DIAZ GARLON, Pasquasio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 39 (1991)

DIAZ GARLON, Pasquasio (Pasquale)

Felicita De Negri

Nato a Daroca in Catalogna nella prima metà del sec. XV, giunse come "miles" a Napoli, al seguito di Alfonso d'Aragona, probabilmente attratto, come tanti altri giovani catalani in cerca di fortuna, dalle prospettive di arricchimento e di carriera che la conquista del Regno avrebbe aperto.

Divenuto re, Alfonso non disattese le aspettative degli antichi compagni d'arme, mirando anzi a trasferire sul piano politico e civile i legami e i sentimenti di disciplina e di fedeltà militari. Così, posti chiave dell'amministrazione finanziaria e giudiziaria, importanti feudi e relativi titoli sempre più di frequente furono concessi a sudditi iberici. Mentre il successo arrideva a molti dei suoi conterranei, il D., a quanto sembra, ne fu solo sfiorato.

Il primo incarico del cui conferimento al D. abbiamo notizia è quello di "librer" (bibliotecario) del "Senyor Duch", il futuro Ferrante I (1452); un ufficio forse non di primissimo piano, grazie al quale, però, egli ebbe modo di mettere alla prova quelle doti di affidabilità e di discrezione che ne avrebbero poi contraddistinto il lungo servizio alla corte aragonese. Infatti, oltre a custodire nell'interesse del principe oggetti preziosi quali i manoscritti, il D. fungeva anche da suo uomo di fiducia, ricevendo somme di denaro destinate ad affari riservati. Successivamente, e fino alla scomparsa del Magnanimo, non sono documentate promozioni. Il silenzio delle fonti - pur senza dimenticare le gravi mutilazioni che il patrimonio documentario di età aragonese ha subito in tempi recenti - va messo in relazione con le peculiari caratteristiche dell'immagine pubblica del Diaz Garlon. A quest'ultimo, prestigio e potere, prima ancora che dall'esercizio di cariche altisonanti, vennero dal rapporto privilegiato con il sovrano, del quale lunghi anni di paziente dedizione valsero a conquistare la piena fiducia. Ne è eloquente testimonianza la singolare concessione con cui Alfonso volle beneficiarlo in punto di morte, disponendo che in futuro nessun provvedimento regio sarebbe stato valido se non fosse stato controfirmato dal D. e che in assenza di tale controfirma né il segretario avrebbe potuto spedire l'atto né il sigillatore provvedere a sigillarlo. In questo modo il D., che pure non vantava ancora cariche importanti e neppure blasoni nobiliari, si trovò collocato in una posizione di assoluto rilievo rispetto a quanti lo sopravanzavano nella gerarchia dei titoli e degli uffici. Va osservato, inoltre, che la volontà espressa dal Magnifico nel suo testamento fu rispettata dai successori Ferrante I ed Alfonso II, cosicché gli atti della Cancelleria regia continuarono a lungo a recare la controfirma del D. o di uno dei sostituti.

Morto Alfonso, non mutò la qualità del rapporto che univa il D. al nuovo sovrano; anzi, il legame si fece ancora più stretto perché, se l'ex bibliotecario confermò la vocazione di fedele servitore della Corona, Ferrante, dal canto suo, nutrì nei suoi confronti un vivo sentimento di amicizia, che traspare con accenti di sincerità anche dal linguaggio stereotipato dei documenti ufficiali: "unice et singulariter amamus et carum habemus" è detto di lui in un atto di infeudazione.

Il sodalizio fra i due avrebbe resistito senza conoscere eclissi alle innumerevoli tempeste del tormentato regno di Ferrante; a buon diritto, perciò, può essere ricordato come esemplare realizzazione di quell'ideale di concordia e di collaborazione fra monarchia e feudalità che, a giudizio degli storici, Ferrante avrebbe vagheggiato. Testimonianze tangibili e dell'attaccamento alla dinastia e della benevolenza sovrana non mancarono da entrambe le parti. I documenti fiscali recano traccia di prestiti concessi in più riprese dal D. al re; cifre ragguardevoli, destinate soprattutto ad assoldare gli armati che l'instancabile guerreggiare di Ferrante richiedeva; non manca neanche il dono di una collana d'oro, per la quale il D. versò 193 ducati. E tuttavia, le somme anticipate gli furono restituite con un largo interesse. Ferrante elargì all'antico bibliotecario cariche, onori e feudi.

La già ricordata frammentarietà della documentazione aragonese superstite non ci consente di ricostruire passo dopo passo il cursus honorum del nostro personaggio e neppure di scandirne le tappe, precisando la durata di ciascun incarico. Ci limitiamo, pertanto, a menzionare gli appellativi con cui il D. viene di volta in volta citato dalle fonti: credenziero del porto del Fortore in Capitanata, misuratore del sale e credenziero delle saline e del fondaco di Manfredonia, precettore generale, segretario, guardaroba maggiore, camerlengo, maggiordomo, consigliere, governatore di Montalto, Paola e Fuscaldo, castellano del Castelnuovo. Una carriera importante, come si vede, e per un verso eccezionale, giacché Ferrante, a differenza del predecessore, preferì collocare nell'apparato statale elementi di origine locale. Viceversa, l'infeudazione al D. di possedimenti terrieri era in linea con la tendenza, propria della politica ferrandina, a favorire il ricambio della classe feudale, sostituendone i rappresentanti più riottosi con sudditi fidati. Il casale di San Pietro a Scafati, che il D. ricevé in dono nel 1462, era stato appunto confiscato al ribelle Pietro Tomacelli. La città di Alife, con le terre di Dragoni e di Sant'Angelo Raviscanina, apparteneva invece alla Regia Corte e fu acquistata dal D. per 12.000 ducati (10 luglio 1482); Cirigliano, Castello Mezzano e Larviso gli costarono più tardi 6.000 ducati (21 marzo 1487). In entrambi i casi il D. ottenne l'infeudazione "cum mero mixtoque imperio et cognitione primarum causarum civilium et criminalium" (Arch. di St. di Napoli, Sommaria, Repertorio dei Quinternioni di Terra di Lavoro e Contado di Molise, f. 4, e Repertorio dei Quinternioni di Principato Citra, f. 92); per Alife gli fu inoltre conferito il titolo comitale (16 marzo 1483).

A proposito di tali acquisti, va osservato come il D., nonostante la provata fedeltà alla Corona, non mostrasse troppi scrupoli nel trarre personale profitto dai momenti di crisi delle finanze regie. La compravendita di Cirigliano seguiva a breve distanza l'arresto dei baroni ribelli e il conseguente riaccendersi del conflitto con il Papato; quella di Alife, secondo quanto è detto esplicitamente nel relativo documento, era finalizzata a coprire le spese sostenute per armare una flotta "contra immanissimum Turchorum dominum qui superiori anno regnum nostrum invasit" (cfr. Ricca, V, 1, p. 60), contro quei Turchi, cioè, che avevano nel 1480 conquistato Otranto e che solo a fatica erano stati ricacciati. Il capitale che il conte di Alife veniva così investendo nella formazione di un consistente patrimonio fondiario proveniva, in parte, dalla sua interessenza nel commercio di esportazione del grano di Puglia, attestato dal permesso concessogli il 24 sett. 1486 per l'estrazione di 150 carri di frumento dal porto di Manfredonia, alla volta dei mercati esteri. Altri introiti il D. ricavava dall'esazione di diritti fiscali sulla terra di Campli. Il privilegio, concessogli probabilmente da Alfonso, gli fu confermato nel 1459 (27 agosto) da Ferrante, adattandolo alle trasformazioni del sistema fiscale che nel frattempo erano intervenute con l'introduzione del focatico. Il sovrano dichiarava di voler evitare che tale innovazione potesse danneggiarlo "cum a nobis non solum ipsam provisionem sed longe magiora liberalissime mereatur" (FontiAragonesi, IV, p. 66).Il D., divenuto conte di Alife, faceva ormai parte, a pieno titolo, dell'aristocrazia feudale; ma i suoi interessi restavano pur sempre radicati entro una dimensione cittadina. Perciò ebbe cura di ottenere l'aggregazione della propria famiglia al patriziato napoletano, seguendo l'esempio di quei baroni vecchi e nuovi che negli stessi anni si inurbavano, attratti dalle molteplici opportunità che lo sviluppo della capitale aveva aperto. I Diaz Garlon furono ascritti al "sedile" di Nido, uno dei più antichi ed esclusivi della città, quello stesso che di lì a poco, insieme ai "seggi" di Capuana e Montagna avrebbe sbarrato severamente l'accesso ai nuovi venuti. Non meno elitaria appariva la Confraternita di S. Marta (dal nome dell'omonima cappella napoletana), istituita da Margherita d'Angiò Durazzo nell'autunno del 1400, alla quale il D. pure fu ammesso, fianco a fianco di personaggi di sangue reale e dei nomi più illustri del Regno. Ancora oggi lo stemma dei Diaz Garlon (d'oro a tre fasce di nero) figura tra quelli miniati nel codice cosiddetto "di S. Marta", che raccoglie appunto le armi dei confratelli. A coronamento della sua rapida ascesa, il D. costruì un palazzo, proprio di fronte alla reggia-fortezza di Alfonso e di Ferrante.

Si trattava di un edificio di pregio, circondato da vasti giardini, con vasche e fontane, nel quale non disdegnò di soggiornare Lorenzo il Magnifico (1479). Probabilmente, una delle sale di questo palazzo (che fu più tardi in parte abbattuto da Pedro de Toledo per ampliare il largo di Castelnuovo) venne adibita a biblioteca. Infatti, secondo un costume diffuso nel ceto nobiliare del tempo, il D. dovette possedere una discreta collezione di codici, con i quali, del resto, i suoi trascorsi di bibliotecario gli avevano procurato una certa familiarità. Alcuni manoscritti appartenuti al D. sono stati individuati in anni recenti dal De Marinis in biblioteche italiane e straniere: l'Arte de lo ben morire, copiato da Joan Maria Cinico e "traducto in vulgare sermone da Juniano Maio a lo inclito Messer Pasquale castellano dignissimo" (cfr. De Marinis, 1952, I, p. 50); la Teseide del Boccaccio; De natura deorum di Cicerone, il Liber Psalmorum sempre del copista Cinico; l'Historia plantarum di Teofrasto. E il De Marinis ha ipotizzato che parte della raccolta del D., per volontà del proprietario, fosse stata incorporata alla sua morte nella biblioteca dei re aragonesi, seguendone poi le sorti.

Nell'edificio prospiciente il Castelnuovo il D. abitò solo saltuariamente; sua stabile dimora fu invece l'appartamento "di servizio" che le funzioni di castellano gli riservavano nella reggia. Sappiamo che le sue stanze, situate dapprima in un'ala non identificata del Castelnuovo, vennero poi trasferite (1470), per fare posto alla Camera della Sommaria, nella torre di S. Giorgio. Un'altra delle torri del castello, quella di S. Vincenzo, oggi non più esistente, era invece adibita a prigione; vi fu rinchiuso fra l'agosto e il dicembre 1486 Gio. Antonio Petrucci, figlio secondogenito di Antonello. Dal carcere egli indirizzò sonetti beneauguranti al D., al quale la famiglia Petrucci era unita da vincoli di amicizia. Ciononostante, era stato proprio il D. ad arrestare Antonello, insieme con altri nobili oppositori di re Ferrante. I fatti sono ben noti: un episodio saliente della lunga lotta che oppose l'aristocrazia feudale, appoggiata dal papa, alla politica accentratrice ed egemonica di Ferrante vide quest'ultimo imprigionare a sorpresa i maggiori esponenti del "partito baronale", in aperta violazione degli impegni di pace assunti e verso il papa e nei confronti dei ribelli. L'occasione fu offerta dalle nozze del figlio del conte di Sarno con la nipote del re, che avrebbero dovuto sugellare la ritrovata concordia. Mentre gli invitati, riuniti nella sala grande del Castelnuovo, attendevano la sposa, comparve il castellano con l'ordine di trarre in arresto il conte di Sarno ed altri baroni (13 ag. 1486).

Questa clamorosa sortita era stata preceduta da altre iniziative intese a contrastare l'ostilità congiunta del Papato e di alcune famiglie feudali alla monarchia aragonese. Fra di esse, in questa sede interessa ricordare la cerimonia svoltasi il 19 nov. 1485 nell'episcopio, alla quale presenziò il D., nella veste di procuratore del re. In quell'occasione, al cospetto di un folto pubblico di vescovi, oratori, consiglieri regi, gentiluomini e popolari, si diede corso alla lettura dei capi di accusa che Ferrante levava contro la S. Sede, colpevole, a suo dire, di aver fomentato il malcontento dei baroni. Ma la celebre "congiura" non rappresenta l'unico momento in cui il D. svolse un ruolo di protagonista; al contrario, il tormentato gioco politico del sovrano aragonese impose spesso al suo fedele servitore di assumervi una parte attiva. Come si è già accennato, fu il D. che ospitò a Napoli nel suo palazzo Lorenzo il Magnifico, allorché questi, incalzato da Ferrante sul piano diplomatico-militare e minacciato dall'ostilità del popolo fiorentino, decise di cercare un'intesa diretta con l'avversario (1479). Ancora, il D. ebbe in consegna i 36.000 ducati che Ferrante era stato costretto a chiedere in prestito a Battista Pandolfini, onde provvedere alla difesa contro i Turchi che avevano conquistato Otranto; e sempre il D. sottoscrisse, insieme con Antonello Petrucci e con lo stesso re, il documento con cui quest'ultimo offriva in pegno al creditore manoscritti e gioielli (10 genn. 1482). Ma al di là del singolo episodio, più o meno significativo, è da rimarcare soprattutto la presenza costante, anche se discreta, del D. al fianco del sovrano; veramente emblematica è, a questo proposito, l'immagine, tramandataci dai cronisti di Ferrante, che, ammalatosi a Carinola, tornò a Napoli in carretta col D. (21 dic. 1475). Il privilegio di Alfonso gli conferiva un compito di sorveglianza sugli atti della Corona, compito che, come si è detto, Ferrante non disconobbe ed anzi in qualche modo rafforzò, ordinando, fra l'altro, che tutte le provvisioni graziose concesse a qualsivoglia persona fossero pagate, pena la nullità, dal D. (24 giugno 1466). L'antico bibliotecario assurse così alla dignità di eminenza grigia del Regno; il suo nome divenne tanto noto che nei documenti ufficiali fu sufficiente designarlo semplicemente come "messere" (o "mossen") Pasquale (o Pasquasio), senza altri appellativi. E proprio al fido castellano toccò alla morte di Ferrante officiare il "rito di passaggio" che segnava l'insediamento del nuovo sovrano consegnando Castelnuovo ad Alfonso, duca di Calabria (17 genn. 1494).

Prima di congedarsi dal suo fedele servitore, Ferrante gli aveva ancora elargito un importante riconoscimento: nel gennaio 1491 era stato insignito dell'Ordine equestre della Stola, con il quale già Alfonso I, che l'aveva introdotto a Napoli, era solito decorare i più distinti gentiluomini della sua corte. Al D. Ferrante aveva donato anche il libro contenente i capitoli dell'Ordine, scritto per mano del copista Cinico.

Le notizie sul D. durante i regni, del resto effimeri e scarsamente documentati, di Alfonso II, Ferrante II e Federico si fanno più rade. Alfonso II gli confermò il possesso di Alife, con titolo ed onore di conte, e quello di tutte le terre a lui donate o vendute da Ferrante (20 giugno 1494). In favore del D. "consiliarii fidelis nostri dilectissimi", Federico incaricò il giudice Giovanni de Trasmundis di reintegrare tutti i beni feudali della città di Alife; e il Trasmundis nell'anno 1499 descrisse minutamente i corpi che componevano il feudo o che erano stati usurpati, stabilì i veri titoli di possesso sulle proprietà alifane e ne indicò i confini. Lo stesso Federico, di ritorno a Napoli, dopo aver debellato i Sanseverino ribelli, era stato ricevuto, all'ingresso del Castelnuovo, dal vecchio castellano (13 febbr. 1498). È fama, inoltre, che il D. avesse seguito Ferrandino nell'esilio di Ischia (1495).

Il D. morì a Napoli il 22 maggio 1499 e fu sepolto a S. Maria la Nova, nella cappella della Madonna delle Grazie dove si era preparato il sepolcro e l'epitaffio.

Dal matrimonio con Lucrezia di Chiaromonte era nato Ferrante, noto soprattutto per avere avuto in moglie Violante Grappino, signora dell'Oliveto e di Pietrapertosa, donna di grande bellezza. A Ferrante il D. lasciava un considerevole patrimonio terriero e un nome divenuto ormai illustre; l'uno e l'altro, però, non avrebbero retto al trascorrere di qualche generazione. Il patrimonio andò disperso all'epoca di Ferdinando, quarto conte di Alife; ed infine la stirpe stessa dei Diaz Garlon si estinse.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, R. Camera della Sommaria, Repertorio dei quinternioni di Terra di Lavoro e contado di Molise (secc. XVXVI), ff. 3v-4; Ibid., Repertorio dei quinternioni di Principato Citra (secc. XV-XVI), ff. 91v-92; Ibid., Petizione dei relevi, reg. III, ff. 149v, 159v; reg. V, ff. 56, 70, 84v, 86, 87v, 133, 138, 156v, 218v, 230; reg. VI, ff. 8v, 19v;reg. VII, f. 137; Ibid., Diversi (I numerazione), fs. 132, ff. 6, 8v, 23, 28v, 31; Ibid., Manoscritti Livio Serra di Gerace, III, f. 1216;Ibid., Codice d. Confrat. di S. Marta, f. 59; Codice aragonese, a cura di F. Trinchera, II, Napoli 1870, pp. 43, 314, 545, 548, 556, 670, 727; III, Napoli 1874, pp. 59, 185; A. Messer, Le Codice Aragonese, Paris 1912, pp. CIII s., CVIII, CXIV, 187, s., 302, 407, 411, 418 s., 426 ss., 448, 476, 488; Regesto della Cancelleria aragonese, a cura di J. Mazzoleni, Napoli 1951, pp. 34, 62, 129, 237; Fonti aragonesi, III, a cura di B. Mazzoleni, Napoli 1963, pp. 158, 160; IV, a cura di C. Salvati, Napoli 1964, p. 66;VI, a cura di C. Salvati, Napoli 1968, pp. 9, 112; VIII, a cura di B. Ferrante, Napoli 1971, pp. 62, 67, 74, 79, 86, 94, 97, 100, 103, 108, 126, 150, 152; IX, a cura di B. Mazzoleni, Napoli 1978, pp. 77, 82 s., 89, 93, 96, 99, 102, 108, 131; XI, a cura di B. Mazzoleni, Napoli 1981, pp. 3, 7 s., 15, 161, 166, 206-210, 235, 250, 312, 322, 337, 341, 359 s.; XIII, a cura di C. Vultaggio, Napoli 1990, pp. 111-114, 121 ss., 127 s., 139-42, 152 s., 155 s., 158 s., 182 s., 205 s., 216 s., 234-39, 246; L. Volpicella, Regis Ferdinandi primi instruct. liber, Napoli 1916, pp. 32 s., 41, 44, 61, 72, 74, 76, 84 s., 94, 101 ss., 107 ss., 112, 117, 119, 123 s., 137, 152, 154, 157, 162, 186 s., 190, 218, 221, 278, 307, 328 s., 364, 438, 442, 451; M. A. Terminio, Apologia dei tre seggi illustri, Venezia 1581, p. 172; G. Zurita, Anales de la Corona de Aragón, Caragoça 1610, l. XX, f. 345; S. Ammirato, Delle famiglie nobili napoletane, II, Firenze 1651, p. 61; B. Aldimari, Historia genealogica, Napoli 1694, III, p. 464; C. Tutini, Dell'origine e fondazione de' seggi di Napoli, Napoli 1754, p. 100; C. Porzio, Della congiura de' baroni del Regno di Napoli contro al re Ferdinando I, Napoli 1769, p. 105; G. Passero, Giornali, Napoli 1785, pp. 30, 57; G. Della Morte, Cronica di Napoli, Napoli 1845, pp. 131, 145, 167; G. Fuscolillo, Le cronache de li antiqui ri del Regno di Napoli, in Arch. stor. delle province napol., I (1876), p. 53; C. Minieri Riccio, recens. a I capitoli dell'Ordine equestre della Giarra, dei Gigli della Santa Vergine e della Stola…, ibid., II (1877), p. 877; E. Ricca, La nobiltà delle Due Sicilie, Napoli 1879, V, 1, pp. 58 ss.; N. Barone, Le cedole di Tesoreria dell'Archivio di Stato di Napoli dal 1460 al 1504, in Arch. stor. delle province napol., IX (1884), p. 14; B. Capasso, Il palazzo dei Diaz Garlon, poi di San Marco, in Napoli nobilissima, II (1893), p. 16; P. Magistrelli, Lutto e feste nella corte di Napoli, relazione dell'ambasciatore milanese al duca di Bari, in Arch. stor. lomb., XXIV (1909), p. 865; G. Paladino, Per la storia della congiura dei baroni, in Arch. stor. delle provv. nap., XLVI (1921), pp. 231 s.; R. Filangieri, Rassegna critica delle fonti per la storia di Castelnuovo, II, Napoli 1936, pp. 21, 33 s.; III, Napoli 1939, p. 63; T. De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d'Aragona, Milano-Verona 1947-1969, I, pp. 43, 50, 180, 183 s., 189; II, pp. 187, 192; Suppl., pp. 20, 27, 32, 62, 90 (cfr. recens. di M. Rodolico, in Arch. stor. ital., CX[1952], p. 313); B. Croce, Una passeggiata per la Napoli spagnuola, in La Spagna nella vita ital. durante la Rinascenza, Bari 1949, p. 276; R. Filangieri, Il codice miniato della Confraternita di S. Marta in Napoli, Firenze 1950, pp. 76 s.; R. Filangieri, Una cronaca napol. figurata del Quattrocento: 1442-1498, Napoli 1956, pp. 49 s., 201, 206 ss., 261; D. Marrocco, Sul decreto d'infeudazione di Alife a P. D., Napoli 1963; E. Pontieri, Dinastia, regno e capitale nel Mezzogiorno aragonese, in Storia di Napoli, IV, Napoli 1974, pp. 43, 91.

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