FILARETO, Partenio Apollonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 47 (1997)

FILARETO, Partenio Apollonio

Dario Busolini

Nacque a Valentano, nell'alto Lazio, nel primo decennio del sec. XVI. Avviato allo stato ecclesiastico, ebbe accesso al castello della sua cittadina, una residenza farnesiana, dove conobbe il giovane Pier Luigi Farnese e si legò alla sua famiglia. Grazie a questa protezione, poté diventare scrittore di lettere apostoliche e ottenerne alcuni benefici. Ma la crescente fortuna del cardinale Alessandro Farnese senior e le ambizioni dello stesso Pier Luigi lo distolsero presto dal ministero, attraendolo alla politica. Dopo il 1534, quando il cardinale ascese al pontificato, il F. entrò, insieme con M. Cervini, C. Tolomei, A. F. Raineri, P. Pacini, A. Caro ed altri, nella corte di letterati creata dal papa attorno al figlio Pier Luigi, duca di Castro dal 1537, nel nuovo palazzo gentilizio romano dei Farnese.

La corrispondenza del Caro nomina per la prima volta il F. il 19 luglio 1541, citandolo già come segretario del duca. I primi anni di servizio gli avevano permesso di approfondire lo studio della lingua greca, intrapreso sotto la guida di A. Caiano, e conoscere artisti, tra cui G. Clovio, Perin del Vaga e lo stesso Michelangelo, al servizio del duca e del papa. Quando, nel giugno 1543, andò ad accogliere a Parma Pier Luigi Farnese, che tornava dall'incontro con Carlo V a Genova, la sua formazione doveva essere ormai completa. Durante il lungo giro estivo che il Farnese compì quell'anno nel ducato di Castro egli, che lo seguiva, cominciò a concertare con il duca il modo per ingrandire il suo Stato, oscillando tra l'appoggio agli Imperiali e la simpatia per i Francesi.

Nel gennaio 1544 il F., da Roma, gestiva ormai la politica ducale. Aggiornò il duca sulle trattative condotte con Francesco I a Fontainebleau dal cardinale Alessandro iunior, quindi lo raggiunse in marzo a Piacenza, insieme con B. Brusa, per poi ritornare a Roma e seguire l'andamento della missione del Caro alla corte imperiale, in autunno, dove si trattava l'infeudazione di Parma e Piacenza ai Farnese in cambio del sostegno finanziario papale all'imminente campagna di Carlo V contro i protestanti.

Il F. raggiunse l'apice della sua carriera nell'agosto 1545 allorché, anche grazie alle trattative da lui condotte a Roma con il pontefice, Paolo III nominò Pier Luigi Farnese duca di Piacenza e Parma al posto del nipote Ottavio, che era genero dell'imperatore e per questo meno sgradito del padre a Carlo V. La manovra era stata preparata a lungo ed il duca era certo delle capacità del suo agente. Tanto da avergli donato l'8 luglio, quasi come ricompensa anticipata, una estesa tenuta presso Settevene di Nepi.

Il F. sfruttò presso il pontefice la tesi del cardinale U. Gambara secondo cui le due città, esposte com'erano alla minaccia imperiale, avrebbero avuto bisogno della forza di un principe laico per poter essere difese e non certo di quella di un legato papale o di un ragazzo, quale era ancora Ottavio; inoltre si valse dell'appoggio del camerlengo G. A. Sforza di Santa Fiora, il quale sosteneva la convenienza finanziaria della cessione in cambio della restituzione alla Camera apostolica di Nepi e Camerino, e dell'influenza esercitata su Paolo III dal legame del sangue. Così il papa convocò un concistoro in favore del duca Pier Luigi il 7 agosto. Invano Ottavio Farnese ottenne un'aperta pronuncia degli ambasciatori imperiali in proprio favore che ritardò l'operazione. Il F., infatti, suggerì al duca di spedire un messo ben istruito da Carlo V, per fargli pubblica professione di fedeltà e insistere sull'inesperienza di Ottavio, senza cessare di premere sul papa. Paolo III dovette trascinare il concistoro fino al 19, quando strappò l'assenso dei cardinali al distacco di Parma e Piacenza dallo Stato in cambio della conservazione di una serie di limiti di giurisdizione, della pattuita retrocessione di Nepi e Camerino, di un censo annuo di 9.000 ducati e del passaggio ad Ottavio Farnese del ducato di Castro. Non si trattava di quella vittoria completa che il duca Pier Luigi avrebbe voluto (infatti la bolla di investitura tardò fino a dicembre), ma di un ottimo risultato per il quale il F. ottenne elogi.

Egli, restando aggiornato sulla situazione romana, raggiunse il Farnese a Piacenza poco dopo la nomina, per coadiuvarlo nella formazione della nuova amministrazione del Ducato. Questa si modellava sulle istituzioni milanesi, studiate da A. F. Raineri, ed aveva al suo centro un Consiglio segreto composto dai migliori elementi della segreteria ducale, vale a dire il F., lo stesso Raineri, il Caro, F. Monterchi e A. Guarnerio. A ciascuno di loro il duca affidò un settore delle attività di governo, ma il F., con il grado di "secretario maggiore", era superiore agli altri ed aveva il potere di stabilire la precedenza degli affari da trattare, fissarne la competenza, ricevere i rapporti prima che fossero presentati al duca, custodire i sigilli e l'archivio segreto.

Nel periodo in cui ebbe responsabilità di governo il F. fu più un capace esecutore di ordini che un loro ispiratore ed il suo stesso compito di capo della segreteria lo rendeva piuttosto un latore di inviti alla moderazione. Così avvenne, ad esempio, quando il duca privò dei beni il marchese Girolamo Pallavicini e la madre e la moglie di costui pregarono il F. affinché fosse resa meno dura la loro condizione, o in occasione della questione relativa al ponte e al porto fluviale sul Po, nel 1546.

Il Farnese, mirando ad eliminare le molte esenzioni fiscali concesse nel passato, pretese di revocare anche quella sui proventi del traffico fluviale, che Paolo III aveva concesso nel 1535 a Michelangelo come ricompensa per l'esecuzione del Giudizio. IlBuonarroti protestò davanti al papa che, per mezzo del F., ne prese le difese esortando il figlio a non toccare Michelangelo, a dare prova di maggiore liberalità con tutti e a "badare più allo stabilirsi che all'utile".

Da parte sua il F. difendeva la politica del suo signore, interessandosi soprattutto degli affari esteri. Già nel 1546 Carlo V era tornato sul problema di Parma e Piacenza, nominando un nemico dei Farnese, Ferrante Gonzaga, a governatore di Milano. Nell'anno successivo, poi, specialmente dopo la fallita congiura dei Fieschi a Genova, le voci di una complicità del duca di Parma nella sollevazione e in una supposta cospirazione antispagnola nell'Italia del nord, oltre alla politica matrimoniale francese che i Farnese conducevano per l'altro figlio di Pier Luigi, Orazio, sembravano offrire all'imperatore il pretesto per un intervento, agevolato dalla vittoria sui protestanti a Mühlberg. Il F., conscio del pericolo, sorvegliò le mosse del Gonzaga, mandando a più riprese il Caro a Milano per intavolare un negoziato. Le trattative si arenarono con l'insorgere del problema del feudo di Romagnese, il cui titolare G. Dal Verme, per evitare gli oneri finanziari, si era dichiarato suddito di Milano. Già nel mese di luglio il Caro ed il F. presentavano al duca la situazione in termini drammatici, ma sfuggì loro il fatto che, proprio in quei giorni, il Gonzaga aveva ottenuto segretamente l'assenso di Carlo V alla eliminazione di Pier Luigi Farnese. Credettero di avere più tempo e finirono allora per favorire gli avversari: il 10 settembre 1547, mentre il F. e buona parte della corte banchettavano ad un matrimonio a Piacenza, il duca cadde facile preda dei sicari.

Mentre il Caro, appresa la notizia, si affrettò, con altri, a fuggire, il F. fu colto alla sprovvista e si attardò pensando di potere salvare il proprio patrimonio, stimato in 15.000 scudi, o qualche documento compromettente. Consegnata la città nelle mani del Gonzaga, riparò in casa di Camilla Pallavicini, la donna che un anno prima lo aveva supplicato per il figlio Girolamo. Alcuni piacentini però, riconosciutolo, lo denunciarono agli Spapoli, che lo arrestarono, traducendolo, insieme con il suo scrivano, il borgognone P. Eyfraton, nel castello di Milano.

Anche se prematuramente troncato, il periodo trascorso con Pier Luigi Farnese recò al F. grandi gratificazioni: ebbe modo, infatti, di condurre una splendida vita da uomo di corte del Rinascimento, letterato e poeta.

Di una produzione poetica certo più vasta, restano oggi solo un sonetto latino dedicato a C. Durante, e tre componimenti in italiano, pubblicati da D. Atanagi (De le rime di diversi nobili poeti toscani, t. VI, Venezia, L. Avanzi, 1565, p. 47a-b), l'ultimo dei quali, l'epigramma "S'unqua di pianto vaga", venne inserito da G. Carducci nella sua antologia La poesia barbara nei secoli XV e XVI (Bologna 1881, p. 287), con la data del 1540. Le tre poesie italiane rivelano la duplice indole del F.: una, dedicata all'aurora, mostra l'afflato mistico del prelato, quale egli era; l'altra, rivolta ad una donna, Faustina Mancini, come pure l'epigramma, l'uomo che ama in modo prima angelicato e poi passionale.

La cultura del F. è testimoniata anche da quanto rimane della sua biblioteca. Dopo l'assassinio del Farnese, questa finì quasi per intero nel monastero di S. Giovanni in Canali, a Piacenza, e successivamente si disperse nelle mani di vari collezionisti. G. D. Hobson ha ritrovato alcuni libri che ne facevano parte: le poesie di Catullo, Tibullo e Properzio, le commedie di Terenzio, le storie di Dione Cassio, Lattanzio, Macrobio, la Geografia di Tolomeo e, tra i contemporanei, le epistole del Bembo.

In carcere il Gonzaga e D. Doria interrogarono più volte, anche con la tortura, il F. perché rivelasse la prova dell'intesa tra i Fieschi e Pier Luigi Farnese. Secondo le fonti filofarnesiane egli non svelò nulla, mentre quelle di parte imperiale accennano più volte a carte di cui avrebbe ammesso l'esistenza, o comunque a una sua volontà di smascherare "le origini perturbatrici" della pace in Italia. Tuttavia, poiché tali prove non vennero mai prodotte, si può ipotizzare che il F. non confessasse niente di veramente importante ai suoi carcerieri, ovvero non conoscesse ciò che loro volevano da lui, o ancora venisse semplicemente usato come arma di pressione sui Farnese. Questi dal canto loro non lo abbandonarono, intercedendo a più riprese per la sua liberazione, che ottennero - grazie a una lunga trattativa condotta dal cardinale Alessandro e dal futuro duca Ottavio con il cardinale E. Gonzaga - solo all'inizio del 1551, dopo tre anni di prigionia.

Appena libero, il F. pensò di andare a Roma per ringraziare i Farnese ed offrire i suoi servigi al cardinale Alessandro. A Vetralla venne però a sapere che il Caro, nel frattempo, aveva messo in dubbio la sua lealtà. Con una lettera ed un memoriale del 7 maggio 1551 si difese accusando a sua volta il Caro di doppiezza verso i suoi padroni e appropriazione di oggetti personali, dichiarandosi tuttavia cristianamente disposto al perdono. Il risorgere di questa antica rivalità lo amareggiò ma, provato dalle conseguenze della prigionia, non aveva realmente intenzione di contendere al Caro un posto pari a quello avuto nel passato. Si contentò di riprendere le funzioni di ecclesiastico e disporre di una buona pensione che il cardinale Alessandro gli conferì l'11 apr. 1552, facendogli dono della propria arcipretura di S. Sisto a Viterbo.

Tornato così nella sua terra d'origine, il F. trascorse serenamente il resto della vita, amministrando oculatamente la sua rendita. Dopo qualche anno si riappacificò col Caro ed ebbe ancora occasioni di compiere servizi per i Farnese, muovendosi però solo in ambito locale. Lentamente, in molti persero le sue tracce e nel 1565 l'Atanagi, dando alle stampe la già ricordata raccolta di rime, scriveva di non sapere se fosse ancora vivo.

Nel 1568 il F. fece restaurare la sua chiesa di S. Sisto, chiudendo alcune finestre, rinnovando il tegolato del coro e dotandola di addobbi e paramenti. Al termine dei lavori pose sull'altare un'icona di Pietro di Sano.

Morì a Viterbo nel 1569.

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