

Si tratta di affermazione senza dubbio dettata dal rancore di chi è stato colpito nelle proprie aspettative e nei propri interessi. La nomina di Costantino, infatti, trova una sua più ragionevole spiegazione, da un lato, nei rapporti, che dovevano tuttavia legare C. alla terra ed agli ambienti nei quali aveva trascorso la sua giovinezza; e, dall'altro, nel desiderio di dimostrare la sua apertura e la sua disponibilità nei conftonti dei mondo greco-orientale. La stessa nomina di Costantino, del resto, finì col dimostrarsi non solo un grave errore psicologico nei confronti del clero romano, ma anche un infelice provvedimento amministrativo. Il nuovo rettore, "homo perperus et tergiversutus" secondo il biografo, si mise infatti ben presto in urto con i suoi dipendenti: ne seguirono violenze e disordini, che da ultimo provocarono "non post multum temporis transitua pontificis" l'intervento delle autorità bizantine. Costantino fu arrestato ed inviato nella capitale, per essere deferito al tribunale dell'imperatore.

Anziano e di salute malferma, C. poté a fatica reggere, per poco meno di un anno, in mezzo a tante contraddizioni e contrarietà. Oppresso dalle fatiche e dal peso del supremo ministero apostolico, minato dal male - "diutina infirmitate detentus, ut etiani vix ordinationes sacerdoturn explere potuisset", annota il biografo -, morì a Roma sul finire della seconda decade di settembre del 687. Il suo corpo venne inumato nella basilica di S. Pietro il 21 di quello stesso mese.

Seguendo la tradizione iniziata da Benedetto II, legò un generoso lascito - 2.160 solidi, pari a 30 libbre d'oro - perché venisse distribuito tra gli appartenenti al clero romano, i "monasteria diaconiae" (gli enti religiosi costituitisi a Roma sul modello di consimili istituzioni sorte nell'Oriente bizantino col compito specifico di provvedere ad attività caritative ed assistenziali), ed i "mansionarii", il personale laico addetto ai servizi di custodia e di manutenzione degli edifici sacri.

La scomparsa di C. segnò l'inizio di un difficile periodo nella storia della Chiesa romana: il dissidio fra le diverse forze interessate alle elezioni papali, del resto mai sopito nel corso dell'ultimo brevissimo pontificato, esplose assai più duro e violento di quanto non fosse stato l'anno precedente, anche perché le autorità imperiali vi intervennero in prima persona, chiamate direttamente in causa da uno degli aspiranti alla successione, l'archidiacono Pasquale. Questi, non appena si erano aggravate le condizioni di C., si era rivolto al nuovo esarca d'Italia, Giovanni Platyn, per chiedergli il suo appoggio "promittens dationes, ut persona eius ad pontificatum eligeretur": quando il vecchio papa era morto, già operavano a Roma gli emissari del governo imperiale, gli "iudices" inviati dall'esarca per appoggiare in ogni modo la candidatura dell'archidiacono.

Il testo originario, al quale risalgono le formule LIX, "Nuntius ad exarchum de transitu", e LX, "De electione pontificis ad exarchum", raccolte nel cosiddetto Liberdiurnus Romanorum pontificum e da utilizzarsi per la comunicazione ufficiale della morte di un papa, per il decretumpontificis relativo all'elezione dei successore e per la preghiera all'esarca di emanare l'ordinanza con la quale si autorizzava la consacrazione dell'eletto, contrariamente a quanto ha cercato di dimostrare il von Sickel - che le riferisce al 625 e, quindi, ai tempi di Onorio I -, è stato invece redatto, allo stesso modo di quelli delle successive formule LX-LXIII, in occasione della morte di Giovanni V e della elezione di C.: ce lo accerta la perfetta corrispondenza esistente tra le circostanze riferite dalla biografia di C. contenuta nel Liber pontificalis della Chiesa romana ed i particolari citati nel testo stesso di quelle formole.

Fonti e Bibl.: Liber diurnus Romanorum pontificum, a cura di Th. von Sickel, Vindobonae 1879, nn. LIX-LXIII, pp. 49-59; Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, pp. 368 s., 372 (e cfr. anche p. CCLXII); Ph. Jaffé-P. Ewald, Regesta pontificum Romanorum, I, Lipsiae 1885, p. 243; P. F. Kehr, Italia pontificia..., V, Aemilia sive provincia Ravennae, Berolini 1961, pp. 7 s., 34, 77; Th. von Sickel, Prolegomena zum Liber Diurnus II., in Sitzungsberichte der philosophisch-historischen Klasse der K. K. Akademie der Wissenschaften in Wien, CXVII (1889), pp. 49 ss.; O. Bertolini. Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna s.d. [ma 1941], pp. 396-400, 719; Id., Per la storia delle diaconie romano nell'Alto Medioevo sino alla fine dei sec. VIII, in Arch. della Società romana di storia Patria, LXX (1947), pp. 18, 58, 85, 89, 107; Id., Appunti per la storia del Senato di Roma durante il periodo bizantino, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, XX (1951), 1-2, p. 40; P. Goggi, in Enc. Catt., IV, col. 362, sub voce. La "divalis iussio" del 17 febbr. 617 è pubblicata in I. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio..., XI, Florentiae 1765, coll. 737 s.

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