PERICOLI, Niccolò, detto il Tribolo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 82 (2015)

PERICOLI, Niccolo, detto il Tribolo

Alessandra Giannotti

PERICOLI, Niccolò, detto il Tribolo. – Nacque a Firenze il 17 maggio 1497 dal legnaiolo Raffaello di Niccolò, detto Riccio de’ Pericoli, e da Angeletta del Conte (Niccolò..., 2001, p. 20). Se non pare sostenibile l’indicazione che lo identificava come Niccolò Braccini (Anguillesi, 1815), va invece segnalato che nelle carte dei Capitani di Parte l’artista si firma «Nicolaio di Conte alias Tribolo» (doc. in Niccolò..., 2001, p. 173), unendo il cognome materno al consueto soprannome, quest’ultimo derivato probabilmente dalla sua costante irrequietezza (Vasari, 1568, III, p. 385).

Vasari ricorda la formazione con il padre, seguita da un apprendistato di tre anni con il legnaiolo e architetto Nanni Unghero, e uno successivo con Jacopo Tatti detto il Sansovino, conosciuto insieme ad Andrea del Sarto nella bottega di Nanni (ibid.). Stando allo storiografo, la frequentazione di Sansovino dovrebbe datarsi al secondo decennio quando costui, licenziato il Bacco Bartolini, era alle prese con il S. Jacopo della cattedrale fiorentina. Attratto dallo sperimentalismo dell’ambiente sartesco, il giovane Tribolo si accostò alle Compagnie fiorentine del Paiolo e della Cazzuola, dove entrò in rapporto con Giovan Francesco Rustici, Giuliano Bugiardini, Antonio di Giovanni da Settignano detto Solosmeo e Aristotele da Sangallo, nonché con illustri committenti quali Giovanni Gaddi. Di questo momento è probabilmente anche la frequentazione con Ottaviano de’ Medici. La contiguità con Sansovino indusse il Tribolo a unire «la pratica de’ ferri al saper ben fare di terra e di cera» (Vasari, 1568, III, pp. 385 s.): motivo per il quale il maestro lo preferì ai meno dotati Solosmeo e Pippo del Fabro e gli assegnò, nei primi anni Venti, la realizzazione di piccoli modelli in cera per il progetto della tomba del re del Portogallo, forse Giovanni II o Emanuele I (Boucher, 1991, I, p. 32; II, p. 359), oltre a due putti grandi di terra per il camino del palazzo fiorentino di Giovanni Gaddi (Vasari, 1568, III, p. 386; Morrogh, 2011, p. 464). L’assenza di opere e le lacune documentarie non aiutano a far luce su questi anni giovanili, che tuttavia furono in buona parte dedicati alla pratica del ‘porre’, considerando, oltre alle parole di Vasari e alla successiva stretta collaborazione con Santi Buglioni e Lorenzo Marignolli, specialisti in terracotta, l’esecuzione della perduta maschera mortuaria di Maria Salviati e il ruolo di ‘plasticatore’ che l’amico Anton Francesco Grazzini gli assegnò nel racconto del pedagogo Taddeo all’interno de Le cene (seconda Cena, settima novella; cfr. Giannotti, 2007, pp. 41 s.). Ulteriori testimonianze della sua attività giovanile sono inoltre il documento del 1521, in cui il Tribolo si trova, insieme a Gerolamo di Tommaso di Giovanni scultore, presente a un atto notarile che vede coinvolti Giovanni Larciani e Giovambattista del Verrocchio, nipote di Andrea, e quelli del 1523 (16 e 29 maggio), in cui agisce da arbitro, prima con Rustici, poi con Solosmeo, nella stima di quattro sculture in terra cruda del fiorentino Sandro di Lorenzo Smeraldo Sinibaldi, due delle quali copie da Desiderio da Settignano e Verrocchio (docc. in Waldman, 1998, p. 469; Butterfield - Franklin, 1998, pp. 822 s.). Un’attività svolta all’insegna di tenerezze sartesche e di una monumentalità sansovinesca innervata da Michelangelo – che Tribolo studiò sin da fanciullo sulla Battaglia di Cascina – pare il presupposto più attendibile sul quale riconfigurare il giovane scultore (Vasari, 1568, III, p. 731). Sebbene non si possa escludere un primo approdo a Roma al tempo dei viaggi di Sansovino (1518) o degli amici Giovan Battista del Tasso e Benvenuto Cellini (1519), il Tribolo è documentato per la prima volta nella città pontificia tra il 1523 e il 1524, vicino all’ambiente raffaellesco. L’occasione gli fu fornita dalla commissione per il sepolcro di papa Adriano VI progettato da Baldassarre Peruzzi, per la realizzazione del quale è però controversa l’entità del suo contributo accanto al senese Angelo Marrina, animatore della compagnia tosco-romana di artisti frequentata a Roma in quegli anni da Cellini, Giulio Romano, Giovan Francesco Penni e Francesco Bachiacca (Opere di Benvenuto Cellini, 1971, pp. 122 s.). Vasari assegna al Tribolo «figure piccole», che la critica ha per lo più riconosciuto nei quattro putti reggistemmi del basamento, in quelli del sarcofago e nelle figure del rilievo centrale con l’Ingresso del pontefice a Roma (Vasari, 1568, II, p. 179; Götzmann, 2010, pp. 210, 217 e ss., 240, con bibl. prec.). Tuttavia, solo la coppia di putti posti nella parte sinistra dell’alto zoccolo, contraddistinti da un modellato plastico e nervoso lontano dal calligrafismo tipico del Marrina, sembrerebbe rivelare l’intervento del Tribolo e il suo assiduo studio su Donatello, Michelangelo, Andrea e Jacopo Sansovino (Giannotti, 2014, p. 5).

Nel 1525, con il monumento romano ancora in lavorazione, il Tribolo si trasferì a Bologna, dove dal 15 giugno la Fabbriceria di S. Petronio gli versò un regolare stipendio fino all’8 agosto 1527 (Giannotti, 2012, p. 167). La commissione nacque dall’incontro, avvenuto secondo Vasari a Firenze, ma più verosimilmente a Roma, con il bolognese Bartolomeo Barbazza, canonico della basilica petroniana, che coinvolse lo scultore nella decorazione marmorea delle porte minori dell’omonimo complesso (Vasari, 1568, III, p. 396). In quest’occasione, che vide all’opera numerosi scultori dalle più varie provenienze geografiche, l’artista risulta a capo di un gruppo di toscani, i settignanesi Solosmeo e Simone Cioli, quest’ultimo più volte indicato come suo socio, e in stretta relazione con Bernardino e Battista (o Bartolomeo) da Carrara, tutti giunti a Bologna pressoché insieme a lui (Guizzardi - Spagnuoli - Davia, 1834). Se Vasari assegna al Tribolo solo due altorilievi con Sibille, che ornano i fianchi dei pilastri della porta sinistra, dai documenti si apprende che egli fu incaricato anche dell’esecuzione dell’Addolorata posta entro la lunetta della porta destra (febbraio 1526) e della fornitura di quattro modelli di imprecisato soggetto a Solosmeo (dicembre 1525-gennaio 1526) e a Properzia de’ Rossi (gennaio 1526; Supino, 1914; Brugnoli, 1984). Tuttavia, il gruppo di sculture che si possono riferire alla sua bottega è più nutrito e comprende storie dell’Antico Testamento, poste nei pilastri, Angeli musicanti e recanti i simboli della Passione negli archivolti e Sibille negli sguanci (Giannotti, 2012).

Questo insieme di opere, relativo al periodo bolognese, testimonia le acquisizioni romane dello scultore, dallo studio diretto dell’antico alle sue varie interpretazioni offerte dalle imprese raffaellesche, da Peruzzi, dai Sansovino e da Lorenzetto.

Il soggiorno felsineo, per il quale poté agire da tramite Sebastiano Serlio, si svolse anche nel segno di un rinnovato legame con Michelangelo. Nell’ottobre 1525 due lettere di Barbazza e una del Tribolo indirizzate al Buonarroti attestano l’impegno dello scultore, assistito da Solosmeo, nel mettere in opera un disegno michelangiolesco per il sepolcro di Andrea Barbazza destinato alla cappella di famiglia in S. Petronio (Il carteggio di Michelangelo, 1973, pp. 168, 175, 180), incarico che probabilmente lo condusse tra il 1525 e il 1527 a più riprese in area apuana per cavare marmi (Giannotti, 2014, p. 7). Potrebbe essere in relazione con questa commissione anche il documento dell’ottobre 1525 (docc. in Migliaccio, 1992, p. 130), che attesta l’istituzione di una società tra Giovanni de’ Rossi, Girolamo da Carrara e Pietro Aprile, per lavori da compiersi a Pisa, Genova, Pontremoli e Bologna. Mentre non resta traccia dei due «putti grandi» sbozzati per il sepolcro Barbazza (Vasari, 1568, III, p. 396), se non forse in due Angeli di casa Hercolani a Bologna, oggi dispersi (Giannotti, 2012, p. 170), è stato rilevato un contributo del Tribolo in tre degli otto Angeli in marmo, con i simboli della Passione, posti nel coronamento del tempietto della Santissima Annunziata a Pontremoli (Del Bravo, 1978, p. 1466; Giannotti, 2012, p. 169, con bibl. prec.). La presenza a Carrara è tuttavia certa solo nel 1527, quando, tra il 7 ottobre e il 13 novembre, egli fu chiamato a stimare con Giovanni de’ Rossi l’altare del Santissimo Sacramento del duomo di S. Andrea, realizzato da Domenico di Andrea del Sarto, Giovanni di Battista del Mastro di Miseglia e Battista di Pietro da Carona (docc. in Rapetti, 1998, pp. 354 s.).

Mentre il Tribolo faceva la spola tra Bologna e l’Alta Toscana, il 17 luglio 1527 la moglie Elisabetta di maestro Angelo del Calzolaio diede alla luce Agnoletta nell’abitazione fiorentina posta nel quartiere di San Lorenzo, dove la coppia è attestata ancora il 20 aprile 1529, data della nascita di Raffaello (Giannotti, 2014, p. 16 n. 24). Con la morte di Barbazza nel 1527, motivo per cui si abbandonò il progetto petroniano, Tribolo mosse verso Pisa, dove poteva contare sull’amicizia di Stagio Stagi, succeduto a Pandolfo Fancelli nella direzione dei lavori di rinnovamento della cattedrale. Se verosimile risulta la cronologia indicata da Vasari, non appare possibile invece confermare l’autografia tribolesca indicata dal biografo per uno dei due Angeli reggicandelabro che coronavano le colonne dell’altar maggiore: le due statue (Pisa, Museo dell’Opera del duomo), perfettamente consimili ed entrambe firmate da Silvio Cosini, risultano infatti commissionate solo a quest’ultimo nel 1528 (Vasari, 1568, III, p. 397; Giannotti, 2007, p. 61, con bibl. prec.). Tuttavia, un apporto del Tribolo all’opera dello Stagi può essere ipotizzato almeno per la progettazione delle potenti decorazioni plastiche degli altari dei Ss. Maria e Clemente nel braccio nord del transetto del duomo pisano e dell’altare dei Ss. Giorgio, Giovanni e Francesco nel braccio sud del transetto del medesimo edificio, avviati nel 1528 (Giannotti, 2014, pp. 11-13).

Il riscatto repubblicano seguito al sacco di Roma (1527) accompagnò il rientro del Tribolo a Firenze. Qui, tra il 1528 e il 1529, egli eseguì per Giovan Battista della Palla, il fuoriuscito antimediceo, ambasciatore presso il re di Francia Francesco I e suo procacciatore di opere d’arte, la Dea della natura. Il marmo, nato quale supporto di un vaso antico in granito trasformato in una fontana da porsi nella reggia di Fontainebleau, costituisce la prima opera certa nel catalogo dello scultore (Vasari, 1568, III, p. 397).

La bizzarra opera, dalle molteplici implicazioni iconologiche neoplatoniche, esprime appieno il fascino che le decorazioni romane di villa Madama avevano esercitato sul Tribolo, il quale le fuse con il pittoricismo tattile di Benedetto da Rovezzano e con l’estroso plasticismo michelangiolesco di Silvio Cosini.

Tuttavia, quando nel 1529 Firenze visse la sua estrema stagione repubblicana, e Michelangelo intervenne in difesa della sua libertà, il Tribolo, insieme a Benvenuto della Volpaia, specialista di orologi, strumenti, macchine e topografo, realizzò segretamente un modellino della città richiestogli da Clemente VII per studiarne l’assedio (Vasari, 1568, III, pp. 397 s.; Niccolò..., 2001, pp. 87-104), schierandosi apertamente al fianco dei Medici, che da quel momento sarebbero diventati i suoi più affezionati committenti.

Nel 1530 il Tribolo fu chiamato a Loreto per ordine di Clemente VII, in concomitanza con la nomina di Antonio da Sangallo il Giovane ad architetto della Santa Casa e forse anche grazie all’intercessione di Cellini (Vasari, 1568, III, p. 398). Qui egli si trattenne con la famiglia fino al luglio 1533, sebbene si registrino pagamenti a suo nome dal 7 gennaio 1531 al 31 dicembre 1536 (Weil-Garris, 1965, 1977, p. 79 e passim). Risultato di questo soggiorno fu la lavorazione di alcuni dei rilievi del rivestimento marmoreo della Santa Casa: si devono al Tribolo il completamento della parte sinistra dello Sposalizio della Vergine iniziata da Andrea Sansovino e l’intera parte destra della stessa scena; la parte sinistra della Traslazione della Santa Casa a Loreto (quella destra è di Francesco da Sangallo); la probabile sbozzatura degli armigeri del soprastante Transito della Vergine; cinque degli otto Angeli sovrapporta e i modelli per le Sibille, scolpite poi dai fratelli Della Porta (docc. in Weil-Garris, 1965, 1977, pp. 268 s.). A Loreto il Tribolo fu in società con Raffaello da Montelupo e Francesco da Sangallo (sulla cui identificazione con Francesco di Giuliano grava qualche dubbio giacché i documenti lauretani – docc. in Grimaldi, 1999, pp. 229-253 – menzionano sempre un Francesco di Vincenzo anziché Francesco di Giuliano), ma, a detta del Vasari (Vasari, 1568, III, p. 398), a lui spettò il ruolo di maggior rilevanza. Nel 1532 i tre risiedevano stabilmente a Recanati presso la Confraternita di S. Lucia, dove si trattennero per due anni (Grimaldi, 1999, p. 239). A giudicare dai pagamenti del 1° e dell’11 ottobre 1533 (ibid., pp. 242, 245), il Tribolo scolpì le due storie pressoché insieme, sebbene la finitura più sommaria della Traslazione lasci supporre un’improvvisa interruzione dovuta probabilmente al ritorno a Firenze.

Tuttavia, mentre nello Sposalizio Niccolò prova a calare in una maggiore articolazione spaziale e potenza plastica le pausate posture e l’eleganza sansovinesche del rilievo contiguo, nel Transito egli procede a vere e proprie forzature: così l’esempio offerto da Andrea del Sarto e dal Franciabigio nel chiostro fiorentino dello Scalzo e nella villa medicea di Poggio a Caiano è caricato dall’artista di rudezze espressive più in sintonia con le soluzioni eccentriche esibite dal Rosso Fiorentino alla Santissima Annunziata di Firenze o elaborate dagli spagnoli Alonso Berruguete e Bartolomé Ordóñez visti tra Firenze e la Versilia.

Al rimpatrio, sollecitato da Clemente VII, il Tribolo, con Montorsoli e Raffaello da Montelupo, affiancò Michelangelo nella fabbrica della Sagrestia Nuova di S. Lorenzo. Il maestro, dimostrandogli grandissima stima, gli assegnò ben due sculture per la tomba di Giuliano de’ Medici: la Terra e il Cielo (Vasari, 1568, III, p. 399; Il carteggio di Michelangelo, 1973, pp. 24 s.). Ammalatosi, Niccolò fu costretto ad abbandonare il progetto dopo aver modellato a grandezza naturale la Terra, concepita a guisa di una Menade antica, e averne avviato la lavorazione. Il marmo non finito fu distrutto dall’incendio degli Uffizi del 1762, ma è noto attraverso un disegno di Tommaso Arrighetti (Parronchi, 1981).

Michelangelo fu il modello ispiratore di quella maggiore monumentalità che il Tribolo esplicitò nella produzione degli anni Trenta: le copie in terracotta dalla Sagrestia, le quattro Allegorie del Tempo (Firenze, Bargello) e la Vergine col Bambino (donata a Ottaviano de’ Medici, oggi perduta), ne sono un chiaro esempio (Vasari, 1568, III, p. 399; J.K. Nelson, in Venere e Amore, 2002).

Entro il 1534 lo scultore fu all’opera per Cristoforo Rinieri nella villa fiorentina della Covacchia, dove progettò una fontana di pietra realizzata da Antonio di Gino Lorenzi (Wright, 1976, 1979, I, pp. 61 s.), di cui oggi resta solo la nicchia ‘alla rustica’; più tardi, ancora con l’ausilio di Lorenzi, fornì a Rinieri la statua di un Fiume in pietra per la sua villa a Castello, oggi Corsini (Heikamp, 2009). Nel 1535, in compagnia di Cellini, si recò a Venezia su richiesta di Jacopo Sansovino che lo aveva convocato per una commissione, non meglio specificata, poi sfumata (Opere di Benvenuto Cellini, 1971, pp. 236-244). Qui incontrò Pietro Aretino e Tiziano, e consolidò i suoi rapporti con Serlio (Aretino, 1537-1538, 1913; Giannotti, 2007, p. 73). Tornato a Firenze lavorò nel 1536 allo stemma in pietra con due Vittorie per la Fortezza da Basso (Raccolta di lettere, 1759) e, sotto la direzione di Vasari, agli allestimenti per gli apparati viari eretti durante l’ingresso in città di Carlo V, che gli valsero gli elogi dell’Aretino (Vasari, 1568, III, pp. 400 s.; Aretino, 1537-1538, 1913); nello stesso anno, solo un mese più tardi, per le nozze di Alessandro I de’ Medici e Margherita d’Austria, prestò la sua opera alle decorazioni delle case di Ottaviano de’ Medici, dove la futura duchessa fu ospitata (Vasari, 1568, III, pp. 400 s.; Lettere a Pietro Aretino, 1552, 1997).

S’intreccia a queste vicende il secondo soggiorno bolognese (Vasari, 1568, III, p. 401; Malaguzzi Valeri, 1893). Tra il 1537 e il 1538 il Tribolo fu all’opera per l’altare della Madonna di Galliera progettato da Serlio, per il quale realizzò la pala marmorea con l’Assunta e gli apostoli oggi nella cappella delle Reliquie in S. Petronio (all’altare già dal 1534 lavoravano i lapicidi comacini Battista e Pietro Da Perro). È lecito supporre che, accanto a Pietro del Magno, citato da Vasari come il responsabile della chiamata del Tribolo, abbiano svolto un ruolo anche Niccolò Gaddi e Benedetto Varchi, entrambi in città proprio nel 1537, il primo dei quali ospite dell’erede di Bartolomeo Barbazza, Alessandro Manzuoli (Varchi, 1543-ante 1565, 1844), personalmente coinvolto nelle vicende dell’altare, insieme ad Achille Bocchi, in qualità di periti (docc. in Giannotti, in corso di stampa). Sembra verosimile che nel viaggio veneziano del 1535 il Tribolo avesse posto le premesse per la sua seconda occasione felsinea rinnovando, attraverso Sansovino e Serlio, i legami già imbastiti a Roma con l’ambiente di quegli studiosi di Vitruvio, di cui lo stesso Manzuoli era un esponente.

L’altare, con colonne corinzie, accoglieva cinque sculture acroteriali e due pluteali poste ai lati dell’Assunta. Esso fu pesantemente manomesso sin dal 1597 e poi smantellato nel 1616 con la cessione del complesso ai filippini (Rubbini, 2002, p. 34). Alcune sculture pervennero nel 1726 a Francesco Zambeccari, che ne ordinò il riallestimento nella cappella di famiglia in S. Petronio (ibid., p. 45), dove ora si trovano la già citata Assunta, due Profeti, e due Angeli di gusto sansovinesco. Nel rilievo centrale, firmato, il Tribolo risente visibilmente della partecipazione al cantiere della Sagrestia, in particolare per un plastico pittoricismo michelangiolesco non distante da Montorsoli; ma la composizione è liberamente ispirata a due disegni del Pordenone (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, 720.E e 1747.Fr) forse inviatogli da Serlio, di cui si sarebbe ricordato dieci anni più tardi anche Lorenzo Lotto nella grande pala per la chiesa anconetana di S. Francesco alle Scale.

Richiamato con urgenza a Firenze, il Tribolo entrò nel vivo della più fertile stagione medicea. Per intercessione di Ottaviano de’ Medici e Cristoforo Rinieri, Cosimo I gli affidò la direzione del cantiere di Castello, dove era già all’opera l’ingegnere idraulico Piero da San Casciano, e dove l’artista codificò il fortunato prototipo del giardino all’italiana (Vasari, 1568, III, pp. 401-409; Wright, 1976, 1979; Conforti, 1987; Acidini Luchinat - Galletti, 1992; Pizzorusso, 2002).

Adottando la struttura del Belvedere Vaticano di Bramante, il progetto traduceva un programma teso a celebrare la dinastia medicea, evocandone l’aurea epoca laurenziana: da uno stato primordiale di natura caotica (il selvatico), passando attraverso l’antro generativo della grotta degli animali, si giungeva all’ordinata e armonica orografia della Toscana, esemplificata dai monti Appennino e Falterona e dai fiumi Arno e Mugnone, con la sua Fiesole, che accompagnavano la fontana di Venere Anadiomene detta Fiorenza. Acme simbolica e visiva del giardino era la fonte di Ercole e Anteo, in cui l’alter ego di Cosimo I soffocava i suoi nemici e irrorava di linfa vitale le terre del ducato. Completavano il programma il giardino a levante, con l’immaginifica quercia sonora, e quello dei Semplici a ponente, con una scultura di Esculapio terminata da Antonio Lorenzi (Keutner, 1965; Heikamp, in Palazzo Pitti..., 2003, pp. 632 s.).

Già prima del 1543 il progetto risultava definito e le fontane, i cui marmi si cavavano sin dal 1538, erano in lavorazione; la morte dello scultore nel 1550 e i successivi subentri di Fortini, Vasari e Buontalenti alla direzione dei lavori lo avrebbero però pesantemente modificato ancor prima degli stravolgimenti settecenteschi che lo rendono oggi quasi irriconoscibile. Il Tribolo vi aveva coinvolto un’équipe di ben nove collaboratori ai quali aveva fornito disegni e modelli (Antonio e Stoldo di Gino Lorenzi, Pierino da Vinci, Valerio di Simone Cioli, Santi Buglioni, Lorenzo Marignolli, Francesco di Giovanni Ferrucci del Tadda e, occasionalmente, Zanobi Portigiani e Zanobi Lastricati), lavorando in proprio solo una minima parte delle opere, tra le quali le statue in pietra dei Fiumi (perdute), della Fiesole (Firenze, Museo nazionale del Bargello) e, in parte, le fontane di Venere (ora alla villa della Petraia) e di Ercole.

L’esperienza degli anni giovanili a contatto con l’ambiente raffaellesco e sansovinesco fu aggiornata dall’artista con un viaggio a Roma nel 1538 appositamente pensato per studiare le grotte all’antica, in particolare quella Gaddi, esempio imprescindibile di rappresentazione artificialmente naturale, di natura naturans (Caro, 1531-1544, 1957, p. 66).

Contemporaneamente il Tribolo fece fronte a molteplici commissioni medicee, grazie ad amici influenti quali Luca Martini, Pierfrancesco Riccio e Benedetto Varchi, ai quali lo univa, al pari di Tasso, Cellini e Bronzino, l’interesse per la poesia giocosa e la letteratura volgare, tanto da simpatizzare per l’Accademia degli Umidi e di far parte dal 1541 di quella fiorentina (Heikamp, 1957; Niccolò..., 2001, pp. 31 s.; Giannotti, 2007).

Sullo scadere del quarto decennio si susseguirono la Vittoria del Forte Belvedere (oggi mutila, in palazzo Alessandri), gli apparati effimeri per le nozze di Cosimo I de’ Medici ed Eleonora di Toledo (1539), quelli per la nascita di Francesco I (1541), primo figlio maschio della coppia, le invenzioni per i fuochi di S. Giovanni e numerose mascherate per le festività cittadine (Vasari, 1568, III, pp. 410-412). Negli anni Quaranta il Tribolo fu autore di bronzetti da studiolo (Satiro fanciullo, Firenze, Museo nazionale del Bargello, 1549; Esopo, Londra, Victoria and Albert Museum; Satiro adulto, Vienna, Kunsthistorisches Museum; cfr. Holderbaum, 1957; Pope - Hennessy, 1959; Leithe - Jasper, 1986), e fu coinvolto nella progettazione del Monumento a Giovanni dalle Bande Nere (Firenze, piazza S. Lorenzo), per il quale realizzò un modello (oggi perduto) e cavò i marmi, ma che fu poi costretto ad abbandonare perché soppiantato da Baccio Bandinelli (Vasari, 1568, III, p. 409). Sue furono inoltre l’ideazione grafica dell’altare del Crocifisso per il duomo di Prato (1542-1544/1545), smantellato nel 1786, ma noto da un disegno che si conserva a Parigi (Département des arts graphiques du Louvre, inv. 51; Davis, 2013), e alcune opere pisane quali la tomba a parete di Matteo Corte (Camposanto), eseguita dagli allievi Antonio Lorenzi e Pierino da Vinci, danneggiata dall’incendio del 1944, lo stemma mediceo nella facciata meridionale del palazzo della Sapienza, realizzato dalla bottega, e un’Arpia in pietra gonfolina per palazzo Lanfranchi, da ritenersi opera autografa (L’officina..., 1996, pp. 394 s.). Quale ‘architettore’ di S. Lorenzo a Firenze dal 1542 curò l’allestimento delle sculture del Buonarroti sui sarcofagi della Sagrestia Nuova e progettò (Butterfield - Elam, 1999), avviandone la costruzione, poi ultimata con diverse modalità da Bartolomeo Ammannati, una scala per il vestibolo, per la quale si avvalse anche della consulenza di Michelangelo (Ferretti, 2011); nel 1548, insieme a Santi Buglioni e Giovan Battista del Tasso, elaborò la decorazione della Biblioteca Laurenziana, impiegando per il soffitto ligneo i disegni del Buonarroti e realizzando il pavimento con un commesso in cotto bicromo di foggia romana ricco di motivi ornamentali serliani (Vasari, 1568, III, p. 412; Catalano, 1992). Uomo di fiducia di Cosimo I, prototipico dell’artista di corte, a lui spettano i progetti degli orti botanici di Pisa (1544-45) e Firenze (1545-46), e gli interventi nella villa di Poggio a Caiano (stalle e giardino fortificato; Niccolò..., 2001, pp. 57, 177-193).

La centralità del Tribolo nel panorama culturale cittadino è attestata anche dal ruolo assegnatogli da Varchi, che nel 1547 lo elesse interlocutore del celebre ‘paragone’ tra le arti, nel quale l’artista prese le parti della scultura. Il monopolio degli incarichi di corte, consolidato dalla protezione del maggiordomo ducale Pierfrancesco Riccio, gli garantì il progetto di trasformazione di palazzo Pitti con il suo giardino (Vasari, 1568, III, p. 414; Rinaldi, 1991; Niccolò..., 2001, pp. 137-150; Pizzorusso, 2002). Subito dopo l’acquisto del complesso da parte della duchessa Eleonora nel 1550, Niccolò avviò lo spartimento del giardino, replicando lo schema di Castello, organizzato lungo un asse prospettico centrale con emergenze scultoree. Affiancato da David Fortini, marito della figlia Dianora, che proseguì i lavori dopo la sua scomparsa, organizzò gli impianti idraulici, progettò gli arredi e immaginò l’inserimento di una grotta, che sarebbe stata poi la fascinosa Grotta di Madama messa in opera da Bandinelli (Niccolò..., 2001, pp. 127-136). Il favore dei duchi, attestato anche dalla commissione del 1546 per la ristrutturazione del giardino di villa Imperiale (Da Prato, 1895), e la nutrita ed efficiente bottega, giustificano la mole di prestigiosi incarichi assegnatigli dalle principali famiglie fiorentine alle quali prestò la propria esperienza di architetto e scultore da giardini: si ricordano suoi interventi alla villa Caserotta di Matteo Strozzi a San Casciano, quelli a Firenze per Lorenzo Ridolfi in palazzo Tornabuoni Corsi e per i Salviati in palazzo Capponi (Vasari, 1568, III, p. 396; Gurrieri, 1992; Artifici..., 1999, p. 96). L’artista svolse inoltre in parallelo, insieme a Pierino da Vinci, un’attività di restauratore dell’antico di cui resta una magnifica testimonianza nel gruppo Dioniso e Ampelo già riferito al solo Pierino da Vinci (Bronzino..., 2010, pp. 228 s.).

L’incarico fiorentino di ingegnere della Parte guelfa del 1549 incoronò la sua carriera di ingegnere ducale e di esperto idraulico condotta soprattutto nel corso degli anni Quaranta: si ricordano in tal senso gli interventi da lui esperiti sui ponti del Mugnone e a Ponte a Cappiano, nonché sulla manutenzione delle fogne, delle fonti cittadine e sulla costruzione degli acquedotti (Vasari, 1568, III, p. 413; Niccolò..., 2001, pp. 175 s.; Ferretti, 2008, pp. 111 s., 123 n. 70, 127; Ferretti in corso di stampa).

Morì a Firenze nel settembre 1550 dopo aver dettato il testamento in cui nominava erede universale il figlio Raffaello. Fu sepolto negli ambienti della compagnia dello Scalzo, alla quale si era iscritto l’anno precedente (Niccolò..., 2001, p. 26).

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