PIO XI, papa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 84 (2015)

PIO XI, papa

Francesco Margiotta Broglio

PIO XI, papa. – Achille Ratti nacque a Desio, borgo tra Monza e Como, il 31 maggio 1857, quarto figlio di Francesco e di Teresa Galli di Saronno. Venne battezzato il 1° giugno con i nomi di Ambrogio, Damiano, Achille. Il padre, direttore di filande, quando morì, il 4 luglio del 1881, era responsabile e comproprietario delle filande Gadda in Pertusella.

Suo primo maestro elementare fu il milanese don Giuseppe Volontieri; sulla sua formazione spirituale ebbe però un peso particolare lo zio Damiano Ratti, prevosto di Asso, in rapporti di devota amicizia con l’arcivescovo di Milano, Luigi Nazari di Calabiana. Presso di lui Calabiana incontrò il giovane Achille entrato a dieci anni nel seminario arcivescovile di S. Pietro Martire a Milano e passato poi, per due anni, in quello di Monza, per approdare al collegio arcivescovile S. Carlo di Milano dove preparò la licenza liceale che ottenne al liceo Parini. Continuò gli studi nel seminario teologico da dove, dopo il terzo corso e con il diaconato, passò al Collegio lombardo di Roma.

Ordinato sacerdote il 20 dicembre 1879, celebrò la sua prima messa in S. Carlo al Corso e, nel 1882, si laureò in teologia alla Sapienza, in diritto canonico all’Università Gregoriana e in filosofia presso l’Accademia S. Tommaso. Insieme al condiocesano Lualdi – cardinale nel 1908, decisivo nel conclave che lo avrebbe elevato al pontificato – Achille Ratti fu ricevuto in udienza privata, prima di lasciare Roma, da Leone XIII. All’inizio dell’anno accademico 1882-83 gli furono affidati i corsi di sacra eloquenza e di teologia dogmatica al seminario teologico di Milano, insieme all’incarico di delegato arcivescovile per la piccola parrocchia dei Ss. Pietro e Paolo in Barni e di cappellano delle suore di Nostra Signora del Cenacolo. In quello stesso anno ebbe occasione di incontrare don Giovanni Bosco. Dopo cinque anni di insegnamento fu accolto tra i ‘dottori’ della Biblioteca Ambrosiana.

Intensa (oltre settanta scritti) e propriamente scientifica la sua produzione che venne pubblicata da alcune delle più significative riviste dell’epoca, dall’Archivio storico lombardo ai Rendiconti dell’Istituto lombardo di scienze e lettere, al Giornale storico della letteratura italiana (N. Malvezzi, Pio XI nei suoi scritti, Milano 1923). Da tutti i lavori emerge la sua conoscenza delle lingue e della paleografia e la sua vastissima cultura storica e filosofica, la sua notevole erudizione sempre valorizzata in ampia prospettiva storiografica e utilizzata per sintesi essenziali e puntuali.

All’Ambrosiana strinse amicizie importanti e svolse varie attività parallele (riordinamento dell’archivio storico diocesano, esame di vari resti e reliquie di santi e di martiri, riordinamento della pinacoteca e del museo, predicazione alla comunità tedesca di Milano ecc.). Diverse le interpretazioni circa i suoi atteggiamenti ‘politici’ in questi anni: le molte amicizie con l’aristocrazia cattolica, l’opera di mediazione tra il cardinale Andrea Carlo Ferrari e Fiorenzo Bava Beccaris svolta nel 1898 e alcune testimonianze hanno fatto pensare a orientamenti liberali e nazionali (Vecchio, 1996, p. 69); altri propendono per preferenze più nette verso il «conservatorismo liberale della Lega Lombarda» e il conciliatorismo (Fonzi, 1979, p. 655); il limitato accesso alle sue corrispondenze e la sua abitudine di parlare ‘a braccio’ non consentono comunque di definire concretamente le sue posizioni.

Durante gli anni trascorsi all’Ambrosiana – di cui sarebbe diventato prefetto nel 1907 – Ratti compì vari viaggi all’estero per studi, ma anche per due missioni ‘ufficiali’: nel 1891 accompagnò l’amico Radini Tedeschi che portava la berretta cardinalizia all’arcivescovo Anton Josef Gruscha e nel 1893 venne incluso come segretario dello stesso Radini Tedeschi nella missione, da questi guidata insieme a monsignor Gennaro Granito Pignatelli di Belmonte, inviata da Leone XIII a Parigi per rimettere la berretta rossa al nuovo arcivescovo di Bordeaux, Victor Lucien Sulpice Lécot, e a quello di Rodez e Vabres, Joseph-Christian-Ernest Bourret. Nel novembre 1911 arrivò a Roma, per decisione papale, come viceprefetto della Biblioteca apostolica Vaticana. Da quella data monsignor Ratti, diventato anche socio ordinario dell’Accademia romana di archeologia e aggregato al capitolo canonicale di S. Pietro, si impegnò a sviluppare la biblioteca e le annesse raccolte sulle linee tracciate dal predecessore, cercando, invano, di ottenere l’antica Biblioteca Chigiana: Benito Mussolini, a due mesi dalla presa del potere, ne avrebbe fatto dono all’antico prefetto diventato papa Pio XI. Nell’aprile del 1918 Benedetto XV decise di inviarlo a Varsavia come visitatore apostolico per la Polonia e la Lituania, nonostante mancasse di esperienze internazionali. Ratti fu nominato nel giugno 1919 nunzio apostolico a Varsavia, rimanendo visitatore per la Lituania. Ai primi entusiasmi subentrarono nel nunzio varie e costanti preoccupazioni per «l’accentuato nazionalismo dei polacchi» e per le divergenze con il cardinale Adolf Bertram di Breslavia, fautore del mantenimento della sovranità germanica sull’Alta Slesia: il panorama che si presentò al nunzio era «quello di una Polonia in guerra [...], per quasi tutta l’estensione dei suoi confini», che esasperava il nazionalismo ed esigeva dalla «Santa Sede in primo luogo un appoggio incondizionato» e poi anche un appoggio contro i cattolici di rito orientale. Non del tutto apprezzabili, in questo contesto, le considerazioni del nunzio sulla presenza ebraica: «fattore di divisione e confusione per il popolo polacco», i numerosissimi ebrei sono «il più malfido elemento della vita polacca, un pericoloso fattore antinazionale, una massa che infesta la vita pubblica», l’elemento «più nefasto e più demoralizzante che si possa immaginare: provocatore e sfruttatore immanchevole di disordini» (Morozzo della Rocca, 1992, p. 99). Non pochi, anche, i dissapori con parte dell’episcopato polacco «principalmente col Sapieha di Cracovia», il quale sarebbe stato fautore di una Chiesa «più polacca e meno romana». Al momento dell’invasione bolscevica di Varsavia, nell’estate del 1920, Ratti non lasciò la città con il governo che si trasferì a Posen: si disse, ma non è confermato dalla documentazione disponibile, che fosse stato incaricato dal Vaticano di stabilire contatti con i bolscevichi. Negli ultimi mesi del 1920 fu la questione dell’Alta Slesia a compromettere la missione di Ratti in Polonia (ibid., pp. 97-119). Nominato alto commissario per garantire l’imparzialità della Chiesa nel plebiscito che doveva attribuire tale regione alla Germania o alla Polonia, Ratti si trovò immediatamente di fronte Bertram, che aveva già sensibilizzato Roma anche sui riflessi che la posizione della S. Sede avrebbe potuto avere sui negoziati concordatari che il nunzio Eugenio Pacelli stava impostando.

Considerato filopolacco dai tedeschi (ma anche Benedetto XV dirà a padre Genocchi «il est devenu un peu trop polonais», La Croix, 10 febbraio 1922), Ratti, con il suo atteggiamento di riserbo, finì per scontentare gli stessi polacchi che minacciarono la rottura delle relazioni diplomatiche con il Vaticano. L’ambasciatore tedesco presso la S. Sede, Diego von Bergen, non esitò a mettere in evidenza l’inesperienza del nunzio a Varsavia che finì per trovarsi in rotta di collisione con il suo futuro segretario di Stato, il nunzio in Germania Pacelli, al quale si dovette, probabilmente, la sostituzione di Ratti in Alta Slesia con monsignor G.B. Ogno. Ma anche «l’iniziale simpatia degli ambienti polacchi per il Nunzio» veniva ormai a cadere e «iniziava l’aperta contestazione del rappresentante pontificio» che, «nel migliore dei casi [...], si appuntava contro l’invadenza consentita al Bertram [...] e risultava pertanto indirettamente rivolta contro il Nunzio Ratti». Alla S. Sede non rimaneva che richiamarlo anche perché «considerato [...] responsabile, da parte della chiesa e del governo tedeschi, della mancata tutela dei beni ecclesiastici della Slesia» (S. Trinchese, La Repubblica di Weimar e la Santa Sede tra Benedetto XV e Pio XI, 1919-1922, Napoli 1994, pp. 283-289). Ratti, che il 28 ottobre 1919 era stato consacrato arcivescovo titolare di Lepanto, rientrò a Roma l’8 giugno del 1921, venne trasferito alla sede arcivescovile di Milano e fatto cardinale nel Concistoro pubblico del 15 giugno. Fece l’ingresso nella diocesi lombarda l’8 settembre del 1921, ma vi restò solo fino al conclave seguito alla morte di Benedetto XV. Nel conclave iniziato il 2 febbraio 1922 e conclusosi il 6 Achille Ratti venne eletto papa al quattordicesimo scrutinio. Dopo le prime candidature di Rafael Merry del Val e del cardinale di Pisa, Pietro Maffi, emersero Pietro La Fontaine, patriarca di Venezia, integrista più moderato, e Pietro Gasparri, espressione dei cardinali ‘liberali’. Ratti, partito con quattro voti, raggiunse i quarantadue (su cinquantatré) grazie, soprattutto, alla convergenza su di lui del gruppo Gasparri. Il nuovo pontefice scelse il nome di Pio XI probabilmente per segnalare una non discontinuità con Pio X; adottò come motto «Pax Christi in Regno Christi»; confermò Gasparri come segretario di Stato sia per l’appoggio ricevuto in conclave sia perché aveva bisogno di un grande diplomatico e giurista che guidasse la sua cancelleria. Con la benedizione impartita dalla loggia esterna di S. Pietro, la prima di un papa dopo l’autoreclusione in Vaticano di Pio IX e dei suoi successori, si aprì un pontificato che, nei suoi diciassette anni, sarà decisivo nella storia del papato e del Novecento.

Con le due prime encicliche (Ubi arcano Dei, 23 dicembre 1922; Quas Primas, 11 dicembre 1925) Pio XI affrontò i problemi di politica internazionale nella prospettiva di una restaurazione del Regno di Cristo, la cui «regalità» veniva esaltata con l’istituzione della relativa festività e con la rivendicazione di una «dignità» che imponeva agli Stati di regolarsi «secondo gli ordini di Dio e i principi cristiani nello stabilimento delle leggi, nell’amministrazione della giustizia, nella formazione intellettuale e morale della gioventù». L’Azione cattolica sarebbe stata lo strumento principe per restaurare il potere della Chiesa nella vita pubblica, nella stretta obbedienza alle direttive e alle gerarchie ecclesiastiche. A questo disegno si collegheranno le encicliche sociali degli anni 1929-31 (Divini illius Magistri, 31 dicembre 1929; Casti connubii, 31 dicembre 1930; Quadragesimo anno, 15 maggio 1931) che esprimono «lo spostamento dell’interesse dal rapporto con lo Stato al rapporto con la società, in seno alla quale i laici devono impegnarsi a risolvere cristianamente i vari problemi (quello educativo, quello familiare, quello sociale) posti alla vita collettiva». In ultima analisi, pur rimanendo in un quadro di cristianità e mantenendo una «visione fortemente gerarchicizzata dell’azione della Chiesa attraverso i laici», il pensiero di Pio XI «conteneva alcune virtualità innovative che saranno sviluppate da Pio XII» (Acerbi, 1979, pp. 132-133).

Dal punto di vista più propriamente religioso il pontificato di Pio XI si caratterizzò per una successione senza precedenti di beatificazioni e canonizzazioni. Ancora da riconnettere alle linee generali tracciate con le prime encicliche è l’immediata attenzione del papa al problema delle missioni. Dopo aver trasferito da Lione a Roma, con l’aiuto dell’allora monsignor Roncalli, l’Oeuvre pour la propagation de la Foi (1922) e avere delineato il suo programma missionario nel discorso per la Pentecoste del 1922, inviò monsignor Celso Costantini come delegato apostolico in Cina e consacrò nel 1926 in S. Pietro i primi sei vescovi di quel Paese. Una serie di inviati papali, inoltre, partirono successivamente per l’Indocina, il Sudafrica, l’Africa inglese e il Congo belga, mentre venne data nuova sistemazione ai cristiani di rito malabarico e malankarese e attribuito specifico carattere ‘missionario’ al giubileo del 1925. Nell’enciclica Rerum Ecclesiae del 1926, Pio XI volle, invece, separare nettamente l’opera di evangelizzazione da qualsiasi interesse politico delle potenze europee e favorire l’indigenizzazione del clero (Veneruso, 1981, pp. 31-35). D’altro canto, le divisioni tra cristianità occidentale e orientale, osservate e sperimentate direttamente durante la nunziatura di Varsavia, spinsero il nuovo papa a impegnarsi immediatamente sulla strada dell’unionismo resa difficile dalla debolezza delle istituzioni pur già esistenti. Tra il 1926 e il 1928 Pio XI tentò di rimettere in movimento processi a lungo paralizzati dall’inefficienza e, in un certo senso, favoriti da quanto stava accadendo in Russia. L’istituzione nel 1925 di una commissio pro Russia testimonia del perdurare dell’idea di riportare, in qualche modo, l’ortodossia russa al cattolicesimo romano. Ma già nel 1927, con la morte del patriarca di Mosca Tikhon e la sempre più difficile situazione dei cattolici, le illusioni svanirono. La sintonia con i regimi totalitari fascisti e nazionalcattolici fu quasi obbligata. Parallelamente alla politica ‘orientale’ il pontefice mise in cantiere, affidandola a Gasparri, la codificazione del diritto canonico orientale (ma solo nel 1948 venne presentato a Pio XII uno schema quasi completo e definitivo e solo nel 1990 Giovanni Paolo II promulgò il relativo codice). Nel 1928, comunque, si svolse a Roma il sinodo armeno e nel 1929 la terza conferenza episcopale ucraina; vennero gradualmente organizzati collegi per la formazione del clero dei Paesi orientali (etiopico, ruteno, romeno ecc.) e fu messa in cantiere la creazione di un collegio russo che si realizzò alla fine degli anni Venti sotto la direzione dei gesuiti. L’elezione nel 1925 di Basilio III al patriarcato ecumenico di Costantinopoli fu l’occasione di un primo, timido e incerto riavvicinamento tra Roma e Bisanzio. Su un altro fronte le ‘conversazioni private’ di Malines con gli anglicani, sotto la regia del cardinale Désiré Mercier, impostarono un dialogo, purtroppo rapidamente interrotto, che riprese solo dopo il Concilio Vaticano II. Certo Roma restò assente e reticente di fronte alle prime, concrete manifestazioni dell’ecumenismo alla fine degli anni Venti: con la Mortalium animos, del 6 gennaio 1928, il pontefice condannò gli errori dei «pancristiani» e ribadì che ogni prospettiva unitaria non poteva che essere un ritorno a Roma delle Chiese separate. Sul piano della cultura, al di là dell’importanza attribuita da Pio XI alle scienze esatte e naturali e del suo ben noto interesse per la filologia e la filosofia, l’atteggiamento conservatore nel campo biblico mostrò la ferma intransigenza di Ratti. D’altra parte non esitò a usare la persecuzione, anche con il tentativo reiterato di utilizzare il ‘braccio secolare’ del regime fascista, contro gli epigoni del movimento modernista e soprattutto contro il loro più illustre esponente, Ernesto Buonaiuti, e l’inserimento nell’Indice dei libri proibiti non solo di autori come Gabriele D’Annunzio, ma anche di pensatori come Benedetto Croce e Giovanni Gentile.

Un grande successo segnò presto il pontificato di Pio XI: la soluzione della questione romana, il recupero di una pur minuscola sovranità territoriale, la creazione dello Stato Vaticano con le sue leggi, il concordato con l’Italia fascista che servirà da modello per tutti i successivi accordi con gli Stati totalitari.

Nell’arco del pontificato i problemi politici che Pio XI si trovò ad affrontare non furono certo minori di quelli bellici cui dovette far fronte Benedetto XV o delle ‘rivoluzioni liberali’ ottocentesche che si erano concluse con la perdita del potere temporale. La Rivoluzione d’ottobre in Russia, l’avvento del fascismo in Italia e del nazismo in Germania, le guerre coloniali del duce, l’asse Roma-Berlino, la guerra di Spagna, l’annessione dell’Austria al Reich hitleriano, lo smembramento della Cecoslovacchia, obbligarono il papato, che aveva recuperato con gli accordi del Laterano (11 febbraio 1929) il suo posto nella comunità delle nazioni, a una pericolosa navigazione tra i numerosi scogli del mare delle ideologie. Nonostante l’esperienza, la preparazione e l’abilità di due segretari di Stato del calibro di Gasparri e Pacelli, non poche delle scelte politiche del pontificato avrebbero lasciato tracce non facilmente cancellabili.

Sono ben note le tappe che portarono agli accordi del Laterano: il ripristino del crocefisso nei locali pubblici, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole materne ed elementari, i sempre più stretti rapporti di Mussolini con l’inviato pontificio, padre Tacchi Venturi, la commissione Mattei Gentili per la riforma della legislazione ecclesiastica del 1925, il progetto Santucci e il controprogetto Rocco di riforma della legge delle guarentigie, le trattative Barone-Pacelli, poi Mussolini-Pacelli, le pressioni di Mussolini su Vittorio Emanuele III, la firma del trattato e del concordato l’11 febbraio 1929 nei palazzi lateranensi. Ma va ricordata anche la cornice giuridica dei rapporti della S. Sede con gli Stati tracciata da Benedetto XV, con la regia di Gasparri, dopo la fine della prima guerra mondiale. Premessa una certa indifferenza teorica – sostenuta soprattutto da monsignor Pacelli in un ‘voto’ del febbraio 1916 – sulla scelta tra una buona separazione e un concordato non sempre soddisfacente, il pontefice, nelle allocuzioni concistoriali Alloqui vos del 15 dicembre 1919 e In hac quidem del 21 novembre 1921, aveva deliberato l’estinzione dei concordati con gli Stati che avevano cambiato «natura» e modificato il territorio, e manifestato la disponibilità della S. Sede per nuovi accordi concordatari con «civitates funditus novatae» (Astorri, 1992, pp. 208-223).

Sarà, pertanto, Pio XI l’effettivo protagonista dell’azione concordataria della Chiesa nel secolo che corre grosso modo dal Vaticano I al Vaticano II.

Dal concordato con la Lettonia (1922) ai concordati austriaco e germanico del 1933 e iugoslavo del 1935 – passando per quelli di Baviera (1924), Polonia (1926), Lituania (1927), Romania (1927), Cecoslovacchia (1928), Italia (1929), Prussia (1929), Baden (1932) e per gli accordi parziali con la Francia, del 1924 e 1926, con il Portogallo e con l’Ecuador (1937) –, le strutture normative e quelle sistematiche delle relazioni tra la Chiesa di Pio XI e gli Stati si caratterizzarono sempre più rigidamente nel senso della bilateralità, della consacrazione civile dei principi fondamentali del diritto canonico, della progressiva secolarizzazione delle istituzioni religiose e dei contesti sociali, del rafforzamento delle impalcature gerarchiche e centralizzate grazie alla costante utilizzazione del ‘braccio secolare’, ma anche del controllo politico, da parte di chi deteneva il potere, spesso dittatoriale, sulla vita religiosa.

Le strette connessioni e le reciproche influenze tra la codificazione canonica del 1917 e la fioritura concordataria del pontificato Ratti sono state ampiamente dimostrate (A. Bertola, R. Astorri); meno segnalato che esse coincidano con la nascita e lo sviluppo del totalitarismo e che i concordati più importanti siano quelli stipulati dalla S. Sede con regimi totalitari: quello italiano, quello del Reich e quello austriaco, sui quali si sarebbero modellati, successivamente, gli accordi con Francisco Franco in Spagna e con António de Oliveira Salazar in Portogallo e le stesse iniziative concordatarie della Francia di Vichy. Nel contesto totalitario, pertanto, in virtù dell’alleanza concordataria, la Chiesa diventa tipico instrumentum regni e, nella comunità internazionale, contribuisce efficacemente alla legittimazione dello Stato totalitario agli occhi degli Stati (cattolici o non) democratici o non totalitari; all’interno, le istituzioni cattoliche, pur ispirate essenzialmente a motivi pastorali, finiscono per trovarsi ad agire a guisa di strumento di controllo e di condizionamento sociale, a tutto vantaggio del regime politico. Sia in Italia sia in Germania, inoltre, la Chiesa sacrificò sull’altare dell’intesa concordataria qualsiasi pretesa di cattolicesimo politico (il Partito del centro tedesco e il Partito popolare italiano dovettero uscire, volenti o nolenti, dalla scena politica) e in Austria la proclamata fedeltà alla Chiesa dello Stato autoritario-corporativo di Dollfuss venne, dopo l’annessione alla Germania, sostituita dall’ostilità dell’occupante germanico (con l’Anschluss, disse Pio XI, l’avvenire era passato dalle «mani di Dio» a quelle «dei farabutti», P. Valvo, Dio salvi l’Austria! 1938: il Vaticano e l’Anschluss, Milano 2010, p. 204). Gli stessi interventi di Pio XI in occasione della guerra di Spagna, anche se inizialmente più cauti dell’oltranzismo dei vescovi spagnoli, si conclusero con il riconoscimento ufficiale del caudillo e con l’invio, nel luglio 1937, di monsignor Antoniutti come incaricato d’affari. Nel maggio del 1938 monsignor Gaetano Cicognani verrà nominato nunzio apostolico presso il governo nazionale a Salamanca; nel giugno successivo la presentazione delle credenziali da parte dell’ambasciatore franchista al pontefice, colma di espressioni proprie della cruzada, avrebbe fatto una molto buona impressione in Vaticano.

Le coincidenze di interessi tra la Chiesa di Pio XI e Stati totalitari quali la Germania, l’Italia e la Spagna consistevano essenzialmente nel considerarsi reciprocamente alleati contro i comuni nemici: il liberalismo, il razionalismo, l’ateismo e soprattutto il socialcomunismo. Con i fascismi italiano e spagnolo, d’altro canto, il cattolicesimo si trovava ad avere non pochi punti in comune: dal volontarismo implicito come fondamento di una fede che riconosceva sì il valore, ma anche i limiti della ragione, alle concezioni tradizionali nel campo dell’etica familiare, ai criteri organizzativi basati sull’autorità e sull’ordinamento gerarchico. In Italia e in Spagna l’alleanza concordataria era, del resto, collegata a un ben preciso disegno: far rivivere lo Stato cattolico, servirsi del regime totalitario per rafforzare il potere gerarchico nella Chiesa e per dare piena esecuzione, nel diritto dello Stato, alle decisioni e ai provvedimenti del potere spirituale. Fare, in una parola, dello Stato totalitario uno strumento sicuro «per il ritorno a una situazione politico-sociale che sembrava rappresentasse la premessa per la realizzazione successiva di una società veramente ierocratica» (G. Miccoli, La Chiesa e il fascismo, in Fascismo e società italiana, a cura di G. Quazza, Torino 1973, p. 196). Diversi e più complessi i termini del rapporto con il nazionalsocialismo tedesco, anche per il pluralismo confessionale di quello Stato. Se questo, infatti, si fosse identificato con una delle due confessioni numericamente dominanti – la cattolica e la luterana – si sarebbe, fin dall’inizio, attirato l’ostilità dell’altra metà della popolazione. La base dell’intesa restava, quindi, più esigua rispetto a quella degli altri Stati totalitari, mentre, sul piano ideologico, il nazismo era obbligato a risalire a tradizioni comuni a tutti i tedeschi, indipendentemente dalla divisione confessionale, quindi al passato germanico precristiano che comportava quegli elementi ‘neopagani’ che porteranno Pio XI, nel 1937, a definire le concezioni nazionalsocialiste «culto idolatrico» che «perverte e falsifica l’ordine da Dio creato e imposto».

I caratteri generali dei concordati del totalitarismo vanno, anzitutto, nel senso dell’unicità d’indirizzo del diritto concordatario e della formazione di un diritto comune concordatario favorita dai sostanziali parallelismi degli ordinamenti e delle esperienze dei totalitarismi quali si dettero negli anni tra le due guerre mondiali. Non poche le disposizioni pattizie che eliminavano i diritti particolari di alcune Chiese e accentuavano il regime centralistico della codificazione canonica del 1917. Peculiare anche il tipo di procedimento per il controllo statuale delle nomine dei vescovi, direttamente o indirettamente sottoposte al nullaosta statale, volto a evitare che persone non omogenee politicamente potessero rivestire un’autorità che, proprio per la natura pubblicistica che i concordati conferivano alla carica di vescovo, avrebbe potuto minare il carattere antipluralistico del regime. Basilare anche il riconoscimento concordatario della capacità di enti canonicamente eretti di acquistare, possedere e amministrare i beni ecclesiastici, ma essenziale la clausola che vietava ogni attività di carattere politico (ma anche culturale, sindacale, sportivo ecc.) del clero e delle associazioni del laicato cattolico. Tipica, inoltre, la consacrazione civile della giurisdizione spirituale e il conseguente impegno dello Stato a far eseguire provvedimenti ecclesiastici. Si aggiungano l’esenzione del clero da ogni carica civile incompatibile in base a disposizioni canoniche e il quasi generale esonero dalle imposte per gli enti ecclesiastici; l’insegnamento religioso sostanzialmente obbligatorio nelle scuole e il regolamento della questione ‘scolastica’ confessionale; l’efficacia civile dei matrimoni religiosi e il riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche in materia con l’indissolubilità anche civile di tali matrimoni (ma nel caso italiano tale indissolubilità era già assicurata dalle leggi); il controllo e la diretta dipendenza delle associazioni di azione cattolica dalle autorità ecclesiastiche che diventavano responsabili, di fronte al regime, della loro lealtà politica. In ultima analisi il tipo di Chiesa al quale la normativa concordataria di Pio XI dette vita in Italia, Germania e Austria soddisfaceva le aspirazioni alla centralizzazione – in un certo senso anch’essa ‘totalitaria’ – del pontificato Ratti che, soprattutto in Germania e in Austria, riuscì a eliminare i diritti particolari di alcune Chiese locali e a limitare radicalmente la posizione e i diritti dei vescovi e dei capitoli metropolitani in tutti gli Stati regionali tedeschi nei quali vigeva ancora il sistema dell’elezione episcopale e nella provincia ecclesiastica di Salisburgo, dove non solo il capitolo eleggeva un arcivescovo, ma questi aveva il diritto di nominare i titolari di tre diocesi che rientravano nella sua giurisdizione. Un discorso particolare era quello relativo all’Italia, che non soltanto, come disse Pio XI, era stata restituita a Dio, ma aveva restituito al papato una pur simbolica sovranità temporale. In realtà con l’avvento del fascismo non si era data una vera frattura con la politica ecclesiastica precedente: la svolta nei rapporti tra il governo e la S. Sede si era avuta dopo il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 che segnò la fine del fascismo originario per dar vita a un regime nettamente condizionato dalle forze conservatrici dei nazionalisti e della destra popolare.

Non è un caso che la soluzione della questione romana avvenne, nel 1929, proprio sulle basi che Alfredo Rocco aveva sommariamente formulato fin dal 1914 e ripreso e individuato nell’aprile 1922: «Da parte dello Stato la rinuncia al vecchio programma liberale dello Stato laico, della separazione fra Chiesa e Stato, dello Stato indifferente in materia religiosa. Da parte della Chiesa la rinuncia a un disegno di rafforzamento interno per la sua necessaria espansione esterna» (Il Resto del Carlino, 4 aprile 1922). Gli farà eco, all’indomani della conciliazione, Pio XI che, parlando a docenti e studenti dell’Università cattolica, riconoscerà in Mussolini («uomo [...] che la Provvidenza ci ha fatto incontrare») il politico che non aveva più «le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti [...] erano altrettanti feticci e proprio come i feticci tanto più intangibili e deformi» (Parole pontificie sugli accordi del Laterano, Città del Vaticano 1929). D’altro canto, di fronte alle difficoltà attraversate da Mussolini dopo il delitto Matteotti e, quindi, di fronte alla scelta tra la deprecata ipotesi di un accordo ‘positivo’ tra popolari e socialisti, la prospettiva di un governo liberale (o, peggio, democratico) e la prevalenza dei fascisti intransigenti, la S. Sede scelse la strada dell’avallo indiretto della svolta autoritaria di Mussolini. Essa contribuì decisamente, in tal modo, al rafforzamento del carattere nazionale e moderato del fascismo e aprì la strada alla conciliazione: poco dopo, lasciata cadere ogni ipotesi diversa, iniziarono le trattative per i Patti del Laterano. Quando il fascismo affiancò al trattato, al concordato e alla convenzione finanziaria dell’11 febbraio 1929 una serie di disposizioni unilaterali per regolare la vita delle altre confessioni religiose, compresa l’ebraica, non più «tollerate» ma «ammesse» (1929 e 1930), la S. Sede non esitò a manifestare il suo malcontento, ma, grazie al radicale cambiamento della condizione giuridica del papato e della Chiesa italiana, le relazioni tra le due sponde del Tevere si mantennero sostanzialmente buone per tutto il pontificato Ratti, anche se nessuna delle due parti riuscì a raggiungere gli scopi che si era prefissa: quello di ricostruire in Italia uno ‘Stato cattolico’, da parte del papa, e quello di ‘fascistizzare’ la Chiesa da parte del duce. I momenti di crisi si ebbero nel 1931 e nel 1938 e furono collegati alle polemiche per l’Azione cattolica. Con gli accordi del 1931 il regime ottenne, comunque, la riaffermazione del carattere esclusivamente religioso, della diocesanità e della stretta dipendenza dalla gerarchia ecclesiastica dell’Azione cattolica; con quelli del 1939 una sospensione delle ostilità pontificie, preludio nello stesso anno alla riforma degli statuti, che verranno giudicati conformi ai desideri del governo. In realtà l’accordo del 2 settembre 1931 non riuscì a dissolvere rancori e diffidenze reciproche, ma solo a convincere le due parti a evitare ulteriori contrasti e a sfruttare la conclusa ‘alleanza’ per soddisfare i reciproci interessi. Era stato, anche, un successo per il duce che aveva, in sostanza, obbligato Pio XI a ritirare le riserve solennemente avanzate nell’enciclica Non abbiamo bisogno (29 giugno 1931) e a ridurre gli spazi di operatività dell’Azione cattolica ben oltre il dettato concordatario, eliminando definitivamente dalla dirigenza delle associazioni tutti coloro che in qualche modo erano appartenuti a partiti antifascisti, in primo luogo il Partito popolare di Luigi Sturzo, obbligato all’esilio, nella prospettiva dell’intesa concordataria, già nel 1924.

La storiografia ha sottovalutato i contenuti dell’incontro di Mussolini con il papa l’11 febbraio del 1932, riferiti in dettaglio a Vittorio Emanuele III: nel corso di esso il papa si era compiaciuto per la ristabilita compatibilità tra partito e Azione cattolica e aveva ribadito di non vedere nei principi fascisti di ordine, disciplina e autorità nulla che fosse contrario alle concezioni cattoliche, spiegandosi le reiterate affermazioni del «totalitarismo fascista», al quale, per gli interessi delle anime, doveva affiancarsi però il «totalitarismo cattolico». Significativo, in particolare, quanto Pio XI avrebbe riferito al duce sulla situazione del mondo (il «triangolo dolente» Messico, Spagna, Russia) e su quello che riteneva il motore internazionale dell’azione antireligiosa: «Sotto c’è l’avversione anti-cristiana del giudaismo. Quando ero a Varsavia vidi che, in tutti i reggimenti bolscevichi, il commissario civile o la commissaria erano ebrei» (Corsetti, 1999, pp. 112-115; Fabre, 2014, pp. 111-149). Gli ebrei italiani, secondo il papa, facevano però «eccezione». Tenendo conto del sostanziale sostegno vaticano alla politica di Mussolini e del positivo sviluppo dei rapporti concordatari non può che accogliersi la tesi di Renzo De Felice sulla crisi dei rapporti papato-fascismo emersa nel 1938. Più che dalla legislazione razziale o dal sempre più stretto avvicinamento al nazismo (non vi fu, per esempio, alcuna esplicita condanna dei due regimi «come responsabili del progressivo aggravarsi del pericolo di guerra»), la riapertura delle ostilità contro l’Azione cattolica appare dovuta alla ulteriore «svolta totalitaria» impressa dal regime nella seconda metà degli anni Trenta e a quella che è stata definita «la rivoluzione culturale che ne costituì il sostrato» (De Felice, 1965-90, II, pp. 136-137). Come risulta anche dal diario di Galeazzo Ciano, Mussolini vide nel rilancio dell’Azione cattolica la precostituzione di strutture preparate per la successione al fascismo. L’azione capillare di logoramento per intimidire i militanti cattolici non poté che provocare la durissima reazione del pontefice il quale, nel gennaio del 1938, avrebbe minacciato Mussolini, attraverso il solito padre Tacchi Venturi, di scomunica del fascismo e del regime. Nell’agosto, grazie ai buoni uffici del gesuita, si arrivò all’accordo Starace-Vignoli che, se non compose il conflitto, segnò almeno una sospensione delle ostilità. Venne riaffermato il valore e il vigore dell’accordo del 1931 ed eliminata l’incompatibilità tra iscrizione all’Azione cattolica e al Partito fascista, fu disposta la restituzione delle tessere fasciste ritirate (con perdita di uffici e impieghi) e venne assicurato dal governo che il problema razziale sarebbe stato «definito in sede scientifica e politica [...] con la doverosa applicazione di onesti criteri discriminativi»; agli ebrei non sarebbe stato inflitto «trattamento peggiore di quello usato loro per secoli e secoli dai Papi»; era però desiderio del duce che stampa cattolica, predicatori, conferenzieri «e via dicendo, si astengano dal trattare in pubblico questo argomento»; Mussolini era, comunque, disponibile a considerare le osservazioni che, «in via privata», la S. Sede ritenesse di sottoporgli per la migliore soluzione del delicato problema. Solo a metà del 1939 Mussolini avrebbe ottenuto una certa normalizzazione della situazione con la riforma degli statuti dell’Azione cattolica. Ma, a dieci anni dai Patti lateranensi, era chiaro che il regime non era riuscito ad assorbire i grandi poteri che gli avevano consentito, dopo il 1925, di consolidare la dittatura. Corona, esercito e grande borghesia sarebbero state le forze che sarebbero riuscite a detronizzarlo il 25 luglio 1943. Il ruolo del papato in quell’occasione è ancora tutto da scoprire. È invece più evidente, ora, grazie anche alla pubblicazione di un progetto di enciclica (Humani generis unitas) contro il razzismo e l’antisemitismo, che Pio XI decise di far preparare alla fine di giugno del 1938, la svolta della posizione papale nei confronti della Germania e del nazismo, il passaggio da testi di compromesso, come la Non abbiamo bisogno del 1931, a condanne più chiare e più dure, come l’enciclica Mit brennender Sorge del 14 marzo 1937 – scritta dal cardinale Michael von Faulhaber, arcivescovo di Monaco, e integrata personalmente dal segretario di Stato, Pacelli – contro le violazioni del concordato e la divinizzazione del Reich, contro il nazismo, le sue teorie, la sua azione. Certo con la coeva Divini Redemptoris – di cui si è sottolineata la maggiore intransigenza – era stato fermamente e rigorosamente condannato, quasi in parallelo, il comunismo – «satanico flagello» – a conclusione di una complessa vicenda, iniziata con la Rivoluzione d’ottobre e aggravata dalle persecuzioni religiose in Russia, che aveva spinto la S. Sede a estendere il suo interdetto a ogni forma di socialismo o di progressismo, anche ‘cristiano’. E, forse, fu un po’ ‘vedere rosso’ il collegare al comunismo l’anticlericalismo persecutorio del Messico, severamente colpito da ben tre encicliche (1926, 1932, 1937).

Ma la forte coscienza, sia pure al termine del pontificato, delle pericolosità del paganesimo nazista e di un antisemitismo che andava ben al di là dell’antico antiebraismo ecclesiastico, appare evidente dal progetto di enciclica e dal discorso del 6 settembre del 1938, quando all’indomani dei primi provvedimenti razziali fascisti, Pio XI, visibilmente commosso, aveva dichiarato che l’antisemitismo è incompatibile con il pensiero e la realtà biblica, che «noi siamo della discendenza spirituale di Abramo, [...] siamo spiritualmente dei semiti»: «una dimensione di contrapposizione e di rifiuto dell’antisemitismo che è sostanzialmente nuova nel magistero ecclesiastico» (Miccoli, 2000, p. 309). Alla fine di giugno, comunque, Pio XI aveva affidato al gesuita americano John LaFarge l’incarico di preparare, appunto, la bozza di un’enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo di cui il papa «aveva esposto il tema nelle sue grandi linee, il metodo da seguire, i principi da osservare» (Passelecq - Suchecky, 1997, p. 83). LaFarge chiese al generale dei gesuiti, Włodzimierz Ledóchowski, di associargli due esperti: il francese Gustave Desbuquois e il tedesco Gustav Gundlach; il padre Heinrich Bacht si sarebbe poi occupato della versione latina dell’enciclica. Alla fine di settembre LaFarge consegnò la bozza a padre Ledóchowski perché la facesse pervenire al papa. Questi avrebbe prima sottoposto il testo francese al padre Enrico Rosa de La Civiltà cattolica (autore di non pochi articoli antiebraici) per averne un parere, e poi lo avrebbe trattenuto presso di sé fino alla metà di gennaio del 1939. Il testo, accompagnato da una nota di sollecito di monsignor Domenico Tardini, sarebbe stato trovato sulla scrivania del papa il giorno successivo alla sua morte. Come osserva Miccoli, «nulla si può dire, allo stato attuale della documentazione, delle eventuali reazioni di Pio XI alla lettura del testo (né d’altra parte si sa con certezza quale o quali versioni gli siano state inviate)», anche se l’idea dell’enciclica e della sua pubblicazione «si inseriscono, accentuandola, in quella ‘svolta’ nei confronti delle potenze totalitarie e delle loro ideologie che Pio XI venne chiaramente maturando nel corso della seconda metà del 1938» (Miccoli, 2000, p. 316). Rispetto alla Mit brennender Sorge, comunque, la condanna contenuta nel progetto LaFarge-Desbuquois-Gundlach veniva espressamente e chiaramente estesa dal neopaganesimo razzista all’antisemitismo in quanto tale. E il nesso tra razzismo e antisemitismo, colpiti unitariamente, non poteva che derivare «da precise indicazioni del papa» (ibid., p. 319).

Pio XI morì il 10 febbraio 1939.

Le immagini che restarono di lui nell’opinione pubblica e nella storiografia sono assai diverse a seconda dei Paesi che si prendono in considerazione. Grazie al trattato con l’Italia fascista nel 1929 il papa era riuscito, da una parte, a chiudere la questione romana – aprendo spazi sempre più grandi per una presenza della Chiesa nella società italiana –, dall’altra, a recuperare, grazie alla pur quasi simbolica sovranità territoriale, una posizione di primo piano nella comunità internazionale, che dette al papato un’udienza mai conosciuta a livello sia di governi, sia di pubbliche opinioni, e gli consentì di sviluppare ampiamente il sistema delle rappresentanze diplomatiche (del papa e presso il papa). Certo la sua idea di Chiesa non era aggiornata con i profondi mutamenti del mondo nel quale la ‘nuova cristianità’ di papa Ratti – fondata sulla centralizzazione autoritaria di Roma e sulla tesi teologica della regalità di Cristo che sarebbe stata travolta dalla shoah – non aveva alcuna concreta possibilità di fronteggiare, con le sue armi ottocentesche e con le debolezze derivanti dalle perduranti separazioni fra le Chiese, le statolatrie capitalistiche che, rimestando nei peggiori sedimenti del nazionalismo e del razzismo, misero a ferro e fuoco l’Europa cristiana e il mondo all’indomani della sua morte. Negli ultimi anni l’apertura degli archivi vaticani ha sollevato il dibattito storiografico su Pio XI, rinnovando, senza modificarne i significati, la lettura degli eventi grazie anche agli ‘incroci’ con la documentazione diplomatica dei principali Stati. Lo scritto più recente, in questa prospettiva, ricco anche di riferimenti bibliografici su tale dibattito, è senz’altro D.I. Kertzer, The pope and Mussolini, Oxford 2014; trad. it. Il patto col Diavolo. Mussolini e papa Pio XI, Milano 2014.

Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Archivio segreto Vaticano, Carte P. XI; Archivio della Nunziatura di Varsavia, bb. 205 ss. I documenti ufficiali relativi al pontificato sono editi in Acta Apostolicae Sedis, 14-23 (1922-31), 31 (1939).

Per una bibliografia completa sui discorsi di Pio XI, sugli scritti anteriori al pontificato, sui rapporti con l’Italia, la Germania, la Francia e l’Action française, la Spagna e la Polonia si rimanda a F. Margiotta Broglio, P. XI, in Enciclopedia dei Papi, III, Roma 2000, pp. 617-632.

Numerosi gli studi d’insieme sulla figura e il pontificato; tra gli altri: Bio-bibliografia di Achille Ratti, a cura della Biblioteca Ambrosiana, Milano 1927; P. Fontenelle, Sa Sainteté P. XI, Roma 1929; G. Frediani, P. XI, Roma 1929; G. Guida, P. XI, Milano 1938; M. Andrianopoli, P. XI, Roma 1939; M. Bendiscioli, La politica della Santa Sede. Direttive, origini, realizzazioni (1918-1938), Firenze 1939, passim; G. Galbiati, Papa P. XI, Milano 1939 (con una biobibliografia alle pp. 253-335); A. Arborio Mella di S. Elia, Istantanee inedite degli ultimi quattro papi, Torino 1956, passim; C. Confalonieri, P. XI visto da vicino, Torino 1957; C. Falconi, Il pentagono vaticano, Bari 1958; E. Rossi, Il manganello e l’aspersorio. L’uomo della provvidenza e P. XI, Firenze 19582; C. Confalonieri, La santità del clero e del laicato in P. XI, Sestri Levante 1959; Documents on British foreign policy, s. 2, V (1933), London 1965; R. De Felice, Mussolini il duce, I-IV, Torino 1965-90, passim; C. Falconi, I papi del XX secolo, Milano 1967, pp. 169-251; A.C. Jemolo, La tradizione dei santi laici, in Scuola e Città, XVIII (1967), 4-5, n. monografico: E. Codignola in 50 anni di battaglie educative, pp. 260-265; R. Aubert, L’insegnamento dottrinale di P. XI, in P. XI nel trentesimo della morte: 1939-1969. Raccolta di studi e di memorie, Milano 1969, pp. 209-259; E. Cattaneo, A. Ratti prete arcivescovo di Milano, ibid., pp. 107-162; C. Matassini, Carteggio Gallavresi-Sabatier, in Centro studi per la storia del modernismo. Fonti e documenti, 1974, 3, pp. 1058-1079; E. Cattaneo, Il card. Ferrari visto dal suo successore, in Diocesi di Milano, 1975, 3, p. 125 ss.; D. Fisichella, Analisi del totalitarismo, Firenze 1976, passim; G. Martina, P. XI. Chiesa e mondo moderno, Roma 1976; R. Anderson, Between two wars. The story of pope P. XI (Achille Ratti) 1922-1939, Chicago 1977; M. Michaelis, Mussolini and the Jews, London 1978 (trad. it. Milano 1982), passim; A. Acerbi, La Chiesa nel tempo, Milano 1979, passim; Chiesa, Azione cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di P. XI (1922-1939). Atti del V Convegno di storia della chiesa..., Torreglia 1977, a cura di P. Pecorari, Milano 1979; C. Marcora, Relazione del duca T. Gallarati Scotti col vescovo di Cremona, G. Bonomelli, e con mons. A. Ratti, in Aspetti religiosi e culturali della società lombarda negli anni della crisi modernista, 1898-1914, a cura di C. Marcora, G. Rigamonti, Como 1979; C. Snider, L’episcopato del Cardinale Andrea C. Ferrari, I-II, Vicenza 1981, passim; D. Veneruso, L’Italia fascista (1922-1945), Bologna 1981, passim; E. Fouilloux, Les catholiques et l’unité chrétienne du XIXe au XXe siècle, Paris 1982, passim; G. Mellinato, La pacificazione internazionale nell’opera di P. XI, in La Civiltà cattolica, CXLI (1990), 4, pp. 261-266; Histoire du christianisme, a cura di J.-M. Mayeur et al., XII, Paris 1990; M. Agostino, Le pape P. XI et l’opinion (1922-1939), Roma 1991; G. Bianchi et al., Il pontificato di P. XI a cinquant’anni di distanza, Milano 1991; C. Puricelli, Un papa brianzolo. Le radici culturali di Achille Ratti, P. XI, Milano 1991; I cattolici nel mondo contemporaneo (1922-1958), a cura di M. Guasco - E. Guerriero - F. Traniello, in Storia della Chiesa, XXIII, a cura di A. Fliche - V. Martin, Cinisello Balsamo 1991; R. Morozzo della Rocca, Le nazioni non muoiono. Russia rivoluzionaria, Polonia indipendente e Santa Sede, Bologna 1992, passim; G.M. Pizzuti, Da Benedetto XV a P. XI. Il Conclave del febbraio 1922 nel suo significato politico-religioso e nei suoi riflessi sulla storia dell’Europa del ventesimo secolo, in Humanitas, 1992, 47, pp. 99-115; A. Riccardi, Il Vaticano e Mosca, 1940-1990, Roma-Bari 1992; G. Battelli, P. XI e le Chiese non occidentali. La questione dell’universalità del cattolicesimo, in Studi Storici, XXXIV (1993), pp. 193-218; G. Munro, The Holy Roman Empire in German Roman catholic thought, 1929-1933, in The Journal of religious history, 1993, 17, pp. 439-464; G. Passelecq - B. Suchecky, L’encyclique cachée de P. XI. Une occasion manquée de l’Église face à l’antisémitisme, Paris 1995 (trad. it. Milano 1997); G. Vecchio, A. Ratti, il movimento cattolico, lo stato liberale, in Achille Ratti, pape P. XI. Actes du colloque organisé par l’École Française de Rome... 1989, Rome 1996, pp. 69-88; C. Ipsen, Demografia totalitaria, Bologna 1997, passim; G. Zizola, Don Giovanni Rossi. L’utopia cristiana nell’Italia del ’900, Assisi 1997, passim; A. Corsetti, Scritti, a cura di F. Margiotta Broglio, Firenze 1999; V. Di Porto, Le leggi della vergogna. Norme contro gli ebrei in Italia e Germania, Firenze 2000, passim; G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, seconda guerra mondiale e shoah, Milano 2000, passim; M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista, Torino 2000, passim; P. XI: Keywords. International conference proceedings june 9-10th 2009 at Milan, a cura di A. Guasco - R. Perin, Münster-Berlin, 2010; G. Fabre, P. XI e gli ebrei. 1932-1933, in Quaderni di storia, 2014, 79, pp. 111-149, con gli opportuni richiami alla bibliografia più recente e con specifica attenzione agli anni 1932-33, essenziali per leggere l’atteggiamento di Ratti negli anni 1937-39, sul quale lo stesso Fabre aveva già scritto nella stessa rivista un importante contributo (Un «accordo felicemente conchiuso», ibid., 2012, 76, pp. 83-153).

Sui rapporti tra Chiesa e Stato in Italia (questione romana, Patti lateranensi, politica concordataria, relazioni): A.C. Jemolo, P. XI e la nuova situazione politica del papato, Roma 1922; F. Olgiati, La questione romana e la sua soluzione, Milano 1929; M.S. Giller, La Chiesa cattolica e le relazioni internazionali, Torino 1933; A. Bertola, Attività concordataria e codificazione del diritto della Chiesa, Modena 1934; R. Giustiniani, Bibliografia degli accordi lateranensi, in Il Diritto Ecclesiastico, XLV (1934), 3, pp. 101-129; E. Vercesi, I concordati di P. XI nel loro quadro storico, Sestri Levante 1934; R. Longhitano, La politica religiosa di Mussolini, Roma 1938; Chiesa e Stato: studi storici e giuridici per il decennale della Conciliazione tra la Santa Sede e l’Italia, Milano 1939; C.A. Biggini, Storia inedita della Conciliazione, Milano 1942; Il nazionalsocialismo e la Santa Sede, a cura di M. Maccarrone, Roma 1947; Il grande ideale: la Conciliazione, 1870-1929, Roma 1957; E. Tagliacozzo et al., A trent’anni dal Concordato, Firenze 1959; F.M. Marchesi, Il Concordato italiano dell’11 febbraio 1929, Napoli 1960; I Patti Lateranensi. Scritti giuridici per il trentennale della Conciliazione, a cura dell’Unione giuristi cattolici italiani, Roma 1960; A. Martini, Studi sulla questione romana e sulla Conciliazione, Roma 1963; F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla grande guerra alla Conciliazione. Aspetti politici e giuridici, Bari 1966; Atti della Commissione mista dei Delegati della Santa Sede e del Governo italiano per predisporre l’esecuzione del Concordato (11 aprile-26 novembre 1929), a cura di P. Ciprotti, Milano 1969; A. Kupper, Staatliche Akten über Reichskonkordatsverhandlungen 1933, Mainz 1969; L. Volk, Kirchliche Akten über Reichskonkordats-verhandlungen 1933, Mainz 1969; G. Rossini, Per una storia dei Patti lateranensi. Documenti, in Modernismo, fascismo, comunismo. Aspetti della cultura e della politica dei cattolici nel ’900, a cura di Id., Bologna 1972, pp. 479-511; Il card. Gasparri e la questione romana, a cura di G. Spadolini, Firenze 19732; I. Garzia, Il negoziato diplomatico per i Patti Lateranensi, Milano 1974; F. Traniello - R. Viarisio, Il significato religioso del Concordato. Ipotesi per un’interpretazione storica, in Humanitas, 1974, 29, n. 2, pp. 46-58; S. Rogari, La Santa Sede e il fascismo dall’Aventino ai Patti lateranensi, Bologna 1977; G. Martina, La questione di Roma nell’opinione degli storici cattolici negli ultimi cento anni, in Grandi problemi della storiografia del Risorgimento. Atti del XLVIII Congresso di Storia del Risorgimento italiano... Mantova... 1976, Roma 1978; F. Fonzi, Il colloquio tra P. XI e Jacini il 25 marzo 1929, in Chiesa e società dal IV secolo ai nostri giorni. Studi storici in onore del P. Ilarino da Milano, II, Roma 1979, pp. 651-679; S. Lariccia, Bibliografia sui Patti lateranensi (11 febbraio 1929-11 febbraio 1979), in Il Ponte, XXXV (1979), 2-3, pp. 335-377; H.-A. Raem, P. XI. und der Nationalsozia-lismus. Die Enzyklika “Mit brennender Sorge” vom 14. März 1937, Paderborn 1979; K. Repgen, I Patti Lateranensi e il Reichskonkordat. P. XI e la politica concordataria con Russia, Italia e Germania, in Rivista di storia della Chiesa, XXXIII (1979), pp. 371-419; F. Margiotta Broglio, L’istituto concordatario negli Stati totalitari e negli Stati democratici, in Ulisse, XV (1980), 89, pp. 23-49; F. Della Rocca, I papi della Questione Romana. Da Pio IX a P. XI, Roma 1981; C. Brezzi, I Patti Lateranensi e il mondo cattolico, in La dittatura fascista, a cura di E. Agazzi et al., Milano 1984, pp. 195-231; K.P. O’Neill, The State in the magisterium of pope P. XI. Function, authority and rapport with the Church, Rome 1987; P. XI. und Mussolini, Hitler, Stalin. Seine Weltrundschreiben gegen Faschismus, Nationalsozialismus, Kommunismus, a cura di A. Fitzek, Eichstätt 1987; A. Cavaglion - G.P. Romagnani, Le interdizioni del Duce, Torino 1988, passim; R. Astorri, Le leggi della Chiesa tra codificazione latina e diritti particolari, Padova 1992, passim; M. Cardosi - G. Cardosi, Sul confine. La questione dei matrimoni misti, Torino 1998, passim; G.B. Varnier, La Santa Sede nell’assetto internazionale dopo la grande guerra. La “Relazione sui vari Stati presentata al nuovo Pontefice P. XI”, Firenze 2004; Y. Chiron, P. XI. Il papa dei patti lateranensi e dell’opposizione ai totalitarismi, Milano 2006; E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa, Torino 2007; S. Giordano, P. XI. Il papa dei concordati, Milano 2008; Diplomazia senza eserciti. Le relazioni internazionali della Chiesa di P. XI, a cura di S. Giordano, Roma 2013.

Per uno sguardo d’insieme per quel che riguarda l’Italia si vedano: M. Casella, Stato e Chiesa in Italia dalla Conciliazione alla riconciliazione (1929-1931), Galatina 2005; G. Sale, Fascismo e Vaticano, Milano 2007; R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla grande guerra al nuovo concordato (1914-1948). Dibattiti storici in Parlamento, Bologna 2009.

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