TURIELLO, Pasquale

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 97 (2020)

TURIELLO, Pasquale

Giovanni Montroni

– Nacque a Napoli il 3 gennaio 1836 da Giuseppe e da Carmela Schioppa.

La sua famiglia, di origine lucana, si era trasferita a Napoli nell’ultimo quarantennio del Settecento. Giuseppe, suo padre, fu capo del dipartimento per l’istruzione primaria di tutto il Regno e, come i fratelli, figura autorevole del milieu borbonico e suddito fedele. Lo zio Aniello, insofferente dell’omofonia tra nome di battesimo e cognome, mutò il secondo in Torelli; imitato dal fratello Vincenzo, ma non da Giuseppe. Vincenzo Torelli, giornalista, scrittore, librettista, editore, impresario teatrale, fondatore e direttore della rivista L’Omnibus, tra i più importanti e longevi periodici dell’Ottocento borbonico, fu persona a Napoli molto nota e anche lui suddito devoto.

Pasquale condusse i suoi studi a Napoli fino alla laurea in giurisprudenza nel 1858. Tuttavia, solo per un anno si dedicò all’attività forense, poi convintamente virò verso l’insegnamento e il giornalismo politico oltre che verso lo studio dell’amministrazione dello Stato e dell’istruzione pubblica, in continuità consapevole con le esperienze del padre e dello zio.

Figura fondamentale per i suoi orientamenti politici fu Vito Fornari, di cui egli frequentò assiduamente il salotto. Sacerdote, collaboratore di Basilio Puoti, prefetto della Biblioteca nazionale di Napoli, fine letterato, Fornari fu uno dei maggiori esponenti del neoguelfismo napoletano. Questi aprì il giovane Turiello al gusto letterario e, più profondamente, al cattolicesimo liberale. E in quel gruppo neoguelfo Pasquale trovò interlocutori con i quali allenare il suo amore per la polemica e un indirizzo politico che lo guidò verso gli uomini della Destra storica.

Il legame con Fornari sarebbe stato consolidato dal matrimonio, nel 1869, con Francesca Adele Fornari, nipote di Vito, con la quale ebbe quattro figli.

Nel 1860, nonostante la convinta adesione al progetto di unificazione del Paese della Destra storica, la fascinazione che in lui suscitò Giuseppe Garibaldi spinse Turiello a seguire il generale nella conquista del Mezzogiorno. Fu ufficiale nella compagnia del Matese che dall’alto Casertano sconfinò nello Stato pontificio ed entrò in Benevento dove dichiarò decaduto il potere temporale del papa nelle province meridionali. Cattolico fervente, fu contrario al potere temporale della Chiesa e durante il pontificato di Leone XIII diede segnali di un certo anticlericalismo. Nel 1861 militò in un battaglione della guardia nazionale di stanza in Toscana.

Alla fine di questo biennio militare, Turiello insegnò in un liceo e cominciò la sua attività di pubblicista e commentatore politico. Il suo primo articolo uscì nel 1860 su L’Omnibus, il giornale dello zio. Il vero esordio avvenne dopo, come corrispondente del quotidiano La Perseveranza, creato da un gruppo del patriziato milanese di orientamento liberale moderato e monarchico. Lavorò successivamente come redattore a La Patria, quotidiano diretto da Aurelio Bianchi-Giovini. Al giornale collaborarono anche Raffaele De Cesare e Vittorio Imbriani con i quali – e con il primo in particolare – Turiello strinse una profonda amicizia, trovando in loro una spinta intellettuale importante per gli anni a venire. Sempre legati all’esperienza della Destra storica furono tutti gli altri giornali con cui collaborò e che in certi casi diresse.

Nel 1866, per quanto più maturo e già apprezzato pubblicista di idee moderate, seguì nuovamente, come volontario, Garibaldi nell’invasione del Trentino. La figura del generale, che ai suoi occhi rappresentava senza ambiguità il mito della forza, non smise mai di affascinare Turiello. Nel 1867, con gruppi di volontari napoletani e romani, cercò di unirsi alle camicie rosse nel nuovo tentativo di conquistare Roma. L’intento non andò, però, in porto.

Contemporaneamente divenne ispettore delle scuole comunali napoletane, posizione che mantenne dal 1865 al 1874. In quegli anni Turiello abbandonò la vita politica attiva e nel 1869 lasciò la Destra, a cui continuò a guardare con simpatia e partecipazione, senza lesinarle, in alcuni casi, critiche per l’incapacità di trasformarsi in un vero partito.

Sempre tra il 1865 e il 1874, oltre alla responsabilità di ispettore scolastico assunse un’altra serie di incarichi: amministratore dell’Albergo dei poveri, commissario regio nel Comune di San Giorgio a Cremano. Fu inoltre segretario della commissione per l’inchiesta Scialoja sull’istruzione secondaria, da cui si dimise nel 1873. Nel 1874 ritornò alla scuola: insegnò storia nel Regio liceo Vittorio Emanuele di Napoli. Cominciò altresì a pubblicare lavori di più ampio respiro dedicati prevalentemente alla scuola e all’amministrazione locale con particolare attenzione per Napoli. Nel 1864 aveva mandato in stampa anche la prima delle sue tre raccolte di versi.

In quegli anni strinse più intense relazioni con il gruppo di intellettuali che ruotava intorno a La Rassegna settimanale, fondata da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. Turiello aderì completamente all’impegno della rivista per una migliore conoscenza delle drammatiche condizioni in cui versava il Mezzogiorno. La numerosa e competente compagine dei collaboratori della rivista comprendeva i due intellettuali riconosciuti come indiscusse autorità negli studi sulla società meridionale: Pasquale Villari e Giustino Fortunato.

Nel 1882 Turiello pubblicò a Bolgona presso Zanichelli i due volumi del suo lavoro più importante, Governo e governati in Italia. Molto apprezzato tanto da Franchetti che ne aveva incoraggiato la scrittura, che da Villari, il libro rimane per gli anni in cui fu scritto un lavoro fuori del comune. Il meridionalismo si riempì, nel libro di Turiello, di pagine analitiche di estrema profondità, ma anche di grande concretezza. Lo scrittore napoletano non rinunziò in questo, come negli altri lavori successivi, a suggerire modalità o istituzioni che avrebbero aiutato a elevare le pratiche della politica e a favorire la crescita del senso civico dei «ceti inferiori», specie nel Mezzogiorno.

Scritto a partire dal 1876, l’anno in cui la Destra dovette lasciare il passo alla Sinistra storica, venne concepito da Turiello come un atto di accusa verso il sistema di governo instaurato da Agostino Depretis. Lentamente, però, il lavoro acquistò un’ampiezza decisamente maggiore. Facendo delle pratiche politiche adoperate dalla Sinistra storica il punto centrale del lavoro, Turiello colse con acutezza i gangli di un sistema che partiva dal clientelismo per arrivare allo svuotamento del Parlamento per la pratica consociativa con cui venivano prese le decisioni. Sul malaffare che caratterizzò la vita politica e il gioco perverso tra governanti e governati, ricattati e ricattatori entrambi, Turiello scrisse pagine di estrema vividezza. A quarant’anni dall’unificazione e a dieci dal momento in cui il senso civico cominciò ad affievolirsi, almeno nella sua ricostruzione, Turiello riuscì a cogliere l’indifferenza delle plebi urbane e rurali nei confronti delle leggi dello Stato, lo strapotere delle borghesie che non avevano senso civico e morale più elevato delle plebi. In questo quadro disincantato, Turiello analizzò una serie straordinaria di questioni: il ruolo dello Stato, gli enti e le istituzioni locali, la scuola, l’emigrazione, le colonie, le forze armate e, naturalmente, il Mezzogiorno.

Tra i delusi del postrisorgimento i temi di Turiello non furono delle novità assolute; la denunzia del malaffare vigente nel Paese dopo il 1876, per esempio, apparteneva già al discorso pubblico, e in maniera maggiore tra gli uomini della Destra. Fu l’intreccio dei due piani politico e sociale la vera novità del libro di Turiello. Governo e governati in Italia è un saggio di sociologia politica, un genere letterario che a quella data aveva avuto pochi precedenti. Fu proprio questo intreccio di piani diversi che consentì a Turiello di ricostruire con acutezza di giudizio e perfetta analisi i comportamenti e le condizioni di vita del «ceto» dei lavoratori, con attenzione particolare ai contadini del Meridione italiano, ai loro atteggiamenti, alle loro aspettative. Con un buon controllo dello scenario storico, Turiello non si limitò a prendere in considerazione il solo Mezzogiorno, ma guardò a tutta l’Italia con numerosi confronti con i Paesi europei, la Gran Bretagna in particolare.

Con il suo lavoro Turiello volle indicare alle forze di governo come la questione sociale, intesa quale la presa di coscienza della popolazione immiserita dall’ingiustizia di cui era vittima per l’indifferenza dello Stato, creasse un contesto che imponeva misure legislative sollecite. Turiello vide il pericolo di un profondo cambio di atteggiamento della popolazione dagli sviluppi imprevedibili. Temette che l’assenza dello Stato in molte parti del Paese, più gravemente nel Mezzogiorno, potesse avere effetti perversi, in particolare la crescita della camorra tra le plebi urbane e del brigantaggio nelle campagne. Lo studioso vide il Mezzogiorno come un ordigno esplosivo che andava opportunamente disinnescato.

Non mancano nel libro spiegazioni di tipo antropologico. L’origine di queste patologie sociali, come già in precedenza aveva scritto Villari, doveva essere ricercata nell’indole, nel carattere della razza e nel clima. La camorra, la mafia, come la violenza selvaggia e campagnola del brigantaggio, si congiungevano con le pratiche clientelari, legate alla politica o all’amministrazione locale. Solo nuove colonie e nuova terra nazionale in Africa avrebbero sconfitto la miseria e il risentimento popolare. Turiello argomentò le varie questioni con estrema concretezza, sulla base di informazioni raccolte per lo più nei giornali locali. I risultati, sul carattere dei meridionali e dei settentrionali, ancorché in più parti discutibili, sono perfettamente inscritti nel sistema di riflessione dell’autore.

Sul piano generale il disegno di Turiello ha alcuni elementi forti: l’antigiacobinismo; l’antiparlamentarismo che creava, per la perdita di distinzione dei partiti, una sorta di dittatura del Parlamento sulla società; il rifiuto del suffragio universale a cui Turiello opponeva un più funzionale suffragio ristretto e il voto plurimo «dei più colti e più agiati»; l’avversione per lo scrutinio di lista, introdotto proprio in concomitanza dell’uscita di Governo e governati in Italia perché, riteneva Turiello, minimizzava il ruolo dei partiti senza sconfiggere le pratiche clientelari; la necessità della costruzione di una più ampia area coloniale.

Turiello riteneva che una nazione pacifica non potesse avere progresso e notava come oramai tutte le nazioni europee avessero dispiegato le proprie forze militari per creare o allargare i domini. Maggiori prospettive di successo avevano Paesi illiberali e autoritari come la Russia a cui Turiello guardava con ammirazione, pronosticando per questa uno straordinario avvenire. L’opinione di Turiello era che le nazioni che vedevano emigrare milioni dei propri cittadini senza trasformare aree coloniali in terre nazionali fossero destinate all’irrilevanza. Con una visione fortemente influenzata dalle teorie evolutive sosteneva che le nazioni prive di colonie non potessero che soccombere, per una sorta di selezione naturale, nella lotta per la vita.

Comune in ampie fasce della popolazione, e fatta propria da Turiello, era la richiesta di «leggi terribili» per stroncare, nel Mezzogiorno e all’estero dove i meridionali erano emigrati, la «vergognosa tradizione» (Governo e governanti, cit., II, p. 321) dei reati di sangue. Del resto Turiello irrideva ogni forma di pietismo e si dichiarava assolutamente contrario all’abolizione della pena di morte.

Il volume ebbe una seconda edizione nel 1890 in cui l’autore ampliò l’attenzione per il colonialismo italiano e assunse un carattere più marcatamente nazionalista. Turiello fu indubbiamente nazionalista, tuttavia di una forma molto diversa dal nazionalismo di Enrico Corradini e Luigi Federzoni che toccarono corde estranee al pensiero di Turiello: la bella guerra, l’irredentismo, Trieste.

La pubblicazione di Governo e governati in Italia irrobustì l’immagine politica di Turiello. La natura di notabile molto radicato nel territorio fece di lui un punto di riferimento per personaggi di prima grandezza della politica italiana. Fu consigliere di fiducia di Silvio Spaventa al quale usò dare suggerimenti sui candidati da proporre alle elezioni; con Antonio Starabba di Rudinì ebbe consuetudine di discussione su temi di politica generale; il lungo sodalizio si interruppe nel 1896 a causa del trattato di Addis Abeba e di quella pace «precipitosa insieme e costosa» (Uno sguardo al secolo XIX, in Atti della Reale Accademia di scienze morali e politiche di Napoli, 1901, vol. 33, pp. 389-501, in partic. p. 444).

Tra precisazioni e rettifiche relative ai temi affrontati in precedenza, nel lavoro di Turiello nell’ultimo decennio del secolo vi era spazio per la critica del pacifismo, per il potere disciplinare delle università, i problemi delle donne, fino allo spiritismo. Pur mantenendo il suo eclettismo culturale, Turiello prestò maggiore attenzione alla politica estera. Fra 1894 e 1901 pubblicò Dal Giolitti a Cassala (in Rassegna agraria, industriale, commerciale, politica, III (1894), 11-12, pp. 275-294), Da Senafè a Montecitorio. Sul parlamentarismo come ostacolo allo sviluppo della politica coloniale (Firenze 1895), La virilità nazionale e le colonie italiane (in Atti della Reale Accademia di scienze morali e politiche di Napoli, 1899, vol. 30, pp. 267-365), La conferenza dell’Aja (in Nuova Antologia, 1899, vol. 166, pp. 729-737), Quel che ci può insegnare la Cina (in Rivista d’Italia, 15 ottobre 1900) e, infine, il citato Uno sguardo al secolo XIX.

Questo saggio segnò il definitivo allontanamento dai valori del Risorgimento giudicati troppo legati a quelli del 1789 e criticati in modo sferzante. Liberalismo, democrazia, cosmopolitismo erano per Turiello tutte manifestazioni della «irresolutezza» italiana, incurante della richiesta proveniente da milioni di emigrati di una politica di forza per assicurare loro nuovi territori nazionali. Le colonie per il Mezzogiorno erano irrinunziabili: le scarse risorse e la ristrettezza dei terreni di cui i contadini disponevano creavano un surplus demografico che alimentava un imponente flusso migratorio. Il problema coloniale, lamentava Turiello, non contagiava l’Italia settentrionale, economicamente avvantaggiata, dal momento che gli ‘industrianti’ del Nord si contentavano di esportare le loro merci nel Mezzogiorno. A questo proposito non poteva mancare una polemica sulla distribuzione dell’intervento pubblico. Mentre il governo si impegnava a forare le Alpi in tre punti e a realizzare nella valle del Po canali e ferrovie a più binari, lasciava che Brindisi e Napoli decadessero sempre più.

Era necessaria una politica di forza, era doveroso provvedere ad armarsi come stavano facendo tutte le altre nazioni, ivi compresi Paesi, come la Cina, che non avevano intenzione di creare colonie. Era il Parlamento, secondo Turiello, che impediva una politica espansionistica. La rappresentanza nazionale sembrava a Turiello unicamente preoccupata di raggiungere il pareggio del bilancio o di abolire il corso forzoso. Il governo, inoltre, accusava Turiello, si era impegnato nella costruzione di reti ferroviarie non immediatamente necessarie. La linea, invece, che da Massaua avrebbe dovuto raggiungere l’altopiano etiopico non era stata completata: si era arrestata a Saati. Il completamento della linea avrebbe consentito, nel 1896, il regolare approvvigionamento delle truppe e la difesa dell’altopiano. La vergogna di Adua sarebbe stata evitata. La massa di emigrati, inoltre, non giovava alla reputazione dell’Italia. Il Paese rischiava l’irrilevanza sul piano internazionale e la mancanza di considerazione.

Prima di quest’ultimo lavoro Turiello provvide a inserire alcune tessere che in un formato minore erano già presenti in Governo e governati in Italia. Particolare significato nel sistema turiellano acquistò l’articolo La virilità nazionale e le colonie italiane (cit.).

Dopo aver denunziato l’ossessione del bilancio, i guasti del parlamentarismo, la «decadenza della fibra nazionale», suggerì un modello educativo per fare crescere una gioventù più forte e risoluta. In sostanza Turiello pensava di spostare buona parte dell’orario scolastico dalle discipline canoniche all’addestramento fisico: primo passo verso la creazione di un esercito capace di farsi rispettare nel grande gioco coloniale. Con questa finalità immaginò, per i giovani dai quindici ai vent’anni, tutta una serie di attività rivolte a rafforzare la disciplina e il cameratismo. L’esito finale sarebbe stato la presenza di una popolazione giovanile, disciplinata, militarmente attrezzata, virile e facilmente mobilitabile per la guerra. I deboli soccombono, ammoniva Turiello. Questo si saldava con il rancore verso la Francia che era il diretto avversario dell’espansionismo italiano in Africa. Il protettorato francese in Tunisia fu, per Turiello, espressione dell’arroganza francese e dell’inettitudine del governo. A questo si aggiungeva anche l’insofferenza per il legame particolare che il Vaticano manteneva con la Francia.

In ultima istanza, la produzione sociopolitica di Turiello fece propri e rielaborò tutti i temi del conservatorismo della Destra italiana. La sua traiettoria politica si dispiegò da un liberalismo moderato a un disegno autoritario e imperialista affidato al sovrano e a uno Stato forte, nel quadro di una sistemazione organica della società, di un regime scolastico pensato per costruire eserciti, del rifiuto del Parlamento e di tutte le misure liberali per l’espressione della volontà popolare. Questo percorso politico si concluse per l’autore nei primi anni del Novecento; per la Destra e per il moderatismo sempre meno liberale arrivò al fascismo.

Morì a Napoli il 13 gennaio 1902.

Opere. Oltre ai testi citati si segnalano: Dal 1848 al ’67, in Rivista storica del Risorgimento italiano, I (1895-1896), 3-4, pp. 217-239; l’edizione critica di Governo e governati in Italia, a cura di P. Bevilacqua, Torino 1980; l’antologia di scritti Il secolo XIX ed altri scritti di politica internazionale e coloniale, a cura di C. Curcio, Bologna 1947.

Fonti e Bibl.: P. Villari, L’Italia giudicata da un meridionale, in Nuova Antologia, 1° dicembre 1883 (ora in Id., I mali dell’Italia. Scritti su mafia, camorra e brigantaggio, a cura di E. Garin, Firenze 1995, pp. 261-305); A. Franchetti, P. T., in Il Marzocco, 9 febbraio 1902; R. De Cesare, Commemorazione di P. T., Napoli 1905; A. Caroncini, Il libro di P. T., in La Voce, 21 marzo 1912; E. Tagliacozzo, Un meridionale della destra. P. T., in Archivio storico per le province napoletane, n.s., 1935, vol. 21, pp. 195-206; M.L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino 1960, ad ind.; R. Molinelli, Per una storia del nazionalismo italiano, Urbino 1966, ad ind.; Id., P. T. precursore del nazionalismo italiano, Urbino 1968; P. Farneti, Sistema politico e società civile, Torino 1971, ad ind.; G. Imbucci, Ideologia e questione sociale in P. T., Roma 1971 (con un’appendice di settanta lettere scritte da o a Turiello dal 1865 al 1900); G. Galasso, Passato e presente del meridionalismo, I-II, Napoli 1978, ad ind.; R. Molinelli, P. T. Il pensiero politico e un’antologia degli scritti, Urbino 1988; C. Carrino, L’archivio storico del Liceo Ginnasio ‘Vittorio Emanuele II’. Inventario, Napoli 2005, pp. 27, 33, 48 s., 137; F. Di Dato, P. T. e la «Rassegna agraria, commerciale, industriale, politica» di Edoardo Capuano (1892-1910), Napoli 2012; Id., Lettere di Edoardo Capuano e di P. T. al ministro Luigi Luzzatto (1896-1909), Napoli 2014.

TAG

Antonio starabba di rudinì

Aurelio bianchi-giovini

Unificazione del paese

Cattolicesimo liberale

San giorgio a cremano