Partito politico e governo

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto (2012)

Partito politico e governo

Massimiliano Gregorio

Tra partito e governo si è sviluppato, nell’arco di tempo compreso tra le due guerre, un dialogo vivace e fecondo, che ha alimentato l’intero iter evolutivo del costituzionalismo italiano del Novecento. A partire dal riconoscimento, peraltro assai problematico, dell’esistenza di una dimensione politica nell’agire dello Stato, la dottrina ha dovuto accogliere e metabolizzare il pluralismo politico del nuovo secolo e fare i conti col suo principale protagonista, il partito di massa.

Il mutamento fu epocale, perché non solo minò il patrimonio di categorie dogmatiche della scienza giuridica, ma incise addirittura sui presupposti di fondo di una certa cultura costituzionale. E infatti, tra le due guerre, il costituzionalismo italiano ha vissuto enormi transizioni: è passato dallo Stato di diritto al regime fascista, attraversando la brevissima esperienza di un incompiuto Parteienstaat, fino a coltivare, sul finire degli anni Quaranta, i germi di un cambiamento destinato a preparare il terreno dottrinale sul quale erigere il nuovo Stato repubblicano.

Cercheremo allora di mostrare, nelle pagine seguenti, quali reciproche interazioni abbiano fatto registrare, nel periodo assegnato, i due concetti di partito politico e di governo, avendo cura di specificare, previamente, che tra i differenti significati di quest’ultimo termine – contraddistinto come è noto da un’intrinseca polisemia – si prenderanno in considerazione soltanto i due che ci sono sembrati più significativi ai fini del nostro discorso: quello di governo inteso come organo o complesso di organi deputati alla funzione esecutiva; e quello di governo inteso come attività di definizione e posizione dei fini politici dello Stato.

Lo status quo ante: governo come attività e governo come Gabinetto nella dottrina dello Stato di diritto

L’origine della nozione di governo come attività affonda le radici nella riflessione prodotta dalla dottrina francese del 19° sec. sopra una specifica tipologia di atti amministrativi: i cosiddetti atti politici. La vicenda è nota, come è nota l’esigenza che mise in moto quella riflessione: il bisogno, una volta istituita una magistratura amministrativa, di definire i contorni dell’area da sottoporre al controllo dell’organo giudicante. Per contemperare due esigenze opposte: quella di difendere i diritti del cittadino e il principio di legalità e quella di garantire la funzionalità del potere esecutivo, le cui decisioni rischiavano di essere contestate giudizialmente sulla scorta di una diversa valutazione politica. Di qui la necessità di identificare una categoria di atti da sottrarre alla valutazione giudiziale.

In realtà, però, è proprio la qualificazione di tali atti come politici a rilevare ai fini del nostro discorso, poiché tale politicità rappresentava una sorta di principio di eccezione, capace di incrinare almeno due fondamentali cardini concettuali ottocenteschi. In primo luogo, quello della pretesa neutralità scientifico-giuridica dello Stato di diritto che, nel bel mezzo del processo di costruzione della propria statualità, si trovò a dover prendere atto della sostanziale impossibilità di chiudere definitivamente i conti con la dimensione politica. In secondo luogo, quello della superiorità della legge che, per la cultura costituzionale liberale in generale – e per quella francese in particolare – incarnava la voce dello Stato e rappresentava, forse, l’unico cordone ombelicale che la teneva ancorata all’eredità della rivoluzione.

È per questa ragione che «nel quadro della ideologia liberale e del sistema parlamentare il potere di governo stent[a] a trovare una collocazione propria» (Cheli 1961, p. 47). Lo dimostra l’atteggiamento tiepido che tennero, tra i due secoli, i grandi maestri della scienza amministrativistica liberale. Tra molti distinguo, dalle pagine di un Santi Romano o di un Oreste Ranelletti emerge la difficoltà, e con essa la perplessità, circa la possibilità di rivenire un criterio certo per l’identificazione degli atti politici. E anche del più generale concetto di governo essi sottolineavano la scivolosa polisemia, pur accettando di annoverare tra i significati possibili anche quello di governo inteso come attività, come uno dei due ambiti nei quali era possibile partire la funzione esecutiva, secondo la metafora per cui «il governo è la testa, l’amministrazione le braccia» (O. Ranelletti, Principii di diritto amministrativo, 1912, p. 325). Ma si trattava pur sempre di una distinzione interna alla sistematica del diritto amministrativo, una categorizzazione insomma sostanzialmente tecnica, elaborata per venire incontro a pratiche esigenze giurisdizionali e non per soddisfare un’urgenza dogmatica. Sotto il profilo della sistematica costituzionale, infatti, l’attività di governo continuò a rimanere estranea alla cultura giuridica del tempo. Lo testimonia efficacemente Vittorio Emanuele Orlando che nei suoi Principii di diritto costituzionale liquida il concetto come un’idea sostanzialmente estranea alla sfera del diritto pubblico, e appartenente piuttosto a quella del «linguaggio politico» (1889, p. 50).

Non c’è naturalmente bisogno di spiegare quale valenza negativa acquistasse, nel pensiero orlandiano, la qualificazione di un tema come politico. Significava, né più né meno, espungerlo dalla sistematica del diritto pubblico. Ciò non vuol dire, però, che nel pensiero di Orlando il tema del governo non trovasse cittadinanza. Egli lo esauriva tuttavia all’interno della sua teorica sul Gabinetto e poiché tutto quanto concerneva lo Stato era divenuto di per sé stesso giuridico, anche lo stesso Gabinetto non poteva reggersi sulla mera legittimazione parlamentare, ma abbisognava di una duplice investitura: quella politica della Camera dei deputati e quella istituzionale del monarca, con quest’ultima che, per usare le significative parole dello stesso Orlando, ne rappresentava il vero «fondamento giuridico» (p. 206) di legittimità.

Il partito dei liberali

Ma come era possibile escludere completamente ogni dimensione politica dalla riflessione sulla forma costituzionale? Nell’ottica liberale, l’obiezione risultava facilmente aggirabile per tre buone ragioni che rappresentavano altrettanti fondamentali pilastri di quella cultura giuridica: a) la sua visione della sovranità; b) il contesto sociopolitico da essa presupposto; c) la nozione di partito che elaborò.

Il costituzionalismo liberale europeo, come è noto, aveva preso le mosse dalla negazione radicale di ogni ipotesi contrattualistica. Sovrano era solo lo Stato, che non aveva bisogno di alcuna legittimazione esterna, essendo perfettamente in grado di legittimarsi da solo. Così anche il diritto di voto, come sosteneva tra gli altri lo stesso Orlando, non comportava alcun trasferimento di sovranità, semplicemente perché nessuna sovranità era possibile riconoscere agli elettori, i quali – nel momento del voto – adempivano piuttosto a una pubblica funzione, cui lo Stato li chiamava per selezionare le persone più adatte e competenti all’ufficio di deputato.

E ciò fu possibile perché lo Stato di diritto liberale era uno Stato borghese, fondato sopra una base elettorale ristrettissima, della quale rifletteva ovviamente non solo i più immediati interessi, ma la complessiva antropologia individualistico-proprietaria.

Il partito che i liberali teorizzarono, quindi, aveva lo scopo precipuo di organizzare ‘questa’ società politica e ovviamente ne rifletté le forme. Il consenso nell’Italia liberale, infatti, si strutturò nelle forme del ‘notabilato’, un sistema fondato unicamente sul prestigio e sull’autorevolezza di poche stimate personalità, e al quale era ovviamente connaturale un sistema elettorale maggioritario, organizzato per collegi uninominali. In un tale contesto, come si intuirà, non c’era alcun bisogno di partiti organizzati; servivano piuttosto efficaci comitati elettorali capaci di lavorare sul territorio e di rappresentarne gli interessi. Ciò nonostante, il pensiero liberale non rinunciò affatto ai partiti, anche perché, giova ricordarlo, essi potevano vantare una lunga e onorata carriera al servizio del glorioso parlamentarismo britannico, modello imprescindibile per la classe dirigente italiana del 19° secolo. E così anche il liberalismo italiano creò una propria interpretazione del partito.

Illuminanti, al proposito, risultano le parole di Ruggiero Bonghi che, in una delle prime opere espressamente dedicata al tema, notava: «il partito politico ha per suo fine immediato il governo della città»; per poi aggiungere: «i partiti politici sono quindi essenzialmente partiti che dividono la classe che governa» (I partiti politici nel Parlamento italiano, 1868, p. 7). La definizione è densa di spunti di riflessione. In primo luogo, conferma la palese natura elitaria dell’organizzazione politica liberale, sottolineata da quel sostantivo, ‘classe’, vergato in corsivo dall’autore. Ma soprattutto rivela la funzione che i partiti politici venivano chiamati a svolgere: una funzione evidentemente non costitutiva di un ordine politico, ma al contrario meramente organizzativa, finalizzata cioè ad articolare internamente un ordine dato. I partiti, infatti, lungi dal determinare il risultato elettorale, intervenivano essenzialmente a elezioni fatte, allo scopo di organizzare l’aula parlamentare, in modo da fare emergere, all’interno della compagine dei deputati, due distinti schieramenti, tendenzialmente coincidenti con quello di maggioranza e di opposizione. Tanto che si poteva guardare al problema anche soltanto dal punto di vista dell’articolazione dell’aula parlamentare, perché, come faceva notare Livio Minguzzi, in fondo, «il primo dovere di un’assemblea politica è quello di ordinarsi in partiti» (Governo di gabinetto e governo presidenziale, 1885, p. 14).

Si chiudeva così il circuito virtuoso partito-governo. Pensare i partiti come meri strumenti di buon funzionamento dell’assemblea parlamentare, infatti, significava non solo negare ogni loro funzione di stabile collegamento tra società e istituzioni, ma significava soprattutto sequestrare la dimensione politica all’interno della sfera istituzionale, collocandola così in una posizione che, pur senza negarne l’esistenza, le impedisse di mettere in discussione la giuridica e istituzionale autorevolezza dello Stato di diritto. La politica, intesa come riflessione valoriale volta a indirizzare le scelte del Ministero poteva quindi trovare cittadinanza entro le mura della Camera, a patto però che qui restasse e che qui si esaurisse nel circuito virtuoso Camera-maggioranza-Ministero. La legislazione elettorale e la natura elitaria del sistema politico avrebbero fatto il resto. Quando Bonghi afferma infatti che il fine dei partiti è il governo, egli non fa che confermare l’impossibilità per la propria cultura di pensare la politica «se non come sfera del governo» (F. Cammarano, Il progresso moderato, 1990, p. 144), con l’ovvia conseguenza di finire per schiacciare la prima sul secondo. In altre parole, la cultura costituzionale liberale poté permettersi di non esplicitare teoricamente il problema della posizione dei fini politici dello Stato. E poté farlo perché quel problema aveva già trovato, a priori, una propria naturale soluzione nell'omogenea estrazione della sua base sociale.

Quella mirabile e raffinatissima architettura concettuale che fu lo Stato di diritto, quindi, si reggeva su fondamenta sostanzialmente fragili. Esso poteva infatti garantire e incarnare il principio di unità politica, traducendolo in forme istituzionali, solo a patto di presupporre, al di fuori da sé, l’esistenza di una società omogenea e non radicalmente conflittuale. Perciò, non appena il pluralismo sociale ruppe gli argini, lo Stato di diritto non resse l’urto con il nuovo secolo.

L’emersione del Novecento giuridico: pluralismo e partiti

A dire il vero, buona parte della scienza giuridica aveva da tempo colto ed evidenziato alcuni chiari segnali di crisi. E di crisi profonda sembrava trattarsi, perché a essere rimesso in discussione era il caposaldo più significativo dell’intera antropologia giuridica ottocentesca: quel dualismo Stato-individuo che il liberalismo aveva ereditato dalla Rivoluzione francese e poi elevato a proprio dogma fondamentale. E che adesso, nei primi anni del 20° sec., mostrava tutto il suo insopportabile riduttivismo.

La riscoperta del pluralismo e della complessità sociale irrompe quindi sulla scena dottrinale e mette in crisi i tranquillizzanti e lineari dogmi della scienza liberale. È questo che accomuna le riflessioni di Hermann Kantorowicz e di Raymond Saleilles al modernismo giuridico di Widar Cesarini Sforza, passando per le riflessioni di Cesare Vivante ed Enrico Cimbali. Sul piano giuspubblicistico, però, l’interprete più lucido della crisi fu senza dubbio Romano (cfr. S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, 1909; Id., L'ordinamento giuridico, 1918). Egli prese atto della necessità di rendere più complessa l’interpretazione della Staatslehre italiana, a partire dal riconoscimento dell’esistenza – accanto a quello statuale – di una pluralità di altri ordinamenti. Ma quali erano questi ordinamenti? Il pluralismo sociale, nella riflessione di Romano emerge sottoforma di sindacati, di cooperative, di società di mutuo soccorso. Sono questi gli ordinamenti sociali che proliferano accanto allo Stato, che spesso si contrappongono a esso, che minacciano il principio di unità politica da questo incarnato. E non è un caso, infatti, che i primi a rilevare il mutamento siano quegli operatori del diritto più direttamente a contatto con questi nuovi soggetti: civilisti, giuslavoristi e amministrativisti. I partiti, invece, rimasero fuori dalla riflessione giuridica, perché il diritto costituzionale non figurava tra i territori di frontiera. Apparentemente estraneo ai mutamenti, rimase ben ancorato alla tradizionale interpretazione statualistica orlandiana. Ma fu proprio qui, nel cuore della forma di governo, che deflagrò più forte il Novecento giuridico e ciò avvenne per il tramite di protagonisti nuovi: i partiti di massa.

Questi incarnavano ovviamente un modello radicalmente antitetico rispetto all’idea liberale di partito. Dotati di un'organizzazione capillare e gerarchizzata, i partiti di massa riconoscevano centralità ai propri iscritti. Non erano insomma partiti dei governanti, ma dei governati, i quali si stringevano attorno a un’ideologia forte, capace di tradursi in programma politico. E se la guerra rappresentò davvero, per molti giovani, una vera e propria «iniziazione alla politica» (G. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, 1975, p. 63), ciò spiega la fortuna che i partiti di massa conobbero alla fine del conflitto, quando il bisogno di appartenenza e di partecipazione crebbe a dismisura, alimentando al tempo stesso conflitti sociali e una richiesta sempre più forte di democrazia. Fu per venire incontro a quest'istanza che il Ministero Nitti concesse la legge elettorale proporzionale. Non è questa la sede per dibattere sulla consapevolezza della classe dirigente liberale circa gli effetti di quella scelta. Ci possiamo invece limitare a registrarne le conseguenze. Le elezioni del 1919 videro i due più importanti partiti di massa, il socialista e il neonato Partito popolare italiano (PPI), entrare massicciamente alla Camera, sottraendo al blocco liberale la maggioranza e cambiando per sempre il volto del Parlamento italiano.

Le conseguenze sul piano dell’ordinamento costituzionale non tardarono a farsi sentire. Già con i nuovi Regolamenti parlamentari approvati nel 1920 i partiti di massa sancirono di fatto la propria istituzionalizzazione nell’ordinamento italiano, e non solo per il fatto di risultare disciplinati da una norma di diritto pubblico. Ancora più significativa fu la sostanza di quelle norme. Esse riorganizzarono i lavori della Camera a partire da una nuova unità di base: il gruppo parlamentare, vale a dire l’appendice assembleare delle segreterie di partito. Era il gruppo che aveva il potere di designare, in proporzione al proprio valore numerico, i membri delle Commissioni permanenti e queste rappresentavano a loro volta una novità, giacché soppiantavano il vecchio sistema degli Uffici, i cui membri venivano sorteggiati. Il principio di aggregazione era insomma divenuto un quid pluris, tanto che, alla regola che stabiliva un numero minimo di venti deputati per poter costituire un gruppo, i Regolamenti prevedevano un’unica significativa eccezione: ne potevano bastare dieci, a patto che essi rappresentassero «un partito organizzato nel paese».

Nel breve volgere di un biennio, insomma, i partiti di massa riuscirono a permeare della propria logica una parte significativa dell’ordinamento costituzionale. E questo, inevitabilmente, incise profondamente anche sul secondo dei nostri concetti, quello di governo, sia rafforzandone il significato di attività di direzione e posizione dei fini politici, sia – e forse dovremmo dire soprattutto – innescando mutamenti radicali sul piano della forma di governo.

Sotto il primo profilo possiamo dire che, dopo il 1919, era divenuto impossibile ignorare la questione della posizione e del perseguimento dei fini politici dello Stato. Il tema si era, per così dire, esplicitato da solo: perché la società italiana si era manifestata in tutta la sua complessità e, soprattutto, perché tale complessità si era finalmente proiettata in Parlamento, avanzando precise istanze politiche e pretendendo di trasmetterle dalla Camera al Ministero sulla base di un percorso che, partendo dai programmi dei partiti di maggioranza, avrebbe dovuto condurre a elaborare un preciso programma politico di governo. Le conseguenze più eclatanti si ebbero però sotto il profilo della forma di governo. Nel triennio 1919-22 il Paese visse infatti una sorta di frattura istituzionale. Una metà della Camera, quella formata dal vecchio blocco liberale, continuò a pensare le relazioni interne al Parlamento nonché l’interazione tra questo e l’esecutivo secondo l’antica e familiare logica del governo di gabinetto, in base alla quale la tenuta di un Ministero, creato attraverso maggioranze liquide e trasversali, non era garantita tanto da un preciso programma, quanto piuttosto dalla visione politica, dall’autorevolezza e dall’onorabilità dei suoi componenti, in primis del presidente del Consiglio. L’altra metà della Camera, rappresentata dai partiti di massa, ragionava invece secondo la logica precipua del governo parlamentare tipico del cosiddetto Parteienstaat, che prevedeva maggioranze politiche preparate attraverso accordi e mediazioni tra i partiti, per giungere poi alla redazione di un programma di governo e alla scelta condivisa delle personalità che di questo avrebbero dovuto far parte.

La profonda differenza tra queste due opposte visioni costituzionali si tradusse in una sostanziale incomunicabilità più volte manifestatasi nel triennio, giacché – come è noto – l’unica maggioranza possibile rimase sempre quella tra il blocco liberale e il PPI. Gli esempi forse più indicativi sono quelli che, nel 1922, portarono alla composizione del debolissimo Ministero Facta. A esso si giunse infatti dopo che per due volte il Partito popolare aveva fatto fallire gli incarichi affidati a due giganti del liberalismo politico italiano: Orlando prima e Giolitti poi. Il primo rifiutò l’incarico perché il PPI pretendeva di avere piena libertà nella scelta dei propri ministri, mentre sul nome del secondo il PPI pose addirittura un veto. Al di là dell’enormità politica di questo comportamento, che simbolicamente accantonava due dei principali protagonisti della storia dell’Italia liberale, esso presentava anche gravi problemi di compatibilità costituzionale. In primo luogo, rispetto all’art. 65 dello Statuto albertino, che lasciava al re piena libertà di scegliere i propri ministri e, in secondo luogo, rispetto a quella ormai sedimentata interpretazione dottrinale che aveva, nel tempo, riconosciuto una certa preminenza al presidente del Consiglio rispetto al resto della compagine governativa e che mal si conciliava con le pretese dei partiti di determinare la composizione del Ministero stesso.

Il primo dopoguerra coincise pertanto con un momento di grave crisi costituzionale, all’origine della quale stava esattamente la difficoltà per l’ordinamento e per i suoi interpreti di assorbire la novità rappresentata dai partiti di massa, sia sotto il profilo di una corretta interpretazione circa la loro natura, sia sotto quello del rapporto che occorreva ricostruire tra questi e il governo.

A tale proposito, la voce certamente più avanzata nel panorama dottrinale italiano fu quella di Gaspare Ambrosini. Egli superò la lettura amministrativistica del pluralismo sociale e portò la riflessione ben dentro il terreno del diritto costituzionale, distinguendo con forza tra associazionismo sindacale e politico e cogliendo le caratteristiche essenziali dei protagonisti di quest’ultimo, ossia dei partiti di massa. Elaborò in sostanza una nozione giuridica di partito assai distante dalla quella prodotta dalla tradizione liberale, capace di comprendere, per es., la natura extraparlamentare di questi nuovi soggetti. Ma soprattutto intuì per primo che, pur nella loro intrinseca parzialità, i partiti erano portatori di una visione complessiva della società e che quindi, se ben strutturati all’interno dell’ordinamento costituzionale, potevano risultare non già elementi disgregatori dell’ordine, ma – al contrario – costruttori attivi di un nuovo principio di unità politica (G. Ambrosini, Partiti politici e gruppi parlamentari dopo la proporzionale, 1921).

Perché è questo il problema che si pone con forza agli interpreti del primo dopoguerra: coniugare il pluralismo politico con l’indispensabile principio di unità politica dello Stato, che avrebbe poi dovuto tradursi in azione di governo. Il problema era nuovo. Come detto, non si poneva nel Rechtsstaat liberale, ma semplicemente perché uno dei due termini era stato rimosso. Ambrosini intuisce che i due corni del dilemma, invece, potevano e dovevano essere tenuti assieme, che nessuno dei due poteva essere soppresso a favore dell’altro, allineandosi così alle intuizioni che, in quegli stessi anni, avevano maturato in Europa anche Max Weber (Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland, 1919) e Hans Kelsen (Vom Wesen und Wert der Demokratie, 1920). E se al centro di tali riflessioni stava ovviamente il Parlamento composto da partiti, non meno rilevanti erano i riflessi che si riverberavano sull’esecutivo. Quest’ultimo da governo di gabinetto doveva trasformarsi infatti in «governo dei gruppi parlamentari» (G. Ambrosini, La trasformazione del regime parlamentare e del governo di gabinetto, «Rivista di diritto pubblico», 1922, p. 195) e lo stesso presidente del Consiglio, abbandonata ogni preminenza, doveva essere considerato un primus inter pares che aveva il compito precipuo di fare da «moderatore e pacificatore dei gruppi» (p. 198).

Tuttavia, le modernissime riflessioni di Ambrosini rimasero lettera morta. Il circuito virtuoso che doveva connettere la società con le istituzioni e tradursi quindi in azione di governo, si interruppe proprio nel raccordo tra Camera e Ministero. I partiti non riuscirono a formare maggioranze solide e quindi a trasformare i programmi in attività di governo. gli equilibri si dimostrarono instabili, la mediazione parlamentare spesso infruttuosa. Accadde nella Repubblica di Weimar, ma accadde anche in Italia. Pluralismo politico e unitarietà dell’azione di governo, allora, tornarono a essere termini apparentemente inconciliabili e scoppiò, ancora più virulenta, la polemica contro i partiti. La alimentò la dottrina liberale, che si scagliò contro lo sciagurato esperimento della proporzionale, invocando un ritorno ai tranquillizzanti scenari del passato. Ma la cavalcò anche il neonato movimento fascista, violentemente avverso ai partiti perché radicalmente ostile al parlamentarismo e alla democrazia. Queste due differenti avversioni finirono così per corteggiarsi e per condividere una comune retorica che contrappose il valore positivo del principio di unità al principio di disgregazione incarnato dai partiti. E la traduzione più immediata di tale principio di unità coincise, per l’appunto, con la sfera del governo.

Il governo nel regime fascista

Assai simbolicamente Orlando commentò l’avvento del fascismo sulle colonne del quotidiano argentino La Nación, mostrando grande apprezzamento per il proposito espresso da Benito Mussolini davanti alle Camere. Quest’ultimo si era infatti così presentato: «non venni a formare un Gabinetto, ma a dare un Governo» (V.E. Orlando, L’affermazione del fascismo in Italia, Archivio centrale di Stato, Orlando, busta 93, fasc. 1712, sfasc. 21922, p. 3). La vecchia classe dirigente liberale si illuse che il fascismo avrebbe ristabilito l’ordine costituito e riaffermato l’autorevolezza dello Stato e che, quindi, avrebbe recuperato la tradizione precedente. Naturalmente, così non fu. E, a ben vedere, in quell'espressione mussoliniana celebrata da Orlando era già possibile rintracciare le premesse di quanto sarebbe accaduto in seguito.

Il distinguo tra Gabinetto e governo, infatti, non alludeva solo alla necessità di un’azione decisa per riportare l’ordine nel caos in cui versava il Paese. Celava, al contrario, ben altro. Il Gabinetto, infatti, rimaneva pur sempre il prodotto di una mediazione parlamentare, partitica o notabilare che essa fosse; mentre il governo richiamava tutt’altre suggestioni, si sostanziava nell’attività politica dello Stato o, meglio ancora, volendo cominciare a familiarizzare con la retorica fascista, incarnava lo Stato politico in azione.

Se l’emersione del pluralismo politico aveva infatti già sottolineato il nesso profondo che esisteva tra la necessaria politicità statuale e l’attività di governo con cui tale politicità era chiamata a manifestarsi, negli anni Venti del secolo si registrò uno scarto ulteriore e sia la dottrina dell’Italia fascista, sia quella weimariana svilupparono e sistematizzarono questi concetti, scavando radicali discontinuità con il passato.

Venne innanzi tutto rigettata in toto la cultura costituzionale liberale, proprio perché colpevole di avere costruito il proprio edificio concettuale sulla base di un marcato agnosticismo politico. Ma la riflessione degli anni Venti rifiutò anche quella prima manifestazione del politico, emersa con il nuovo secolo e tradottasi nel pluripartitismo conflittuale e nella conseguente minaccia al principio di unità. Perché assumendo il pluralismo politico come presupposto del ragionamento, l’unica possibilità di recuperare un qualche principio di unità era probabilmente quello di individuarlo, come fece Kelsen, nell’intrinseca unità dell’ordinamento giuridico, tornando però così a dover presupporre nuovamente l’agnosticismo dello Stato – e con esso della costituzione – rispetto alla dimensione politica.

Sia la Kampfgemeinschaft dottrinale weimariana, dunque, sia la scienza giuridica italiana negli anni del fascismo rifiutarono ogni formalismo ed esaltarono invece il ruolo fondativo dei principi politici, con lo scopo preciso di ricostruire – su di essi – quel principio di unità politica che il pluripartitismo aveva contribuito ad affossare.

Pertanto fu naturale, per molti giuristi, prendere le mosse dall’attività di governo. Questa, più di ogni altra, evocava infatti l’unitarietà dell’azione politica statuale e pertanto, in quanto primaria incarnazione dello Stato politico, venne consacrata sia sul piano legislativo, sia su quello dottrinale.

Fu proprio l’ordinamento del governo, come è noto, il volano di trasformazione in senso dittatoriale dell’ordinamento costituzionale italiano. A partire dalle famigerate leggi fascistissime (l. 24 dic. 1925 nr. 2263 e l. 31 genn. 1926 nr. 100), l’intera esperienza costituzionale del regime si caratterizzò infatti per un’accentuazione esasperata del ruolo dell’esecutivo (e soprattutto del suo capo) e per una parallela e conseguente esautorazione del Parlamento, culminata con la riforma del 1939 che trasformò la Camera dei deputati in Camera dei fasci e delle corporazioni.

Ma è soprattutto sul piano dottrinale che si misurò la nuova centralità del concetto di governo. Su di esso si concentrò buona parte della dottrina italiana, alimentando, ci pare, due differenti interpretazioni: una più radicale, che potremmo ricondurre al pensiero di Carlo Costamagna; e una più moderata che, muovendo dalle opere di Sergio Panunzio e Costantino Mortati dei primi anni Trenta, giunse poi – sul finire del decennio – a innervare le riflessioni di Vezio Crisafulli e Carlo Lavagna sull’indirizzo politico.

Il primo indirizzo fu quello che condusse alla cosiddetta «concezione integrale del governo», corollario coerente dell'interpretazione totalitaria dello Stato. In quest'ottica, poiché Stato e popolo si erano fusi nell’idea gerarchica e corporativa della comunità nazionale, l’idea di governo, in virtù del principio di unità del comando, veniva ad assumere un significativo estensivo e diffuso, identificandosi con qualunque manifestazione di autorità prodotta da qualsiasi centro di potere «distribuito nel corpo della comunità nazionale e ricondotto all’unità attraverso il sistema gerarchico» (C. Costamagna, Governo, in Dizionario di politica, a cura del Partito nazionale fascista, 1940, ad vocem).

Più articolato e meno ideologico il secondo filone, originato dalle riflessioni di Panunzio e Mortati che, partendo dalla critica alla teoria della tripartizione delle funzioni di Montesquieu, giunsero a individuare una quarta funzione dello Stato, preminente sulle altre, che Panunzio definì «corporativa» e Mortati invece «funzione di governo». Quest’ultima, in particolare, venne elaborata dal giurista calabrese attraverso una serrata analisi tutta condotta all’interno del patrimonio dogmatico della scienza costituzionalistica, che consentì alla sua analisi di non risultare una mera esegesi dell’ordinamento fascista, ma di elevarsi sul piano più generale della teoria del diritto. In tal senso, Mortati costruì la funzione di governo come categoria generale, originata non dalle riforme del legislatore fascista, ma dalla necessità di considerare modernamente lo Stato «come unità politica di un popolo» e di prendere atto, pertanto, che sua prima fondamentale funzione doveva essere quella di «porre in modo concreto le direttive generali della sua azione, di predeterminare il suo programma» (C. Mortati, L'ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano, 1931, p. 9).

Fu questo il sentiero che condusse, sul finire del decennio, alle riflessioni di Crisafulli e Lavagna sull’indirizzo politico, nonché alla celeberrima nozione mortatiana di costituzione in senso materiale. Tutte intuizioni, cioè, che misero a frutto la precedente riflessione sul governo per produrre una sistemazione dogmatica della politicità dell’agire statuale destinata a trasformarsi in acquisizioni assai preziose anche per il successivo pensiero costituzionale repubblicano.

Il partito nel regime fascista

Naturalmente, postulare la politicità dell’agire statuale comportava la necessità di affrontare anche un problema speculare, quello cioè di spiegare l’origine di tale politicità. Come assumeva cioè lo Stato i principi e i contenuti che ne dovevano orientare l’azione? Da dove provenivano? La risposta che dette il regime non fu delle più lineari, soprattutto perché non riuscì mai a produrre una sistemazione dottrinale convincente della posizione del partito.

È noto che il fascismo faticò non poco ad accettare la forma partito e il PNF (Partito Nazionale Fascista) nacque – nel 1921 – solo grazie all’opera di mediazione compiuta da Mussolini nei confronti dell’ala più riottosa e movimentista. Forse il PNF scontò anche questo: il suo riflettere le varie anime del fascismo. Fatto sta che esso, come ente politico dotato di una propria autonomia e di determinate garanzie di democrazia interna, ebbe una vita davvero molto breve. L’iniziale ibridazione di piani tra Stato e partito cominciò a trovare, già a partire dal 1923 con le celebri circolari di Mussolini ed Emilio De Bono ai prefetti, una precisa soluzione: il partito doveva subordinarsi allo Stato. E a portare tale operazione a compimento fu proprio quel supremo organo del PNF, il Gran consiglio del fascismo, che – una volta costituzionalizzato con la l. 9 dic. 1928 nr. 2693 – ad alcuni sembrò il cavallo di Troia che avrebbe consentito al partito di espugnare la cittadella statuale. In realtà esso finì – e forse nacque proprio con tale obiettivo – per annullare qualsiasi autonomia residua del partito e per statalizzarlo progressivamente o per trasformarlo, come recitava lo Statuto del PNF del 1932, in una milizia «al servizio dello Stato fascista».

Il partito, pertanto non ricoprì mai un ruolo effettivo nel processo di trasmissione di contenuti politici dalla società allo Stato, anche perché tale processo assunse i tratti, quasi metafisici, di una sorta di naturale processo di trasmissione osmotica. Come linfa vegetale, la volontà nazionale si diffondeva automaticamente dalle radici alla cima dell’albero e al PNF restò dunque solo la concreta possibilità di percorrere il cammino in senso inverso, facendo discendere, attraverso la propria attività di propaganda e organizzazione sociale, il volere del capo verso le masse, per far sì che esse vi aderissero.

Ciò detto, tuttavia, per la dottrina giuridica rimaneva il problema di una ricostruzione sistematica del ruolo del partito nell’ordinamento costituzionale. Ma le fantasiose riforme costituzionali del regime, indecifrabili secondo le categorie dottrinali tradizionali, non resero il compito agevole e il PNF, per usare le parole di Panunzio, divenne «il tormento teoretico dei giuristi» (Teoria generale dello Stato fascista, 1939, p. 567). La dottrina si confrontò a lungo e anche aspramente sull’interpretazione del partito, interrogandosi sull’esistenza o meno di una sua personalità giuridica, sia di diritto pubblico sia di diritto privato, ma soprattutto chiedendosi che relazione esso avesse con lo Stato e, su quest’ultimo punto, emersero due differenti interpretazioni: quella che voleva il PNF un ente autarchico e quella che lo voleva un organo dello Stato.

A favore della prima si schierarono soprattutto gli alfieri della tradizione liberale come Ranelletti, ma anche Emilio Crosa, Romano, Paolo Biscaretti di Ruffia, decisi a salvare almeno qualche cosa dell'antica e rigidissima separazione orlandiana tra dimensione politica e dimensione istituzionale. Per la seconda, invece, optò la dottrina più decisamente engagée rappresentata da Costamagna e, pur con qualche distinguo, anche da Panunzio; ma a essa aderirono anche quei giuristi orientati a offrire una lettura più realistica dell’ordinamento italiano come Arturo Carlo Jemolo e Ambrosini. Se le molte questioni intrecciate al tema, prima fra tutte la tenuta o meno dello strumentario dogmatico tradizionale, alimentarono una messe di posizioni particolarmente ricca e sfaccettata, occorre però notare che la posizione volta a riconoscere una relazione di subordinazione organica del partito nei confronti dello Stato risultava di gran lunga la più realistica e la più coerente con la legislazione del regime.

Tuttavia, essa non esauriva tutti gli interrogativi. Se il fascismo, infatti, continuava ad accreditarsi come una rivoluzione che aveva conquistato il cuore dello Stato e della quale il PNF restava il custode, il ruolo di quest’ultimo non poteva essere sacrificato troppo agevolmente sull’altare dello statualismo. Così, anche in dottrina emersero posizioni disposte a ritagliare al partito un ruolo potenzialmente assai più significativo di quello che la prassi politica del regime non consentisse, proprio perché in esso riconoscevano una sorta di prius logico rispetto allo Stato, un protagonista cioè del momento fondativo dell’esperienza costituzionale fascista. E furono proprio questi autori che, a partire dalla metà degli anni Trenta, produssero alcune interpretazioni del partito politico non meramente finalizzate all'esegesi del ruolo del PNF, ma dotate invece di un respiro più ampio che, di lì a qualche anno, avrebbe prodotto i propri frutti migliori nella stagione repubblicana. Si trattò d'interpretazioni che, pur nella loro diversità, tentarono di leggere la relazione tra società e Stato sulla base di due sostanziali novità: lo fecero fuori dal sentiero tracciato dalla retorica corporativa alla Volpicelli; e lo fecero dal basso verso l’alto.

In particolare, due furono i filoni di riflessioni che conversero in tal senso. Il primo è quello che ruppe la tradizionale interpretazione rigidamente corporativa, rimanendo però all’interno di un paradigma di stampo organicista. È il filone inaugurato da Panunzio, per intendersi, che si sostanziò nell’idea del partito che precede e crea lo Stato. E se ciò non impedì al giurista di giungere comunque ad approdi statualistici, gli consentì quanto meno di tenere desta l’attenzione sul momento originario e creativo della politicità statuale, un momento che non poteva che collocarsi sul piano sociale. E non è un caso che sia stato proprio il principale allievo di Panunzio, e cioè Mortati, a coronare in senso compiuto quest'intuizione. A partire dalla sua celeberrima opera del 1940, La costituzione in senso materiale, Mortati descrive infatti il partito come un tramite indispensabile nella determinazione della stessa costituzione in senso materiale, essendo quel soggetto deputato ad agire nella società e a operare in essa un processo di specificazione volto a darle forma politica. Si tratta di una riflessione che, com'è noto, il giurista calabrese non faticò ad adattare alle mutate condizioni pluralistiche dell’Italia repubblicana.

Parallelamente a questo filone, però, e più o meno contemporaneamente all’intuizione mortatiana, nella dottrina si fece strada un secondo percorso, che finì anch’esso per riscoprire le potenzialità del partito politico. Ci si riferisce a quegli autori che tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta incrinarono decisamente la vulgata corporativa e organicistica per recuperare invece una sostanziale visione dualistica del rapporto tra Stato e società. In tal senso si mosse Crisafulli già nella sua teoria giuridica dell’indirizzo politico, ma sullo stesso sentiero si incamminarono altri autori come Carlo Esposito e persino Vincenzo Zangara, quando scelsero di riflettere sul tema della rappresentanza. A testimonianza del fatto che, una volta reintrodotta la dialettica tra società e istituzioni, nella ricerca di un canale di collegamento tra le due dimensioni, non è davvero possibile prescindere dal partito politico.

Opere

R. Bonghi, I partiti politici nel Parlamento italiano, Firenze 1868.

V.E. Orlando, Principii di diritto costituzionale, Firenze 1889.

S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, Pisa 1909.

O. Ranelletti, Principii di diritto amministrativo, Napoli 1912.

S. Romano, L’ordinamento giuridico, Pisa 1918.

G. Ambrosini, Partiti politici e gruppi parlamentari dopo la proporzionale, Firenze 1921.

G. Ambrosini, La trasformazione del regime parlamentare e del governo di gabinetto, «Rivista di diritto pubblico», 1922.

V.E. Orlando, L’affermazione del fascismo in Italia, Archivio centrale di Stato, Orlando, busta 93, fasc. 1712, sfasc. 2, 1922.

C. Mortati, L’ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano, Roma 1931.

Il partito fascista nella dottrina e nella realtà politica, a cura di O. Fantini, Roma 1931.

C. Esposito, La rappresentanza istituzionale, Tolentino 1938.

V. Zangara, La rappresentanza istituzionale, Bologna 1938.

V. Crisafulli, Per una teoria giuridica dell’indirizzo politico, Urbino 1939.

S. Panunzio, Teoria generale dello Stato fascista, Padova 1939.

C. Costamagna, Governo, in Dizionario di politica, a cura del Partito nazionale fascista, 2° vol., Roma 1940, ad vocem.

C. Mortati, La costituzione in senso materiale, Milano 1940.

C. Lavagna, Contributo alla determinazione dei rapporti giuridici tra Capo del Governo e Ministri, Roma 1942.

Bibliografia

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