Paura

Dizionario di Medicina (2010)

paura

Simone Macrì

Paure ancestrali animali

Le paure ancestrali costituiscono un caso particolare di ansia (➔), ossia di un evento minaccioso, probabile ma non attualmente presente né imminente. Le paure ancestrali condividono con l’ansia la natura potenziale dell’evento in grado di provocare la reazione emotiva. Tuttavia, mentre l’ansia può essere considerata come la paura di un evento non presente ma noto, la paura ancestrale può essere considerata la paura di un evento non presente e che mai è stato incontrato nel corso dell’esistenza. Tra le paure ancestrali più comuni, si riscontrano la paura del buio, di ragni e altri insetti, dei topi, dell’acqua o del vuoto. Alcune di queste paure sono comuni tanto alla nostra specie quanto a specie a noi filogeneticamente precedenti.

Paura del vuoto e di altri pericoli sconosciuti

La paura del vuoto, solitamente definita in ambito psicobiologico come paura del precipizio visivo, può essere dimostrata facilmente tanto nei bambini quanto in altre specie di mammiferi. Per dimostrare la naturale avversione per il vuoto in bambini in grado di gattonare, ma non ancora di camminare, li si pone su una lastra trasparente infrangibile al di sotto della quale è posto un disegno a scacchiera. Quest’ultimo è suddiviso in una porzione incollata sotto il vetro, e quindi simile a un solido, e un’altra appoggiata sul pavimento (quindi distante dalla lastra di vetro e in grado di simulare la presenza di un inesistente precipizio visivo). Si dimostra come i bambini molto piccoli siano in grado di comprendere la natura potenzialmente pericolosa del precipizio visivo – e quindi di fermarsi prima del vuoto percepito – sebbene non ne abbiano mai avuto conoscenza diretta. Studi simili, condotti in roditori di laboratorio, mai precedentemente esposti a situazioni di precipizio visivo, dimostrano come anche ratti e topi di pochi giorni siano in grado di evitare il potenziale pericolo. Oltre al precipizio visivo, è possibile dimostrare come roditori cresciuti in condizioni di cattività, e quindi mai precedentemente esposti al loro ambiente naturale, mostrino risposte d’ansia in seguito alla presentazione di stimoli ‘naturalmente’ pericolosi ma sconosciuti, come l’odore dell’urina di un potenziale predatore o un serpente. In laboratorio si dimostra come la semplice esposizione a uno degli stimoli citati in precedenza sia in grado di elicitare tutte quelle risposte fisiologiche (secrezione di ormoni come adrenalina, noradrenalina e corticosteroidi) e comportamentali (come fuga o immobilizzazione) tipiche di un conclamato stato d’ansia.

Interpretazione psicologica e biologica delle paure ancestrali

In ambito psicologico le paure ancestrali sono state analizzate in modo sistematico da Carl G. Jung. In partic., nella teoria junghiana, le paure ancestrali sarebbero parte degli archetipi, a loro volta definibili come conoscenze innate (non apprese tramite l’esperienza) e comuni a tutti gli individui della specie umana, il cui insieme costituisce l’inconscio collettivo. In biologia, le paure ancestrali costituiscono un argomento di estremo interesse da un punto di vista sia evolutivo sia teorico. Se nel primo caso una delle domande più importanti è come e perché siano presenti paure di eventi sconosciuti, da un punto di vista puramente teorico le paure ancestrali costituiscono un argomento centrale nel dibattito nature vs nurture, ossia se le conoscenze siano frutto dell’esperienza o della genetica. Comunque, sebbene i meccanismi biologici alla base delle paure ancestrali non siano stati tuttora completamente delucidati, è chiaro che queste debbano sottostare a qualche forma di ereditarietà genetica. Si ipotizza, per es., che le specie attuali abbiano mantenuto le caratteristiche che hanno permesso ai loro progenitori di sopravvivere e di riprodursi. Questa teoria postula che alcune paure ancestrali, come la paura del vuoto o dei serpenti, possano aver comportato qualche vantaggio evolutivo (legato, per es., a un ridotto rischio di predazione) e che gli attuali esponenti di una determinata specie mostrino la stessa paura, ereditata dai progenitori ‘fortunati’ come vestigia del loro passato evolutivo. Del resto, il ruolo esercitato dalle risposte d’ansia in ambito adattativo-evoluzionistico ha costituito un argomento centrale per diverse decadi laddove, a seconda dell’ambiente circostante, un profilo più o meno ansioso può delimitare il confine tra la sopravvivenza e la predazione. Così, in ambienti caratterizzati dalla presenza di molti predatori, un atteggiamento ansioso può essere associato a un ridotto rischio di predazione e quindi a un’aumentata sopravvivenza. Viceversa, in un ambiente in cui la competizione tra individui della stessa specie è alta, ma le risorse sono scarse, un atteggiamento meno prudente può conferire un vantaggio evolutivo: questo può, infatti, essere associato a più rapido accesso alle poche risorse disponibili e al reperimento di nuovi ambienti da colonizzare. Meccanismi genetici ed epigenetici di trasmissione delle informazioni potrebbero aiutare la comprensione di come tratti di personalità più o meno ansiosa possano essere trasferiti da una generazione a quella successiva. In partic., studi recenti stanno focalizzando l’attenzione sugli eventi ambientali in grado di interferire con i meccanismi molecolari alla base della trascrizione genetica, quali l’acetilazione e la metilazione del DNA. È stato per es. dimostrato come, in alcune specie di roditori, un aumento delle cure materne si associ a una riduzione delle risposte di ansia e di paura nella prole. Inoltre, è stato dimostrato come questo profilo temperamentale, ascrivibile a un aumento delle cure parentali, possa essere trasmesso, per via genetica, alle generazioni successive.