DORIA, Percivalle

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 (1992)

DORIA, Percivalle

Joachim Göbbels

Nacque in data imprecisata dall'eminente famiglia genovese, ma, sebbene il suo nome compaia più volte nelle fonti cittadine, una sua precisa collocazione genealogica, pure tentata da alcuni storici. sembra azzardata. Difficoltà nascono anche dal fatto che a Genova visse un suo omonimo e coetaneo, così che il tentativo dell'Arndt (p. 126) di identificarlo con un figho di Guglielmo Doria, ricordato nel 1251, risulta non del tutto convincente.

La biografia del D. può essere ricostruita solo a partire dalla sua nomina a podestà di Asti, avvenuta nel 1228. Essendo di parte ghibellina, egli intraprese una campagna militare contro i guelfi di Alessandria, con l'aiuto di Enrico Del Carretto e Bonifacio Il marchese di Monferrato, e con il sostegno di Genova che inviò denaro e soldati. Inoltre il D. si assicurò l'amicizia del giovanissimo marchese di Saluzzo, Manfredi III, che il 4 giugno 1228 s'impegnò formalmente a congiungersi con le sue truppe all'esercito di Asti il giorno 25 novembre. I rapporti tra i Doria e i marchesi di Saluzzo erano tradizionalmente buoni, anche in virtù dei loro comuni interessi in Sardegna. Dunque non è da escludere che il D. rappresentasse presso'la corte di Manfredi III, rimasto, orfano molto giovane, anche gli interessi della propria famiglia. Manfredi III rispettò puntualmente i suoi impegni e l'attacco ad Alessandria si concluse vittoriosamente.

Nel 1231 il D. fu podestà di Arles, dove difese vigorosamente gli interessi dell'imperatore. Federico II, che lo considerava suo rappresentante nella città provenzale. Durante la sua podesteria il D. affidò un importante incarico diplomatico al nobile provenzale Hugues (Ugo) des Baux, schierato con tutta la sua famiglia dalla parte imperiale, in opposizione al conte di Provenza: Ugo avrebbe dovuto concludere una tregua tra il conte Raimondo Berengario V, che lo teneva prigioniero, e il conte Raimondo di Tolosa. Il 14 luglio 1231 il D., insieme con i "syndici" di Arles, promise al conte di Provenza 1.000 marchi d'argento se la mediazione di Ugo fosse fallita o se egli avesse approfittato dell'occasione per fuggire.

Nel 1233 e nel 1237 il D. esercitò l'ufficio di podestà ad Avignone e s'impegnò a pacificare la Provenza, secondo i desideri imperiali. Nel marzo del 1233 i capi della nobiltà locale promisero obbedienza a Federico II, grazie anche agli sforzi del D., che era sempre stato presente agli incontri tra l'emissario imperiale Cailla de Gurzano e i protagonisti della conflittualità nella contea. Il 18 sett. 1233 il Gurzano prorogò di un anno l'armistizio tra i due principali contendenti, Raimondo Berengario di Provenza e Raimondo di Tolosa, e li convocò per Pasqua presso l'imperatore, delegando al podestà di Avignone il controllo sul rispetto della tregua. Il D. prese sul serio il suo incarico di "cognitor treugaruni". Già in dicembre procedette contro le prime violazioni, comminando multe al vicario di Marsiglia, al conte di Forcalquier e al conte di Tolosa.

Al primo soggiorno avignonese del D. risalgono i suoi primi rapporti coi trovatori provenzali. Documentato è ad esempio un suo incontro con Foulquet de Roman. Nel 1239 fu quasi sicuramente a Genova per presenziare alle nozze tra una figlia di Foulquet e un figlio o nipote di Sorleone Piperi.

Tornato a Genova, vi rimase almeno fino al 1241, quando furono scoperti i suoi accordi segreti coi ghibellini, mentre le truppe imperiali si avvicinavano alla città. Allora il popolo si sollevò contro i ghibellini, che dopo vari tumulti dovettero lasciare la città. Costretto all'esilio, il D. nel 1243 fu podestà a Parma e a Pavia.

A Parma ricorse alla violenza contro il capitolo, in seguito probabilmente al rifiuto dei chierici di pagare le imposte. Alcuni edifici del capitolo furono dati alle fiamme e infine i chierici furono espulsi dalla città. Il 15 dic. 1243 Innocenzo IV intimò al D., al Consiglio municipale e al Comune di rinunciare alle loro ingiustificate pretese e di risarcire i danni. Indicativo del carattere del D. è anche il trattamento che aveva riservato agli ostaggi bolognesi nel 1239: dopo che Bologna aveva violato gli accordi di pace con Parma, egli li fece trasferire dal carcere a Ghiaia, dove li tenne rinchiusi in una palizzata, a cielo aperto.

Rientrato in patria dopo la morte di Federico II (dicembre 1250), nel 1255 fu inviato dal Comune genovese a Firenze e Lucca, insieme con Niccolò Grimaldi. L'anno precedente Pisa, sconfitta da un esercito fiorentino, aveva accettato con la pace, tra l'altro, di sottoporre al giudizio di Firenze le sue vertenze con Lucca, San Miniato e Genova. Firenze dispose che Pisa avrebbe ceduto a Genova Lerici e Trebbiano, rinunciando al tempo stesso alle sue rivendicazioni sull'entroterra. Il Consiglio pisano accettò la decisione ma non la eseguì. Il D. e il Grimaldi si recarono allora a Firenze: in questa occasione il D. non si comportò da ghibellino ma da genovese e in quanto tale, nemico giurato della ghibellina Pisa. I due inviati genovesi riuscirono a tessere una nuova lega tra Genova, Lucca e Firenze, che tuttavia mosse contro Pisa solo nel 1256.

Già un anno prima, nel 1255, il D. era stato bandito da Genova e scomunicato da Alessandro IV in quanto sostenitore di Manfredi di Svevia. E probabile che tale sua adesione fosse recente. Manfredi lo remunerò poco tempo dopo (non si conosce la data esatta) con la baronia di Fasanella e nell'ottobre del 1258, dopo la sua incoronazione a re di Sicilia, lo nominò vicario generale della Marca di Ancona, dei Ducato di Spoleto e della Romagnola, una carica che, data la sua importanza, Manfredi fino allora aveva affidato soltanto a parenti di provata fedeltà. Il cronista Saba Malaspina, di solito benlinformato nelle questioni del Regno, qualifica il D. parente di Manfredi, senza tuttavia fornire maggiori dettagli sul rapporto di parentela. E comunque pressoché certo che il D. avesse sposato una Lancia, parente del re da parte di madre, e fosse stato investito di Fasanella proprio in occasione delle nozze. La nomina di un vicario generale poco dopo l'incoronazione dimostra che Manfredi, fedele alle tradizioni imperiali, intendesse estendere il suo dominio all'Italia centrale, dove le forze ghibelline sollecitavano il suo intervento.

Il primo documento firmato dal D. come vicario generale risale al 1° dic. 1258. Ma già il 20 ottobre egli si trovava a Jesi, accompagnato da truppe assoldate. Di lì emanò, il 7 marzo successivo, un atto in cui confermava alla città di Gubbio il suo dominio sul contado. Il D. si mostrò ben disposto anche verso altri Comuni, come Roccacontrada, Civitanova, Sant'Elpidio, San Ginesio e Fabriano, che sostenevano la causa di Manfredi o che, dopo le prime esitazioni, gli si erano sottomessi, ed elargì loro privilegi talvolta assai ampi. Nel febbraio del 1259 operò per dar vita ad un'alleanza con la Toscana ghibellina. In particolare, le sue trattative con Siena sono documentate da un verbale del Consiglio di questa. La sua opera contribuì in misura determinante a preparare la vittoria ghibellina di Montaperti, di lì a un anno. Finirono sotto il suo dominio anche Fano, Fermo e Macerata, mentre Perugia rimase guelfa. Camerino oppose forte resistenza; dopo la sua capitolazione, il vicario non ebbe misericordia: la città pagò la sua disobbedienza con la distruzione.

La presenza del D. nelle Marche è documentata fino al dicembre del 1260. Dopo la quasi totale cacciata dei guelfi, egli si preoccupò anche qui di favorire le alleanze tra i Comuni, contravvenendo ad un esplicito divieto papale. Fu sostituito come vicario da Enrico di Ventimiglia, il cui primo atto in tale veste risale già al 17 marzo 1260.

Nel 1262 troviamo il D. di nuovo a Genova, dove riuscì a farsi restituire certi possedimenti della sua famiglia in Sardegna. Nell'aprile del 1264 Manfredi gli affidò il comando di un esercito composto da contingenti saraceni, siciliani, tedeschi, aragonesi ed epiroti che dagli Abruzzi stava avanzando verso Nord. Un attacco contro Roma non era possibile finché vi stazionavano le truppe comandate dal provenzale Giacomo Cantelmo, inviate da Carlo d'Angiò, che l'anno precedente era stato eletto senatore. L'esercito mosse quindi, secondo i probabili piani iniziali, verso Orvieto, su cui stavano puntando anche le truppe della lega ghibellina. Ma i successi militari del vicario provenzale, che aveva preso Sutri e minacciava Pietro di Vico, seguace di Manfredi, imposero un temporaneo cambio di strategia: il D. doveva restare in minacciosa vicinanza di Roma, in modo almeno da sbloccare l'assedio di Vico. Il re ordinò perciò al D. di fermarsi a Celle di Carsoli, sul confine marsicano. Questa scelta mirava probabilmente anche a incoraggiare alla rivolta i seguaci romani di Manfredi. Il primo e più evidente scopo della manovra fu presto raggiunto. 1 Romani, temendo la distruzione del proprio raccolto, tolsero l'assedio a Vico, restituendo la piena libertà d'azione a Pietro di Vico e ai suoi mercenari tedeschi. Era questo il momento di riprendere il piano originario e dirigersi verso Orvieto. Ma l'impresa fallì per la morte del D., che annegò alla metà di luglio 1264 nel tentativo di guadare il fiume Nera presso Arrone (Terni), appena oltre il confine del Ducato di Spoleto. Il comando fu assunto da Giovanni di Mareri, che batté in ritirata fino a Rieti. Non si fece più alcun tentativo di conquistare Orvieto, con grande vantaggio per il papa e per Carlo d'Angiò.

Il D. rimase sempre fedele a Federico Il e poi a suo figlio Manfredi, di cui fu uno dei più abili condottieri. Grazie alla sua energica campagna nelle Marche, Urbano IV non poté sostenere adeguatamente i guelfi in Toscana, dove la lega dei Comuni ghibellini accrebbe costantemente la sua influenza e il suo potere. Manfredi, ben consapevole di ciò, dimostrò la sua gratitudine ai discendenti del D., come attesta una serie di pagamenti in loro favore. Purtroppo il documento in questione non indica i loro nomi.

Il D. servì la causa ghibellina non solo con la spada, ma anche con la penna: in italiano scrisse poesie di amor cortese, ma quando l'ardore di combattente e la devozione di vassallo lo ispirarono egli ricorse al provenzale. Si potrebbe pensare a un bilinguismo che corrisponde ad una ripartizione di generi, si che dovesse spettare all'italiano la lirica amorosa e al provenzale la lirica politica, anche per la mancanza di una poesia di tono civile all'interno della scuola poetica siciliana. I poeti della Magna Curia, funzionari e sudditi di un unico reame saldamente costituito, retto da una potente monarchia accentratrice, avevano ridotto il repertorio lirico offerto loro dalla tradizione trobadorica all'unica corda erotica, lasciando del tutto da parte quei temi di propaganda e di polemica politica che caratterizzano la poesia coeva dei trovatori dell'Italia settentrionale, che rimavano in corti feudali o in liberi Comuni aperti al gioco interno delle fazioni. Il D. dette il meglio di sé nel fiero sirventese in lode di Manfredi, Felon cor ai et enemic, conservato dal ms. a1, p. 517, della Bibl. Estense di Modena, Campori, gamma N. 8. 4, II, 12, 13 (scoperto e segnalato dal Bertoni in Collectanea Friburgensia, XI-XII, Fribourg 1911) e composto dopo l'agosto del 1258, poiché Manfredi viene chiamato "Reis", ma non molto dopo, perché in esso non si fa menzione delle trattative con Carlo d'Angiò alle quali un ghibellino come lui avrebbe certamente fatto riferimento. Il componimento presenta uno schema metrico che costituisce un unicum nella letteratura in lingua provenzale. Formato da sette strofe unissonans composte da 8 settenari a cui si mescola un trisillabo secondo la formula 7a 3a 7a 7a 7a 7a 7a 7a 7a, è frutto di raffinata perizia metrica che si vale di una medesima rima in tutta la strofa e di rime derivative del tipo aferm, ferm, desferm, referm, enferm, vv. 55-59, ed anche equivoche: lutz, vv. 48 ss. Per il tono ed il contenuto ricorda molto nelle quattro strofe i canti guerreschi di Bertran de Born, come il famoso Be.m platz lo gais temps de pascor, da cui deriva immagini forti e vivide ispirate alla guerra e alla bellezza della battaglia, mentre nella seconda parte si fa più propriamente politico deridendo le pretese di Alfonso di Castiglia all'Impero (strofa V) ed esaltando per contro le virtù del re Manfredi.

Il poeta è turbato e sdegnato poiché vede "tric poiar e prez perdre abric" ("il tradimento montare e il pregio perdere asilo"), tanto che per poco non rinunzia alla ioi (essenza stessa della lirica trobadorica); ma per dar maggiore rovello a chi non vuole che egli si rallegri canterà e "mala vic qi no vol guerra e destric, per c'om conois ferm amic" ("malanno si abbia chi non ama la guerra e gli scontri, nei quali si conosce il vero amico"). Perciò gli piace che il mese di maggio faccia bianchi e vermigli i rami degli alberi ed ama la guerra con il suo sperpero di ricchezze; e gli piace vedere sui banchi dei cambiavalute oro e argento in abbondanza da dare ai prodi che hanno sofferto i colpi dei nemici. Egli descrive con immediatezza, in versi incisivi, lo stendardo che sventola al suo posto nel momento in cui le schiere sono pronte ad affrontarsi ed i prodi cavalieri pronti ad impedire che alcuno se ne allontani, mentre i "vil recrezen coart" ("i vili vigliacchi codardi") cercano con ingegno ed arte di fuggire e tremano quando volano lance e strali e la terra arde tutt'intorno. Gli piace il suono di trombe, tamburi e campane quando si scalano le mura dei castelli sotto la pioggia di pietre, tra il martellare dei magli e dei picconi, sin che le porte rovinano abbattute. Ci sarà guerra in Italia tra Inglesi e Spagnoli? Non sembra probabile perché la Spagna ha da guardarsi dai Saraceni che non le rendono Granata, ed anzi il re non ne fa richiesta, soffrendone il danno e la beffa. Fra tanti re che si vantano da lontano e hanno paura di affrontarsi in campo brilla Manfredi, "Manfrei, q'es de fin pretz lutz" ("luce di perfetto valore"). Egli continua a compiere atti di valore e, per guerra che abbia, non cessa di donare; ha vinto e abbattuto i suoi nemici ed elevato i suoi amici. Ed il poeta lo apostrofa nella tornada finale: "Re Manfredi, il pregio vi tien saldo e Iddio ne ha dato conferma".

Il secondo componimento del D. scritto in provenzale è una breve tenzone con un certo Filippo di Valenza, conservata in una miscellanea pinelliana della Bibl. Ambrosiana R 105 sup. (pubblicato da G. Bertoni, Trovatori d'Italia, Dresden 1912). Filippo è un giovane (mancip, v. 2) poeta al quale il D. augura di trovare un protettore migliore. Il Bertoni (p. 93) suggerisce che la tenzone sia stata scritta negli anni giovanili del D., ma, in realtà, poco o nulla possiamo dire circa la cronologia del componimento, interessante dal punto di vista linguistico, per il quale si rimanda alle note che corredano il testo pubblicato sempre dal Bertoni. Il testo, che è composto da due strofe unissonans secondo lo schema 7a 7a 7a 5b 6b 6a 5b 6b 6a, conferma l'abilità metrica del poeta e la sua preferenza per le rime difficili.

Attestando il complicato intreccio con cui si svolsero nell'Italia dugentesca la storia della lirica d'arte provenzale e quella della lirica d'arte italiana, il D., come tanti altri personaggi della corte di Federico II e di Manfredi, canta invece solo in versi italiani la sua servitù d'amore e le mutevoli sorti della fortuna amorosa. A lui deve appartenere la canzone Come lo giorno quandè dal maitino, che gli attribuisce il ms. A (= Vat. lat. 3793, p. 85), manoscritto più alto nella genealogia generale della scuola poetica siciliana e più autorevole circa le rubriche del ms. D (= Vat. Chigiano L VIII, 305, p. 239), che assegna il componimento a Semprebene di Bologna. Il Contini ne stampa ambedue le versioni, la seconda delle quali, arricchita di una stanza, ritiene rimaneggiata da Semprebene, contro il parere del Panvini. Sicuramente sua è la seconda canzone Amore m'ave priso, che il solo ms. A (p. 86) conserva attribuendogliela. La prima canzone è di tre stanze formate da due piedi identici, di cui il secondo verso è marcato dalla rima interna e la sirima pure con rima interna, al penultimo verso, intrecciate di endecasillabi, quinari e senari, secondo lo schema 11a 5a+6b / 11a 5a+6b // 11c 11c 5d 11d 11e 5e+6f 11f. Le prime due strofe sono capfinidas, mentre l'ultima resta indipendente. Frequenti sono le rime siciliane (vv. 1-3, 2-4, 20-21, ecc.), le rime ricche (vv. 1-3, 2-4, 24-26), derivativa quella del v. 20 disvio:vio. La seconda canzone è composta in settenari, quinari e senari secondo lo schema 7a 7b 7c / 7a 7b 7c // 7d 7d 7e 7e 5f+6g 11g; la rima f è uguale nelle due prime stanze, e probabilmente lo era anche nella terza, che è lacunosa. Le due canzoni riecheggiano da vicino i modelli occitanici, specialmente nella prima strofa della prima canzone in cui appare disegnato uno dei pochi paesaggi della scuola, secondo moduli convenzionali di stretto provenzalismo. I componimenti, in stile aulico, presentano tuttavia alcune cadute di tono allorché viene fatto uso di metafore di stile più "basso", del tipo "tu doni e tolli come fa lo fante" oppure, nella seconda canzone, "amor m'à preso come il pescie a l'amo", non a caso ripresa dal Contrasto di Cielo d'Alcamo ("si m'ai preso come lo pesce a l'amo"), uno dei componimenti della scuola di tono volutamente più popolareggiante. Sempre di derivazione occitanica è l'inclinazione per giochi di allitterazione quali "Per voi m'à messo bello amore in mare", che generalmente i poeti della Magna Curia avevano rifiutato. Questa aderenza di stretta osservanza ai modelli provenzali probabilmente deriva da un contatto più personale e diretto con la tradizione occitanica che lo spinse al di là della consueta imitazione dei poeti provenzali da parte dei "Siciliani".

Edizioni: Delle due canzoni in volgare del D. Come lo giorno quandè dal maitino fu pubblicata da A. D'Ancona-D. Comparetti, Le antiche rime volgari secondo la lezione del cod. Vat. 3793, Bologna 1875-88, p. 473, e Amore m'ave priso da E. Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli (1888-1912), nuova ed. a cura di F. Arese, Roma-Napoli-Città di Castello 1955, I, p. 80, poi edite criticamente da B. Panvini, La scuola poetica siciliana. Le canzoni dei rimatori non siciliani, I, Firenze 1957, Intr., pp. 20 e 101-106, e nuovamente dallo stesso nel volume che amplia e migliora la precedente edizione, Le rime della scuola siciliana, I, Firenze 1962, pp. 225 s. e 434 s.; la canzone Come lo giorno quandè dal maitino èaccolta nelle due versioni da G. Contini, Poeti del Duecento, I, Milano-Napoli 1960, pp. 162 ss. Una prima edizione del sirventese del D. si trova in F. Torraca, Studi su la letteratura italiana del Duecento, Bologna 1902, pp. 211 ss.; il testo venne poi riedito ed annotato in G. Bertoni, Itrovatori minori di Genova, Dresden 1903, pp. 1-5, 37 s., 64 s., che ne curò un'ulteriore edizione, insieme con le due cobbole della tenson con Filippo di Valenza, nel vol. I trovatori d'Italia, Modena 1915 (che tiene conto dei suggerimenti offerti da V. Crescini nella sua recensione al volume in Giorn. stor. d. lett. ital., XLVII [1911], p. 335), rispettivamente a pp. 307-312 (note al testo alle pp. 540 ss.) e a pp. 313 ss. (note al testo alle pp. 543 s.). Il sirventese, nel testo stabilito da Bertoni, compare anche in V. De Bartholomaeis, Poesie provenzali storiche relative all'Italia, II, Roma 1931, in Fonti per la storia d'Italia, LXXII, pp. 189-192, e in A. Cavaliere, Cento liriche provenzali, Bologna 1938, pp. 442-446.

M. Beretta Spampinato

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J. Gobbels-M. Beretta Spampinato

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