AZIONE, PARTITO d'

Enciclopedia Italiana - II Appendice (1948)

AZIONE, PARTITO d'

Giuseppe Martini

. Le origini. - Si costituì durante la seconda Guerra mondiale, nel luglio 1942, per la confluenza di due organizzazioni politiche antifasciste, Giustizia e Libertà e il liberalsocialismo, più altri gruppi minori. Il movimento di Giustizia e Libertà era stato fondato nell'autunno 1929 da alcuni fuorusciti in Francia, tra i quali Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Alberto Tarchiani. Esso ebbe all'inizio carattere di coalizione di elementi di varia provenienza (democratici, repubblicani, socialisti), convinti dell'insufficienza dei vecchi partiti. Fu creata una organizzazione in Italia, che svolse opera coraggiosa ed efficace, ma ebbe a subire rovesci dolorosissimi: i suoi adepti erano reclutati, praticamente, fra tutti gli antifascisti attivi, d'ogni condizione sociale, che non intendevano entrare nell'unica altra organizzazione clandestina esistente: la comunista. Contemporaneamente allo sviluppo dell'azione propagandistica in Italia, il gruppo estero si configurò sempre meglio come movimento politico autonomo ed originale, la cui ideologia s'ispirava alla dottrina esposta dal Rosselli nel suo Socialismo liberale (1930). Invece tra i nuclei italiani non si ebbe sempre uno svolgimento analogo, anzi vi si formarono ambienti allacciati a Giustizia e Libertà soltanto dalle persone d'alcuni loro aderenti, mentre avevano in realtà fisionomia politica propria. Così il gruppo milanese, che faceva capo a F. Parri, a R. Bauer e ad U. La Malfa, e che era orientato piuttosto verso un concetto di moderno liberalismo e di democrazia sostanziale.

Il liberalsocialismo (v. in questa App.), che ebbe i suoi principali promotori in G. Calogero e A. Capitini, e i massimi centri di diffusione a Pisa, Firenze, Perugia, Siena, Roma e Bari, sorse come spontanea forma di reazione nel periodo (1936-37) tra la guerra etiopica e quella di Spagna ed ebbe largo seguito durante il conflitto mondiale, soprattutto tra giovani intellettuali che non avevano fatto l'esperienza della vita politica prefascista, né quella del fuoruscitismo. Tuttavia, nel suo sviluppo ideologico, era giunto a conclusioni molto simili a quelle del Rosselli.

Naturalmente, tanto Giustizia e Libertà quanto il liberalsocialismo portarono nel Partito d'Azione tutta l'esperienza culturale e politica della quale erano ricchi, sì che nell'ideologia della nuova formazione confluirono i motivi più varî e interessanti, come lo storicismo crociano, con la sua religione della libertà e la critica del marxismo; la serrata campagna che Gaetano Salvemini aveva condotto contro il riformismo socialista, accusato di sostenere gl'interessi degli operai del nord a danno dei contadini meridionali; la volontà democratica, l'esempio ed il sacrificio di Giovanni Amendola; il comunismo libertario e la democrazia operaia d'Antonio Gramsci e dei suoi compagni dell'Ordine nuovo; la lotta contro l'accentramento statale e i privilegi degli agrarî sostenuta da Lussu e dal Partito sardo d'azione; l'esigenza, affermata da P. Gobetti, d'un radicale rinnovamento politico e sociale, al quale avrebbero dovuto partecipare non solo gli operai e i contadini organizzati, ma anche la borghesia lavoratrice e gl'intellettuali, e che quindi avrebbe dovuto necessariamente prendere la forma di "rivoluzione liberale".

Nell'animo dei suoi fondatori, il Partito d'Azione doveva essere il partito nuovo, capace di rompere gli schemi tradizionali della politica italiana e di farsi lo strumento di quella "rivoluzione liberale". Il fascismo s'era potuto affermare - pensavano - soltanto perché la piccola borghesia lavoratrice, che in Italia forma il grosso della popolazione, irritata dalla incongruenza della politica socialista, che sobillava le masse e nello stesso tempo rifuggiva dalle responsabilità di governo, s'era inconsultamente schierata dalla parte dell'alta borghesia capitalistica, camuffatasi da "partito dell'ordine". E il fascismo era stato la rovina non solo dei proletarî, ma anche di questa piccola borghesia, che con loro è sempre e sostanzialmente solidale. Gli uni e l'altra hanno un nemico comune che è il ceto capitalistico che li sfrutta, alleandosi a tutte le forze conservatrici tradizionali: monarchia, aristocrazia, alti gradi dell'esercito e dell'amministrazione, alto clero. Tutti i lavoratori dovevano unirsi in una lotta comune contro queste forze, per isolarle e toglier loro gli assurdi privilegi e le leve di comando politiche ed economiche. In altre parole, non si trattava soltanto d'abbattere il fascismo, ma tutte quelle posizioni, costituitesi per la finale involuzione subìta dal Risorgimento, che il fascismo avevano reso possibili. È per questa ragione che molti avrebbero preferito staccare anche esteriormente il nuovo partito dalla tradizione del vecchio Partito d'azione mazziniano e garibaldino, gloriosa senza dubbio ma ormai alquanto anacronistica, e chiamarlo "Democrazia del lavoro" o "Partito del lavoro", sul modello del "Labour Party" inglese. Ogni dottrinarismo doveva essere bandito: i grandi problemi nazionali (repubblica, istituzioni democratiche, riforma agraria, industriale, tributaria, della scuola, ecc.) sarebbero stati affrontati e risolti uno alla volta, sul terreno delle possibilità concrete, e con l'intento di giovare agli interessi generali dei lavoratori, dei consumatori, delle classi povere. Si dava il più ampio riconoscimento all'iniziativa privata, ma si affermava nello stesso tempo la necessità di abolire o di nazionalizzare tutte le imprese di natura monopolistica o comunque di largo interesse pubblico: così che la caratteristica essenziale della politica economica del nuovo partito era la divisione in due settori, uno libero ed uno a gestione pubblica. Questo - si diceva - era il programma d'un moderno socialismo: un socialismo umanistico, democratico, non marxista, non classista, rigorosamente antitotalitario, autonomista, vigile degli interessi di tutti i lavoratori e non di gruppi privilegiati tra essi. "Il Partito d'Azione sente che è chiamato ad essere guida di un grande movimento del lavoro.Sentiamo d'essere il grande movimento socialista nuovo, uscito dall'esperienza fascista e dalla guerra": così s'esprimeva L'Italia libera clandestina (n. 13, dell'11 novembre 1943) commentando il patto d'unità d'azione tra i partiti comunista e socialista. Il Partito d'Azione avrebbe visto volentieri la fusione dei due partiti marxisti, per riservare a sé lo sviluppo del nuovo programma socialista, al posto dell'antico Partito socialista, che era fallito allo scopo. Ma le cose andarono diversamente.

La lotta clandestina e partigiana. - Fino al 25 luglio 1943 il partito esercitò un'attiva propaganda contro la guerra e il fascismo, condotta soprattutto per mezzo del foglio clandestino L'Italia libera, il cui primo numero uscì a Milano nel gennaio 1943; qualche mese più tardi, redazione e stampa furono portate a Roma. Fu il giornale clandestino più diffuso e letto in tutta la penisola. L'atto del 25 luglio, non imprevisto, fu immediatamente inteso come l'estremo tentativo della corona di salvare se stessa e i gruppi privilegiati. Di conseguenza il partito negò il suo concorso al governo Badoglio (al quale, soprattutto, si rimproverava di continuare la guerra iniziata dal fascismo) e seguitò a vivere in condizioni di tollerata illegalità. Il 5 settembre, in un convegno nazionale tenuto a Firenze, fissò le principali direttive della sua azione e della sua organizzazione, ed elesse un esecutivo provvisorio. L'8 settembre, all'annuncio dell'armistizio, prese subito posizione per il rovesciamento del fronte e nei giorni successivi partecipò con parecchi dei suoi uomini alla difesa di Roma contro i Tedeschi. Fu allora che cadde un giovane ufficiale, Raffaele Persichetti, iniziando il lungo martirologio del partito. Questo, infatti, era del tutto impreparato alla guerra partigiana; l'organizzazione militare fu improvvisata dal nulla, con mezzi quanto mai scarsi, e soprattutto con la persuasione che bisognava far presto, perché gli Alleati stavano per giungere. Il ritardo degli Alleati e il lavoro troppo affrettato e superficiale spiegano le gravi perdite subìte nei primi tempi, specialmente a Roma; soltanto nell'eccidio delle Fosse Ardeatine circa 70 furono i caduti del partito. Col tempo e le esperienze acquisite, il partito migliorò sempre più la sua organizzazione militare.

Alla liberazione di Firenze (luglio-agosto 1944) fu presente con la divisione "Rosselli", forte di circa 1000 uomini, mentre altri 3000 circa erano mobilitati nei servizî cittadini e nelle forze speciali; oltre 100 furono i morti e oltre 200 i feriti. Nell'aprile 1945 agivano in Piemonte 12 divisioni "Giustizia e Libertà", per un complesso di 10.000 uomini. Le perdite furono di 734 morti e d'oltre 1.100 feriti. In Lombardia esistevano 7 divisioni con 7.000 uomini, nel Veneto 20 brigate con 7.500 uomini. Anche la Liguria ebbe le sue formazioni "Giustizia e Libertà" nelle zone della Spezia, di Chiavari, d' Imperia, e così l'Emilia attorno a Bologna, Parma e Piacenza. Nel complesso, gli uomini mobilitati dal Partito d'Azione per la guerra partigiana nel nord furono circa 50.000, più alcune migliaia di ausiliarî. Le perdite complessive ammontarono a circa 1.800 morti e 2.500 feriti. Per valutare queste cifre, che rappresentano un minimo, si ricordi: primo, che le formazioni "Giustizia e Libertà" inquadravano uomini d'ogni fede politica, purché antifascisti; secondo, che notevoli gruppi di "azionisti" militavano in formazioni miste o "garibaldine", specialmente in Lombardia e nel Veneto. Gli aderenti al partito fucilati o morti nelle prigioni e nei campi di concentramento tedeschi furono circa 2000. Il sacrificio di sangue del partito fu particolarmente grave in quanto comprese un'elevatissima proporzione di quadri e d'elementi scelti, come L. Ginzburg, P. Albertelli, C. Astengo, M. Masia, D. Galimberti, W. Jervis, P. Braccini, L. Gasparotto, S. Kasman, diversi professori e studenti dell'università di Padova. Insieme con il Partito comunista, il Partito d'Azione è stato un grande animatore della resistenza italiana; ad esso si deve in buona parte se la liberazione dal fascismo non è stata opera esclusiva delle armi alleate, ma si è realizzata anche nelle forme d'un vasto moto popolare. Fatto d'immensa portata morale e politica, che un giorno avrebbe riscattato gl'Italiani di fronte a se stessi e all'opinione internazionale. Perché esso si realizzasse, il Partito d'Azione non esitò a prendere posizione contro lo stesso comando anglo-americano, il quale, inizialmente, avrebbe preferito che il movimento partigiano si riducesse ad un'organizzazione di tecnici sabotatori.

L'azione politica, dall'armistizio al governo Parri. - Mentre le forze di Giustizia e Libertà s'organizzavano e operavano nel nord, la direzione del partito, rimasta sempre a Roma, si trovò impegnata in una complessa azione politica nei territorî che venivano progressivamente liberati. Obiettivo essenziale di quest'azione fu all'inizio l'isolamento del secondo governo Badoglio, per impedire che il grande sforzo che il popolo italiano stava compiendo per la sua liberazione potesse essere diretto a proprio beneficio dalla dinastia e dai ceti privilegiati, già corresponsabili del fascismo. Questa politica di non collaborazione ebbe il consenso degli altri partiti del Comitato di liberazione nazionale (CLN) fino all'aprile 1944, allorché tutto fu rimesso in causa dall'improvviso gesto di P. Togliatti. Il Partito d'Azione rimase solo nella sua intransigente opposizione, la quale allora apparve a molti moralistica e puntigliosa, mentre in realtà converse a far maturare tutta una nuova situazione politica. L'8 giugno, infatti, pochi giorni dopo la liberazione di Roma, il Partito d'Azione, forte del prestigio acquistato nella lotta clandestina, contribuì a formare di nuovo l'accordo dei partiti del CLN sui punti seguenti: convocazione, a guerra finita, d'una costituente liberamente eletta che avrebbe deciso delle forme istituzionali dello stato; creazione immediata d'un governo che fosse espressione del CLN e non dovesse rispondere al luogotenente; nomina di una assemblea consultiva che assistesse detto governo. Non era tutto quello che il Partito d'Azione chiedeva (esso era contrario, tra l'altro, alla luogotenenza, che avrebbe voluto sostituire con una reggenza di più persone); ma era la garanzia essenziale perché non fosse compromessa l'unità del popolo e dei partiti durante lo sforzo di guerra, né fosse pregiudicata più tardi la libertà per gli Italiani di scegliersi le proprie istituzioni. Fu così che tramontò la nuova candidatura di Badoglio e si ebbe il primo governo Bonomi.

È questo il momento in cui l'azione politica del Partito d'Azione tocca il suo vertice: nei mesi seguenti, esso non farà in sostanza che difendere palmo a palmo, contro l'offensiva monarchico-conservatrice, la posizione di larga democrazia conquistata nel giugno del 1944. Già nel novembre dello stesso anno, dopo avere invano tentato di contrastare le tendenze di governo che a suo giudizio sembravano favorire restaurazioni prefasciste e dinastiche (ritardo nella convocazione della Consulta, nomina dei presidenti della Camera e del Senato, rifiuto di modificare il vecchio giuramento delle forze armate e dei funzionarî dello stato, ecc.), il Partito d'Azione passò all'opposizione. Questa volta non fu solo, come nell'aprile, ma si trovò in pieno accordo col Partito socialista, che assunse lo stesso atteggiamento. L'opposizione dei due partiti, ed insieme il loro fermo proposito di non rompere l'unità del CLN, fecero sì che il nuovo governo Bonomi fosse considerato come provvisorio, in attesa che maturasse una nuova situazione politica con la liberazione del nord: i comunisti, soprattutto, uniti ai socialisti da un patto di unità d'azione, non potevano desiderare il prolungarsi della posizione antitetica nella quale s'erano messi i due partiti operai. Venuto il momento, ricominciarono le trattative tra i partiti, con l'intervento questa volta anche del CLN-Alta Italia, uscito appena dalla lotta partigiana, e quindi di tendenza più radicale. Si ritornò nettamente allo spirito del compromesso di giugno, e se la candidatura Nenni fu respinta dalle destre come troppo estremista, l'accordo fu invece possibile (giugno 1945) sul nome di Ferruccio Parri, uomo che, per essere stato comandante generale delle formazioni "Giustizia e Libertà" e vicecomandante del Corpo volontarî della libertà, poteva essere preso a simbolo della riscossa nazionale e popolare, ma nello stesso tempo dava ogni affidamento per la sua profonda fede liberale. Fu così che il Partito d'Azione poté credere per un momento d'avere ricondotto i partiti sulle proprie posizioni: il governo Parri fu salutato come "il governo della costituente". Senonché l'opposizione riprese vigore, favorita da tutti gli eccessi, gli errori e le impazienze del movimento popolare nel nord; e quando i liberali, con il tacito appoggio dei democristiani, sferrarono l'attacco decisivo al governo, il Partito d'Azione per mancanza d'interna coesione non fu in grado di sostenerlo, e per giunta gli mancò la fattiva solidarietà dei socialisti e dei comunisti. Il governo Parri cadde il 22 novembre 1945.

Le ultime vicende del partito. - Tra i membri del partito, solidali nel ricordo della guerra combattuta insieme, s'accentuava il disagio provocato dalla difficoltà d'inserire il partito in una situazione profondamente diversa da quella da esso prevista. Il 19 luglio 1944 l'esecutivo pubblicava i 16 punti programmatici (repubblica, riforma amministrativa, autonomie locali e funzionali, economia a due settori, eliminazione progressiva della proprietà terriera non coltivatrice, laicità dello stato, libertà religiosa, federazione europea, ecc.), dichiarandosi per "la formazione di un fronte unico del lavoro" che comprendesse a pari titolo operai, contadini, artigiani, tecnici, intellettuali. Nell'agosto successivo, al congresso tenuto a Cosenza, apparve manifesto al pubblico per la prima volta un conflitto tra due tendenze: l'una, detta di "sinistra", interpretava il programma del partito come programma "socialista" e quindi allineava il partito con le altre forze socialiste, nella convinzione d'assicurargli così un largo seguito tra le masse proletarie; l'altra, invece, la cosiddetta "destra" sosteneva che un "terzo partito socialista" in Italia era di troppo, e che bisognava piuttosto mettere l'accento sul suo spirito di sostanziale democrazia, sull'azione di governo, sulle concrete riforme, senza ingombrarsi di pregiudiziali e d'ideologie equivoche. Prevalse allora la prima corrente, ed il socialismo del partito fu definito faticosamente come non marxista, non classista, democratico, autonomistico, ecc. Seguirono aspre polemiche; e se l'unità del partito fu salvata, per riguardo ai compagni del nord, che ancora combattevano, la sua linea politica rimase oscillante, disorientando l'opinione pubblica. L'insuccesso della politica sindacale "azionista" provò le difficoltà di un'azione comune con le sinistre, tanto che già nel settembre 1944 la direzione del partito si dichiarò unanime per una grande concentrazione democratica repubblicana": iniziativa che rispondeva assai più allo spirito della "destra" e dei 16 punti che non a quello della risoluzione di Cosenza.

Il I congresso nazionale, convocato a Roma dal 4 all'8 febbraio 1946, doveva decidere sull'orientamento definitivo del partito. Le due correnti vi si scontrarono ancora e l'unità fu rotta. La "destra" uscì in massima parte dal partito e con Parri, Ugo La Malfa, gli scrittori della Nuova Europa, diede vita ad un nuovo movimento, il quale, alleatosi con i liberali repubblicani usciti dal Partito liberale, si chiamò "Concentrazione democratica repubblicana". Fu il tracollo del partito, proprio alla vigilia delle elezioni amministrative e di quelle per la Costituente: malgrado la sua partecipazione al ministero De Gasperi, esso non fu più in grado di opporsi al progressivo orientamento del paese e del governo verso posizioni ritenute dinastiche, conservatrici e confessionali. Fu così che, in contrasto con l'accordo del giugno 1944, il problema istituzionale fu demandato al responso d'un referendum, soluzione caldeggiata dalle destre. Alle elezioni del 2 giugno, la Concentrazione ebbe 97.260 voti e 333.758 il Partito d'Azione (più i 78.543 voti del Partito sardo d'azione). La prima, nel settembre successivo, si fuse col Partito repubblicano; il secondo impostò una campagna per l'unità socialista, discussa poi a fondo nel II Congresso nazionale (Roma, aprile 1947), e finì con l'entrare nel Partito socialista italiano. Tale decisione fu però avversata da un certo numero di antichi "giellisti", presto organizzatisi nei Gruppi d'azione socialista Giustizia e Libertà, che continuarono sul giornale L'Italia socialista, diretto da A. Garosci, una vivace propaganda per l'idea d'un socialismo unificato e indipendente.

Varî sono stati i giudizî espressi sul rapido fallimento del partito: s'è parlato d'eccessivo intellettualismo, d'abito moralistico, di formazione composita, d'antagonismi personali, e di tante altre cause che ad un esame obiettivo non appaiono determinanti. C'è nel fondo una ragione ben più sostanziale: il fatto che il partito non abbia saputo leggere in se stesso e scegliere la strada giusta nel momento decisivo, cioè alla fine della guerra. Esso era nato per essere il grande partito dei lavoratori italiani, senza preferenze di classe. Per realizzare questa aspirazione, era però necessario che non si riformasse il vecchio schema dei partiti; era necessario soprattutto che non si ricostituisse il Partito socialista. Le forze tradizionali invece si riaffermarono con vigore anche nel settore di sinistra, e le masse operaie e contadine furono organizzate dai partiti marxisti. Il Partito d'Azione non si rese conto a tempo e a sufficienza che la situazione politica era ormai decisamente diversa da quella auspicata, e che, soprattutto, con il suo "socialismo" aclassista non avrebbe più fatto presa sulla base proletaria, senza la quale non si può fondare un "partito del lavoro".

Data questa situazione, rimaneva ancora un vasto settore d'opinione pubblica sul quale il Partito d'Azione avrebbe potuto svolgere con successo la sua opera: quel settore cioè dei medî ceti lavoratori e produttori, favorevoli alle più ardite riforme istituzionali e sociali, ma diffidente del socialcomunismo. Rinunciando ad essere il moderno partito socialista, il Partito d'Azione sarebbe potuto divenire il moderno partito liberale in Italia. Invece, malgrado l'opera di molti dei suoi quadri, che avevano realisticamente valutato la situazione, esso non seppe liberarsi né della sua pregiudiziale socialistica, né della mentalità intransigente e rivoluzionaria acquistata nella lotta clandestina. I suoi congressi trascinati da impulsi sentimentali, si ostinarono a dichiarare "socialista" un programma che era in realtà di moderna e sostanziale democrazia, e s'arrivò all'assurdo di una scissione quando nessuna seria divergenza esisteva sul programma politico. Non si trattava tuttavia di una sola questione di parole: esse erano senza dubbio indici d'una mentalità, d'uno stile politico, d'un abito tradizionale. In definitiva, il preteso "socialismo" trascinò il partito a troppe manifestazioni di sterile verbalismo rivoluzionario, e gli procurò il sospetto e l'avversione sia delle masse proletarie, organizzate dai marxisti, sia dei medî ceti.

Bibl.: Fra le pubblicazioni del Partito d'Azione, numerose sin dal tempo della lotta clandestina, da ricordare, in primo luogo, i giornali L'Italia libera, che ebbe anche un'edizione milanese e una piemontese, e Giustizia e Libertà di Torino; poi le varie serie di studî, come i Quaderni del Partito d'Azione (Roma), i Quaderni dell'Italia libera (Torino e Milano), i Nuovi quaderni di Giustizia e Libertà, (Torino e Milano). Particolare diffusione ebbero al nord Il partigiano alpino, organo piemontese delle formazioni Giustizia e Libertà, e Voci d'officina, foglio operaio stampato a Torino ed a Milano. Tra le riviste più o meno ispirate agli ideali del Partito d'Azione sono da ricordare: Lo stato moderno di Milano (diretto da M. Paggi e G. Baldacci); La nuova Europa di Roma (dir. da L. Salvatorelli); Il Ponte di Firenze (dir. da P. Calamandrei); Liberalsocialismo di Roma (dir. da G. Calogero); Realtà politica di Roma (dir. da R. Bauer); L'Acropoli di Napoli (dir. da A. Omodeo); Il nuovo Risorgimento di Bari (dir. da V. Fiore). Vi si trovano analisi politiche condotte dal punto di vista del Partito d'Azione ed importanti studî sul partito stesso. Si vedano infine: A. Monti, Realtà del Partito d'Azione, Roma 1945; G. Pischel, Che cos'è il Partito d'Azione, Milano 1945; B. Visentini, Due anni di politica italiana (1943-45), Vicenza 1945; L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Firenze 1947.

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