GIULIO II, papa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GIULIO II, papa

Alessandro Pastore

Giuliano Della Rovere nacque ad Albisola, presso Savona, il 5 dic. 1443 dalla modesta famiglia di Raffaello e di Teodora di Giovanni Manirola. A essi il Della Rovere avrebbe dedicato, il 30 apr. 1477, un monumento funebre nella chiesa dei Ss. Apostoli in Roma, commissionato probabilmente allo scultore comasco Andrea Bregno.

Dopo un'infanzia trascorsa nel luogo natale, entrò nell'Ordine francescano sotto la protezione dello zio Francesco Della Rovere, che lo inviò a Perugia perché conducesse studi di diritto nell'università in cui egli aveva insegnato. Dopo l'elezione pontificia dello zio con il nome di Sisto IV (9 ag. 1471) compì una rapida carriera ecclesiastica: il 16 ottobre fu nominato arcivescovo di Carpentras e legato d'Avignone e il 15 dicembre, nonostante le opposizioni in concistoro, cardinale di S. Pietro in Vincoli (successivamente dei Ss. Apostoli, di Sabina e di Ostia). A queste cariche se ne aggiunsero rapidamente numerose altre, tra cui quelle di vescovo di Losanna, vescovo poi arcivescovo di Avignone e di altre diocesi francesi. Dal 1483 al 1502 fu vescovo di Bologna e dal 1502 al 1503 di Vercelli; fu inoltre protettore dell'Ordine francescano dal 1474. Ottenne il godimento di copiosi benefici abbaziali soprattutto in area francese, tanto da raggiungere alla fine del secolo, tra benefici e pensioni, un reddito complessivo di almeno 20.000 ducati. I suoi poteri di legato di Avignone furono accresciuti al di là del consueto dal papa, che gli concesse il diritto di esercitare giustizia sui mercanti e banchieri italiani (anche in funzione di una generale politica di controllo della nazione fiorentina in senso antimediceo) e di controllare la locale università, di cui il Della Rovere si occupò attivamente, attirandovi docenti di fama e fondando un collegio per studenti poveri.

Nominato legato della Marca d'Ancona nel 1473, nel giugno 1474 fu posto dal papa a capo di una spedizione militare per ricondurre le ribelli Todi e Spoleto all'obbedienza dello Stato della Chiesa e cinse d'assedio Città di Castello che aveva appoggiato la sollevazione, riuscendo a ottenerne la resa. Dal 1476 divenne legato anche per il Regno di Francia.

Il cumulo di questi poteri - motivato con la volontà di organizzare una spedizione contro i Turchi - va inoltre spiegato con l'intento di Sisto IV di utilizzare il nipote come testa di ponte contro Luigi XI nell'alleanza che il papa stava intessendo con Carlo di Borgogna (il Temerario). Il Della Rovere partì perciò da Roma il 19 febbr. 1476, ed entrò in Avignone il 17 marzo; nel frattempo Carlo il Temerario era stato clamorosamente sconfitto dagli Svizzeri, alleati del re di Francia, nella battaglia di Grandson.

Il prudente comportamento del Della Rovere gli consentì di guadagnare l'appoggio del re di Francia nell'esercizio delle sue funzioni di legato: poté quindi conseguire numerosissimi benefici in terra francese, tra cui, dal 15 luglio 1476, il vescovato di Coutances. Dopo avere rafforzato l'autorità pontificia sul Contado Venassino, nel settembre il Della Rovere lasciò Avignone e rientrò in Italia.

Il 28 apr. 1480 fu nominato legato a latere per la Francia, i Paesi Bassi e i Regni di Inghilterra e Scozia con l'incarico di convincere Luigi XI a stipulare la pace con Massimiliano d'Austria, in vista - ancora - della realizzazione di una crociata per la quale fu anche proclamata un'indulgenza, di cui il Della Rovere fu collettore generale per la Francia e il Delfinato. Di ritorno da questa missione, il 27 maggio 1481 entrò in Avignone, dove si fermò sino alla metà di novembre, prima di rientrare a Roma il 3 febbr. 1482. Gli anni successivi furono impiegati dal Della Rovere per crearsi un vero e proprio dominio personale attorno al monastero di Grottaferrata, nei colli Albani, che egli deteneva a titolo commendatizio e che fece fortificare da Giuliano da Sangallo. Allo stesso architetto commissionò una roccaforte a Ostia, presso la foce del Tevere, ultimata nel 1486, con lo scopo di garantire la sicurezza di Roma dagli attacchi turchi e di tenere sotto controllo il rifornimento alimentare della città.

Il controllo di quella via era un fatto di grande rilievo negli anni della guerra di Ferrara e del conflitto contro Firenze seguito alla congiura dei Pazzi. Poco dopo la pace di Bagnolo, la morte di Sisto IV, avvenuta il 12 ag. 1484, impresse una svolta nella vita e nell'attività del Della Rovere, che mostrò di rendersi ben conto della difficoltà in cui lo poneva la scomparsa dello zio e diede prova del suo temperamento provvedendo immediatamente a fortificare la propria abitazione e a riempirla di armati.

Nel conclave che portò all'elezione di Innocenzo VIII, il Della Rovere ebbe una parte fondamentale, cedendo al futuro eletto, Giovanni Battista Cibo, di cui già aveva favorito a suo tempo la nomina cardinalizia, i voti dei quali avrebbe disposto per sé. All'inizio del pontificato il suo ruolo fu perciò della massima rilevanza - si diceva di lui "è il papa e più che papa" - e si accrebbe con la nomina del fratello Giovanni, già prefetto di Roma, alla carica di capitano generale della Chiesa. La guerra scoppiata nel 1485 con il Regno di Napoli a seguito della forzata cessione delle enclaves pontificie di Benevento, Terracina e Pontecorvo, e della acquisizione dell'Aquila allo Stato della Chiesa, accrebbe ulteriormente tale ruolo diplomatico e militare. Nel marzo 1486 il Della Rovere partì per Genova, dove intendeva trattare l'aiuto di Renato II di Lorena, pretendente al trono di Napoli, nella guerra in corso; tuttavia l'accordo non poté essere reso operante a causa dell'intesa raggiunta l'11 ag. 1486 tra le due parti in conflitto.

Il Della Rovere si impegnò allora per risolvere la situazione di Osimo, stringendo invano d'assedio la città, conquistata nell'aprile 1486 dal capitano di ventura Boccolino Guzzoni, il quale aveva intavolato trattative con il sultano offrendogli i territori che aveva posto sotto il suo controllo.

Forse anche a seguito di questo insuccesso, nell'agosto 1487 il Della Rovere si ritirò nella sua sede episcopale di Bologna, da cui tornò a Roma solo nel maggio 1492 per accompagnare il trasferimento da Narni della reliquia della sacra lancia, e rispetto alla politica romana mantenne un ruolo defilato sino alla morte di Innocenzo VIII, avvenuta il 25 luglio 1492.

Dal conclave il Della Rovere, che pure aveva l'appoggio della Francia e del re Ferdinando di Napoli, la cui politica egli aveva sostenuto negli anni precedenti tanto da essere considerato uno "sviserato ferdinandesco", uscì tuttavia sconfitto in seguito all'elezione di Rodrigo Borgia (Alessandro VI), avvenuta, si disse, con una compravendita di voti alla quale il Della Rovere aveva rifiutato di prendere parte.

Agli inizi del 1494 giunse per il Della Rovere il momento di mettere a frutto i suoi precedenti e intensi rapporti con la Francia, appoggiando e favorendo la spedizione d'Italia di Carlo VIII. Dopo l'elezione di Alessandro VI, il Della Rovere si era rifugiato nella fortezza di Ostia, da cui usciva solo accompagnato da una protezione armata e da cui, affidate le sue terre ai Colonna, il 24 apr. 1494 si imbarcò per Savona, da dove passò a Nizza e poi ad Avignone; incontrò a Lione il sovrano francese e gli inviati di Milano e Venezia che stavano trattando le modalità dell'intervento di Carlo VIII nella penisola. Agli inizi di settembre, quando il re francese varcò la frontiera verso l'Italia, il Della Rovere era al suo fianco e lo accompagnò sino a Roma, dove essi entrarono il 31 dicembre. La speranza del Della Rovere era che il sovrano convocasse un concilio per deporre il pontefice, ma ciò non accadde; il re fece anzi atto di obbedienza verso Alessandro VI, e il Della Rovere si dovette accontentare della restituzione della rocca di Ostia, che nel maggio i Colonna avevano abbandonato lasciandola al papa.

Il 22 febbr. 1495 il Della Rovere seguì a Napoli Carlo VIII, che lo ricompensò con l'assegnazione dell'abbazia di Montecassino. Nel corso della ritirata francese dall'Italia, con l'aiuto di alcuni fuorusciti il Della Rovere fece un tentativo, fallito, di sottrarre Genova al dominio milanese e accompagnò il re in Francia. Il 21 ott. 1495 era ad Avignone, dove si fermò tutto l'inverno occupandosi del governo della Legazione e successivamente organizzando un ulteriore tentativo di conquistare Genova per il re di Francia; l'assedio della città non ebbe successo, e inoltre nel marzo 1497 il Della Rovere seppe che Consalvo di Cordova, al servizio di Alessandro VI, aveva conquistato la fortezza di Ostia e quindi tutti i suoi possedimenti nella Campagna romana.

Il 28 ott. 1498, in un periodo di momentanea rappacificazione con la famiglia Borgia che comportò la restituzione dei benefici perduti, il Della Rovere accolse solennemente in Avignone Cesare Borgia sulla via della Francia, dove questi intendeva prendere possesso del ducato di Valentinois concessogli da Luigi XII, da poco succeduto a Carlo VIII. Nel corso dell'inverno addirittura il Della Rovere si impegnò nelle trattative per il matrimonio tra il Borgia e Carlotta d'Albret e nella stipulazione dell'accordo tra Venezia e Luigi XII per la spedizione contro il Ducato di Milano.

Dopo un attacco della sifilide che da tempo lo tormentava, il Della Rovere si fermò ad Avignone sino alla metà di luglio 1499, quando si recò a Lione per incontrare il re. Si spostò quindi a Savona - il 20 settembre divenne amministratore di quella diocesi -, e poi a Torino, dove si pose al seguito del re di Francia, con il quale fece il suo ingresso a Milano, conquistata dai Francesi il 6 ottobre.

Agli inizi del 1500 il Della Rovere era a Roma per assistere alle cerimonie d'inaugurazione dell'anno santo. Nei mesi successivi ricevette dal papa la concessione dell'abbazia di Chiaravalle, presso Milano, in cambio del suo appoggio alla politica del Valentino, che si stava costituendo uno Stato nell'Italia centrale. La posizione del Della Rovere divenne però improvvisamente difficile con la conquista, da parte di Cesare Borgia, del Ducato di Urbino, sino allora tenuto da Guidobaldo di Montefeltro, con il Della Rovere strettamente imparentato; altro motivo d'urto con i Borgia fu l'opposizione del Della Rovere al trasferimento dotale dei castelli di Cento e di Pieve di Cento per le nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso d'Este. Perciò prudentemente "se ne fugitte a Savona in quel di Genova" come scrisse un cronista cesenate (Fantaguzzi, p. 137), dove restò esule sino alla morte di Alessandro VI e alla contemporanea malattia del Valentino. Il 3 sett. 1503 il Della Rovere tornò a Roma - da cui il Borgia, che si era vantato di poterne impedire il ritorno, si era appena allontanato - per il conclave dal quale, il 22 settembre, uscì papa Pio III Piccolomini (nella prima votazione il Della Rovere aveva ricevuto il maggior numero di voti). Il 1° nov. 1503, poche settimane dopo la morte di Pio III, il Della Rovere fu finalmente eletto papa con l'appoggio dei cardinali spagnoli fedeli ai Borgia, grazie a una capitolazione elettorale in cui, tra l'altro, prometteva di mantenere il Valentino nei suoi possedimenti: "l'uno ha bisogno d'essere risucitato, e quegli di essere arricchiti" (Machiavelli, Legazioni…, p. 590). In effetti nei primi giorni del suo regno G. inviò brevi alle città del Borgia confermandolo nei suoi possessi. Incoronato il 26 novembre, il giorno 29 creò cardinale, con altri tre personaggi, il nipote Galeotto Franciotti Della Rovere (altre creazioni cardinalizie avvennero nel 1505, 1507, 1508, 1511 e 1512).

I buoni rapporti con Cesare Borgia durarono assai poco: il 2 dic. 1503 Cesena e le altre città conquistate dal Valentino rientrarono in possesso del papa; negli stessi giorni il Borgia fu catturato e rinchiuso in Castel Sant'Angelo, e l'uomo di fiducia del Valentino, don Micheletto, fu imprigionato nei pressi di Cortona, poi condotto a Roma e consegnato, il 9 genn. 1504, a G. (da cui fu liberato nel marzo 1505). Il 16 febbraio il Borgia fu trasferito nella fortezza di Ostia e alla fine del mese il papa inviò i suoi armati a Cesena perché si impadronissero della rocca di Forlì (che gli fu consegnata solo il 10 agosto).

Il 23 apr. 1505 concesse l'investitura della città di Pesaro a Giovanni Sforza, con cui stipulerà una condotta d'armi il 4 apr. 1509. Altre investiture feudali furono quella di Camerino, concessa a Giovanni Maria da Varano, e di Urbino a Guidobaldo di Montefeltro. Nello stesso tempo anche i Caetani, gli Orsini e i Colonna furono reintegrati nel possesso dei territori loro sottratti dai Borgia. Nel maggio il duca Valentino fu scomunicato, e il 20 agosto Consalvo di Cordova lo fece condurre in Spagna, dove morì in combattimento nel 1507.

L'obiettivo di G. era ora il recupero delle terre delle Romagne conquistate dai Veneziani, tra cui Faenza e Rimini, occupate nei giorni della sua incoronazione. Peraltro, nonostante le proteste avanzate dal pontefice tramite l'ambasciatore veneziano a Roma, Antonio Giustinian, nei mesi successivi la presenza veneziana in Romagna andò rafforzandosi. A partire dalla primavera del 1504 G. iniziò allora i contatti con Luigi XII di Francia e con l'imperatore Massimiliano per contrastare tale situazione: la pace di Blois, stipulata il 22 sett. 1504, era esplicitamente diretta contro Venezia. Ne seguì, nel marzo 1505, la restituzione alla Chiesa di alcuni territori delle Romagne, escluse Rimini e Faenza.

La politica di G. era funzionale al suo disegno di consolidamento dello Stato della Chiesa; a tal fine egli emanò una serie di provvedimenti amministrativi e finanziari, tra i quali la creazione di una nuova moneta (il giulio) e sostenne l'ampliamento della vendita degli uffici ecclesiastici; era inoltre utilizzata la pratica delle indulgenze per raccogliere i fondi necessari alle sue innumerevoli imprese militari: G. era consapevole che l'attività bellica implicava "la facoltà e il nerbo di sostenerla" (Guicciardini, Storia d'Italia, VII, 1). In tal senso fu importante il sostegno del banchiere Agostino Chigi, che pure era stato legato ai Borgia. Nonostante ciò al Chigi furono rinnovati i privilegi ottenuti sotto Alessandro VI, in particolare l'appalto per le miniere di Tolfa, e nel 1506 gli fu concessa la carica di tesoriere della Camera apostolica.

Altro elemento fondamentale della strategia di G. fu la scelta di sposare alcuni giovani della sua famiglia (tra cui la figlia naturale Felice) con membri delle sino allora ostili famiglie romane degli Orsini e dei Colonna, i cui interessi venivano in tal modo legati al Papato. Rilevanti furono inoltre alcune misure tese a ridurre il potere della feudalità romana, come la bolla del 1508, che consentiva ai coloni l'uso parziale di terre lasciate incolte da proprietari sia laici sia ecclesiastici; nello stesso senso andava l'accoglimento delle istanze provenienti dal ceto municipale romano a scapito dei baroni, anche se non sempre attribuzioni e competenze della magistrature cittadine erano in realtà rispettate.

Agli inizi del 1506 il pontefice provvide a rafforzare le capacità militari dello Stato della Chiesa allo scopo di recuperare Perugia e Bologna, venute rispettivamente in signoria dei Baglioni e dei Bentivoglio: "mostrò ad tutto el mondo el buono animo suo di volere ridurre le terre all'ubbidienza della Chiesa e purgarle da' tiranni" (Machiavelli, Legazioni…, p. 996). Fin dal gennaio 1506 fu creata una guardia di palazzo con milizie svizzere, alle quali si aggiunsero altre truppe della stessa origine a seconda della necessità.

Il 26 ag. 1506 G. si allontanava da Roma accompagnato da nove cardinali e oltre duemila uomini armati, tra cui cinquecento cavalieri; passando da Civita Castellana, Viterbo, Montefiascone, Orvieto e Castiglion del Lago, il 13 settembre entrò a Perugia, accolto solennemente da Giampaolo Baglioni e con il solo appoggio della scorta, formata da circa centocinquanta soldati svizzeri (per cui Machiavelli contrappose "la temerità del papa" alla "viltà" del Baglioni, che in quell'occasione non aveva osato impadronirsi della persona del pontefice). Memore dei suoi studi universitari perugini, G. aumentò la dotazione annua dello Studio locale di 200 fiorini d'oro, da prelevarsi dalle casse della Tesoreria provinciale perugina.

La sosta fu di breve durata, in quanto già il 16 settembre a G. era stato assicurato l'appoggio del re di Francia all'impresa di Bologna, mentre veniva garantita la neutralità della Repubblica di Venezia: il 22 sett. 1506 poté perciò entrare a Gubbio e il 24 a Urbino.

Il 1° ott. 1506 G. era nel convento di S. Croce fuori Cesena e il giorno successivo - accompagnato da ventidue cardinali e accolto solennemente dalla gioventù cesenate che portava le sue insegne -, fece l'ingresso trionfale in città sulla sedia gestatoria, passando sotto archi trionfali per i quali la Comunità aveva speso 200 ducati, mentre "5 chinee over cavalli bianchi coperti tutti de brochato d'oro fino in tera andavano innante a luj" (Fantaguzzi, p. 249). Il 3 ottobre ricevette gli oratori bolognesi, che gli rammentarono i capitoli firmati da Niccolò V con la città nel 1447 e confermati dai successivi papi; Machiavelli assistette all'incontro e raccontò che gli oratori fecero presente "el politico vivere di quella città". G. ribatté che "se quello modo di vivere che la tiene li piacessi lo confermerebbe; se non gli piacessi, lo muterebbe" anche con la forza delle armi (Machiavelli, Legazioni..., pp. 1007 s.). L'8 ottobre G. entrò a Forlimpopoli, il 9 a Forlì, Castelbolognese, Castel San Pietro, sempre accompagnato dalle sue schiere in armi e dalla corte pontificia. A Forlì ricevette Giacomo Gambaro, segretario di Giovanni Bentivoglio, che scacciò dalla sua presenza "tamquam zizaniarum dispositorem et malignum", come racconta il maestro delle cerimonie Paride Grassi (cit. in Frati).

I funzionari della Curia si erano intanto stabiliti nel municipio di Cesena "e lì improntavano el loro uficio a la romana consuetudine" (Fantaguzzi, p. 250). Inoltre i commissari apostolici definivano le paci tra le parti cesenati, nel tentativo di risolvere uno dei principali e perenni problemi della Legazione romagnola, quello delle faide locali, che avevano sino allora prodotto "morte, ruberie, arsioni di case" (Machiavelli, Legazioni..., p. 1011).

L'11 ottobre il papa lanciò la scomunica contro Giovanni Bentivoglio e l'interdetto contro Bologna; intanto le truppe francesi si avvicinavano a Modena mentre quelle del papa conquistavano Castel San Pietro e Castelguelfo e depredavano il contado bolognese. Il 19 ottobre il papa entrò a Imola e il 2 novembre Giovanni Bentivoglio fuggì da Bologna. L'11 novembre G. fece il suo ingresso trionfale in città, "e buttava per terra con le sue mane dopioni e ducati d'oro con la sua arma stampati" (Fantaguzzi, p. 253), per un valore totale, dice Paride Grassi, di 4000 ducati. Secondo il giudizio del Guicciardini il papa, pur lasciando alla città "segni ed immagine di libertà […], la sottomesse del tutto al dominio della Chiesa" (Storia d'Italia, VII, 1). Il Consiglio dei sedici fu abolito e sostituito da un Senato di quaranta cittadini appartenenti a famiglie patrizie, cui fu garantita una certa autonomia rispetto al legato. La corte pontificia con i cardinali e gli scrittori apostolici si stabilì in Bologna e vi trascorse l'inverno, nell'intento, come già a Cesena, di radicarvi le consuetudini dell'amministrazione pontificia. Il papa iniziò a far murare una rocca per fortificare la città (sarà distrutta dalla popolazione nel maggio 1511, durante il momentaneo ritorno dei Bentivoglio), mentre il palazzo e la torre dei Bentivoglio furono abbattuti. La riorganizzazione degli uffici non era peraltro completata quando, il 12 febbraio, il papa annunciò il suo prossimo rientro a Roma: il giorno 22 G. si recò da Bologna a Imola, e successivamente a Codignola, Forlì, Cesena, Santarcangelo, Verrucchio, Urbino; poi, passando per Foligno e Viterbo, fece finalmente ritorno a Roma il 27 marzo 1507, mentre il giorno successivo, la domenica delle Palme, si trasferì nel suo palazzo con un corteo trionfale che si ispirava direttamente a quelli della romanità: "mai foro fatti a papa tanti trionfi quanti foro fatti a papa Iulio" (Sebastiano di Branca Tedallini, p. 310).

L'aiuto prestato dai Francesi nell'occasione fu pagato in denaro e con la nomina a cardinali di tre prelati francesi (concessione, quest'ultima, particolarmente sgradita al pontefice). Anche per tale ragione - e a causa della posizione del papa rispetto a Genova, staccatasi dalla Francia -, i rapporti tra Luigi XII e G. erano piuttosto tesi, in particolare dopo il rifiuto del re, a luglio, di consegnare al papa i Bentivoglio, rifugiatisi a Milano (ne vennero poi banditi e si spostarono in territorio veneziano, da dove inutilmente G. richiese che fossero espulsi).

Questi problemi furono superati nel corso dell'inverno, quando andò profilandosi l'alleanza tra Massimiliano e il papa in funzione antiveneziana e un armistizio tra Francia e Impero: erano i prodromi della Lega di Cambrai contro Venezia, stretta alla fine del 1508 tra l'imperatore e i re di Francia, Spagna e Inghilterra, nella quale il papa entrò solo successivamente, il 23 marzo 1509, con l'intento di trasformare l'alleanza in una crociata che gli avrebbe consentito di realizzare l'antico sogno di celebrare la messa in S. Sofia a Costantinopoli. Per la crociata G. continuò infatti ad accumulare fondi per tutta la sua vita, tanto che si disse che avrebbe lasciato 700.000 ducati da trasmettere direttamente al suo successore perché realizzasse questo obiettivo.

La Lega prevedeva tra l'altro la scomunica e l'interdetto su Venezia e il recupero dei possessi romagnoli allo Stato pontificio. Il 7 aprile G. ricevette l'offerta veneziana della restituzione di Rimini e Faenza, ma la rifiutò e scagliò la scomunica contro Venezia se questa non avesse reso tutti i possedimenti delle Romagne. Si giunse così alla battaglia di Agnadello (14 maggio 1509) che vide una clamorosa sconfitta dell'esercito veneziano e la conseguente perdita progressiva delle città di terraferma.

G. recuperò militarmente Russi, Brisighella, Meldola, Mercato Saraceno e altre località, Ravenna, Rimini, Cervia e Faenza, facendo abbattere, là dove erano stati innalzati, i simboli del potere marciano: a Ravenna la gente del papa "gettò via li coioni […] al lione di pedra era su la piazza", e successivamente lo abbattè (Fantaguzzi, p. 292). Il 5 giugno il doge L. Loredan scrisse al papa una lettera "piena di viltà e di sommissione" (Machiavelli, Discorsi, III, 31) volendo "cum omni humilitate et reverentia" dichiarare a G. l'obbedienza della Serenissima e l'"effectualem executionem a nobis datam in restituendis civitatibus et locis omnibus Romandiolae" (Beliardi, p. 5). L'atto di umiliazione non fu sufficiente al papa; gli ambasciatori veneziani furono da lui "desfati e maltratati: […] disseli che li faria amazar tutti e mangiare a li cani" (Fantaguzzi, p. 293).

Tuttavia nel giro di pochi mesi la politica pontificia subì un rapido mutamento, orientandosi verso la ricerca del sostegno di Venezia e contro la Francia, il cui ruolo, divenuto predominante, non poteva non preoccupare il papa. La domenica 4 febbr. 1510 il papa aveva liberato i Veneziani dalla scomunica; il 15 febbraio furono conclusi i negoziati di pace e il 24 si svolse una solenne cerimonia di assoluzione. Nel frattempo G., anche in seguito alle pressioni di Isabella d'Este, si era adoperato per ottenere la liberazione del marchese di Mantova Francesco II Gonzaga, fatto prigioniero dei Veneziani durante la guerra, facendosi però consegnare come ostaggio il figlio decenne di questo, Federico, che rimase presso G. sino alla morte del papa, condividendone la vita quotidiana e i divertimenti.

"Libertà dai barbari", il motto della politica di G. negli anni successivi, significava innanzitutto libertà della Chiesa dal sostegno francese alle spinte centrifughe esistenti nei domini ecclesiastici. Nei mesi successivi G. si dedicò quindi, impegnandosi in prima persona, al consolidamento del potere pontificio nei suoi territori. Nel marzo ottenne dai Cantoni svizzeri un accordo quinquennale, nel quale si prometteva di fornire al papa le milizie necessarie. Nel giugno la tensione con la Francia andò salendo, tanto che nel mese successivo G. si impegnava nel tentativo di spingere Genova alla ribellione contro Luigi XII. Il 9 agosto fu scomunicato il duca di Ferrara Alfonso I d'Este, alleato dei Francesi, con il quale esistevano attriti politici ed economici, dovuti alla concorrenza tra le saline di Comacchio e quelle di Cervia.

Successivamente alla dedizione di Modena, avvenuta pochi giorni dopo, l'8 settembre G. partì da Roma, dopo aver provveduto a garantire i vettovagliamenti per le sue truppe, animato da "quello spirito diabolico", come scriveva Machiavelli, che costantemente guidava la sua azione politica. L'11 sett. 1510 era a Senigallia, poi a Rimini, Cesena, Forlimpopoli, Forlì, Faenza, Imola, ed entrò a Bologna domenica 22 settembre dopo vespro, "sollenissimamente con lo regno in testa e lo mante papale" (Fantaguzzi, p. 303). Nelle settimane seguenti G. si ammalò gravemente, facendo temere per la sua vita; il 17 ottobre gli giunse notizia che un gruppo di cardinali filofrancesi si era recato a Milano per preparare un concilio scismatico. Nel frattempo l'esercito francese, del quale faceva parte il Bentivoglio, si trovava ormai nei pressi di Bologna, ma il maltempo, la mancanza di approvvigionamenti, l'avvicinarsi delle milizie veneziane e spagnole e la reazione del popolo bolognese - che G. ricompensò con esenzioni fiscali - lo spinsero a retrocedere.

Lo spirito del papa rimaneva intatto, e i cronisti segnalano come egli maltrattasse aspramente gli ambasciatori ferraresi che gli si erano presentati. L'11 dicembre G. nominò il cardinale Marco Vigerio legato delle truppe pontificie; il 29 dicembre dichiarò di voler partecipare personalmente alla conquista di Mirandola, fortezza di fondamentale importanza per il controllo dello Stato estense.

Il 2 genn. 1511 G., non ancora del tutto risanato, partì da Bologna in lettiga insieme con le sue truppe: "vederò, si averò sì grossi li coglioni come ha il re di Franza!" avrebbe esclamato al momento della partenza secondo il veneziano Gerolamo Lippomano, che faceva parte del seguito papale (Sanuto, XI, col. 722). Sotto una neve fittissima il giorno 4 giunse presso il castello di San Felice, a cinque miglia da Mirandola; la domenica 6 si accampò a mezzo miglio dalla rocca in una casa di contadini e poi, in seguito ai colpi di cannone, nella cucina di un convento nei pressi. Poste le artiglierie sotto le mura, il 20 genn. 1511 la rocca cadde e il pontefice entrò a Mirandola arrampicandosi con gran fatica su una scala a pioli, in quanto la porta era murata e il ponte abbattuto. Ritratti contemporanei mostrano G. in armatura, con un berretto di pelliccia e "cum la barba che pare uno orso", ovvero, secondo un'altra fonte, "un romito" (Luzio, Francesco Gonzaga…, p. 65; Diario romano…, p. 321).

La fortezza fu consegnata al conte Giovanfrancesco Pico e G. premeva sul duca Alfonso e su Massimiliano per spingerli a sganciarsi dall'alleanza con Luigi XII (a questo fine restituì Modena agli Imperiali). Nel frattempo si trasferiva a Bologna per raccogliere nuove truppe e poi, nel febbraio 1511, nelle Romagne, per attaccare, senza successo, la fortezza estense di Bastia del Fasciolo. Né ebbe seguito il progetto del papa, formulato verso la fine di aprile, di neutralizzare le forze francesi aprendo gli argini del Po tra Sermide e Felonica. Il 14 maggio lasciò nuovamente Bologna, affidandone la difesa al duca di Urbino, suo nipote Francesco Maria I Della Rovere; ma per il probabile tradimento del legato Francesco Alidosi la città fu occupata il 23 maggio dalle truppe francesi, guidate da Giangiacomo Trivulzio, e riportata sotto la signoria dei Bentivoglio. Immediatamente i segni del potere pontificio furono cancellati; anche la grande statua di bronzo raffigurante il pontefice, l'opera di Michelangelo ultimata nel febbraio 1508, fu abbattuta e fatta a pezzi il 30 dicembre; la testa, dopo essere stata fatta rotolare per piazza Maggiore, fu inviata ad Alfonso d'Este con gli altri frammenti, poi fusi per trarne un cannone detto "la Giulia". Significativamente, la statua era stata sostituita con un'immagine raffigurante Dio Padre con una scritta che alludeva all'esclusività della sovranità divina.

Il papa si trasferì da Ravenna a Rimini, dove trovò la citazione dei cardinali filofrancesi a un concilio antipontificio che si sarebbe dovuto aprire a Pisa nel settembre, adducendo l'intenzione di muovere la crociata e riformare la Chiesa. Nel frattempo contro G. si organizzava, da posizioni vicine al re di Francia, un'intensa propaganda basata su immagini, satire e rappresentazioni teatrali. Il 3 giugno 1511 G. si dirigeva a Roma, dove giunse il 26 giugno passando per Ancona, Foligno e Terni. Il 25 luglio, ma con la data del 18, fu emanata una bolla che indiceva il concilio a Roma il 19 apr. 1512.

L'obiettivo era il mantenimento dell'unità ecclesiastica; l'editto di convocazione del concilio pisano fu dichiarato non valido e fu pronunciato l'interdetto contro Pisa. Il 23 sett. 1511 (dopo una precedente ammonizione del 7) l'interdetto cadde anche su Firenze, che aveva concesso di tenere il concilio nella città sua suddita; il 24 ottobre i cardinali Guillaume Briçonnet, Bernardino Carvajal, Francesco Borgia e René de Prie, che lo avevano indetto, furono scomunicati.

Il concilio pisano, apertosi il 5 novembre, non ebbe il successo che i suoi fautori avevano sperato, tanto che dopo le prime tre riunioni questi decisero di trasferirsi a Milano, cosa che avvenne nonostante una diffida di G. del 3 dic. 1511.

Nel corso dell'estate il papa aveva lavorato attivamente alla costruzione di una lega con Venezia, Spagna e Inghilterra in funzione antifrancese. L'azione fu però interrotta nell'agosto da una grave malattia del pontefice che sembrò condurlo alla morte, tanto da fare iniziare i preparativi del futuro conclave, sinché improvvisamente le sue condizioni migliorarono: il 28 agosto era sulla via della guarigione e poteva proseguire nella sua politica ostile al concilio di Pisa e alla Francia. Il 5 ott. 1511 fu proclamata la Lega santa con la Spagna e Venezia (cui si sarebbe unito nel novembre Enrico VIII d'Inghilterra), fondandola sul pretesto di riprendere Bologna (dove il 1° ottobre era stato nominato legato il cardinale Giovanni de' Medici). Nel gennaio 1512 G. attribuì il titolo di legato per la Lombardia e la Germania al cardinale Matthaeus Schinner, che avrebbe dovuto guidare l'esercito pontificio e quindi - con l'apporto dell'imperatore, degli Svizzeri e degli altri alleati - riconquistare Bologna e Ferrara.

Il 26 gennaio l'esercito spagnolo-pontificio, guidato da Ramón Folch de Cardona, era alle porte di Bologna, ma già il 5 febbraio Gaston de Foix, comandante delle truppe francesi, liberò Bologna dall'assedio ed entrò in città. Dopo avere conquistato e saccheggiato Brescia il 18 febbraio, il Foix si diresse su Ravenna, dove giunse agli inizi di aprile e dove fu intercettato dal Cardona. L'11 apr. 1512 i due eserciti si scontrarono sotto le mura della città; dalla battaglia, che si rivelò un terribile massacro, uscirono vincitori i Francesi, ma a prezzo della perdita di molti capitani e dello stesso Gaston de Foix.

Testimonianza della drammatica situazione in cui si trovò G. in quel frangente sono le lettere da Roma del cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, consigliere del cardinale de' Medici, che esprimono l'alternarsi di furia e avvilimento nel vecchio pontefice: "In questa sede non fu forse mai la maggiore bestia di costui […] quanto più costui invecchia più impaza"; "éssi levato in tucto la barba e parmi più vecchio per questa raditura la metà" (Dionisotti, pp. 163, 168).

I progetti del pontefice rimasero tuttavia immutati (il papa, scrissero allora i Dieci a Francesco Guicciardini, era tornato alle "speranze vecchie"), come si può cogliere da una moneta che fece allora coniare, sulla quale era raffigurato a cavallo, nell'atto di calpestare le armi di Francia e brandendo una frusta con la quale cacciava i barbari prostrati.

Il 21 apr. 1512 il concilio filofrancese riunito a Milano sospese G. dal governo spirituale e temporale, ma già il 3 maggio il papa rispondeva aprendo il concilio Lateranense V alla presenza di 16 cardinali, 70 vescovi e una trentina di altri prelati. L'orazione di apertura fu tenuta da Egidio da Viterbo, che stigmatizzava duramente la decadenza morale della Chiesa e l'essersi affidata più alle armi che alla fede, incorrendo così nel castigo divino, la cui prima manifestazione era stata la sconfitta di Ravenna. Nelle sedute successive fu dichiarato illegittimo il concilio pisano-milanese, che il 4 giugno si trasferì ad Asti e infine a Lione.

In appoggio al papa intanto affluivano in Italia le milizie dei Cantoni svizzeri, e contemporaneamente aumentavano le difficoltà dell'esercito francese. Il papa poté così recuperare Ravenna, Faenza, Imola e Forlì; Bologna, da cui fuggirono definitivamente i Bentivoglio, scomunicati dal papa, fu ripresa il 13 giugno dal duca di Urbino in nome della Chiesa.

I Francesi erano costretti a ritirarsi e alla fine del mese varcavano nuovamente le Alpi. Nel luglio 1512 le truppe pontificie conquistarono Reggio in assenza del duca Alfonso d'Este, giunto a Roma con salvacondotto papale per ottenere la remissione della scomunica. In ottobre Parma e Piacenza furono staccate dal Ducato di Milano, con sconcerto dell'imperatore Massimiliano, e incorporate allo Stato della Chiesa; il papa restituì alla Comunità di Modena i mulini della Bastia, sottratti in passato dagli Estensi.

Nel settembre i Medici erano rientrati a Firenze grazie al peso, fattosi ormai determinante, della forza militare della Chiesa e soprattutto della Spagna.

Il 19 novembre G. - preoccupato della crescita del ruolo degli Spagnoli, che a loro volta temevano le mire del pontefice, come lo stesso re Ferdinando d'Aragona aveva dichiarato nell'agosto a Guicciardini - firmò un accordo con Massimiliano, che gli cedeva Modena e Reggio e riconosceva il concilio Lateranense contro quello scismatico in cambio dell'appoggio pontificio alle sue pretese antiveneziane. Ma le condizioni fisiche del pontefice andavano irrimediabilmente declinando.

Il 10 genn. 1513 G. assolse con breve pontificio il nipote Francesco Maria, che deteneva la rocca di Pesaro, da tutti gli omicidi, furti e stragi commessi, come lo aveva già assolto il 5 dic. 1511 dall'omicidio del legato apostolico di Bologna, il cardinale Francesco Alidosi. Sul letto di morte investì il nipote della signoria di Pesaro e nella notte tra il 20 e il 21 febbr. 1513, presumibilmente "la nocte de la domenica venendo al lunedì a hore septe", corrispondenti circa all'una del mattino (Beliardi, p. 34) "morì papa Julio secondo […] morì in santo Pietro, cioè nel palazzo ponteficale di Roma, come Pastore della santa Chiesa" (Ricordanze di Bartolomeo Masi, p. 118). Fu sepolto in S. Pietro nella cappella di Sisto IV, dove erano sepolti "dua cardinali e quali furno nipoti del sopradetto papa Julio e da lui furno fatti cardinali" (ibid.).

La morte del papa fu accompagnata da "un terribile vento fora de natura" (Beliardi, p. 34) che ai cronisti contemporanei parve un segno prodigioso e quasi il simbolo della sua personalità irruente. Le reazioni alla sua morte segnalavano l'ambivalente giudizio dei contemporanei, ammirati della sua "politica prepotente e fortunata" (Dionisotti, p. 219) e della sua energia indomabile, ma anche scandalizzati dalle modalità in cui essa si esprimeva. "Morto è quel che da Franza / ha Italia liberata / morto è quel che ha voltato / tutto il mondo a suo piacere", recitava un anonimo componimento in versi stampato in quei giorni. Un altro anonimo immaginava per la tomba del pontefice questa durissima epigrafe: "Qui dentro chiuse son l'ossa e le polpe / del gran prete crudel Iulio secondo; / l'alma dannata per sue proprie colpe / già dell'Inferno è chiusa nel profondo". L'immagine negativa del "papa in armatura" avrà largo spazio nei testi e nell'iconografia della propaganda riformata, trovando la sua espressione più celebre nel dialogo erasmiano Iulius de coelis exclusus, apparso anonimo agli inizi del 1517 in varie città europee, ma la cui stesura sarebbe avvenuta a Cambridge già alla fine del 1513 o agli inizi del 1514. Questa immagine circolava già durante la vita del pontefice (una lode alla Vergine cantata a Bologna durante una processione, nel febbraio 1512, invocava "Il Pastor lassi la lanza / e la verga in man repigli") ed ebbe un riscontro, dopo la sua morte, anche nella politica europea, come emerge dalle considerazioni riportate dal Guicciardini sull'opportunità che a G. succedesse "uno uomo buono e che avessi tanto interesse nel buono essere di Italia che gli avessi causa di pensare a conservarla e non a fare di nuove revoluzione" (Carteggi, I, p. 151): tale fu, nella percezione dei contemporanei, l'elezione di Leone X.

G. fu, a tutti gli effetti, un principe dell'Italia rinascimentale, capace di "pigliare la golpe e il lione", per usare la metafora di Machiavelli, senza però che alla grandezza della sua personalità contribuisse una qualche comprensione della crisi religiosa che andava maturando in Europa (e per questo anche il concilio Lateranense V, nelle riunioni tenute durante la sua vita, ebbe un significato esclusivamente politico di opposizione al "conciliabolo pisano" e alla Francia). Esperto diplomatico e uomo d'armi, personalità traboccante di energia, G., come avrebbe scritto a posteriori Machiavelli, "procedè in ogni sua cosa impetuosamente; e trovò tanto e tempi e le cose conformi a quello suo modo di procedere, che sempre sortì felice fine" (Il principe, XXV). Egli seppe inserirsi con capacità direttive negli intrecci della politica europea, controllando con abilità i rapporti interni allo Stato della Chiesa e cercando "in primo luogo l'accordo con la maggioranza delle oligarchie prevalenti nelle varie terre pontificie" (Caravale - Caracciolo, p. 172): caratteristici in questo senso i rapporti con Bologna, dove egli seppe bilanciare abilmente le concessioni alla tradizionale autonomia locale e il sostanziale recupero del dominio pontificio sulla città.

Esemplare di questa figura di sovrano del Rinascimento è altresì lo splendido mecenatismo. Già da cardinale aveva acquisito e collocato nel giardino del suo palazzo l'Apollo, poi detto del Belvedere perché, divenuto papa, lo fece trasportare in quel settore dei palazzi vaticani, dove, mostrandosi esperto intenditore di antichità, fece sistemare anche altre statue antiche da lui acquistate, tra cui il Laocoonte, scoperto nel 1506, e poi l'Ercole e Telefo e l'Arianna sdraiata; e nel 1484 aveva trattato con la famiglia Gonzaga per far giungere a Roma Andrea Mantegna.

Solo dopo la sua assunzione al pontificato G. poté manifestare appieno la grandiosità delle sue scelte in questo ambito. In primo luogo con un progetto urbanistico che prevedeva l'apertura di una nuova via - la via Giulia - interrotta da una grande piazza su cui sarebbe stato eretto un nuovo palazzo destinato all'esercizio della giustizia, e che in tal modo avrebbe spostato il centro della città verso la zona dei palazzi vaticani; poi con la decisione di ricostruire la basilica di S. Pietro, presa probabilmente nel 1505 con l'affidamento dei lavori a Donato Bramante, che fornì un progetto di eccezionale grandiosità.

Nel 1506 iniziarono i lavori di demolizione e nel 1507 la costruzione: "la ecclesia de San Piero a Roma questo anno papa Julio comenzò a farli una fabrica grandissima superba e dignissima quella ampliando de admirandi pilastri e volte mirabille e de spesa inaudita" (Fantaguzzi, p. 268). Dati i costi, G. indisse un giubileo per raccogliere fondi, e riservò alla Fabbrica di S. Pietro le entrate del santuario di Loreto; alla sua morte erano già stati innalzati i quattro pilastri che avrebbero sostenuto la cupola. Nel frattempo G. aveva commissionato a Michelangelo la grande statua di bronzo eretta a Bologna nel 1508 e il proprio monumento funebre, che "di bellezza, di superbia e di invenzione passasse ogni antica imperiale sepoltura" (Vasari, p. 890).

Il monumento rimase incompiuto per l'affidamento a Michelangelo, sempre nel 1508, dell'affresco per il soffitto della cappella Sistina, per il quale il pittore ricevette nel maggio un acconto di 500 ducati sui 3000 promessi (poi saliti a 6000); il lavoro fu concluso nell'ottobre 1512, quando l'artista riprese a lavorare al monumento funebre di G., che non fu mai completato. Nei palazzi vaticani lavoravano numerosi artisti, tra cui il Perugino, il Pinturicchio e Lorenzo Lotto, ma nel 1508 G. li allontanò affidando a Raffaello la decorazione del suo appartamento, probabilmente secondo progetti da lui stesso elaborati. La stanza della Segnatura - che sarebbe dovuta essere la biblioteca personale del pontefice - fu completata nel 1511, quella di Eliodoro tra il 1512 e il 1514, mentre l'ultima (dell'Incendio di Borgo) è prevalentemente opera di aiuti. A Raffaello G. affidò anche il proprio ritratto, "tanto vivo e verace, che faceva temere il ritratto a vederlo, come se proprio egli fosse il vivo" (ibid., p. 621): ed è quella l'immagine con la quale il suo volto è rimasto definitivamente noto.

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