PATALIPUTRA

Enciclopedia dell' Arte Antica (1996)

Vedi PATALIPUTRA dell'anno: 1963 - 1996

PATALIPUTRA

G. Verardi

È il nome antico della città di Patna, attuale capitale dello stato indiano del Bihar. Verso la metà del V sec. a.C., qui trasferita da Rājagṛha (v. rājgir) dal re Udāyin, P. divenne la nuova capitale dello stato del Magadha. Tale rimase in epoca maurya (fine IV-inizi II sec. a.C.), e probabilmente anche all'epoca della dinastia sunga (II sec. a.C.). Gli scavi condotti dalla fine dell'Ottocento in poi sono stati ñumerosi, e hanno fornito informazioni e materiali della massima importanza. Allo stesso tempo, l'assenza di un piano coordinato di interventi, di ricerche geomorfologiche e di un attento controllo delle attività sul campo (specie per gli scavi della fine dello scorso secolo e degli anni '20 e '30), impedisce ancor oggi di avere un quadro attendibile e coerente dell'insediamento antico.

La maggior parte dei siti indagati si trova nella parte S dell'attuale città, dove sembra che in antico scorresse un ramo del fiume Soṇ, o un canale da esso derivato; il Soṇ si immetteva nel Gange molto più a E dell'attuale punto di confluenza, limitando la città a O. Parti del deposito antico sono state osservate lungo il Gange, che limita la città a N. La P. antica, come la moderna Patna, avrebbe dunque avuto una forma grosso modo rettangolare. Ciò collima con la descrizione più antica che ne abbiamo, dovuta all'ambasciatore seleucide alla corte di Candragupta Maurya (317-293 a.C.), Megastene, secondo il quale Palìbothra aveva una lunghezza di 80 stadi (c.a 14 km) e una larghezza di 15 (poco più di 3 km): le mura lignee che la circondavano avevano ben sessantaquattro porte e cinquecentosettanta torrette, ed erano fornite di feritoie. I tratti di mura venuti alla luce non sembrano per la verità corrispondere a un simile tracciato, e la questione rimane aperta. Altre informazioni su P. sono quelle tramandateci dal pellegrino cinese Faxian, che la visitò a più riprese agli inizi del V sec. d.C.: il palazzo reale in città (tutto di legno secondo Megastene), composto da diverse sale e profusamente scolpito, era ancora in piedi.

Le difficoltà delle indagini archeologiche sono dipese, e ancora dipendono, dal particolare stato del deposito antico, che si trova a molti metri di profondità sotto spessi sedimenti alluvionali, senza che in superficie affiori alcun indicatore della sua esistenza; e dal fatto che la città moderna, popolatissima, non consente interventi in areale su scala significativa. L'attività di ricerca ebbe inizio nel 1892 per iniziativa di L. A. Waddel, intenzionato a dimostrare che la capitale dell'imperatore Aśoka, nome di grande richiamo emotivo per gli Occidentali, giacesse ancora intatta sotto la città moderna. Gli scavi, che interessarono varie località, si protrassero tra il 1894 e il 1899 sotto la direzione di varí funzionari dell'amministrazione britannica, tra cui A. Führer e P. C. Mukherji. Tra il 1912 e il 1915 gli scavi ripresero sotto la direzione di D. B. Spooner per conto dell’Archaeological Survey of India. In località Kumrāhar egli portò alla luce l'aula pilastrata che per molti decenni - anche in seguito all'avallo di archeologi molto influenti come M. Wheeler - venne considerata come il palazzo dei Maurya. Lo Spooner, negli anni immediatamente seguenti, condusse scavi anche a Bulandībāgh, ripresi negli anni '20 a opera del Museo di Patna, da poco costituitosi (v. oltre). Nello stesso periodo furono condotti scavi anche a Buxar. Scavi regolari furono intrapresi, ancora una volta a Kumrāhar, tra il 1951 e il 1955, sotto la direzione di A. S. Altekar e V. Mishra, e nell'inverno 1955-56, a opera di B. P. Sinha, nella città vecchia di Patna.

Le mura. - Furono osservate a Lohānīpur, a Bahādurpur, a Bulandībāgh (dove ne emersero lunghi tratti), a Gosain Khaṇḍā, a Mahārāj Khaṇḍā, a Tulsī Mandī presso il Sewāi Tank, e presso l'Agam Kuāñ, il pozzo dei prigionieri o «inferno» di Aśoka. Consistono di due pareti parallele, distanti 3,7 m l'una dall'altra, formate da pali lignei a sezione rettangolare (55 x 38 cm), alti 2,7 m (massima alt. conservata) e fondati a una profondità di 1,5 m su uno strato di pietrame. All'altezza dello spiccato, lo spazio interno era pavimentato con lunghe tavole i cui tratti terminali s'incastravano nei pali. La faccia esterna delle pareti era rafforzata da altre tavole. Sembra che lo scavo delle strutture sia sempre stato fatto «in negativo», considerando cioè il riempimento tra le due pareti e il piano ligneo di fondo non come materiale strutturale, a esse coevo e pertinente, ma come materiale di colmata più tardo che andò a riempire volumi vuoti. Mancano, in ogni caso, informazioni sulla natura del riempimento (caratteristiche dei suoli, eventuali manufatti, ecc.). Senza escludere che in alcuni casi le pareti lignee delimitassero, come è stato spesso sostenuto, passaggi interni, le strutture lignee vanno considerate come l'armatura di mura di argilla.

Il rinvenimento di elementi lignei tipologicamente diversi da quelli visti (un palo a sezione ottagonale, pesanti travi, ecc.) ha fatto pensare a una porta in forma di toraṇa (portale con travi ricurve). In località Rāmpur (a O di Bulandībāgh) venne alla luce una struttura lignea interpretata come la fondazione di una torre, ma si tratta, in questo caso, di un dato particolarmente incerto.

Le mura erano attraversate, ad angolo retto, da canaletti di drenaggio, essi pure costruiti con elementi lignei, uniti tra loro da chiodi e graffe di ferro. Si consideri che si tratta sempre di legno di śāla, molto resistente all'acqua e all'umidità.

Meritano una segnalazione i materiali venuti alla luce presso i tratti di mura a Bulandībāgh, in primo luogo le celebri terrecotte, formate in taluni casi da più elementi separatamente lavorati: tra di esse, una figura di ragazza dal complicato abito e dalla capigliatura elaborata e la testa di un bambino sorridente. Attribuite per lo più al III sec. a.C., non mancano gli autori che tendono ad abbassarne la data fino al I sec. a.C. Si segnala anche un gruppo di quattrocento monete punzonate (v. moneta: India) e una ruota di carro di legno con banda di ferro attorno al mozzo, perfettamente conservata.

Non sono sufficientemente controllabili le notizie di P. C. Mukherji sull'esistenza di ghāṭ (sistemazione monumentale a gradini di un tratto di sponda fluviale) sul ramo meridionale del Soṇ.

Il padiglione maurya a Kumrāhar. - Si tratta di un'aula rettangolare di c.a 39 x 32 m, a cui si accedeva da un portico sul lato S. Era caratterizzata da ottanta colonne rastremate in arenaria polita (a cui vanno aggiunte le quattro del portico, forse un po' più piccole), alte in origine c.a 10 m e poste su otto file alla distanza, tra asse e asse, di 4,5 m. Alla sommità avevano un incasso per l'alloggiamento dei capitelli, probabilmente lignei come l'intera copertura. Le colonne poggiavano su altrettante strutture di legno profonde 1,36 m, fondate a loro volta su uno spesso strato di argilla. A S della struttura D. B. Spooner portò alla luce sette grandi piattaforme lignee (c.a 9 x 1,6 x 1,4 m), formate da tronchi squadrati.

L'ipotesi che si tratti del palazzo reale maurya va ormai abbandonata, sia perché la struttura non individua alcuno spazio per le udienze, sia perché - come hanno mostrato gli scavi degli anni '50 - non esiste accanto a essa alcun altro ambiente palaziale: il monumento era isolato. Ancor meno plausibile è che si trattasse della sala fatta costruire da Aśoka per ospitare il terzo concilio buddhista, tenutosi a Pāṭaliputra.

Il padiglione andò distrutto a causa di un incendio avvenuto intorno alla metà del II sec. a.C., da taluni messo in relazione con le incursioni degli Indo-Greci, che ebbe come effetto la formazione di un uniforme strato di cenere e materiale combusto spesso 30 cm che al momento dello scavo ricopriva l'intera area sotto i livelli gupta (IV-V sec. d.C.).

Va sottolineato che nel corso dei numerosi saggi di scavo che hanno interessato P. sono stati osservati diversi frammenti di colonne in arenaria polita in varí punti della città (p.es. a Sandalpur presso Bulandībāgh, a Lohānīpur, a Shāh Kamāl Road) senza che si sia potuto stabilire se fossero parte di strutture complesse o monumenti isolati. Sappiamo che nel VII sec. era ancora visibile una colonna eretta da Aśoka che ricordava il dono da lui fatto del suo regno alla comunità buddhista.

La città. - Come molti altri insediamenti della valle del Gange (v.) e dell'India intera, P. si sviluppò tra il sec. a.C. e il periodo post-kuṣāṇa, conoscendo poi un progressivo declino urbano. Gli scavi che hanno portato alla luce parti dell'abitato non hanno mai fornito - con l'eccezione di quelli di B. P. Sinha - dati utilizzabili. Mukherji portò alla luce, a Lohānīpur, monete punzonate e vaghi di terracotta e, a Yamunā Ḍīh (Bankipore), strutture in mattoni cotti associate a ceramica e a oggetti d'uso domestico (pestelli). In località Gosain Khaṇḍā furono rinvenuti, nel 1935, frammenti di Ceramica nera polita del Nord (NBPW, Northern Black Polished Ware)·, nello stesso anno i lavori fognari che interessarono un'area lungo il Gange (lunga 5-6 km e larga 1, raggiungendo la profondità di 6 m) rivelarono materiali pertinenti a un'area densamente abitata: NBPW e ceramiche associate, vaghi di terracotta, vetro e pietre semipreziose, piccoli dischi in pietra, frammenti vitrei con caratteri brāhmī (III-I sec. a.C.). Fra i ritrovamenti che dovevano suscitare interessi storico-artistici e studi particolari, si notano le immagini di yakṣa rinvenute sin dagli inizi dell'Ottocento lungo le rive del Gange (si trovano all'Indian Museum di Calcutta), considerate da- alcuni, per un certo tempo, le immagini dei sovrani della dinastia Śaiśunāga (413-345 a.C.); la c.d. yakṣī da Dīdārgāñj, località della città vecchia, e il torso virile ignudo da Lohānīpur (conservati al museo di Patna).

La sola sequenza che abbia un sia pur modesto valore orientativo è quella fornita dai saggi di Sinha del 1955-56, condotti in quattro distinte parti della città vecchia (Mahābīrghāt, Begum-kī-Havelī, Gulzarbāgh, e specialmente Shāh Kamāl Road). Il millennio che va dal 600 a.C. al 500 c.a d.C. è stato suddiviso in due periodi: il primo che comprende i secoli tra il 600 e il 150 a.C., quando l'area abitata fu interessata da un vastissimo incendio; il secondo, i secoli seguenti. Motivi contingenti (scavo in un'area densamente popolata) e strategici comuni a tutta l'archeologia gangetica fino a tempi recentissimi, non favorirono scavi in areale. A Begum-kī-Havelī, comunque, vennero osservati due muri paralleli con pavimento in mattoni associati a pozzi costruiti con elementi modulari in ceramica (i c.d. ring wells), la cui datazione, incerta, va probabilmente attribuita al III-II sec. a.C.

I livelli più antichi sono caratterizzati dalla NBPW (piatti e ciotole in particolare) associata a ceramica grigia, nera e rossa e - presumibimente verso la fine del periodo - rossa. Tra i materiali più antichi vi sono figurine in terracotta antropomorfe lavorate a mano con cerchietti impressi (in quelle femminili per indicare seni e grembo). Il frammento in pietra di un toro accovacciato e le monete punzonate in argento e rame sono databili all'epoca maurya. Datati solo approssimativamente sono invece le figurine animali (specie cavalli) e gli oggetti d'uso (stili, aghi, vaghi di collana, ecc.). Il Periodo II è caratterizzato dalla sola ceramica rossa, associata ad abitazioni in mattoni cotti cronologicamente assegnabili a otto fasi costruttive. Tra i materiali più antichi si notano figurine in terracotta lavorate a mano di Naigameśa (le immagini di questo demone, noto alla mitologia hindu e a quella jaina, costituiscono, in taluni contesti archeologici, una vera e propria classe di materiali) e un amuleto d'oro esemplato su una moneta del sovrano kuṣāṇa Huviṣka (inizi del II sec. d.C.), con il busto del re e la leggenda Šaonano Šao Ooeški («re dei re Huviṣka») sul dritto e la dea Ardokhšo sul rovescio. Insieme con alcuni altri ritrovamenti ancora, è questo uno degli oggetti che indica come P. e le regioni gangetiche orientali furono strettamente legate alle sorti della dinastia kuṣāṇa.

La Pāṭaliputra buddhista. - Nei testi buddhisti P. è ricordata come il luogo in cui si tenne il terzo concilio. Aśoka vi avrebbe inoltre fondato monasteri e importanti stūpa (v.), in particolare quello contenente le reliquie del Tathāgata. Alla fine dell'Ottocento L. A. Waddel cercò di individuare alcuni di quei monumenti, ma nessuna delle identificazioni da lui proposte (come quella del monastero di Kukkutārāma) ha trovato riscontro.

A Kumrāhar lo stesso Waddel e P. C. Mukherji osservarono strutture appartenenti a un vihāra (monastero) ed elementi di una vedikā, la balaustra generalmente eretta, in antico, attorno a uno stūpa. D. Β. Spooner, prima di raggiungere i livelli maurya, vi incontrò numerose strutture in mattoni, che non descrisse, e associati a esse rinvenne materiali d'appartenenza buddhista: sigilli iscritti d'epoca kuṣāṇa e gupta, ima placca di terracotta rappresentante il tempio di Bodh Gayā con un'immagine del Buddha al suo interno, circondato da vedika, con stūpa ed edifici minori tutt'attorno, e una statua di Bodhisattva in arenaria di Mathurā, di là giunta probabilmente in epoca kuṣāṇa. Gli scavi di Altekar e Mishra hanno mostrato che dopo la distruzione del padiglione maurya il sito fu per parecchi secoli (dal I sec. a.C. al VI sec. d.C.) un importante insediamento monastico, particolarmente fiorente in epoca kuṣāṇa e ancora al tempo del soggiorno a P. di Faxian agli inizi del V secolo. Dei monasteri venuti alla luce, uno solo, di epoca kuṣāṇa, risponde all'usuale modello che vede le celle aprirsi sui quattro lati di una corte centrale. Un secondo monastero dello stesso periodo consiste invece di quattordici celle poste su un unico asse precedute da ambienti più grandi, rettangolari e alternate ad ambienti minori, a cui si accedeva da un portico. Anche il monastero di epoca gupta, di cui la leggenda su un sigillo ha restituito il nome (Śrī Ārogyavihāra), mostra alcune particolarità, tra cui la diversa dimensione delle celle. Esso era d'altronde un monastero-ospedale, che i ritrovamenti fatti consentono di immaginare decorato da nicchie contenenti immagini del Buddha in terracotta, coppie amorose, esseri celesti, ecc. - una sorta di modello dei più tardi monasteri di Nālandā (v. rājgir). Accanto ai vihāra si segnala la presenza di un caityagṛha (santuario absidato destinato al culto dello stūpa) di epoca kuṣāṇa.

A c.a 1 km a SE di Kumrāhar si trovavano le «cinque colline», oggi quasi interamente spianate. Gli scavi più antichi si erano dati come obiettivo di mettere in luce gli stūpa che esse sembravano racchiudere, ma né quelli della Choṭī Pahāṛī (ipoteticamente identificato con lo stūpa delle reliquie del Buddha), né quelli della Baṛī Pahāṛī, secondo alcuni comprendente da sola tutti e cinque gli stūpa antichi, portarono a risultati non si dirà soddisfacenti ma nemmeno comprensibili.

Stando al resoconto di Faxian, intorno al 410 d.C. P. era una città ancora grande e fiorente. È tuttavia certo che almeno già dal secolo precedente, con l'avvento dei Gupta, rappresentanti e difensori dell'ortodossia brahmanica, la città non aveva più quella centralità politica e amministrativa che aveva avuto in passato (i Gupta non ebbero una vera e propria città-capitale): il buddhista Faxian descriveva un insediamento urbano ormai di fatto esautorato dalla centralità sociale ed economica assunta dai monasteri. Non sappiamo se la fine di P. fu dovuta al risolversi, a favore del primo, della lotta che nell'India antica vide contrapporsi potere brahmanico e potere degli śrāmaṇa («rinuncianti», esemplificato dai monasteri buddhisti. Xuanzang, che visitò P. due secoli dopo Faxian, descrisse una città in completa rovina e abbandono, abitata da poche migliaia di abitanti. Sulla base di fonti jaina si è pensato che la fine di P. fu dovuta a una catastrofica alluvione del Soṇ avvenuta intorno al 575 d.C., ma è lecito pensare che al suo declino non siano stati estranei i colpi inferti al potere dei monasteri. Come altri insediamenti indiani antichi, P. fu abbandonata fino alla nuova urbanizzazione in epoca tardo-musulmana e moderna.

Bibl.: L. A. Waddel, Discovery of the Exact Site of Ašoka's Classic Capital of Pāṭaliputra, the Palibothra of the Greeks and Description of Supeificial Remains, Calcutta 1892; P. C. Mukherji, Report on the Excavations on the Ancient Site of Pāṭaliputra (Patna-Bankipuì), Calcutta 1898; L. A. Waddel, Report on the Excavations at Pāṭaliputra (Patna), the Palibothra of the Greeks, Calcutta 1903; D. B. Spooner, Mr Ratan Tata's Excavations at Pāṭaliputra, in ASIAR 1912-13, pp. 53-86; J. A. Page, Bulandi Bagh, near Patna, in ASIAR 1926-27, pp. 135-140; M. H. Kuraishī, List of Ancient Monuments Protected under Act VII of 1904 in the Province of Bihar and Orissa (ASI, New Imperial Series, LI), Calcutta 1931, pp. 93-111; R. E. M. Wheeler, Iran and India in PreIslamic Times: a Lecture (with an Appendix by Stuart Piggot), in Ancient India, IV, 1947-48, pp. 85-103; A. S. Altekar, V. Mishra, Report on Kumrāhar Excavations I95Ï-Ï955, Patna 1959; D. R. Patil, The Antiquarian Remains in Bihar, Patna 1963, pp. 371-408; B. P. Sinha, L. A. Narain, Pāṭaliputra Excavations I955-56, Patna 1970; S. P. Gupta, The Roots of Indian Art, Nuova Delhi 1980, pp. 227-246; C. P. Sinha, Patna Museum: an Introduction, in P. J. Ojha (ed.), Bihar: Past and Present. 13th Annual Congress of Epigraphical Society of India, Patna 1987, pp. 250-269; B. P. Sinha, Archaeology in Bihar (K. P. Jayaswal Memorial Lecture Series, V), Patna 1988, pp. 39-43, 70-75, 98-101.

Museo di Patna. - Venne ufficialmente fondato nel 1917 in un'ala del tribunale di Patna dopo il distacco amministrativo del Bihar e dell'Orissa dal Bengala nel 1912: fino ad allora i ritrovamenti antiquari erano stati inviati a Calcutta. Lo scavo, nel 1913, del c.d. palazzo maurya in località Kumrāhar e la costituzione della Bihar and Orissa Research Society furono una spinta molto forte all'ordinamento e all'acquisizione di materiali archeologici. Il Museo fu ufficialmente costituito nel 1917, ma il vero e proprio edificio (ancor oggi il medesimo) fu inaugurato nel 1928.

Tra i materiali presenti nelle collezioni sin dall'inizio si annoverano sculture e frammenti architettonici di epoca maurya o ritenuti tali. Si segnalano il capitello da Bulandībāgh, attribuito da alcuni al IV-III sec. a.C., decorato con motivi vegetali di apparente derivazione achemenide; la statua virile acefala, ignuda e lavorata a tutto tondo, da Lohānīpur, risalente forse al III sec. a.C., interpretata di solito come l'immagine di un digaṃbara (v. jaina, iconografia), ma ritenuta anche la raffigurazione di Gosala, fondatore della corrente religiosa degli Ājivika; e la c.d. yakṣī di Dīdargāñj, una figura femminile a tutto tondo che regge un flabello con la mano destra alzata e che indossa una dhotī e pesanti gioielli. Per quest'ultima, celebre immagine, in arenaria polita come la precedente, sono state suggerite datazioni molto diverse - al III o al I sec. a.C., e finanche al II sec. d.C.

Nel 1919 le collezioni si arricchirono dei materiali portati alla luce dallo scavo di D. B. Spooner a Vaiśālī (v.), e nell'inverno 1922-23 fu lo stesso museo a farsi promotore degli scavi (poi ripresi nel 1926-27) a Bulandībāgh, le cui celebri terrecotte (v. terracotta: India) furono depositate nel museo insieme con quelle di Buxar, venute alla luce nel 1926, e quelle (c.a 400), acquistate nel 1932, da Mathurā. Sin dalla sua costituzione il Museo si era proposto la raccolta e lo studio, anche attraverso calchi, dei materiali epigrafici del Bihar, e anche la collezione numismatica si arricchì rapidamente, specie di monete punzonate (v. moneta: India).

Nel 1934 il museo aveva già inventariato 7.593 oggetti, che vennero affidati per la pubblicazione a Stella Kramrisch; ma il catalogo vide la luce soltanto trent'anni dopo a cura di P. L. Gupta, che selezionò poco più di duemila oggetti tra i circa undicimila che formavano ormai le collezioni. Merito di S. Kramrisch e di P. L. Gupta fu, in particolare, quello di classificare una parte dell'immenso fondo formato dai materiali fittili portati alla luce negli anni '20 nell'area dell'antica Pāṭaliputra. Scavati in maniera non sistematica, privi di qualsivoglia indicazione di provenienza stratigrafica, fii giocoforza classificarli su basi esclusivamente stilistiche. Benché si tratti spesso di materiale fondamentale per la comprensione della storia sociale e religiosa del Magadha e, in genere, dell'India antica, se ne può fare un uso solo parziale. Le attribuzioni cronologiche variano grandemente: le terrecotte di Bulandībāgh, p.es., sono datate o al III o alla fine del II sec. a.C. Gli scavi condotti a P. negli anni '50 hanno tuttavia in parte aiutato la sistemazione cronologica di questi materiali. Una parte delle figurine antropomorfe e teriomorfe di Buxar, p.es., sembra risalire al periodo precedente l'introduzione della «Ceramica nera polita del Nord» (Northern Black Polished Ware), e cioè intorno al VII sec. a.C.

Un piccolo, importante fondo del museo è costituito dai dischi in pietra, in taluni casi forati al centro (c.d. ringstones), provenienti da Murtazīgāñj (altri dischi di questo tipo provengono da altre aree della piana gangetica), scolpiti con fiori di loto e bande figurate con animali e figure umane, tra cui ima ricoprente figura femminile ignuda. Sono stati recentemente interpretati come oggetti rituali di tipo esoterico connessi al ciclo morte/rinascita.

Tra i materiali che meritano una segnalazione, anche perché mostrano come il Museo di P. non volle mai porsi come semplice museo locale, seppure di cruciale importanza, sono le sculture gandhariche provenienti da Sahrī Bahlol, da Takht-i Bāhī e dallo Swāt e i frammenti in stucco da Jauliāñ (Taxila).

Va infine ricordato come una parte notevole delle collezioni è pertinente a materiali medievali, tra i quali sono le centosessantatre immagini buddhiste in metallo di epoca pala (VIII-X sec. d.C.) rinvenute nel 1930 a Kurkihār, presso Gayā. Si tratta, con i bronzi di Nālandā, del gruppo più importante di metalli a noi pervenuti dall'India settentrionale.

Bibl.: P. L. Gupta (ed.), Patna Museum Catalogue of Antiquities (Stone Sculptures, Metal Images, Terracottas and Minor Antiquities), Patna 1965; S. P. Gupta, The Roots of Indian Art, Nuova Delhi 1980, in part. pp. 53 ss., 92 ss., 157 ss.; C. P. Sinha, Patna Museum: An Introduction, in P. N. Ojha (ed.), Bihar: Past and Present. 13th Annual Congress of Epigraphical Society of India, Patna 1987, pp. 250-269.