Partito popolare italiano

Cristiani d'Italia (2011)

Partito popolare italiano

Francesco Malgeri

Le origini

Nei primi anni del Novecento, il problema dell’incontro tra cristianesimo e democrazia e la rivendicazione dell’autonomia politica del cristiano nei confronti della gerarchia ecclesiastica, rappresentò una questione di ordine culturale che si inseriva nel processo in atto in seno al cattolicesimo europeo, ispirato all’esigenza di adeguamento ai risultati della cultura moderna1.

Come ha sottolineato Luigi Sturzo, avvenne un «trasferimento delle preoccupazioni antimoderniste dal campo delle scienze sacre a quelle dell’azione sociale», per un motivo «tutto ecclesiastico e disciplinare», che era il riflesso della concezione di Pio X «di sottoporre ogni iniziativa cattolica all’autorità diocesana». Questo indirizzo si manifestò con lo scioglimento dell’Opera dei congressi e con la riorganizzazione dell’Azione cattolica sotto il diretto controllo dei vescovi2.

L’esigenza dell’autonomia nasceva anche dal timore che il nuovo orientamento clerico-moderato, incoraggiato e favorito dallo stesso Pio X, attenuasse le istanze sociali e le aspirazioni democratiche maturate nel clima di forte risveglio sociale, politico e culturale, a cavallo dei due secoli, collocando il cattolicesimo militante nel quadro del trasformismo e del clientelismo giolittiano. Romolo Murri colse i limiti dei nuovi indirizzi della gerarchia ecclesiastica. Sentì l’esigenza dell’autonomia politica, la necessità di un movimento che sul piano delle scelte sociali e politiche doveva sottrarsi dalla tutela ecclesiastica, per non disperdere un patrimonio di idee, di organismi, di giornali, di energie che era maturato e si era affermato in seno al cattolicesimo italiano. «Il mio pensiero – scriveva Murri a Tommaso Gallarati Scotti il 29 agosto 1906 – è che i cattolici italiani debbono conquistarsi il diritto di agire liberamente nella vita pubblica italiana»3.

Si deve a Luigi Sturzo il superamento di questo momento critico del cattolicesimo democratico. Egli intuì che forzare la mano dell’autorità ecclesiastica poteva compromettere il lavoro di preparazione e di costruzione faticosamente avviato. Occorreva invece una politica più cauta, senza sfide alla Santa Sede, avendo però chiaro l’obiettivo finale: un partito politico, la cui fisionomia Sturzo indicò nel discorso pronunciato il 29 dicembre 1905 a Caltagirone. Con questo discorso venne delineato un modo nuovo e moderno di collocarsi del movimento cattolico nella società italiana, lontano da integralismi, da confusioni tra politica e religione, con alcune definizioni di carattere programmatico che delineavano i contorni e la fisionomia di una proposta politica non attardata nel rimpianto del passato. Una proposta che non respingeva le conquiste e i risultati delle rivoluzioni nazionali borghesi del secolo XIX e che si poneva l’obiettivo di avviare un processo di riforme istituzionali e sociali, alla luce dei problemi emergenti dalla realtà italiana di quegli anni.

L’intervento nella vita pubblica non poteva essere attuato in nome della religione o della Chiesa, come partito clericale al servizio dell’autorità religiosa. Occorreva che i cattolici si mettessero «a paro degli altri partiti nella vita nazionale, non come unici depositari della religione o come armata permanente delle autorità religiose che scendono in guerra guerreggiata, ma come rappresentanti di una tendenza popolare-nazionale nello sviluppo del vivere civile».

Ma per arrivare al partito nazionale, senza riserve e con piena coscienza, occorreva sgombrare il campo da alcune pregiudiziali. In primo luogo la pregiudiziale nazionale, vale a dire il riconoscimento dello Stato nato dal Risorgimento, la presa d’atto dei cosiddetti fatti compiuti, che per decenni erano stati al centro di polemiche e di scontri fra cattolici e liberali. «Noi oggi possiamo dire [affermò Sturzo] che fu un bene l’unità della patria, che fu un bene per essa si fosse lottato».

Occorreva superare anche la pregiudiziale della questione romana. Era necessario aspettare che «una vera evoluzione storica» sciogliesse questo problema: «non sarà mai possibile [affermò] che un partito politico, e peggio cattolico, possa risolvere con un’azione diplomatica o un atteggiamento parlamentare la questione romana, di cui il papa non solo è l’unico giudice competente, ma anche l’unica forza attiva di una soluzione che mille fattori dovranno maturare».

Sciolti questi nodi, Sturzo pose i cattolici di fronte a un bivio, a una scelta chiara e inequivocabile: «o sinceramente conservatori o sinceramente democratici». Le soluzioni ibride avrebbero potuto creare equivoci, confondere i cattolici con i conservatori liberali, provocare il distacco da chi voleva spingere il partito «sul cammino delle progredienti democrazie». Affermò Sturzo: «La necessità della democrazia nel nostro programma? Oggi io non la saprei più dimostrare, la sento come un istinto; è la vita del pensiero nostro. I conservatori sono dei fossili, per noi, siano pure dei cattolici: non possiamo assumerne alcuna responsabilità»4.

L’obiettivo finale di Sturzo era un partito che doveva maturare dal basso, diventare il risultato di una presa di coscienza politica, sociale, culturale e democratica delle masse cattoliche. Ma nella realtà del cattolicesimo italiano di quegli anni, dar vita a un partito, sulla base del modello indicato da Sturzo, appariva impresa prematura. La linea di Pio X, tesa alla riorganizzazione del laicato cattolico con prospettive essenzialmente religiose e sotto il rigido controllo della gerarchia ecclesiastica, rendeva difficile la realizzazione di quel progetto. La sofferta esperienza autonomistica tentata da Murri, con la Lega democratica nazionale, ne era la riprova.

Il discorso di Caltagirone assumeva, quindi, il carattere di un ideale manifesto politico. Indicava le linee da seguire, l’obiettivo da raggiungere attraverso una presenza attiva dei cattolici nelle amministrazioni comunali e provinciali, nelle organizzazioni contadine e operaie, nelle cooperative, nei sindacati e nelle iniziative mutualistiche ed economico-sociali, respingendo le collusioni con altre forze e rifiutando la partecipazione elettorale su basi clerico-moderate. Da qui il rinnovato invito al rispetto del non expedit, inteso come «preparazione nell’astensione». Occorreva «incominciare da capo e indovinare la via». Occorreva preparare il passaggio «dall’idea al fatto».

Il progetto di Sturzo al vaglio della Santa Sede

Il progetto sturziano trovò la sua realizzazione nel clima politico e sociale del primo dopoguerra. Nel nuovo contesto politico che emergeva nel dopoguerra, aperto a una più ampia partecipazione politica delle masse, i cattolici militanti erano destinati a entrare nella vita pubblica nazionale, come Sturzo affermò in una conferenza, tenuta al Circolo di cultura di Milano il 17 novembre 1918. Egli tracciò un vero e proprio programma di rinnovamento morale del Paese e di riforme sociali e istituzionali. Attaccò la concezione panteista dello Stato sovrano e assoluto, rivendicando le libertà individuali e collettive, la libertà religiosa, la libertà d’insegnamento, il decentramento amministrativo, le autonomie locali e la libera organizzazione delle classi. Riferendosi alla questione romana affermò che la Chiesa aspettava «solo dall’Italia, nell’amore di suoi figli, il riconoscimento pratico del diritto della libertà e indipendenza religiosa»5.

Su queste basi dovevano porsi i cattolici nel nuovo contesto politico nazionale, non più come forza di riserva ai margini della vita parlamentare o come puntello all’egemonia liberal-moderata. La conclusione del discorso apriva il campo a una presenza nuova e partecipe del cattolicesimo politico nell’Italia del dopoguerra:

«A questa nostra futura Italia dedichiamo anche noi le nostre piccole e modeste forze, quando tanti e tanti nostri fratelli vi han dato il sangue e la vita nelle tragiche ore di una enorme guerra; quando il risveglio dei nuovi ideali e delle nuove tendenze ci deve rendere convinti di un dovere che non cessa sol perché la lotta cruenta è cessata; ma che ci chiama alle lotte del pensiero, alle lotte civili e politiche, con la stessa voce suadente della madre che fa appello alle virtù dei figli»6.

In sostanza Sturzo apriva la strada all’ingresso dei cattolici nella vita politica italiana.

Alla conferenza di Sturzo era presente l’arcivescovo di Milano, il cardinale Andrea Carlo Ferrari, il quale chiese al sacerdote siciliano se gli argomenti da lui trattati erano stati discussi con la Segreteria di Stato vaticana. Sturzo rispose negativamente, riaffermando l’inopportunità di compromettere la Santa Sede in iniziative di carattere esclusivamente politico. «Simile iniziativa – disseSturzo al cardinaleFerrari – doveva essere presa dai privati cittadini sotto la loro responsabilità, e non mai dalle autorità ecclesiastiche, le quali si sarebbero così schierate sul terreno politico»7. Pur condividendo questa linea, il cardinale Ferrari, che ben conosceva uomini e ambienti della Curia romana, consigliò a Sturzo di recarsi presso il cardinale Gasparri, al fine di ottenere la revoca ufficiale del non expedit, ancora formalmente in vigore.

Nel novembre 1918 Sturzo incontrò in Vaticano il Segretario di Stato per illustrargli il suo progetto di partito e il programma politico, ponendo anche la questione relativa all’abrogazione del non expedit. Il cardinale ascoltò Sturzo, ma evitò di esprimere immediatamente la sua opinione: chiese tempo, affermò di doverne parlare al papa, e lo invitò a tornare dopo due o tre settimane.

Gasparri, prima di dare a Sturzo una risposta definitiva, volle acquisire una serie di elementi e di pareri al fine di decidere con piena cognizione di causa. In quei giorni Gasparri si rivolse a vari interlocutori: al cardinalePietro La Fontaine, patriarca di Venezia, chiedendo di far conoscere l’atteggiamento dell’episcopato veneto in merito alla partecipazione dei cattolici alla vita politica. Si rivolse anche a monsignor Antoine Pottier, noto studioso di problemi sociali, chiedendogli quale doveva essere l’atteggiamento della Chiesa di fronte alla democrazia e alle libertà popolari e in che modo avrebbe potuto «svolgere la sua azione»8. Le risposte dei vescovi veneti non furono uniformi. Il patriarca di Venezia dichiarò necessario il parere dell’Autorità ecclesiastica «sull’idoneità di un candidato a rappresentare e sostenere i diritti cattolici». Il vescovo di Padova riteneva opportuno che l’indirizzo e il programma del partito venisse coordinato con la giunta direttiva dell’Azione cattolica. Il vescovo di Concordia suggeriva la subordinazione del partito all’Unione elettorale. Anche il vescovo di Treviso chiedeva la vigilanza dell’autorità ecclesiastica nella scelta dei candidati, escludendo candidati sacerdoti9.

Il 28 novembre il Segretario di Stato si rivolse anche al conte Giuseppe Dalla Torre, presidente della Giunta direttiva dell’Azione cattolica e prossimo a divenire direttore de «L’Osservatore romano», per conoscere la sua opinione sulla creazione in Italia di un partito a ispirazione cristiana, sull’atteggiamento che la Santa Sede avrebbe dovuto assumere di fronte a questo evento e sul ruolo dell’Azione cattolica nelle nuove circostanze.

Dalla Torre aveva già affrontato l’argomento nel corso di un convegno di dirigenti cattolici, svoltosi a Roma il 23 novembre dello stesso anno, nel corso del quale aveva parlato della necessità di una più chiara distinzione tra partecipazione alla vita politica e apostolato religioso. Su questo aspetto i cattolici apparivano divisi. Stefano Cavazzoni aveva auspicato un partito che fosse emanazione dell’Azione cattolica. L’idea non era piaciuta a Sturzo, che, replicando a Cavazzoni, il 24 novembre, affermò che occorreva «la coscienza politica di un partito nazionale operante e collegato da un capo all’altro d’Italia, non attraverso gli organismi di Azione cattolica, ma nella coesione spirituale e nella fiducia operativa delle persone». Secondo Sturzo «gli organismi di Azione cattolica» non potevano «tramutarsi in organo di partito politico»10.

Il 29 novembre Dalla Torre consegnò aGasparri un promemoria, nel quale, partendo dalla constatazione che la mancanza di una vera organizzazione politica pareva impedire ai cattolici italiani di poter fronteggiare sul piano legislativo e parlamentare le forze avversarie, ne sottolineava la necessità, prevedendo che in quell’inquieto dopoguerra la lotta elettorale sarebbe stata

«più aspra e più difficile che mai per le passioni politiche ingigantite dai sacrifici imposti dalla guerra, dalle ambizioni che da essa traggono nuova forza: dagli odi di parte che pur dalla guerra avranno pretesto per scatenarsi con maggior violenza. Scenderanno in campo decisi a contendersi una vittoria che pensano definitiva, il blocco massonico, il socialismo ufficiale, il blocco democratico. L’anticlericalismo [...] sarà probabilmente la bandiera o una base programmatica per tutte e tre queste fazioni».

Secondo Dalla Torre, questo nuovo impegno politico, andava appoggiato a una «particolare organizzazione», la quale, dovendo affrontare battaglie «sul terreno di interessi immediati economici e politici, e cioè materiali», doveva essere «assolutamente distinta dall’azione morale e sociale delle unioni esistenti e quindi con responsabilità propria, non coinvolgente affatto quella dell’organizzazione cattolica ufficiale». Insomma, la nuova formazione politica doveva avere «nome e responsabilità propria», senza coinvolgere la Santa Sede e l’Azione cattolica, «essendo attività distinta ed autonoma». Quanto al non expedit, occorreva mantenere intatto il principio e le norme che lo regolavano a partire dal 1905, lasciando alle «autorità ecclesiastiche diocesane la facoltà di giudicare sulla opportunità di chiedere la dispensa a favore dei candidati della nuova organizzazione o partito, come si fece fin qui per quelli dei partiti affini»11.

Nel dicembre 1918, poco prima di Natale, il Segretario di Stato convocò Sturzo in Vaticano. Il sacerdote calatino andò a quell’incontro non senza trepidazione. «In quella udienza [ha scritto] sentivo il cuore battermi con eccitazione. Quella sera subii un vero interrogatorio stringente, e durante alcuni minuti pensai che la causa era perduta».Sturzo esordì chiedendo se, in caso di formazione di un partito «fra cattolici», il papa avrebbe tolto il non expedit.Gasparri replicò chiedendo ulteriori chiarimenti: «Ammesso che il Papa dica di sì, che politica farete voi verso la Chiesa?». «Nessuna politica contraria è chiaro [rispose Sturzo] ma anche nessuna politica speciale come partito. La questione romana è questione nazionale». Il cardinale chiese: «Che politica farete voi? la politica di Sonnino o di Orlando?». Sturzo rispose che, personalmente, era contrario a Sonnino ma aspettava il responso del primo congresso del partito per precisare la linea politica da seguire. Gasparri incalzò: «E che farà lei se il congresso le dirà di collaborare con Treves e Turati?». Sturzo rispose: «Sono pronto a collaborare anche con essi. Non ne avrei paura». Temette, con questa affermazione, di aver compromesso la sua causa. Invece la risposta del cardinale fu rassicurante e sorprese lo stessoSturzo. Sorridendo il Segretario di Stato affermò: «Bravo! sarà meglio collaborare con Turati che collaborare con Sonnino, faccia pure quel che il congresso delibererà, ma eviti sempre di parlare a nome del Vaticano o a nome dell’Azione Cattolica». E concluse: «Se lei farà bene sarà suo merito e se farà male il Paese giudicherà». A una ulteriore richiesta di Sturzo circa l’abolizione del non expedit,Gasparri rispose: «Il Santo Padre provvederà quando e come crederà meglio»12.

In Vaticano si colse, quindi, l’importanza della nascita di un partito «fra cattolici», che, pur ispirandosi ai valori del cristianesimo, non doveva essere emanazione della Santa Sede. Lo stesso Segretario di Stato ha scritto nelle sue memorie:

«Resta il mio favore al partito popolare. [...] io ritenevo che non poteva chiamarsi partito cattolico, quasi che fosse l’esponente o il rappresentante della Chiesa cattolica e della Santa sede in Italia e nel Parlamento, ma che era un partito politico come tutti gli altri con un programma che si avvicinava di più ai principi cristiani, nonostante alcune lacune. Non era neppure vero, come sosteneva il «Giornale d’Italia», che il partito popolare fosse voluto dal Santo Padre Benedetto XV; il partito popolare sorse per generazione spontanea senza alcun intervento politico della Santa sede, né pro né contro»13.

La nascita del Partito popolare italiano: il programma, l’organizzazione, la base sociale

Il 23 e 24 novembre 1918Sturzo convocò a Roma, nella sede dell’Unione romana, in via dell’Umiltà 36, un gruppo di personalità cattoliche qualificate, quali Antonio Boggiano-Pico, Pietro Borromeo, Pietro Campilli, Stefano Cavazzoni, Mario Cingolani, Giulio De Rossi, Giuseppe Genuardi, Achille Grandi, Giovanni Maria Longinotti, Vincenzo Mangano, Egilberto Martire, Paolo Mattei-Gentili, Umberto Merlin, Giovan Battista Preda, Giulio Seganti, Umberto Tupini e Giovanni Battista Valente. Venne deciso di convocare per il 16 e 17 dicembre una ‘piccola costituente’, composta da 41 rappresentanti di tutte le regioni italiane. Si andava da un conservatore nazionale come Carlo Santucci, a sindacalisti come Valente e Grandi, a ex democratici cristiani come Giovanni Bertini, Vincenzo Mangano e Mario Cingolani, a esponenti di gruppi finanziari come Giuseppe Vicentini. Al termine di un’ampia discussione prevalse l’idea di dar vita a un partito che rispondesse alla crescente attesa di rinnovamento del paese, sulla base di un «programma sociale, economico e politico di libertà, di giustizia e di progresso nazionale, ispirato ai principi cristiani» (art. 1 dello statuto). Venne nominata una commissione provvisoria, composta – oltre che daSturzo (segretario politico) – da Giovanni Bertini, Giovanni Bertone, Stefano Cavazzoni, Giovanni Longinotti, Angelo Mauri, Umberto Merlin, Giulio Rodinò e Carlo Santucci.

Il 18 gennaio 1919, la Commissione provvisoria, riunitasi presso l’albergo Santa Chiara, in Roma, pubblicò l’appello al paese, diretto «a tutti gli uomini liberi e forti» e il programma delPartito popolare italiano. L’appello si caratterizzava per la forte tensione etica e civile, per il richiamo ai problemi e alla realtà del dopoguerra, alle attese di una pace secondo giustizia e alla necessità di trasformazioni politiche, amministrative e sociali.

Il programma, in dodici articoli, invocava l’integrità della famiglia e la tutela della moralità pubblica; la libertà d’insegnamento; il riconoscimento giuridico e la libertà dell’organizzazione di classe nell’unità sindacale; una legislazione sociale, assistenziale e assicurativa a tutela del lavoro; lo sviluppo delle cooperative e della piccola proprietà; l’organizzazione e lo sfruttamento delle capacità produttive del paese; la colonizzazione del latifondo, le bonifiche, lo sviluppo del Mezzogiorno; il decentramento amministrativo con il riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione, la previdenza sociale; la libertà e indipendenza della Chiesa nell’esplicazione del suo magistero spirituale; la riforma tributaria sulla base dell’imposta progressiva; l’introduzione della rappresentanza proporzionale, del voto femminile e del Senato elettivo; la tutela dell’emigrazione e del commercio; il rispetto della Società delle nazioni quale arbitro dei rapporti internazionali; l’abolizione dei trattati segreti e della coscrizione obbligatoria; il disarmo universale. Non mancarono in campo cattolico alcune riserve sul fatto che l’argomento relativo alla libertà della Chiesa venisse posto all’ottavo punto.

Il nuovo partito trovò i suoi quadri dirigenti tra le figure più rappresentative del movimento cattolico, da Filippo Meda, esponente di primo piano del movimento cattolico lombardo, favorevole sin dagli anni di Pio X a un inserimento dei cattolici nella vita dello Stato, deputato dal 1913 e ministro delle Finanze nei governi Boselli e Orlando durante la Prima guerra mondiale, a Guido Miglioli, leader del movimento contadino bianco in Val Padana, agli ex democratico-cristiani Giuseppe Micheli, Giovanni Bertini, Angelo Mauri, Mario Cingolani, Umberto Tupini, al napoletano Giulio Rodinò, ad Alcide De Gasperi, che aveva guidato il Partito popolare trentino negli anni della dominazione austriaca, ai giovani che militavano nei gruppi della sinistra popolare quali Attilio Piccioni, Giuseppe Cappi e Francesco Luigi Ferrari. Trovò la sua base e i suoi quadri periferici nella fitta e capillare rete di organismi e di associazioni cattoliche preesistenti alla sua nascita: le organizzazioni sindacali bianche, le leghe contadine, le cooperative e le casse rurali, le associazioni professionali, i circoli cattolici sociali, culturali, giovanili, sparsi in tutte le diocesi.

Si trattava di una struttura che nasceva dalla preoccupazione di inquadrare la vita del partito e le spontanee iniziative della base in una sorta di «centralismo democratico», che, come ha rilevato Paolo Ungari, evidenziava l’esigenza di «dare forma e volto politicamente coerenti al tortuoso labirinto delle organizzazioni cattoliche italiane, per assicurare la preminenza e l’iniziativa diretta dei gruppi più sicuramente impegnati nella nuova azione democratica»14.

Questa struttura garantì al Partito popolare italiano una base di massa che ne evidenziò la fisionomia popolare e che riuscì a contemperare i freni moderati presenti nei suoi vertici politici e parlamentari. D’altro canto, il Ppi si giovò del sostegno offerto da organi d’informazione e istituti di credito controllati da personalità e ambienti cattolici, dovendo

«di necessità [come ha osservato Francesco Piva] fare i conti con i moderati che controllavano le banche cattoliche e gli organi di stampa, interpreti di interessi a volte contrapposti, che indubbiamente condizionarono la vita del giovane partito. Alla stessa stregua venne a patti con l’Azione cattolica per poter travasare da essa quadri dirigenti, almeno fino a quando il PPI non avesse consolidato le proprie scuole formative»15.

Aiuti economici al partito vennero in particolare dai contributi che venivano forniti dal Banco di Roma tramite Giuseppe Vicentini, che ne era l’amministratore delegato. Altri aiuti e sussidi venivano da contribuzioni da parte di militanti, esponenti del partito e sostenitori, primo fra tutti lo stesso Sturzo16.

L’area sociale alla quale guardava il Ppi era molto ampia: andava dal mondo contadino (con particolare attenzione ai fittavoli, ai mezzadri e ai piccoli proprietari), agli artigiani, alla piccola e media borghesia urbana (dagli insegnanti agli impiegati) ai ceti professionistici. Più limitata l’influenza nei settori operai (se si escludono i tessili e i ferrovieri). Le aree geografiche nelle quali il Ppi raccoglieva i maggiori consensi erano le regioni centro-settentrionali (in particolare il Veneto, la Lombardia, la Toscana e le Marche), regioni nelle quali esisteva una solida rete organizzativa del movimento cattolico e dove più intensa ed efficace era stata l’azione rivendicativa delle leghe contadine e dei sindacati bianchi. Più debole la presenza del partito nel Sud e nelle isole, se si eccettuano la Campania e la Sicilia. «Partito cattolico, dunque – ha scritto Gabriele De Rosa – che diventa partito di ceti medi e di mondo rurale declassato, partito pazientemente raccolto nell’ambito di un movimento di riqualificazione democratica e popolare delle classi cosiddette subalterne, non più fuori, ma dentro la dialettica dello Stato liberale»17.

Nell’arco di pochi mesi il Ppi riuscì a realizzare una solida e vasta organizzazione di massa. Nel giugno 1919 risultavano costituiti 20 comitati provinciali e 850 sezioni locali, mentre erano sorti numerosi gruppi femminili e fasci di propaganda. Un anno dopo si contavano 3.137 sezioni e 251.740 iscritti. Al partito avevano aderito 20 quotidiani e 51 settimanali. Primo organo ufficiale del partito fu, fino all’8 giugno 1919, il quotidiano «Corriere d’Italia» di Roma, a cui subentrò il settimanale «Il Popolo nuovo», diretto da don Giulio De Rossi, e, dal 5 aprile 1923, il quotidiano «Il Popolo», diretto da Giuseppe Donati.

Il 14 giugno 1919 si aprì a Bologna il primo congresso del partito. Il problema dell’aconfessionalità animò il dibattito congressuale e portò a uno scontro fra Sturzo e padre Agostino Gemelli, che con don Francesco Olgiati aveva scritto un opuscolo18 nel quale si rimproverava l’impostazione aconfessionale del partito, accusando i popolari di aver messo «Cristo in soffitta».

«Oggi [replicò Sturzo] era maturo un atto, che, senza costituire una ribellione, fosse invece l’affermazione nel campo politico della conquista della propria personalità, e potesse chiamare a raccolta quanti, senza nulla attenuare delle proprie convinzioni religiose da un lato, e senza menomazioni esterne nell’esercizio della vita politica e civile dall’altro, potessero convenire in un programma e in un pensiero politico, non di semplice difesa, ma di costruzione, non solo negativo ma positivo, non religioso ma sociale»19.

Sturzo riuscì a riaffermare la sua linea, tendente a non «creare un equivoco politico al paese», dando «l’impressione che si voglia ripetere qui non una organizzazione perfettamente politica, ma una seconda faccia dell’Azione cattolica italiana»20. Dal congresso usciva anche l’immagine di un partito con una visione solidaristica e interclassista, autonomo da altre forze politiche e con una chiara ispirazione sociale e democratica.

Il popolarismo

Con la nascita delPartito popolare maturò un pensiero politico, il popolarismo, che, pur richiamandosi ai valori e alla tradizione del movimento cattolico italiano, con particolare riferimento all’esperienza democratico-cristiana, evidenziò una sua originale e peculiare fisionomia. Sturzo ha lasciato una chiara e incisiva definizione della cultura politica alla quale si ispirava:

«Il popolarismo è democratico ma differisce dalla democrazia liberale perché nega il sistema individualista e accentratore dello stato e vuole lo stato organico e decentrato; è liberale (nel senso sano della parola) perché si basa sulle libertà civili e politiche, che afferma uguali per tutti, senza monopoli di partito e senza persecuzioni di religione, di razza, di classe; è sociale nel senso di una riforma a fondo del regime capitalista attuale, ma si distacca dal socialismo perché ammette la proprietà privata, pur rivendicandone la funzione sociale; afferma il carattere cristiano, perché non vi può oggi essere etica e civiltà che non sia cristiana»21.

A questo risultato si era giunti attraverso un’elaborazione culturale che era partita da lontano, e che trovava la sua prima espressione negli anni del Risorgimento nazionale, in seno al filone politico culturale del cattolicesimo liberale. È indubbio, tenendo anche conto dei frequenti richiami di Sturzo al pensiero di Alessandro Manzoni, Gioacchino Ventura, Antonio Rosmini, Félicité-Robert Lamennais e Charles de Montalambert, che le matrici del pensiero cattolico liberale confluiscano nella elaborazione teorica del popolarismo, venendosi a saldare con il filone cristiano-sociale e democratico-cristiano, che segnò la presenza cattolica nella vita pubblica nazionale tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo XX, processo delineato con chiarezza da Giuseppe Ignesti. Del resto lo stesso Sturzo non mancò di indicare gli elementi caratterizzanti la fisionomia politico-culturale del popolarismo precisando che esso «ha nel campo della economia la sua base teorica nella scuola cristiano-sociale, come scuola contrapposta all’atomismo liberale e al collettivismo socialista»22, precisando che «il regime costituzionale rappresentativo, le libertà civili e politiche entrano […] nel sistema del “popolarismo” come elementi necessari»23.

Gli aspetti caratterizzanti di questa cultura politica che irrompe nella vita nazionale negli anni del primo dopoguerra vanno individuati, in primo luogo, nel superamento dell’annosa polemica attorno alla questione romana. Il popolarismo accetta senza riserve l’Unità nazionale, rifiutando qualsiasi pregiudiziale antiunitaria. Il secondo elemento caratterizzante va rintracciato nella sua dimensione laica e aconfessionale, nella distinzione tra momento religioso e momento politico. L’intervento nella vita pubblica per i cattolici non poteva essere attuato in nome della religione o della Chiesa, come partito clericale al servizio dell’autorità religiosa. In altre parole, Sturzo supera l’ibridismo politico-religioso che aveva caratterizzato la storia del movimento cattolico italiano, e giunge con chiarezza alla distinzione tra fede e politica. Una scelta che, secondo Sturzo, rendeva «il miglior servizio alla Chiesa», in quanto portava i cattolici a partecipare alla vita della nazione, separando da ogni responsabilità la Chiesa, «la quale al di sopra della politica militante, guida le coscienze di tutti i fedeli senza distinzione di parte»24. Nel quadro politico nazionale, il popolarismo si collocava in una posizione centrale, interclassista, con l’obiettivo di armonizzare e conciliare bisogni, aspirazioni e interessi di diverse classi sociali. Sturzo volle costruire un «partito di centro, partito di confluenza delle categorie o classi sociali, e quindi, per sua propria essenziale vitalità, basato sulle libertà a carattere democratico»25.

In gioventù aveva definito «troppo felice e romantica»26 la democrazia cristiana di marca toniolina, e aveva affermato, riferendosi al pensiero sociale cristiano:

«Noi non abbiamo la concezione felice della società; noi non speriamo in trionfi assoluti del bene come non crediamo ai trionfi assoluti del male sulla terra […]. Nel lavorio delle anime è vita di verità e di virtù morali, e nel lavoro sociale è vita di civiltà e di progresso; nell’una e nell’altra le lotte si alternano, e il male può vincere e può essere vinto dal bene»27.

In questo suo atteggiamento lo aiuta la fede cristiana e il senso storico che lo porta a «valutare la vita presente come un ‘relativo’ di fronte ad un ‘assoluto’», e quindi a dare «valore fondamentale, anche nella vita pubblica, all’etica, […] norma insopprimibile, e superiore a quella che si chiama ‘ragion politica’ o a ‘ragione economica’»28.

Il Ppi nella crisi politica del primo dopoguerra

Il 16 novembre 1919 il Ppi affrontò la sua prima battaglia elettorale. Le elezioni si svolsero con il sistema proporzionale, approvato alla Camera il 31 luglio 1919, grazie alla battaglia condotta in particolare dai popolari e dai socialisti. Dopo una serrata campagna elettorale, i risultati superarono le attese: 1.176.473 voti (20,6%) e 100 seggi alla Camera contro i 156 socialisti e i 209 liberali. Un risultato che ridimensionava il peso politico dei raggruppamenti liberali e sanciva l’affermazione dei partiti di massa.

La rappresentanza popolare in Parlamento risultava determinante per la formazione dei governi e delle maggioranze parlamentari. Negli oltre tre anni e mezzo che segnano il periodo che va dalla nascita del partito alla marcia su Roma, che sono anche gli anni in cui matura ed esplode la crisi dello Stato liberale, ilPpi partecipò ai sette governi che si avvicendarono. Nato come partito a forte tensione etica e carattere programmatico, con la vocazione di stimolare governo e Parlamento verso una politica di riforme amministrative, economiche e sociali, il Ppi dovette pagare lo scotto dei suoi successi elettorali, che lo ponevano arbitro del quadro politico italiano: l’appoggio dei suoi deputati, perdurando l’opposizione socialista, diventava indispensabile per la sopravvivenza dei governi. In un’intervista concessa nel novembre 1922 al quotidiano spagnolo «La Veu de Catalunya», Sturzo spiegava: «Il nostro partito si è trovato, sin dal suo nascere, con una responsabilità enorme. Dall’inizio della nostra attività abbiamo dovuto collaborare a tutti gli atti dei governi e per non perturbare la vita nazionale abbiamo partecipato a tutti i governi. E ciò per la ragione incontestabile della nostra forza, non potendosi governare senza di noi»29.

La prima esperienza di collaborazione governativa del Ppi si realizzò con il governo Nitti, in carica dal 23 giugno 1919 e confermato dopo le elezioni. Al governo parteciparono due sottosegretari popolari: Cesare Nava (Terre liberate) e Edmondo Sanjust di Teulada (Trasporti). Nel marzo 1920, il direttorio del gruppo parlamentare popolare pose precise condizioni al proseguimento della collaborazione. Le proposte del Ppi erano contenute in nove punti. Si chiedeva in politica estera la pacificazione e il riconoscimento delle autonomie nazionali, in politica interna il rispetto delle libertà, la rappresentanza proporzionale nelle elezioni amministrative e il voto alle donne, il riconoscimento e la rappresentanza di tutte le organizzazioni sindacali, l’esame di Stato, lo spezzettamento del latifondo, la riforma tributaria, la liquidazione delle aziende statali di approvvigionamento alimentare, lo sviluppo del commercio estero e il riconoscimento delle autonomie locali nelle terre liberate.

Al secondo congresso del Ppi (Napoli, 8-11 aprile 1920), il tema centrale fu la riforma agraria, illustrata con la relazione di Mario Augusto Martini, secondo il quale, pur mantenendo il principio della proprietà privata terriera, occorreva estendere il principio dell’espropriazione per causa di pubblica utilità alla «causa di utilità sociale», al fine della concessione «della terra ai lavoratori dei campi nei casi in cui questa corrisponda al criterio della maggiore produttività della terra e delle classi agricole»30. Sul piano della collaborazione popolare alla vita politica nazionale, la relazione di Giovanni Gronchi ribadì l’impossibilità di una collaborazione governativa al di fuori «del progressivo profondo rinnovamento degli istituti economici e politici e attraverso chiare e concrete impostazioni programmatiche»31.

Era il preludio alla crisi di governo e a un nuovo gabinetto Nitti, cui parteciparono i popolari con i ministri Giulio Rodinò (Guerra) e Giuseppe Micheli (Agricoltura) e i sottosegretari Giovanni Maria Longinotti (Industria), Giovanni Bertini (Lavori pubblici) eGiacomo Agnesi (Terre liberate). Un governo che ebbe meno di un mese di vita (22 maggio-16 giugno 1920).

Il nuovo esecutivo, guidato da Giovanni Giolitti, vide la partecipazione di sette esponenti popolari: i ministri Filippo Meda (Tesoro) e Giuseppe Micheli (Agricoltura) e i sottosegretari Giovanni Bertone (Finanze), Giovanni Bertini (Lavori pubblici), Antonino Pecoraro (Colonie), Giovanni Maria Longinotti (Lavoro) e Francesco Degni (Terre liberate).

L’occupazione delle fabbriche, nel settembre 1920, mise a nudo la profonda diffidenza che animava i rapporti tra Sturzo e Giolitti. Il presidente del Consiglio aveva saputo gestire con la consueta abilità il difficile confronto con un movimento operaio impegnato in un’agitazione senza chiare prospettive, diviso tra istanze rivendicative e confuse aspirazioni rivoluzionarie. Giolitti compì il suo ultimo miracolo: mise d’accordo operai e industriali e promise agli operai una legge sull’autogestione amministrativa e sul controllo operaio nelle fabbriche. Una legge destinata a non vedere mai la luce.

L’ipotesi di una legge sull’autogestione e il controllo operaio non era condivisa dai popolari, che proponevano l’azionariato operaio e la partecipazione agli utili dell’azienda, secondo le indicazioni del sindacato a ispirazione cristiana, la Confederazione italiana del lavoro (Cil). Sturzo ebbe con Giolitti vari incontri in questo periodo. Il 27 agosto 1920 vi si recò con Bertone, sottosegretario alle Finanze32. Un mese dopo, il 25 settembre 1920, tornò dal presidente del Consiglio assieme a Gronchi, segretario della Cil e al deputato popolare Livio Tovini. Fu un incontro burrascoso. La delegazione popolare chiese la presenza di una rappresentanza sindacale bianca nella commissione paritetica che doveva studiare la proposta di progetto di legge sul controllo operaio nelle fabbriche; chiese che il governo presentasse, assieme al progetto socialista anche quello di azionariato operaio avanzato dal Partito popolare. Giolitti rispose con durezza: «Non posso accettare il vostro progetto perché di partito». Sturzo precisò: «Anche quello che ella presenta è di partito». Il presidente del Consiglio si sentì toccato sul vivo. Alzandosi in piedi rispose: «Io difendo gli interessi del paese e non quelli di partito». Sturzo con tono fermo replicò: «Ella insinua che noi difendiamo gli interessi di un partito contro il paese: s’inganna. È lei che cede a un partito»33. Ricordando molti anni dopo questo episodio, Sturzo ne sottolineò l’asprezza: «Ho visto Giolitti diventare rosso, temetti gli venisse un colpo apoplettico. Intervenne Tovini a distendere gli animi. Né dell’uno né dell’altro progetto si fece nulla»34.

Ma, al di là di questo episodio, le giornate del settembre 1920 ebbero un’importanza non trascurabile nella vita del paese. Il movimento operaio era uscito dallo scontro con il padronato e con il governo sfibrato e deluso, con in mano un pugno di mosche. D’altra parte, la borghesia impaurita cominciò a non gradire la prudenza e la cautela di Giolitti. La borghesia imprenditoriale cominciò a organizzare, attraverso il fascismo, la reazione antioperaia e antisindacale. Sul piano politico, la conferma si ebbe nelle elezioni amministrative dell’ottobre 1920, dove i fascisti entrarono nei blocchi elettorali assieme ai liberali. I popolari conquistarono 1.650 comuni e 10 consigli provinciali.

I popolari e il fascismo

L’emergere del fascismo, dello squadrismo e degli scontri sociali aggravò la crisi politica del paese, evidenziando l’incapacità della classe dirigente liberale nel fronteggiare la situazione. Dopo la scissione socialista di Livorno (gennaio 1921), Giolitti, che aveva sperato invano nella collaborazione di Turati e della sua corrente, tentò, con lo scioglimento della Camera e le nuove elezioni, di inglobare il fascismo nel suo sistema, e di ridimensionare la forza parlamentare dei socialisti e dei popolari.

Le elezioni del 15 maggio 1921 segnarono un nuovo successo popolare (1.347.000 voti, 20,7%, 107 seggi); i socialisti persero 34 seggi, i comunisti ne conquistarono 16; inseriti nel blocco liberale entrarono alla camera 35 fascisti.

Al governo Bonomi, formatosi il 5 luglio 1921, il Ppi partecipò con i ministri Giuseppe Micheli (Lavori pubblici), Angelo Mauri (Agricoltura) e Giulio Rodinò (Giustizia) e con i sottosegretari Antonio Anile (Pubblica istruzione), Calogero Cascino (Industria), Giovanni Maria Longinotti (Lavoro), Umberto Merlin (Terre liberate) e Vincenzo Tangorra (Tesoro). I popolari riuscirono a far approvare la legge sulla riforma della burocrazia, la modificazione della tassa sul vino, l’adozione di provvedimenti sulla disoccupazione.

Il problema centrale della vita politica italiana nella seconda metà del 1921 era rappresentato dalla necessità di fronteggiare la violenza fascista. Si imponeva una nuova politica e una nuova maggioranza, che i popolari discussero al congresso di Venezia (20-23 ottobre 1921), ove si affrontò anche il tema del decentramento amministrativo regionale, con un’ampia e articolata relazione di Sturzo. Cingolani intervenne sulla «situazione politica del paese e i limiti della collaborazione parlamentare», ribadendo la necessità di far funzionare il Parlamento e di cooperare al ripristino dell’autorità dello Stato. Nei confronti dei socialisti osservò che, nonostante l’intransigenza anticollaborazionista da essi riaffermata, le forze lavoratrici sentivano «di avere in giuoco più gravi interessi» e maturava «l’avvento di forze nuove per sostenere effettive ed efficaci partecipazioni al governo dello Stato». Il Ppi era disponibile a una collaborazione con i socialisti purché gli «alleati futuri come i presenti» si convincessero che i popolari per la loro origine e i loro ideali non erano «una semplice forza di riporto alla quale si ricorre per poi abbandonarla al suo destino»35.

L’incalzare degli avvenimenti impedì ulteriori progressi a quest’apertura: nel febbraio 1922 una crisi extraparlamentare promossa dal gruppo giolittiano di Democrazia sociale rovesciò il governo Bonomi. Si apriva una tra le più difficili crisi del primo dopoguerra, nel corso della quale si ebbe il primo ‘veto’ di Sturzo a un ritorno di Giolitti. In verità, si trattò di una decisione presa dal gruppo parlamentare, che non intendeva collaborare a una maggioranza di tipo clerico-moderato36. La soluzione Luigi Facta venne giudicata il male minore e il gruppo parlamentare del Ppi, nonostante il dissenso di Sturzo, decise di appoggiare il nuovo governo, al quale parteciparono i ministri Antonio Anile (Pubblica istruzione), Angelo Bertini (Agricoltura) e Giovanni Bertone (Finanze) e i sottosegretari Giovambattista Bosco Lucarelli (Industria), Mario Cingolani (Lavoro) e Umberto Merlin (Terre liberate).

La debolezza del governoFacta nel ripristinare l’autorità dello Stato di fronte alla violenze fasciste risultava evidente. Si riaffacciò l’ipotesi di una collaborazione tra popolari e socialisti, per assicurare una stabile maggioranza democratica. Nei mesi di giugno e luglio 1922 a Palazzo Soderini, a Roma, si svolsero alcuni incontri senza risultati concreti. A interrompere questo delicato processo intervenne improvvisa la crisi ministeriale (17 luglio 1922) a seguito dell’assalto fascista alla casa di Miglioli a Cremona.

Una prima fase della crisi aveva lasciato intravedere un governo Bonomi con l’adesione dei popolari e dei socialisti. Fu Giolitti a troncare ogni possibilità d’intesa. In una lettera diretta a Olindo Malagodi, pubblicata su «La Stampa» del 26 luglio 1922, si chiedeva: «Che cosa può venire di buono per il paese da un connubio don Sturzo-Treves-Turati?». Una soluzione gradita a Sturzo si presentò il 27 luglio, quando il re diede l’incarico a Filippo Meda, il quale, nonostante le pressioni e gli appelli accorati del segretario del partito, decise di rinunciare. Il 30 luglio il re affidò nuovamente l’incarico a Facta, cha ricompose un ministero non molto diverso dal precedente. I popolari riconfermarono i precedenti ministri e sottosegretari.

Nel mese di ottobre 1922 si consumò la crisi del secondo gabinetto Facta e l’avvento di Mussolini al potere. Durante i giorni della crisi vi fu il tentativo del prefetto di Milano, Alfredo Lusignoli, di favorire la formazione di un governo Giolitti con la partecipazione dei fascisti, dei popolari e con almeno l’astensione dei socialisti. Sturzo si dichiarò contrario a un gabinetto aperto anche ai fascisti (secondo ‘veto’ a Giolitti).

A chi lo accusò di «egoismo di partito», Sturzo ribadì i limiti della politica giolittiana, l’insofferenza del vecchio statista nei confronti del Partito popolare e la sua volontà di attenuarne il peso politico. «Preferiva i fascisti da domare ai popolari che gli scappavano dalle mani», sottolineò Sturzo in una lettera a Frassati del 16 settembre 1955, aggiungendo che si trattava del «complesso di [un] vecchio liberale in fondo scettico e anticlericale»37. Giolitti, secondo Sturzo, non riuscendo nel suo intento di manipolare la vita politica del dopoguerra come aveva fatto nell’anteguerra, lasciò precipitare le cose. Fu assente dalla scena proprio nel momento più critico, senza dare alcun aiuto al re alla vigilia delle dimissioni del governo Facta «invocate e poi intimate dai fascisti», evitando di sostenere Facta quando questi propose al re, alla vigilia della marcia su Roma, il decreto dello stato d’assedio. Osservò Sturzo: «E così finì la monarchia costituzionale; ma Giolitti era assente in quel momento, perché non aveva potuto realizzare il suo piano, avendogli fatto ostacolo, il 5 ottobre 1922, una conversazione di sondaggio, privata e segreta, avuta dal suo Corradini con l’indomabile don Sturzo. Quando si dice: gli imponderabili della storia!»38. Dal suo canto, Giolitti non aveva mai nascosto la sua diffidenza nei confronti delPpi e di Sturzo, che definì «pretuncolo intrigante senza alcuna qualità superiore»39.

Alla vigilia della marcia su Roma il 20 ottobre 1922, il Consiglio nazionale del Ppi votò un lungo documento nel quale, di fronte alla gravità della situazione politica, richiamava il partito alla disciplina e allo spirito di abnegazione. Veniva denunciato il fenomeno del «disprezzo della legge», la «violazione del diritto», la «debolezza dello Stato», il pericolo per le istituzioni e per il rispetto dello statuto. «Di fronte al monopolismo in dissoluzione dello Stato democratico e alle dittature tentate ieri e ritentate oggi», i popolari ribadivano, come termine della loro battaglia, il concetto di libertà. Il documento così proseguiva: «Nell’ora grigia del tormento politico, come nelle vicende delle battaglie pubbliche, non si può né si deve disertare il posto di combattimento […] non si può né si deve rinunziare a quel complesso di postulati e di finalità che formano la ragione ideale e programmatica del nostro partito»40.

Non appena ricevuto l’incarico di formare il nuovo governo, il 30 ottobre, Mussolini chiamò a farne parte alcuni esponenti popolari, Vincenzo Tangorra come ministro del Tesoro e Stefano Cavazzoni ministro del Lavoro, nonché i sottosegretari Ernesto Vassallo (Esteri), Fulvio Milani (Giustizia), Giovanni Gronchi (Industria e commercio), Umberto Merlin (Terre liberate). La partecipazione degli esponenti popolari al governo venne autorizzata dal direttorio del gruppo parlamentare, presieduto da De Gasperi, riunito il 30 ottobre, che giudicò «indispensabile contribuire con ogni sforzo al rapido ritorno della legalità»41. Il 31 ottobre la direzione del partito si limitava a prendere atto della decisione del Direttorio, ribadendo l’esigenza del «ritorno all’ordine e alla pace interna, il rispetto delle libertà costituzionali, la ricostituzione finanziaria […] e soprattutto la rivalutazione dei valori etici del vivere civile, verso una fratellanza che per noi non può avere altro fondamento che quello cristiano»42. Si trattò di una decisione non condivisa da molti esponenti del partito, a cominciare da Sturzo e Meda, che in una lettera diretta al segretario del partito il 30 ottobre manifestava il suo «profondo disagio spirituale» e il timore che la decisione avrebbe suscitato una «sfavorevolissima impressione» nella base del Ppi43. Da parte suaDe Gasperi, confessò, in seguito l’errore di «non aver valutato a sufficienza il fatale contrasto politico che derivava dall’antitesi teorica» scambiando «per scorie caduche nella evoluzione del tempo quelle che erano note essenziali e permanenti del sistema mussoliniano»44.

La difficile collaborazione al governo Mussolini. Il congresso di Torino

La collaborazione del Ppi al ministero Mussolini fu difficile e tormentata. Le illusioni sulla ‘normalizzazione’ svanirono ben presto.

La base del partito non aveva gradito quella scelta, che non riusciva neanche ad attenuare l’atteggiamento ostile del fascismo nei confronti del Partito popolare e delle organizzazioni cattoliche. L’ossequio formale cheMussolini mostrava verso la Chiesa rimase circoscritto agli atti ufficiali. Se a Roma si proclamava il rispetto della religione, in provincia sacerdoti, associazioni cattoliche, organizzazioni politiche e sindacali vicine al popolarismo, amministrazioni locali guidate da popolari non avevano vita tranquilla. Ha scrittoSturzo qualche anno dopo che ogni passo tentato per la cessazione delle violenze locali contro i popolari e contro i circoli cattolici non approdava a nulla. Anzi «si intensificava da parte dei dirigenti fascisti, in esecuzione di una parola d’ordine del governo, il tentativo di scindere il partito in due»45.

La collaborazione popolare al primo ministero Mussolini, a poco a poco, parve svuotare le energie del partito. Le illusioni d’incanalare il fascismo verso il metodo democratico svanivano col passare dei giorni. Bisognava liberare il partito dalle secche in cui si era arenato. Il primo passo fu ancora una volta di Sturzo. Il 20 dicembre 1922 il leader popolare pronunciò, nel salone della Camera di commercio di Torino il suo primo discorso politico dopo la marcia su Roma. Riaffermò la validità del regime parlamentare e democratico, manifestando la sua preoccupazione che il tentativo collaborazionista determinasse la rinuncia da parte del partito al suo programma e alla sua azione sociale. Difese la validità del popolarismo di fronte al tentativo di immiserirne la presenza al solo ruolo governativo e parlamentare, ignorando il patrimonio ideale, sociale e culturale che stava alla base del pensiero popolare. Affermò Sturzo:

«Il nostro motto libertas resta come nostra insegna, e il nostro programma culturale, sociale, economico, amministrativo, politico è la nostra mèta. Errore è il credere che un partito esaurisca le sue forze nell’attività parlamentare o governativa. Quell’attività è una parte, la più visibile, la più rilevante, la più difficile e scabrosa, la più insidiosa, ma non è l’unica, e in determinate circostanze non è neppure la prevalente. Se pensassimo così, saremmo allo stesso livello della democrazia borghese, che non aveva dietro di sé un partito, ma le clientele»46.

Su questa linea troviamo anche i gruppi della sinistra popolare. Nel dicembre 1922 nasceva a Milano un nuovo settimanale, «Il Domani d’Italia», che raccoglieva attorno a sé esponenti che facevano capo a Francesco Luigi Ferrari e aveva tra gli uomini di spicco Gerolamo e Luigi Meda, Cesare Degli Occhi,Giulio Marchi e altri. Sulla stessa linea si pose a Torino «Pensiero popolare», diretto da Attilio Piccioni.

La prima battaglia del settimanale milanese fu quella di sollecitare e stimolare la convocazione del congresso del partito, al fine di svincolare ilPpi dalla collaborazione, di non far perdere a esso «i contatti con quella grande maggioranza, che non è tesserata ma costituisce la reale entità numerica e spirituale del partito»47. Il congresso avrebbe dovuto rappresentare la volontà dei popolari di mantenere fede alle proprie idee e al proprio programma.

«Nel grigiore di Caporetto [scriveva Giuseppe Cappi sul «Domani d’Italia» del 28 gennaio] deve albergare la luce del Piave. Guai se tutto questo dovesse essere poesia e nei nostri, anche più umili, che restano sentinelle perdute, dovesse spegnersi la luce dell’idea e dovesse sorgere il dubbio che essi sono degli illusi e dei giocati, perché il loro partito, dopo averli tenuti in battaglia, trova che il nemico è buono e non vale la pena di combatterlo»48.

Lo scontro tra le diverse posizioni in seno al partito emerse il 7 febbraio 1923 al Consiglio nazionale, dove Luigi Sturzo

«ebbe accenti d’inusitata forza e dominò spesso l’assemblea con l’altezza del concetto e il furore della sua purissima passione. Fu aspro ma non offese; perché in lui si fondevano due potenti e inscindibili fedi: nella libertà e nel partito; due grandi affetti: della religione e della patria [...] altrettanto fu deciso nel porre i limiti della collaborazione: all’impiedi sì, in ginocchio no»49.

Sturzo invitò poi i ‘destri’a uscire onestamente dal partito, se in essi il senso del partito era morto, e i ‘sinistri’ a limitare la loro «azione corrosiva» contro «l’esperimento penoso» che il partito stava tentando50. Sturzo temeva di portare al Congresso un partito dilaniato dalle divisioni interne e sull’orlo di una scissione. Tuttavia, non intendeva procrastinare una situazione che comprometteva le basi ideali e programmatiche del partito.

Alla scissione del Ppi miravano le speranze del fascismo, che si adoperava per provocare fratture irreparabili. Episodio significativo di quest’azione corrosiva fu, il 10 aprile 1923, nell’immediata vigilia del Congresso, l’ordine del giorno votato dai più rappresentativi esponenti della destra del partito, in cui si chiedeva l’espulsione della sinistra. Si parlò anche della costituzione di un partito popolare nazionale. Due giorni dopo appariva l’appello-programma dell’Unione nazionale, ispirato da Ottavio Cornaggia, che la stampa fascista non tardò a definire «come una scissione del P.P.I. virtualmente avvenuta». Da parte sua, l’Agenzia Volta si affrettò a far intendere che all’Unione nazionale non era mancata «l’autorizzazione delle alte sfere ecclesiastiche» e «l’appoggio dell’episcopato», notizia smentita da «L’Osservatore romano» del 13 aprile 192351.

Il fascismo, soprattutto dopo la marcia su Roma, mirò a svuotare il significato politico del Ppi, sostenendo che la funzione del popolarismo, di difesa degli interessi della Chiesa e dei cattolici in un ambiente politico anticlericale, diventava superflua di fronte a un governo che proclamava il suo ossequio alla Chiesa e assumeva gli interessi cattolici. Si trattava, nella sostanza, di un misconoscimento del ruolo politico e civile del popolarismo e delle ragioni storiche della sua esistenza. Una linea che trovava però ampi consensi in quella parte del partito che non aveva mai condiviso interamente le linee del popolarismo sturziano. Come scrisse Sturzo,

«coloro che nel 1919, pur essendo nell’animo conservatori, entrarono nel partito, lo fecero principalmente perché l’onda bolscevica spingeva verso un partito d’ordine quale nel fatto era il popolare, che si proclamava costituzionale, legalitario, eticamente cristiano. Il loro disagio per le affermazioni teoriche e pratiche nel campo economico e sociale, era attenuato dall’ambiente in cui allora si viveva. Essi non diedero mai al partito una visione completa né molti di essi ebbero una percezione esatta della natura sociale e democratica del popolarismo»52.

La vigilia del congresso di Torino fu particolarmente tormentata.

«Ond’è [scriveva «La Civiltà cattolica»] che sfogliando i giornali alla vigilia del congresso, pareva d’assistere al gioco dei fanciulli quando interrogano l’avvenire sfogliando le margherite: si scinde, non si scinde; d. Sturzo va, d. Sturzo sta; i destri cacceranno i sinistri, i sinistri cacceranno i destri»53.

In questo clima, il 12 aprile 1923 si apriva il IV Congresso nazionale del Partito popolare. Fu Sturzo con la sua relazione a disincagliare il partito dalla collaborazione al governo Mussolini. In un memorabile discorso, il leader popolare rivendicò al suo partito una chiara funzione politica e civile, attaccò decisamente «quei clericaletti senza convinzione che ieri vennero a noi e oggi se ne vanno». Affermò che compito del partito era di «realizzare entro la vita pubblica e con l’esercizio delle attività civili» il suo programma, «in antitesi al liberalismo laico, al materialismo socialista, allo Stato panteista e alla nazione deificata, che formano nel loro complesso la grande eresia che abbiamo ereditato nel secolo XIX e che giganteggia negli spasimi del dopoguerra». Sturzo affermò che il Ppi non poteva «avallare una cambiale in bianco»; intese invece delineare gli indirizzi ideali del partito, onde evitare confusioni e collusioni:

«Noi vogliamo cooperare a che l’unità morale degli italiani si rifaccia sulla base intangibile delle libertà costituzionali e delle autonomie locali; nello sviluppo delle attività economiche, ove le classi sociali trovino interessi di convergenza e collaborazione morale; nella sintesi della vita nazionale, che è insieme sintesi statale di ordine, di autorità, di rispetto all’interno e all’estero; ed è sintesi cristiana e morale nello sviluppo culturale etico e religioso delle forze della nazione. A questo vogliamo cooperare, popolari di ieri e di oggi, liberi e forti»54.

Più possibilista, anche se entro limiti ben definiti, apparve la posizione di Alcide De Gasperi, che non escluse la possibilità della collaborazione, ma entro limiti ben precisi. Secondo il deputato trentino, la collaborazione popolare al governo diMussolini «non doveva comportare fusione o confusione di dottrina, nessuna possibilità di svuotamento o di sostituzione». De Gasperi rivendicò in particolare l’intransigenza assoluta del partito verso il fascismo sulla questione di una possibile alterazione del sistema elettorale proporzionale. «In questo terreno – disse De Gasperi – non lo potremo seguire»55. Il congresso si espresse nella sua grande maggioranza sulle linee indicate da Sturzo e da De Gasperi, con l’eccezione del gruppo della sinistra che si astenne sull’ordine del giorno di Sturzo e votò contro l’ordine del giorno di De Gasperi56.

Le pressioni della Santa Sede: le dimissioni e l’esilio di Sturzo

Gli osservatori politici non mancarono di giudicare il congresso di Torino una aperta manifestazione di antifascismo. La stampa fascista reagì in termini violenti e volgari contro Sturzo. Su «Il Popolo d’Italia» il leader popolare venne definito «uomo nefasto che vuole mettere le forze rurali cattoliche come un macigno sulla via imperiale segnata all’Italia»57. L’organo filofascista «Il Nuovo Paese», il 14 aprile 1923, definì il congresso di Torino «il primo congresso antifascista nel quale l’antifascismo sia stato rumorosamente ostentato».

Le conseguenze politiche del congresso non si fecero attendere. Il 17 aprile 1923 Mussolini convocò ministri e sottosegretari popolari. Criticò duramente lo spirito e gli atteggiamenti antifascisti che avevano caratterizzato il congresso. Ringraziò per la collaborazione prestata al governo e restituì a essi la più ampia libertà. Stefano Cavazzoni cercò di correre ai ripari. Portò la questione in seno al gruppo parlamentare popolare, che votò un ordine del giorno che cercava di mantenersi a metà strada fra lo spirito e i deliberati del congresso e l’esigenza di non rompere la collaborazione al governo. Cavazzoni inviò a Mussolini questo documento, ma la risposta del capo del governo, il 24 aprile 1923, fu un licenziamento in tronco: «Avevo chiesto una chiarificazione; mi trovo dinnanzi ad un documento piuttosto involuto che non modifica il fondo del congresso di Torino essenzialmente antifascista per testimonianza di deputati popolari che vi hanno partecipato. Ringrazio te e i tuoi colleghi e accetto le tue dimissioni»58.

Mussolini reagì chiedendo alle gerarchie ecclesiastiche la testa del leader popolare, minacciando una campagna anticlericale, qualora i popolari non avessero approvato la nuova legge elettorale maggioritaria (legge Acerbo) in discussione alla Camera. La Santa Sede, temendo il peggio, invitòSturzo a mettersi da parte, tramite una lettera del cardinale Gasparri a Mario Sturzo, vescovo di Piazza Armerina, che veniva invitato a esercitare pressioni sul fratello per convincerlo a dimettersi da segretario politico del partito.

Sturzo cercò di resistere a queste pressioni. La lettera cheSturzo scrisse aPio XI il 7 luglio del 1923 è particolarmente indicativa del suo stato d’animo: una lunga missiva in cui sottolinea gli effetti negativi di una sua eventuale e precipitosa ritirata, senza la possibilità di una chiara e onesta giustificazione. Secondo Sturzo non solo gli avversari politici ma anche chi era amico del Partito popolare avrebbe attribuito il suo ritiro, proprio alla vigilia di importanti decisioni parlamentari, a un intervento della Santa Sede, provocando tre dannose conseguenze: verrebbe accreditata l’opinione che la Santa Sede interviene negli affari politici italiani, sia pure con un atto di disciplina ecclesiastica, ma in circostanza, «prettamente politica e parlamentare e verso chi per venticinque anni ha fatto quasi esclusivamente azione politica e sociale e per quasi cinque anni ha diretto un partito politico»; verrebbe minorata la libertà politica dei cattolici a formare un partito politico autonomo in confronto ad altri cittadini che militano in altri partiti; il Partito popolare italiano, aspramente combattuto e provato in tutti i sensi verrebbe a essere scompaginato e ridotto a un puro organismo elettorale alla mercé di qualsiasi governo. Aggiunse che di fronte alle violenze fasciste contro organizzazioni popolari e cattoliche il suo nome era «servito a creare fiducia e forza al partito, anche presso popolazioni che vivono nel regime del terrore». Sottolineava, inoltre, che in quel momento politico, così difficile e drammatico, era necessario che egli restasse alla guida del suo partito59.

La lettera diSturzo al papa non modificò gli orientamenti della Santa Sede. Il 10 luglio Sturzo fu costretto a dimettersi dalla segreteria politica del Ppi «per non lasciare che l’offensiva contro la Chiesa [...] dalle insidie e dalle minacce andasse più oltre»60. La segreteria politica venne assunta dal triumvirato Giulio Rodinò-Giovanni Gronchi-Giuseppe Spataro. Le dimissioni di Sturzo trovarono ampi commenti sulla stampa nazionale. Su «Il Popolo» Donati scrisse che le dimissioni del segretario politico non erano «un atto di viltà e neppure di resipiscenza», ma «un atto di disciplina, dignitoso e solenne, all’altezza dell’ora storica che viviamo»61.

Nella seconda metà del 1923 aumentarono gli atti di ostilità del fascismo contro il Ppi. Il Gran consiglio del fascismo, il 1 agosto, votò un ordine del giorno nel quale si giudicava il «torbido e imbelle prete siciliano» e il Ppi i maggiori «nemici del governo e del fascismo». Numerose le violenze, le devastazioni di sedi del partito e di associazioni cattoliche, agguati e aggressioni, culminati con l’assassinio di don Giovanni Minzoni, il 24 agosto, ad Argenta, nel ferrarese.

La discussione sulla legge Acerbo costituì momento di acuta tensione all’interno delPpi. Il 15 luglio 1923 il gruppo parlamentare, prima della votazione in aula, decise con 41 voti contro 39 di astenersi. Ma durante il dibattito in assemblea Stefano Cavazzoni dichiarò di votare a favore del provvedimento. A lui si unirono altri otto deputati popolari (Leopoldo Ferri, Antonio Marino, Egilberto Martire, Paolo Mattei-Gentili, Francesco Mauro, Giuseppe Roberti, Agostino Signorini e Ernesto Vassallo). Il giorno successivo la presidenza del gruppo parlamentare espelleva i nove deputati. Il Consiglio nazionale del 23 luglio ratificava il provvedimento, invitando chi intendeva restare nel partito a dimettersi dal mandato parlamentare. Il rifiuto dell’invito determinò l’espulsione dal partito. Diverso l’atteggiamento dell’onorevole Giovanni Merizzi, che aveva votato contro il provvedimento legislativo: pur di non lasciare il partito si dimise da deputato.

La pressione dei gruppi filofascisti si fece ulteriormente pesante. Alla vigilia delle elezioni del 1924, Filippo Crispolti fu estensore di un manifesto, sottoscritto da 150 personalità cattoliche, nel quale si dava completo appoggio alla lista nazionale e si riaffermava il proposito di collaborare con il governoMussolini «all’opera della ricostruzione morale e materiale del paese». Di lì a qualche mese, il 12 agosto 1924, Cavazzoni e gli altri deputati espulsi davano vita, assieme a Giovanni Grosoli, Aristide Carapelle, Carlo Santucci e altri, al Centro nazionale italiano, con programma clerico-fascista. Sturzo visse con particolare afflizione queste defezioni, che giudicava veri e propri tradimenti. Così scriveva il 7 giugno 1924 a Filippo Crispolti, per ringraziarlo dell’invio di una pubblicazione su Luigi Gonzaga:

«Che Iddio e S. Luigi ti perdonino il male che arrechi ai tuoi antichi compagni di lotte. Per questo ogni giorno nella S. Messa prego il Signore per te e per quegli altri che abbandonando il campo, invece di trarsi in disparte per momentaneo dissenso, contingente (come tu credi), si sono posti in linea per concorrere ad annullare le vive forze autonome che dopo mezzo secolo i cattolici italiani avevano creato nel campo politico»62.

Le elezioni del 6 aprile 1924 si svolsero in un contesto violento e intimidatorio. Non mancano numerose testimonianze da parte di candidati popolari che denunciavano il clima di minacce, sopraffazioni e brogli, che caratterizzavano la campagna elettorale. Scriveva Salvatore Aldisio a Sturzo il 17 aprile 1924: «Le elezioni in provincia di Caltanissetta non le abbiamo fatte noi, bensì la mala vita. Ci furono cancellati più di 10.000 voti, 2.000 furono annullati […] Suo fratello Monsignor Vescovo potrebbe testimoniarle come furono fatte le elezioni»63. A sua volta Paolo Cappa informava Sturzo, il 9 aprile 1924, che a Rapallo e a Sestri Levante i popolari non avevano potuto votare, mentre in Val Polcevera e nella Riviera da Genova a Voltri i fascisti «si danno alle violenze contro socialisti e cattolici. Devastazioni di circoli, società e cooperative»64.

Non mancarono anche alcuni interventi inopportuni di esponenti ecclesiastici a sostegno del governo. Il 23 marzo, il vescovo di Potenza e Marsico monsignor Roberto Razzoli, consigliava «paternamente non solo il clero ma anche tutti i fedeli a votare per la lista del regio Governo nazionale, Governo che ha fatto risuonare nelle aule del Parlamento dopo un cinquantennio il sacrosanto nome di Dio»65.

Le elezioni videro l’affermazione del listone fascista. La rappresentanza parlamentare del Ppi risultò ridimensionata, ottenendo 646.000 voti (9%) e 40 seggi alla Camera, rispetto ai 107 delle elezioni del 1921.

Nel maggio 1924 Sturzo invitò Alcide De Gasperi ad assumere la segreteria politica del partito, in sostituzione del triumvirato Spataro-Gronchi-Rodinò. Il deputato trentino cercò di resistere, trincerandosi dietro il dissenso dei suoi amici trentini e le obiezioni del vescovo di Trento, monsignor Celestino Endrici, che temeva che la carica di partito impedisse a De Gasperi di proseguire la direzione del «Nuovo Trentino» e la guida del movimento cattolico locale. Sturzo, che aveva molto a cuore questa soluzione, scrisse il 6 maggio 1924 direttamente a monsignor Endrici, invitandolo a «persuadere De Gasperi e i dirigenti locali», giudicando «il sacrificio di De Gasperi necessario e improrogabile»66. Alla fine De Gasperi accettò la nuova carica, che lo impegnava nella difficile gestione di una situazione politica che non offriva chiare alternative e in un rapporto complesso e in molti casi conflittuale con la gerarchia ecclesiastica e quella parte del mondo cattolico incline a sostenere la politica mussoliniana.

Dopo il delitto Matteotti (10 giugno 1924) e l’adesione dei popolari alla secessione dell’Aventino, vi fu un ulteriore tentativo di accordo parlamentare con i socialisti, a seguito di una intervista concessa da Filippo Turati a «Il Popolo», il 1 luglio 1924. Iniziativa, peraltro, duramente stigmatizzata da «La Civiltà cattolica» (2 agosto) e da «L’Osservatore romano» (17 settembre). Seguì un nuovo e pesante intervento vaticano: il 16 settembre il cardinale Gasparri invitò ancora Mario Sturzo a informare il fratello che il pontefice lo invitava ad abbandonare la collaborazione a «Il Popolo», a uscire dal partito e ad allontanarsi da Roma67. Il 25 ottobre 1924, Sturzo, nel segno dell’obbedienza sacerdotale, si vedeva costretto a lasciare l’Italia, per un esilio che sarebbe durato ventidue anni.

Quali obiettivi si nascondevano dietro la volontà del Vaticano di impedire aSturzo di ricoprire cariche di partito, di manifestare pubblicamente il suo pensiero sulla situazione politica italiana, e di spingerlo ad abbandonare il proprio paese nel momento più critico per la vita del partito e per le sorti della democrazia in Italia? Il cardinale Gasparri ha cercato di spiegare, nelle sue memorie, la linea assunta dal Vaticano: «Con l’avvento del fascismo morì il partito popolare e Mussolini mise a posto e la massoneria e l’anticlericalismo della stampa»68. Agli occhi del Segretario di Stato vaticano, Mussolini era l’uomo in grado di esautorare la vecchia classe dirigente, mettere a tacere la stampa anticlericale, creando così le condizioni per un’intesa di vertice che favorisse la realizzazione della ‘pace religiosa’ degli italiani. Non può quindi sorprendere che Gasparri, dopo un incontro con Mussolini, in casa Santucci, il 19 gennaio 1923, abbia affermato che il capo del governo era «un uomo di prim’ordine», e che si era convenuto sull’opportunità di non affrontare ancora «in pieno la questione romana», ma era necessario «per un tempo più o meno lungo rendere più riguardosi e benevoli i rapporti tra il Vaticano e il governo italiano»69.

Gasparri colse, con l’intuito politico e diplomatico che lo distingueva, le possibilità che il nascente regime offriva per instaurare un nuovo clima nei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia. Il Partito popolare e soprattutto Sturzo, che poneva il suo partito a difesa delle istituzioni democratiche, diventava un reale ostacolo a questo disegno. Insomma Sturzo e il suo partito diventavano le vittime designate sull’altare del realismo politico del Segretario di Stato vaticano.

Le ultime battaglie

Alla fine del 1924 l’opposizione dell’Aventino non era riuscita a concretizzare alcun risultato politico. Il fascismo aveva ripreso fiato, riorganizzato le sue fila ed era riuscito a vanificare la denuncia che Donati su «Il Popolo» aveva documentato sulle responsabilità di Emilio De Bono nel delitto Matteotti. All’interno dell’Aventino cominciavano ad affiorare anche segni di divisione: mentre Giorgio Amendola e i popolari erano favorevoli a proseguire nell’astensione parlamentare, ritenendo ancora insoluta la questione morale determinata dall’assassinio di Matteotti, Turati, i socialisti e Luigi Albertini erano favorevoli a un rientro in aula, per meglio combattere il fascismo. Prevalse la decisione di proseguire nella secessione parlamentare.

I nodi vennero sciolti dallo stesso Mussolini, che dopo il discorso alla Camera del 3 gennaio 1925 – atto di nascita del regime fascista – attaccò le opposizioni con una serie di provvedimenti limitativi delle libertà costituzionali. Furono aumentati i poteri della polizia e dei prefetti, furono epurati i funzionari della burocrazia statale sospettati di antifascismo, fu ridotta la libertà di stampa mediante severi controlli della censura, sequestri e allontanamento di direttori non graditi, al capo del governo si attribuirono poteri di controllo sull’attività legislativa, vennero abolite le elezioni amministrative e i sindaci, chiamati podestà, vennero nominati dal governo.

Le opposizioni aventiniane non avevano più né la forza né la possibilità di ribaltare una situazione politica controllata da Mussolini. La sorte dei partiti di opposizione era ormai segnata. Il suo canto del cigno fu il congresso svoltosi a Roma dal 28 al 30 giugno 1925. Era statoDe Gasperi a volere questo congresso, per chiedere ai suoi amici un assenso per il lavoro svolto e per ribadire davanti all’opinione pubblica la volontà di non abbandonare il campo. Fu un congresso diverso dai precedenti. Si riunì quasi in forma privata, nel salone concesso dall’Associazione del pubblico impiego, in via del Monte della Farina a Roma. Nello stesso salone si era svolto qualche mese prima il congresso del Partito socialista unitario.

Il primo atto del congresso fu la lettura del messaggio che Sturzo da Londra indirizzò aDe Gasperi, invitandolo a portare al congresso il suo «saluto di fiducia e di speranza». Invitò i popolari a offrirsi «alla vera pace del paese; alla riconquista della libertà perduta, al risanamento morale della coscienza e della convivenza nazionale, senza limitazioni e senza sottintesi». Consigliò loro d’abbandonare

«i titubanti e gli incerti […], coloro che rimpiangono come gli ebrei nel deserto le cipolle della schiavitù d’Egitto […]. Lasciate che se ne vadano agli impuri contatti di coloro che oggi trionfano nella reazione, nella illegalità, nella violenza. In mezzo a noi essi turberebbero la serenità del nostro sacrificio»70.

La relazione politica venne svolta da De Gasperi. La sua posizione apparve in sintonia con le linee del popolarismo sturziano. Si richiamò esplicitamente ai deliberati del congresso di Torino, riaffermando l’antitesi dottrinale fra fascismo e popolarismo. Fu particolarmente duro nei confronti dei clerico-fascisti e richiamò i congressisti a

«un atto di fede nella verità e nell’irresistibile efficacia di quell’idea fondamentale che gli viene dall’ispirazione cristiana, dall’idea cioè della fraternità e della giustizia sociale. Che cosa gioverebbe tutto il resto [si chiese De Gasperi] se a chi soffre ingiustizia e violenza e a chi si sente torteggiato nei suoi diritti non sapessimo ripetere la parola che deriva dal precetto essenziale del cristianesimo? [...]. Il partito popolare, se oggi tacesse e sfuggisse con formule equivoche al contrasto che è nella dottrina e nella pratica politica, avrebbe perduto per sempre i titoli della sua caratteristica. Noi vogliamo la pace e l’ordine, ma l’ordine che nasce dalla giustizia».

De Gasperi richiamò i popolari a una riflessione, a una riaffermazione di principi, nella sostanza a «tener fermo fino alla fine»71. La seconda relazione del congresso fu di Umberto Tupini, che illustrò l’attività del gruppo parlamentare, ripercorse la storia della secessione aventiniana, mettendone in luce il contributo di chiarificazione che aveva portato nella situazione politica italiana, avendo costretto il fascismo «a rivelarsi per quello che esso è effettivamente». Giudicò positivamente l’Aventino, ma non riuscì a prospettare una via d’uscita dal vicolo cieco nel quale si trovava l’opposizione72.

La discussione apertasi sulle relazioni di De Gasperi e Tupini portò in primo piano la figura di Francesco Luigi Ferrari, che contestò il giudizio positivo di Tupini sull’Aventino: il superamento del regime democratico costituzionale, con un Parlamento ormai esautorato, rendeva vuota accademia il discorso sull’Aventino e sulla tattica da seguire. Per Ferrari si trattava di un compito a lungo termine. L’elemento nuovo che Ferrari introduceva nel dibattito congressuale era la necessità di questa lenta preparazione, questo gettare «un seme di sana democrazia» nel popolo italiano e l’idea dell’alleanza tra piccola borghesia e proletariato, per creare nel paese una nuova e vasta coscienza politica capace di garantirgli un ordinamento democratico, che non fosse regalia del potere ma libera conquista. Ferrari con efficace realismo indicava una strada difficile, individuava i termini di una strategia a lungo termine, senza illusioni e con rigore morale73.

L’impossibilità, da parte delle opposizioni, di modificare concretamente la situazione politica ormai saldamente in mano al governo Mussolini, accentuò la crisi all’interno dell’Aventino, facendo emergere nuovi dissensi e divisioni: i socialisti massimalisti e i repubblicani che chiedevano un’azione rivoluzionaria abbandonarono 1’organizzazione il 1° settembre e il 2 ottobre 1925.

Il 14 dicembre, dopo le dimissioni di De Gasperi dalla carica di segretario politico, la guida del Ppi venne assunta da una commissione di cinque membri, che prese il nome di pentarchia, composta da Antonio Alberti, Giovanni Battista Migliori, Marco Rocco, Rufo Ruffo della Scaletta e Dino Secco Suardo. La vita del partito ogni giorno diventava più difficile e precaria. De Gasperi, scrivendo a Sturzo il 29 dicembre 1925, dava delPpi questo quadro fallimentare:

«Non abbiamo più stampa né denari. In questi tre mesi bisognerebbe: a) liquidare il Popolo senza fallimento; b) liquidare la direzione del partito, cioè gli impiegati, senza guai; c) ricostruire un centro più modesto ed una rete di fiduciari sicuri e pronti al sacrificio. Il Signore deve aiutarci molto se ciò ha da riuscire. Gli amici sono ancora vivi, ma rattrappiti sotto i colpi della sfortuna politica»74.

Nel corso del 1926 il partito visse in semiclandestinità. La stessa pentarchia era costretta a riunirsi in abitazioni private, in sedute ‘pellegrine’ in diverse città, per sfuggire al controllo della polizia. Era fallito anche il tentativo dei deputati popolari di rientrare in aula il 6 gennaio 1926, in occasione della commemorazione della regina Margherita (morta il 4 gennaio), per riaffermare il loro diritto a occupare i seggi di Montecitorio. Al loro ingresso alla Camera, furono aggrediti e vennero estromessi con la forza.

Sturzo da Londra continuò a essere la guida morale del partito. I suoi messaggi, le sue lettere erano soprattutto inviti a resistere, a non cedere al compromesso, a mantenere integri la tradizione e il patrimonio politico e culturale del popolarismo. Egli temeva soprattutto che i popolari cedessero alla sfiducia, all’adattamento, cercando punti di contatto con il regime. «Se vi sono ancora di questi illusi – affermò in un messaggio del gennaio 1926 – è bene che il partito li lasci cadere, come foglie secche di un albero ancora verde, che passa il suo inverno per preparare i succhi vitali della sua primavera». Il Partito popolare aveva per Sturzo il diritto e il dovere di non dare la sua adesione a un sistema politico «che vuol fare della religione uno strumento di dominio, mentre tende alla deificazione della nazione-stato, e alla confusione dello Stato con il governo e del partito con una persona. Non c’è concezione più pagana e più ripugnante allo spirito di civiltà e ai principi del cristianesimo»75.

Nelle lettere agli amici popolari sono frequenti gli inviti a mantenere in vita le organizzazioni legate al popolarismo. A Ruffo della Scaletta scrisse più volte, spingendolo a dar vita a un movimento per la valorizzazione della Società delle nazioni. Invitò Achille Grandi a non cedere e a mantenere in vita la Confederazione italiana dei lavoratori, dopo l’emanazione della riforma corporativa del 3 febbraio 1926. Supplicò Igino Giordani di non lasciar cadere la Seli, la casa editrice che lo stessoSturzo aveva fondato nel 1924 per dare al partito un valido strumento ideologico. Sturzo sembra non cogliere interamente le reali difficoltà che i suoi amici dovevano superare per svolgere attività politica e sindacale. «Ogni giorno – gli scriveva Annibale Gilardoni il 25 agosto 1925 – nostri amici passano o, quanto meno, si isolano. Impiegati vengono espulsi o trasferiti solo per non essere del regime. Professionisti di ogni classe, uomini d’affari, tecnici sono espulsi dal lavoro perché non sono fascisti. Bada che questo genere di trattamento si aggrava ogni giorno e toglie il pane a mille e mille. Chi vuoi che resista?»76.

La sorte del Partito popolare era ormai segnata. Mancava solo l’atto ufficiale. L’attentato di Anteo Zamboni contro Mussolini fu l’occasione che permise al fascismo di liquidare definitivamente e ufficialmente le opposizioni. Il governo presentò il 5 novembre alla Camera un disegno di legge per la difesa dello Stato. Tutti i partiti politici e i giornali che minacciavano l’ordine pubblico venivano soppressi. Sulla base di questo provvedimento la Camera deliberò di far decadere dalla carica i 125 deputati che avevano aderito all’Aventino. Il 9 novembre 1926 il prefetto di Roma emise il decreto di scioglimento del Partito popolare italiano.

Donati si era già rifugiato in Francia nel giugno 1925. Poco dopo lo scioglimento del partito anche Ferrari lasciò l’Italia e si stabilì in Belgio. Sturzo, Donati e Ferrari cercheranno, assieme a pochi altri esuli del Ppi, di mantenere in vita il partito all’estero, fra molte difficoltà e con pochi risultati. De Gasperi tentò di espatriare nel marzo 1927 con documenti falsi, ma dovette interrompere il viaggio a Firenze, perché riconosciuto, arrestato e condannato a due anni e sei mesi di carcere. Gran parte degli altri popolari abbandonarono la vita politica e si ritirarono nel privato, dedicandosi alle loro professioni.

La breve stagione del Partito popolare si chiudeva dopo sette anni e mezzo di vita. La crisi del progetto sturziano prese corpo quando il fascismo riuscì a erodere al popolarismo i consensi dell’area piccolo e medio borghese. Ulteriori conseguenze il partito subì dall’atteggiamento di molti cattolici e ambienti ecclesiastici inclini a giudicare positivamente la politica di Mussolini nei confronti della Santa Sede. È indubbio, tuttavia, che la prematura conclusione dell’esperienza del Partito popolare va inquadrata nella crisi che investì tutto il sistema politico italiano sotto l’urto del fascismo. IlPpi venne travolto dalla spregiudicata politica mussoliniana, dalla reazione agrario-capitalista, dalla collusione tra fascismo e apparati dello Stato, subì la sorte di tutti gli altri partiti democratici, pagando anche esso la sua parte di errori, di sterili attendismi, di miopia politica, destinati a travolgere e liquidare lo Stato liberale.

Note

1 Per una bibliografia generale sul tema trattato in questo contributo, si vedano: A. Gemelli, F. Olgiati, Il programma del PPI come non è e come dovrebbe essere, Milano 1919; G. De Rossi, Il Partito Popolare Italiano dalle origini al congresso di Napoli, Roma 1920; S. Jacini, I popolari, Milano 1923; Id., Storia del Partito Popolare Italiano, Milano 1951; L. Cavazzoni, Stefano Cavazzoni, Milano 1955; G. Donati, Scritti politici, a cura di G. Rossini, Roma 1956; G. De Rosa, Giolitti ed il fascismo in alcune sue lettere inedite, Roma 1957; E. Pratt Howard, Il partito popolare italiano, Firenze 1957; L. Sturzo, Il partito popolare italiano, III, (1923-1926), Bologna 1957; L. Bedeschi, Giuseppe Donati, Roma 1959; G. Gualerzi, La politica estera dei popolari, Roma 1959; F. Meda, Scritti scelti, Roma 1959; G. De Rosa, Rufo Ruffo della Scaletta e Luigi Sturzo, Roma 1961; P. Ungari, L’idea del partito moderno nella politica e nella sociologia di L. 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2 L. Sturzo, Chiesa e Stato. Studio sociologico-storico, 2 voll., Bologna 1978: II, p.153.

3 F. Traniello, S. Fontana, Romolo Murri nella storia politica e religiosa del suo tempo. Aspetti politico-sociali, in Romolo Murri nella storia politica e religiosa del suo tempo, a cura di G. Rossini, Roma 1972, p. 81.

4 L. Sturzo, La Croce di Costantino. Primi scritti politici e pagine inedite sull’azione cattolica e sulle autonomie comunali, a cura di G. De Rosa, Roma 1958, pp. 233-260.

5 L. Sturzo, Il partito popolare italiano, 3 voll., Bologna 1956: I, (1919-1922), p. 44.

6 Ibidem, p. 58.

7 F. Malgeri, I cattolici dall’Unità al fascismo, Chiaravalle Centrale 1973, p. 270.

8 G. Sale, Popolari e destra cattolica al tempo di Benedetto XV, Milano 2006, pp.144-146.

9 Ibidem, pp. 155-156.

10 Ibidem, pp. 25-26.

11 ASV, Affari ecclesiastici riservati, Italia, 537.

12 F. Malgeri, I cattolici dall’Unità al fascismo, cit., pp. 275-276.

13 G. Spadolini, Il card. Gasparri e la questione romana. Con brani delle memorie inedite, Firenze 1973, pp. 266 seg.

14 P. Ungari, Idea e struttura del partito politico nel pensiero sturziano, in Centro G. Puecher, Il Partito Popolare validità di un’esperienza, Milano 1969, p. 537.

15 F. Piva, F. Malgeri, Vita di Luigi Sturzo, Roma 1972, p. 231.

16 Archivio di Luigi Sturzo (da qui in poi ALS), sc. 159, fasc. 761.

17 G. De Rosa, L’utopia politica di L. Sturzo, Brescia 1972, p. 61.

18 F. Olgiati, Il programma del Partito popolare italiano come non è e come dovrebbe essere, Milano 1919.

19 L. Sturzo, Il partito popolare italiano, cit., I, p. 77.

20 Gli atti dei congressi del Partito Popolare Italiano, a cura di F. Malgeri, Brescia 1969, p. 63.

21 L. Sturzo, Chiesa e Stato, cit., p. 168.

22 L. Sturzo, Il partito popolare italiano, cit., I, p. 104.

23 Ibidem, p. 112; G. Ignesti, La concezione cristiana della politica: l’eredità scomoda del popolarismo sturziano, in Don Luigi Sturzo, uomo dello spirito, Convegno internazionale sturziano (Catania-Caltagirone 2009), Caltagirone 2009, p. 45.

24 L. Sturzo, Il partito popolare italiano, cit., II, Popolarismo e fascismo (1924), Bologna 1956, p. 199.

25 L. Sturzo, Il partito popolare italiano, cit., I, p. 7.

26 L. Bedeschi, Dal movimento di Murri all’appello di Sturzo, Milano 1969, p. 53.

27 L. Sturzo, Sintesi sociali. Le organizzazioni di classe e le Unioni professionali: scritti pubblicati su «La cultura sociale», Bologna 1961, p. 73.

28 L. Sturzo, Il partito popolare italiano, cit., II, p. 167.

29 E. Roldan, Conversa amb Don Sturzo, «La Veu de Catalunya», 19 novembre 1922, p. 6.

30 Gli atti dei congressi del Partito Popolare Italiano, a cura di F. Malgeri, cit., p. 145.

31 Ibidem, p. 215.

32 ALS, sc. 60, fasc. AO 222.

33 G. De Rosa, Sturzo, Torino 1977, p. 216.

34 G. De Rosa, Sturzo mi disse, Brescia 1982, p. 25.

35 Gli atti dei congressi del Partito Popolare Italiano, a cura di F. Malgeri, cit., p. 264.

36 G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, II, Il partito popolare italiano, Bari 1966, pp. 196-197.

37 L. Sturzo, Politica di questi anni. Consensi e critiche (dal gennaio 1954 al dicembre 1956), Bologna 1968, p. 213.

38 G. De Rosa, La crisi dello Stato liberale, cit., pp. 71-72.

39 Lettera ad Ambrosini del 1 gennaio 1923, «Il Messaggero», 26 novembre 1948.

40 G. De Rossi, I popolari nella XXVII legislatura, Roma 1923, pp. 411-415.

41 Ibidem, pp. 418-419.

42 Ibidem, p. 419.

43 ALS, sc. 62, fasc. 230/2, c. 11.

44 A. De Gasperi, Il richiamo a Torino, «Il Nuovo Trentino», 4 ottobre 1924.

45 L. Sturzo, Italia e fascismo, Bologna 1965, p. 115.

46 L. Sturzo, Il partito popolare italiano, cit., I, p. 306.

47 Resistere, «Il Domani d’Italia», 21 gennaio 1923, p. 1.

48 G. Cappi, Da Caporetto al Piave, «Il Domani d’Italia», 28 gennaio 1923, p. 2.

49 G. Cappi, Collaborazione all’impiedi, sì; collaborazione in ginocchio, no, «Il Domani d’Italia», 4 marzo 1923, p. 2.

50 Cfr. G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, cit., II, pp. 347-349.

51 Cronaca contemporanea. Cose italiane, «La Civiltà cattolica», 1923, 2, pp. 279-281.

52 L. Sturzo, Il partito popolare italiano, cit., II, p. 12.

53 Il IV congresso del Partito popolare italiano, «La Civiltà cattolica», 1923, 2, p. 259.

54 Gli atti dei congressi del Partito Popolare Italiano, a cura di F. Malgeri, cit., p. 416.

55 Ibidem, pp. 424, 427.

56 Ibidem, p. 453.

57 G. Polverelli, Il discorso di un nemico, «Il Popolo d’Italia», 12 aprile 1923.

58 G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, cit., II, p. 382.

59 Il testo della lettera in G. Caronia, Con Sturzo e con De Gasperi, Roma 1979, pp. 316-317.

60 G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, cit., II, pp. 402-405; F.L. Ferrari, L’azione cattolica e il regime, Firenze 1957, pp. 32-37.

61 G. Donati, Ognuno al suo posto, «Il Popolo», 11-12 luglio 1923, p. 1.

62 ALS, sc. 158, fasc. 759, c. 3b.

63 ALS, sc. 63, fasc. 232/2, c.190.

64 ALS, sc.63, fasc. 232/2, c. 158.

65 «Aurora. Bollettino ufficiale delle diocesi di Marsico e Potenza», 4, 1 marzo 1924, p. 12.

66 ALS, sc. 159, fasc. 760/2, c. 143.

67 G. Caronia, Con Sturzo e con De Gasperi, cit., p. 324.

68 G. Spadolini, Il card. Gasparri e la questione romana, cit., p. 267.

69 F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla grande guerra alla Conciliazione, Bari 1966, pp. 107-111.

70 L. Sturzo, Miscellanea londinese, I, 1924-1930, Bologna 1965, p. 54.

71 Gli atti dei congressi del Partito Popolare Italiano, a cura di F. Malgeri, cit., pp. 568-569.

72 Ibidem, pp. 570-573.

73 Ibidem, pp. 574-575.

74 L. Sturzo, G. De Gasperi, Carteggio (1920-1953), a cura di F. Malgeri, Soveria Mannelli 2006, pp. 41-42.

75 L. Sturzo, Miscellanea londinese, cit., pp. 104-105.

76 L. Sturzo, Scritti inediti, II, 1924-1940, a cura di F. Rizzi, Roma 1975, pp. 87-88.

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