PIACENZA

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1998)

PIACENZA

A. Segagni Malacart

(lat. Placentia)

Città dell'Emilia-Romagna nordoccidentale, capoluogo di provincia, posta su di un terrazzamento alluvionale sulla riva destra del Po, poco a S della confluenza con il fiume Trebbia.

Storia e urbanistica

P. fu colonia latina dal 218 a.C. insieme con Cremona. Incerta rimane la definizione della forma urbis per la scarsità e frammentarietà delle testimonianze archeologiche. È stato configurato un iniziale sviluppo di trentasei isolati, compresi tra le od. vie Benedettine, della Dogana, Sopramuro, Mentana, ma è stata anche ipotizzata un'espansione di ventitré isolati a O e sei a E, fino a via S. Eufemia e oltre la piazza del Duomo, con uno spostamento del cardo maximus dalle vie S. Francesco, S. Pietro, X Giugno al corso Cavour; la possibile tangenza del foro agli assi principali, per un'estensione di due isolati, sarebbe suggerita dagli indizi toponomastici delle chiese di S. Pietro sul lato orientale più breve e di S. Martino sul lato settentrionale, entrambe denominate in foro.Sarebbero pertinenti a una robusta cinta muraria, approntata dopo la nuova deduzione del 190 a.C., i resti murari rinvenuti in un'area prospiciente viale Risorgimento, mentre si legherebbero a una fase tardoantica i settori rinvenuti in corrispondenza del margine sudoccidentale, nelle od. vie Gazzola, Illica, Sopramuro e al di sotto del palazzo di via Monte di Pietà. L'approntamento di tale cinta muraria è stato riferito alla pressione dei barbari, della quale non si colgono tuttavia altri indizi precisi entro il tessuto urbano.Viene ascritta alla metà del sec. 4° e al primo vescovo Vittore la fondazione della chiesa di S. Vittore, per lo più identificata con la prima cattedrale, in area cimiteriale, a S-E dell'antico castrum; secondo la tradizione, la chiesa fu intitolata, oltre che al vescovo eponimo, anche a s. Antonino, dopo il ritrovamento delle sue reliquie nei pressi dell'oratorio di S. Maria in Cortina e la traslazione a opera di s. Savino, vescovo forse dal 376, amico e corrispondente di s. Ambrogio. S. Savino è tradizionalmente considerato fondatore della basilica dei Ss. Apostoli ad Masias, in un'area cimiteriale da cui provengono iscrizioni cristiane del 5° e 6° secolo.Dopo l'arrivo dei Longobardi, P. fu sede di un ducato fino al 591; durante la rivolta dei duchi cadde nelle mani dei Bizantini, ma con il regno di Agilulfo (591-615) passò sotto la diretta dipendenza del re, rappresentato da un gastaldo, e durante il regno di Adaloaldo (615-626) e Pertarito (661; 671-688) continuarono le liti con Parma per la definizione del confine tra le due città, secondo quanto si evince dai giudizi del 626 e 673. Per l'età longobarda, ritrovamenti archeologici assai frammentari si integrano con scarsissimi riferimenti documentari: nel 715 il porto di P. è tra gli scali frequentati dai milites di Comacchio dietro il pagamento di dieci moggi di sale, secondo il patto di Liutprando; rinnovando i privilegi di Liutprando, nel 744 il re Ildeprando concesse al vescovo Tommaso l'antico letto del Po alle porte della città e Desiderio (757-774) donò alla badessa di S. Giulia a Brescia i diritti regi sul porto e sul ponte del Po. La conquista franca non fu segnata a P. da grossi sconvolgimenti, ma da un generale rafforzamento dei legami di vassallaggio, mentre nell'808 il vescovo Giuliano riceveva nuovi diritti e rendite nella città e nel territorio, le curtes di Gusano e Cagnano e il diritto di una fiera durante la festa di s. Antonino.I conti di P., imparentati o discendenti della famiglia dei Supponidi, molto vicini al sovrano, soprattutto a Ludovico II (850-875), imposero la loro autorità sul comitato, senza contrasti con il vescovo. Il potere politico ed economico della Chiesa, dotata di grandi possessi fondiari e detentrice di diplomi di immunità, si consolidò nel corso del sec. 9° e si mantenne durante il regno italico. Per quanto attiene al traffico fluviale, il vescovo controllava una parte del porto - i diritti concessi dai re longobardi furono confermati da Carlo Magno e poi da Ludovico il Pio nell'820 - e nell'872 ricevette da Ludovico II i diritti su tre mercati annuali, nella domenica delle Palme presso S. Antonino, per la festa di s. Siro presso la chiesa di S. Siro e nella festa di s. Lorenzo a Pittolo, nei pressi di Piacenza.Intorno alla metà del sec. 9°, durante l'episcopato di Seufredo (m. nell'870), era avviata l'edificazione di una nuova sede canonicale (Rossi, 1975, pp. 76-78), contigua all'episcopato, e probabilmente di una chiesa cattedrale accanto alla chiesa di S. Giovanni poi detta de Domo. Nell'872 Ludovico II concesse al vescovo Paolo di allargare il circuito delle mura perché la cattedrale fosse compresa entro la cinta urbica. Quest'ultima venne estesa anche a N-O per inglobare il monastero femminile di S. Sisto, largamente dotato alla fondazione da Ludovico II, dalla moglie Angilberga nel suo testamento, con l'assegnazione dei diritti sul Po - dalla confluenza del Trebbia a quella del Lambro - e sul Po morto; alla fine del sec. 9°, il monastero disponeva di uno dei più vasti domini fondiari dell'Italia settentrionale, esteso sui comitati di Lodi, Cremona, Reggio Emilia, Mantova e Milano e comprensivo di curtes molto vaste lungo il Po, quali Guastalla e Suzzara; il monastero femminile, cui era annesso uno xenodochium, comprendeva una vasta area dalla casa di Suppone fino alle mura della città, fino alla porta Mediolanense e alla pusterla di S. Giustina.Verso S-O, venne fondata nell'868 la chiesa di S. Brigida con annesso monastero. Se si mantenne sostanzialmente il tracciato modulare antico, nel corso del sec. 9° l'organizzazione dei mercati dovette far gravitare il centro economico della città nella zona meridionale, al di fuori delle mura e intorno ai borghi sorti presso le chiese di S. Antonino e di S. Brigida, la cui importanza è attestata dall'alto costo delle case e dei terreni.Un asse viario di importanza primaria, contiguo alla basilica di S. Antonino, costeggiava a S la città e si snodava presso quest'area di grande traffico commerciale, riprendendo verso E il percorso della via Emilia. Nel tardo sec. 9° l'indebolimento del potere centrale favoriva l'aristocrazia locale, le cui aspirazioni erano connesse nell'ambito urbano alla figura del vescovo e si esplicitavano nel contado attraverso l'approntamento di strutture difensive. Mentre tra il tardo sec. 9° e gli inizi del 10° le truppe dei pretendenti del regno d'Italia si scontravano in sanguinose battaglie anche sul territorio piacentino, nell'899 gli Ungari distrussero la chiesa di S. Savino, che il vescovo Everardo fece ricostruire nel 903 all'interno della città, ma che fu successivamente devastata, tanto che agli inizi del sec. 11° il vescovo Sigifredo riedificò la chiesa nella sua antica ubicazione esterna alle mura. La dissoluzione del potere comitale, specialmente evidente tra il 930 e il 964, favoriva il vescovo, che riceveva le prerogative comitali nel 997. Intorno al Mille, la Chiesa - soprattutto il vescovo e il monastero di S. Sisto - controllava i commerci della città attraverso l'organizzazione delle fiere, dei mercati e del traffico fluviale; il vescovo non solo attivava ricchezza attraverso le rendite fondiarie, ma favoriva anche l'attività di mercanti accordando loro la sua protezione. La città non risultava più integrata amministrativamente al contado, sul quale dominavano il conte e l'aristocrazia militare, che cercava comunque di accaparrarsi aree urbane, in vista della futura partecipazione alla corte del vescovo e alle assemblee cittadine.Durante il sec. 11°, la città era il fulcro della vita economica, anche per l'incremento dell'attività di lavorazione del cotone, proveniente dal mercato veneziano. I vescovi piacentini non erano inclini alla riforma, specie durante l'episcopato di Dionigi (1048-1077), e fino all'elezione di Bonizone di Sutri nel 1089, subito espulso dalla città; il partito imperiale e l'aristocrazia feudale - capitanei e valvassori - ebbero comunque il sopravvento durante l'episcopato del filoimperiale Winrico, fino all'elezione nel 1093 di Aldo, sostenitore della riforma della Chiesa, tanto che nel 1095 Urbano II proclamò la crociata durante il concilio di Piacenza.È discusso il significato dell'accordo del 1090 tra milites e pedites, che poteva sancire l'assegnazione ai milites del governo sulla città e per i pedites la partecipazione alla concio civium che si teneva presso la basilica di S. Antonino e il riconoscimento delle prime organizzazioni di mestiere da parte degli aristocratici. Dopo la morte della contessa Matilde nel 1115, il potere del vescovo non era in grado di contrastare l'avanzata dell'aristocrazia terriera inurbata, dei cives maiores; i consoli sono menzionati per la prima volta in un atto di cessione al Comune del castello di Caverzago nel 1126 (Solmi, 1915, p. 17). Nel corso del sec. 12° il governo della città era appannaggio di una stretta cerchia di famiglie aristocratiche, la cui ricchezza era in prima istanza di origine fondiaria, ma la vita di P. era segnata dallo sviluppo delle attività artigianali, soprattutto la lavorazione dei fustagni e delle pelli, e gli artigiani erano riuniti in corpi stabilmente organizzati - l'importanza dei paratici nella vita cittadina è ricordata dalle raffigurazioni quali committenti della cattedrale - mentre i mercanti facevano di Genova la base di partenza dei loro traffici nel Mediterraneo e frequentavano molto spesso le fiere della Champagne.La nuova cinta muraria del 1139 (Giovanni Musso, Chronicon Placentinum; RIS, XVI, 1730, col. 611) - corretta nel 1156 (Boselli, 1793-1805, I, p. 233) - inglobava i quartieri che si erano sviluppati a O attorno al borgo, nelle aree tra il borgo e S. Sisto e lungo l'asse commerciale della via Francigena, detta nei documenti piacentini strata romea, che univa il borgo a S. Antonino, circondando a S l'antico castrum.Alleata di Milano nel 1156, nel 1158 P. si sottometteva a Federico I Barbarossa, accettava di spianare i fossati e abbattere le mura - imposizione non completamente attuata se venne ribadita nel 1162 (Vignati, 1966, p. 75ss.; Castagnoli, Racine, 1984, pp. 135, 145) -, mentre fino al 1164 un'enorme pressione fiscale era imposta dal podestà imperiale Arnoldo di Dorstadt, detto Barbavaria. Nel 1167 la città, economicamente prostrata, aderì alla Lega Lombarda e dopo la vittoria su Federico I Barbarossa fu sede dei preliminari della pace di Costanza, sottoscritti nella basilica di S. Antonino il 30 aprile 1183. Il Comune acquisiva quindi diritti sui castelli del contado, sul ponte, sul porto e sul passaggio del Po a scapito dei diritti di altri enti ecclesiastici - nel 1162 con il vicario imperiale Barbavaria e con l'accordo del 1180 -, attivava una politica di controllo sulle strade commerciali che si dipartivano dalla città e promuoveva una nuova fiera periodica nel settore nordoccidentale. La crescita della città, soprattutto verso E e O, motivava un ampliamento delle mura, promosso nel 1218 dal podestà Guido da Busto, e l'apertura di due nuove porte di Pozzo Fulberto a E e di Strata Levata a O, che si aggiungevano alle sei porte, o sestieri, già esistenti: da N a S porta Gariverta, Nuova, S. Antonino, S. Lorenzo, S. Brigida, Mediolanense. Per fronteggiare la minaccia di Federico II, il sistema difensivo fu completato dal podestà Ranieri Zeno nel 1236 (Giovanni Musso, Chronicon Placentinum; RIS, XVI, 1730, col. 463) lungo un perimetro che si mantenne fino all'età viscontea: dal bastione di S. Sisto e S. Tommaso scendeva verso l'od. cantone Val Verde, si sviluppava lungo viale Malta, Venturini e lo stradone Farnese, risaliva verso le vie Caccialupo, Neve, Tibini, piegava verso via Benedettine, cantone Camicia e quindi verso S. Sisto.Sulla base delle porte erano riscossi gli estimi alla fine del sec. 12°, ma agli inizi del 13° le vicinanze, raggruppamenti di cittadini attorno alla chiesa, diventavano importanti sul piano amministrativo. Nel 1179 la concio popolare fu trasportata dalla piazza di S. Antonino a quella della cattedrale (Giovanni Codagnello, Annales Placentini; MGH. SS, XVIII, 1863, p. 412), ma non si sa dove fosse ubicato l'antico palazzo Comunale, mentre il collegio della Mercanzia si trovava sulla piazza del Borgo. Nel corso del Duecento all'antagonismo tra milites e populares si sovrappose lo scontro tra partito guelfo e ghibellino, che vide gli esponenti della nobiltà terriera e del ceto artigianale e mercantile schierati su fronti opposti con posizioni di volta in volta connesse agli accadimenti interni e alle vicende politiche generali. Le lotte cittadine, messe a tacere dalla minaccia di Federico II, si riaccesero dopo il 1250, con esiti nefasti per l'ordinamento comunale. Tra il 1253 e il 1257 e poi tra il 1261 e il 1266 la podestaria perpetua fu assegnata a Oberto Pallavicino, vicario imperiale e figura eminente del ghibellinismo padano, e al suo vicario Ubertino Landi, che aveva saldamente costruito il suo potere personale sia nel contesto urbano sia sul territorio.In seguito alla chiamata di Carlo d'Angiò, le sorti del partito ghibellino vacillarono; tra il 1266 e il 1267 Oberto Pallavacino e Ubertino Landi lasciarono P. e il Comune restò nelle mani dei capi guelfi. Con la dedizione della città nel 1271, Carlo d'Angiò ottenne la designazione di una rosa di otto candidati alla podestaria e del capitano della Società dei mercanti e dei paratici, che conquistavano attraverso tale magistratura il governo di P. e nel contempo ricevevano dal re importanti concessioni commerciali. La pacificazione tra il Comune guelfo e Ubertino Landi si concretizzò anche grazie alla mediazione di Tebaldo Visconti, dal 1272 papa Gregorio X.In questo contesto si attuarono importanti interventi sul tessuto edilizio cittadino. Se i Domenicani, a P. dal 1220, si erano stabiliti verso S-O in S. Giovanni in Canale e gli Agostiniani in S. Lorenzo a porta Nuova nel 1260, i Francescani - che si erano stanziati forse dal 1229 fuori dalle mura (Campi, 1651-1662, II, p. 139) - presero possesso di una vasta area centrale, donata nel 1278 da Ubertino Landi, presso S. Maria del Cairo, non senza la dura reazione dei parroci delle parrocchie contigue. Un nuovo nodo centrale dell'impianto urbano medievale venne sottolineato dall'erezione della chiesa dei Francescani e del palazzo Comunale, iniziato il 16 aprile 1281, che evidenziava concretamente la potenza del Comune e della Società dei mercanti e dei paratici; il coordinamento tra i due poli insediativi attraverso una grande piazza nel 1283 dava organico risalto al nuovo fulcro urbano. Mentre la Società dei mercanti e dei paratici rimaneva il centro propulsore dell'economia e del governo cittadino, al suo interno, e a spese delle strutture comunali, si consolidava il potere di Alberto I Scotti, rettore e signore generale di P. dal 1290; la sua contrapposizione ai Visconti e ai loro alleati ghibellini si concluse con la sconfitta dei Piacentini e con la definitiva sottomissione ai Visconti nel 1313. L'assoggettamento ai Visconti comportò l'attuazione di operazioni fortificatorie sull'organismo urbano fin dal 1313, anno in cui Galeazzo I iniziò la costruzione della cittadella vegia a N, mentre tra il 1320 e il 1340, attorno alla piazza Grande venne eretto un perimetro murato, dotato di tre soli varchi, 'portoni di piazza'; nel 1337 Azzone costruì il castello di S. Antonino a S, Galeazzo II la cittadella di Stra' Levada (1367-1373) a O e a N la rocca Viscontea (1373), connessa alla cittadella vegia.

Architettura

Può essere ascritta ai decenni intorno al Mille la cripta della chiesa di S. Margherita, ubicata nel settore occidentale di P. tra i due poli insediativi altomedievali del borgo a S e di S. Sisto a N. La scansione in tre navate di tre campate si attua attraverso sostegni non omogenei, approntati con materiale di provenienza anche romana, cui si lega un sistema di copertura misto, volte a crociera a O e al centro e volte a botte longitudinali più basse, raccordate ai sostegni da penetrazioni, quasi a configurare un corridoio trasversale che ricorda cripte altomedievali, come S. Felice di Pavia. La coesione della compagine architettonica viene comunque recuperata attraverso l'uniforme imposta delle volte e la connessione tra l'elevazione delle botti orientali e dei sottarchi delle volte a crociera. Se la cripta di S. Margherita configura una fase importante della sperimentazione in atto in area padana sulle cripte a oratorio agli inizi del sec. 11°, l'estensione dello sviluppo della cripta non solo all'ambito corrispondente alle navate laterali, ma anche alla campata antistante il coro, si documenta nella cripta di S. Dalmazio, che evidenzia al confronto con le cripte landolfiane del Piemonte una scansione più unitaria delle prime due campate occidentali e ricava, insieme con la chiesa, un utile riferimento cronologico dalla citazione in un documento del 1040, relativo a donazioni di Ariberto da Intimiano all'abbazia di Tolla.Nella rielaborazione della chiesa di S. Antonino, avviata dal vescovo Sigifredo (997-1031), le tre navate, ritmate da piloni circolari, si connettono a un corpo trasversale occidentale, preceduto da una campata quadrata e contrassegnato da una torre nolare ottagonale, impostata sulla campata d'incrocio. Se alcuni elementi morfologici e tecnico-costruttivi rinviano al contesto padano dei primi decenni del sec. 11°, l'accentuazione del settore occidentale si può riferire a paralleli esiti del contesto ottoniano, come il St. Pantaleon di Colonia, anche se il confronto evidenzia la propensione, tipica del contesto padano, a declinare l'eccezionale orchestrazione spaziale occidentale solo a livello del piano terreno, mentre le sporadiche testimonianze padane di torri nolari occidentali risultano in genere connesse a una cupola e prive di sostegni intermedi. L'articolata compagine occidentale prevale sul corpo longitudinale, nel quale non era prevista l'introduzione di una cripta né di sostegni a sezione complessa, come a Lomello (prov. Pavia) e ad Acqui (prov. Alessandria): era quindi la decorazione ad affresco a modificare profondamente l'assetto della navata centrale nella prospettiva di una stratificata e allusiva amplificazione della spazialità interna.Una piena ed esplicita declinazione del lessico architettonico e della spazialità romanica si evidenzia nella chiesa di S. Eufemia, consacrata nel 1107 dal vescovo Aldo al ritorno dalla crociata: la conferma viene dall'introduzione di pilastri articolati dislocati in sequenza alternata in relazione al sistema voltato, mentre la raffinata elaborazione del paramento murario si affida ancora in misura esclusiva all'utilizzo di materiale laterizio; soltanto nel portico a tre campate, aggregato alla facciata intorno al 1120, si segnala l'impiego di materiale lapideo, accuratamente apparecchiato, per la configurazione del dettaglio architettonico.L'innesto tra la pietra e il mattone caratterizza anche il cantiere della basilica extramuranea di S. Savino, consacrata dal vescovo Aldo nel 1107, nella quale le connessioni con la basilica di S. Ambrogio di Milano sono evidenziate dall'impostazione planimetrica tripartita, scandita da pilastri articolati in successione alternata, e dalla tipologia delle grandi volte ad andamento cupoliforme, segnate da costoloni rettangolari in corrispondenza della seconda e terza campata della navata centrale. Nella chiesa si conserva un capitello di grande qualità, corredato da un'iscrizione che ricorda come l'opera sia stata finanziata dai bubulci (mandriani). Si tratta di una concreta testimonianza per la determinazione delle forme di finanziamento del cantiere, da correlare ai rilievi della cattedrale con le raffigurazioni degli artigiani - calzolai, merciaioli, carradori, conciaioli, fornai, cordovanieri (produttori di calzature), tintori (individuati da un tintore Ugo) - che segnalano la committenza del sostegno corrispondente. Alla prima campagna costruttiva della cattedrale, iniziata secondo un'iscrizione perduta nel 1122 e presumibilmente continuata fino alla metà del secolo, si fa risalire il corpo longitudinale tripartito da pilastri cilindrici, resi alterni dall'aggregazione di salienti semicircolari, e caratterizzato da uno straordinario slancio verticale, correlato a moduli dell'architettura anglonormanna; se infatti i possenti piloni possono ricordare i precedenti locali di Vigolo Marchese, di S. Antonino e quelli di S. Abbondio di Como, più stringente risulta la connessione con i sostegni di abbazie inglesi, come Gloucester e Tewkesbury (Romanini, 1954, trad. it. p. 31).La prima fase costruttiva potrebbe avere interessato la navata centrale fino all'imposta degli archi trasversali, la navata minore settentrionale e le prime due campate di quella meridionale. L'impostazione unitaria dell'intero edificio sembra suggerita anche dalla decorazione plastica, che presenta congruenti risoluzioni nel settore orientale e occidentale. Dei tre portali della facciata, muniti di protiro a due livelli e articolati con un respiro monumentale che presuppone le esperienze modenesi, quello centrale è pesantemente integrato dai restauri, mentre nei laterali è stata registrata la presenza di una maestranza nonantolana e di Nicolò, attento alla ripresa di modelli francesi; a livello delle tribune superiori dei protiri si evidenzia un cambiamento della muratura, correlabile al cambiamento della scansione a profilo spezzato e a salienti della facciata. Anche l'innesto di intere figure sull'insieme delle modanature architettoniche, specie nelle finestre absidali, esplicita in forme autonome la connessione con l'ambito francese. Alla prima fase costruttiva appartiene anche la torre campanaria settentrionale, fino alla cornice di gronda del cleristorio; è stata ipotizzata la pertinenza a questa prima campagna costruttiva di un transetto non emergente, corrispondente alla settima e ottava campata nord, le cui volte presentano un'altezza intermedia tra la navata centrale e le laterali. Durante la seconda campagna costruttiva, corrispondente al terzo quarto del sec. 12°, l'impianto del transetto, tripartito per l'estensione verso E ed emergente di una campata, avrebbe ricevuto uno sviluppo 'a sala', mentre si andavano concludendo anche la navata sud, con capitelli dei piloni e dei semipilastri dalla modulazione più sottilmente incisa, e la navata centrale.La conoscenza di moduli costruttivi della prima fase della cattedrale si evidenzia nella chiesa di S. Ilario - a navata unica absidata e facciata con galleria di coronamento, simile a quella del coro della cattedrale - e nella chiesa di S. Matteo, dipendenza dei Canonici regolari di Santa Croce di Mortara (prov. Pavia), con articolazione alternata dei sostegni e del sistema voltato (Romanini, 1951, pp. 86-87). Se nel corpo longitudinale tripartito in scansione uniforme della chiesa di S. Brigida si esplicitano cadenze vicine alle testimonianze pavesi del tardo sec. 12°, il riferimento ai moduli costruttivi della cattedrale sembra incidere ancora agli inizi del sec. 13° sull'impianto basilicale della chiesa di S. Donnino, consacrata nel 1236 dal cardinale Jacopo da Pecorara, legato pontificio e tenace avversario di Federico II, maestro di Tebaldo Visconti, una delle figure più significative del primo Duecento.L'ultima fase costruttiva della cattedrale si può correlare all'episcopato di Grimerio da Porta (1202-1215) e può ritenersi conclusa entro il 1235, con la realizzazione delle campate del transetto, articolate in alzato basilicale, con la modificazione delle finestre della navata centrale, l'approntamento delle trifore del falso matroneo, delle volte esapartite, connesse a muri rampanti, e del tiburio sulla campata d'incrocio e il proseguimento della costruzione del campanile, dotato di cuspide soltanto nel 1333. Si tratta di complessi congegni costruttivi che sperimentano soluzioni strutturali e decorative dei grandi cantieri gotici dell'Ile-de-France e della Champagne, ma rivelano in parallelo la conoscenza di risoluzioni presenti a Fidenza e al S. Andrea di Vercelli con esiti fortemente caratterizzati: nel caso della cupola, se l'impostazione delle lunette archiacute rimanda, come a Vercelli, al battistero di Parma, la declinazione della doppia galleria, ispirata anche dalla cattedrale di Laon, è risolta a P. attraverso una serrata concatenazione delle membrature architettoniche e con un verticalismo più accentuato che a Vercelli.La chiesa domenicana di S. Giovanni in Canale, uno degli esempi più precoci e significativi dell'architettura mendicante in Italia settentrionale, fu eretta tra il quarto decennio del sec. 13° e il 1270 ca.; è tripartita da piloni circolari e scandita secondo la successione di campate orientali più ampie voltate a crociera, con costoloni torici e a salita tendenzialmente piatta, e di campate occidentali più contratte coperte a capriate; la giunzione è contrassegnata da pilastri ottagonali. L'aggregazione di due nuclei diversamente strutturati si concretizza secondo cadenze unitarie tipiche dell'architettura mendicante: lo slancio verticale dei sostegni e il ritmo ascensionale delle arcate, sottilmente incise dall'alternanza cromatica, sono connessi secondo una ritmica unificante e secondo dinamiche linee di forza di sostanza gotica. Le volte a salita piatta su costoloni torici di media grandezza, stretti al centro da chiavi in pietra non debordanti, ricordano quelle del battistero di Varese, ma risultano anteriori a quelle delle navate di S. Maria di Brera e del transetto sud di S. Marco a Milano. Per la precocità e il carattere fortemente innovativo della struttura architettonica, la chiesa è ricordata come edificio preminente negli studi indirizzati al riconoscimento di programmi edilizi e di tipologie costruttive di ambito domenicano e francescano. Nella bipartizione del vano chiesastico, con sistema di copertura differenziato, si sono trovati riferimenti ai primi edifici mendicanti nati dall'aggregazione a un nucleo chiesastico preesistente, ma anche alle disposizioni statutarie, sia domenicane sia francescane, che riservavano la copertura a volte alla zona del coro. Entro gli schemi fortemente innovativi dell'architettura mendicante, con echi di chiese tedesche vestfaliche, viene rivitalizzato e trasfigurato un tessuto architettonico sostanzialmente lombardo e piacentino, così come si era configurato nel tardo sec. 12° attraverso la scansione in tre navate a sistema uniforme, con sostegni cilindrici, presenti nelle chiese degli Umiliati e dei Francescani, ma anche nella cattedrale piacentina e in chiese dell'11° secolo.Nel palazzo Comunale, c.d. palazzo Gotico, la struttura a loggia terrena aperta e grande aula superiore viene rivitalizzata con accenti di schietto sapore gotico nella sequenza tagliente delle arcate acute del piano terreno, connesse a pilastri quadrangolari attraverso semplici cornici modanate. L'accentuato slancio verticale della zona inferiore è bilanciato dalla sovrastante modulazione parietale in cotto, quasi per intero declinata attraverso l'impaginatura delle ampie polifore, legata all'ambito lombardo; ma precise rispondenze con l'edilizia religiosa locale si evidenziano nelle connessioni tra il rosone del lato nord e quello del settore centrale della facciata del duomo, conclusa nel Trecento, o la finestra 'a ruota' del c.d. paradiso di S. Antonino.Il lascito testamentario di Ubertino Landi del 1278 consentiva ai Francescani di costruire la chiesa e il convento di S. Francesco in una zona centrale compresa nella parrocchia di S. Maria del Cairo, ma l'opposizione dei rettori delle chiese contigue richiedeva l'intervento di Nicolò III nel 1280 e di Nicolò IV nel 1288. Se l'iscrizione sepolcrale del 1294 potrebbe essere indicativa di una prima fase costruttiva, la consacrazione della chiesa nel 1365 risulta significativa del protrarsi della fabbrica nel corso del Trecento, come sembrerebbe suggerire del resto la data 1386 dipinta sulla terza volta della navata centrale. La chiesa è scandita in tre navate a sistema uniforme da piloni cilindrici, mentre pilastri ottagonali segnano, in corrispondenza della quinta campata, la connessione con un transetto non emergente; lo svolgimento del coro ad ambulacro e cappelle radiali viene declinato con un procedimento riduttivo attraverso il contenimento di quattro cappelle entro i limiti del corpo longitudinale, mentre all'esterno deambulatorio e navatelle sono raccordati al settore centrale da archi rampanti con salita quasi rettilinea, tipici del contesto lombardo. La traduzione di tale impianto, già sperimentato nelle chiese di S. Francesco di Bologna, di S. Lorenzo di Napoli e nella chiesa del Santo a Padova, si concretizza attraverso l'utilizzo di un linguaggio figurativo locale, ben evidente nella sequenza dei piloni cilindrici, che, pur largamente utilizzati in area padana nel corso del Duecento, sono presenti a P. da S. Antonino al duomo fino a S. Giovanni in Canale, con la significativa coincidenza dell'alternanza dei pilastri ottagonali nel settore orientale. Sopra le arcate longitudinali, l'articolazione parietale compone, per ogni campata, la successione di una finestra cieca, due monofore e un oculo, mentre le volte a crociera si connettono a salienti articolati in cinque membrature a E e a tre elementi a O. Segnali di una prima fase costruttiva a E si evidenziano nella conformazione delle chiavi di volta non debordanti delle prime due campate orientali e, all'esterno, nella formulazione del fregio. Il riferimento alla tradizione del Gotico regionale lombardo si evidenzia nella formulazione della facciata a vento, che ripropone, senza precisi riferimenti alla spazialità interna e con accenti di spiccato verticalismo, moduli già presenti nella facciata di S. Francesco a Brescia.Se l'arrivo dei Carmelitani viene tradizionalmente collocato al 1270 (Campi, 1651-1662, II, p. 220) e si documenta nel 1276 (Pancotti, 1935, p. XIX), le prime notizie della costruzione della chiesa del Carmine si pongono intorno al 1305 (Cerri, 1924, p. 37), e si dipanano nel corso del Trecento (Campi, 1651-1662, III, pp. 47, 75), mentre un'epigrafe del 1695 menziona l'erezione nel 1334 (Pancotti, 1935, p. XXIX). La chiesa è scandita in tre navate secondo la successione uniforme di cinque campate, centrali quadrate e laterali rettangolari, coperte da volte a crociera archiacute a salita piatta; sulla quinta campata lo sviluppo di un transetto, evidenziato attraverso l'imposta unitaria delle volte, ma non emergente in pianta, introduce una campata di coro quadrata, fiancheggiata lateralmente da due basse campatelle. Benché parzialmente occultata dai rifacimenti barocchi, l'armonica articolazione della compagine architettonica si esplicita nel tracciato planimetrico, memore di S. Francesco, e viene ribadita dalla concatenata e unitaria scansione dell'alzato attraverso l'innalzamento dell'imposta delle volte minori e la conseguente contrazione del diaframma murario, come in coeve testimonianze di area cremonese.Nella chiesa di S. Lorenzo, concessa agli Agostiniani dalla famiglia Landi e consacrata nel 1333 (Giovanni Musso, Chronicon Placentinum; RIS, XVI, 1730, col. 496), lo stesso compatto impianto del Carmine si connette a un'unitaria imposta del sistema voltato e all'abolizione del diaframma murario tra le navate, secondo la tipologia delle Hallenkirchen, come nella chiesa di S. Anna, riedificata nel 1334 dai Serviti sull'area della chiesa di S. Maria in Betlem e del successivo convento degli Umiliati: la limpida scansione dello spazio interno è sottolineata dalle linee taglienti dei sostegni cilindrici e dal profilo tagliente delle arcate acute. Nel coro quadrato, alle profilature dinamiche della struttura fa da contrappunto l'individuazione cromatica della parete su cui si proiettano pensili le crociere o si applicano all'esterno robusti contrafforti. Sia a S. Lorenzo sia a S. Anna l'organica partizione della facciata a capanna di tradizione lombarda è scandita da contrafforti mediani, a terminazione piramidale, e laterali, conclusi da pinnacoli, da un rosone e da due bifore, come in ambito cremonese e lodigiano.L'attività di Pietro Vago, ricordato tra il 1329 e il 1358, si lega alla costruzione del c.d. portico del paradiso, addossato al portale nord del transetto di S. Antonino intorno al 1350, come ricorda un'iscrizione; la fronte occidentale del portico, di pianta quadrata, è solcata da un monumentale arco acuto, serrato tra poderosi contrafforti di ispirazione transalpina, rastremati all'altezza della chiave dell'arcata e connessi a pinnacoli, mentre lateralmente la parete è segnata dal risalto dei contrafforti. In vibrante contrasto con i risalti angolari della fronte occidentale, la superficie parietale è comunque animata da moduli tipici del contesto piacentino e cremonese in corrispondenza del rosone, della cornice terminale ad archetti intrecciati, delle guglie.Gli ultimi episodi dell'architettura gotica a P. si identificano nella cappella quadrata dei Dottori, aggregata al transetto nord del duomo tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento - la sua costruzione potrebbe essere connessa al fatto che lo studium piacentino fu soprattutto fiorente tra il 1398 e il 1402, quando vi fu trasferito lo studium pavese - e nella chiesa dei frati Agostiniani Ospedalieri di s. Antonio, ad aula unica di tre campate, eretta in due fasi costruttive tra il 1361 e lo scadere del secolo.

Scultura

Non sono documentate a P. sculture altomedievali, neppure reimpiegate in edifici più tardi, e soltanto nella cripta di S. Savino si possono identificare due capitelli a tronco di piramide rovesciata e smussi angolari, secondo una tipologia diffusa dall'Alto Medioevo al sec. 11°: potrebbero provenire dalla chiesa ricostruita dal vescovo Sigifredo intorno al Mille. Nei capitelli della cripta, ma soprattutto in quelli della chiesa, i legami con il contesto lombardo, evidenti sia nel repertorio figurale sia nell'organizzazione compositiva, si precisano nella direzione di una più stringente commistione tra elementi vegetali e zoomorfi, declinati in genere in una scansione più fitta rispetto alle testimonianze milanesi, ma in alcuni esempi, come in quello corredato dell'iscrizione dei bubulci, con una più raffinata elaborazione plastica. Nei capitelli del portico della chiesa di S. Eufemia si concretizza il contatto con maestranze di estrazione modenese, come in quelli con le protomi barbate, o cremonese, nel capitello con le sirene, ma si ravvisano anche precisi riferimenti al contesto nicoliano.Nella facciata della cattedrale si evidenzia la connessione tra la tipologia del protiro a doppio ordine, derivato dal portale della Pescheria nel duomo modenese, e la scansione strombata dei piedritti e dell'archivolto, già presente nelle testimonianze lombarde, segnando un deciso distacco dalla conformazione degli stipiti figurati di tradizione emiliana. In facciata, nel portale laterale sinistro, risultano attive maestranze legate alle fasi avanzate del cantiere wiligelmico, forse provenienti dal portale nonantoliano; nell'architrave, con scene dell'Infanzia di Cristo, l'impostazione solenne, contenuta entro il ritmo delle archeggiature, si adatta alla plasticità salda, memore di esempi modenesi e nonantolani, mentre nel S. Giovanni Battista della fronte del protiro già si individua la mano di Nicolò.Nel portale laterale destro, decorato in corrispondenza dell'architrave con la Presentazione al Tempio, la Fuga in Egitto, il Battesimo e le Tentazioni di Cristo, i modi di Nicolò sono evidenti nella scansione del racconto, più libera dalla sequenza delle archeggiature, nella vivacità dei gesti, nel panneggio più mosso, nella modulazione plastica più graduata, anche per l'utilizzo del trapano, nelle iscrizioni che corredano le sculture; una di esse ritorna in un verso inciso sugli stipiti della porta dello Zodiaco alla Sacra di San Michele (prov. Torino). Al di là delle integrazioni di restauro, la scansione a cordonature multiple, modulate in sequenza replicata nei piedritti e nell'archivolto del portale centrale, anticipa risoluzioni riprese, attraverso più complesse elaborazioni, nei portali di Ferrara e Verona, nei portali del transetto della stessa cattedrale e in esempi del contado. Sulla fronte del protiro, i rilievi dell'archivolto, con la rappresentazione della volta celeste governata dalla mano di Dio benedicente, rivelano moduli di matrice wiligelmica, ma anche, soprattutto nel settore destro, risoluzioni di sostanza nicoliana. È possibile che la maestranza wiligelmica e quella nicoliana abbiano lavorato contemporaneamente, ma si può anche pensare alla collocazione successiva di pezzi scolpiti a opera di Nicolò, che potrebbe avere guidato il completamento dei portali.Nell'apparato plastico interno, se i due capitelli della controfacciata, specialmente quello con la Lotta di Davide e Golia, rivelano cadenze nicoliane, i capitelli dei primi cinque semipilastri settentrionali presentano un'articolazione plastica complessa, che è stata ascritta all'ambito delle maestranze nicoliane (Quintavalle, 1991, pp. 238, 247) o wiligelmiche del portale laterale sinistro (Lomartire, 1991, p. 215), mentre è connessa ai modi nicoliani la vivace propensione narrativa dei primi due capitelli dei semipilastri meridionali, dei semipilastri prossimi all'innesto del transetto, sia a N sia a S, e in qualche misura anche di quelli del coro. Nei rilievi della finestra absidale - l'arcangelo, la Vergine e i profeti Balaam e Isaia - e nella statua-colonna della galleria nord del presbiterio, echi della scultura protogotica dell'Ile-de-France si riflettono sullo stile tardo di Nicolò, suggerendo una datazione intorno alla metà del 12° secolo.Le esperienze legate alla ripresa del cantiere della cattedrale sono state unitariamente considerate con la denominazione di scuola di P., in relazione al generale radicamento al patrimonio figurativo locale e alla semplificazione e irrigidimento - Reduktionsstil, secondo Krautheimer Hess (1928) - di moduli stilistici sostanzialmente legati alle esperienze wiligelmiche e nicoliane, ma anche aperti a influssi dell'Ile-de-France (Jullian, 1945-1949, I, pp. 66, 179-185) o della Provenza. Al di là del consolidarsi delle masse plastiche in forme rigide e squadrate, tendenze e accenti diversi e significative disomogeneità qualitative (Cochetti Pratesi, 1973) coesistono anche in opere aggregate alle stesse membrature architettoniche, esplicitando di fatto tendenze stilistiche differenziate, attraverso risoluzioni formali più articolate e aperte o più rigide e compatte, più vicine alla tradizione romanica. Si tratta della Vergine, quattro sante e cinque profeti sopra le arcate della cattedrale di P., di due profeti (Piacenza, Mus. Civ.), di due pezzi frammentari (Francoforte sul Meno, Liebieghaus); mentre attorno ai rilievi del portale di S. Antonino, iniziato nel 1172 secondo gli Annales Placentini di Giovanni Codagnello (Porter, 1917, pp. 256-259), sono raccolti i rilievi degli Artieri, quelli del portale del braccio meridionale del transetto, l'architrave con l'Adorazione dell'Agnello, proveniente dalla chiesa di S. Matteo, e la lunetta da S. Stefano (Piacenza, Mus. Civ.).Nell'impianto monumentale del crocifisso ligneo di S. Savino, memore dei crocifissi metallici ottoniani - si può far riferimento anche al crocifisso della cattedrale di S. Evasio a Casale Monferrato del 1170 ca. - la stilizzazione anatomica si integrava con finiture policrome, che incidevano la volumetria compatta e potevano motivare rinvii alle croci dipinte della seconda metà del 12° secolo.Tra le scarse testimonianze plastiche duecentesche vanno ricordati l'angelo del c.d palazzo Gotico e la Madonna con il Bambino, pertinente in origine alla chiesa di S. Maria de Bigolis, demolita per la configurazione della piazza antistante il c.d. palazzo Gotico, sulla cui fronte la statua (ora al Mus. Civ.) venne inserita. Se nella figura dell'angelo le tangenze con la cultura antelamica trovano significative rispondenze nell'angelo del transetto nord del duomo di Cremona, il rigido impianto della Vergine, di derivazione antelamica, si stempera nella ricezione di moduli francesizzanti, evidenti nella modulazione morbida del viso. Per il crocifisso di S. Brigida, l'ascrizione al tardo sec. 13° è stata suggerita (Cochetti Pratesi, 1984, p. 664) da confronti con il Cristo della Crocifissione della pieve di Montone, con quello di S. Antonio a Pescia (prov. Pistoia) o dell'Arciconfraternita di San Miniato (prov. Pisa) o con la statua di S. Bovo (Bologna, Mus. di S. Stefano).Assai frammentarie risultano anche le testimonianze plastiche trecentesche, per lo più connesse alle configurazioni di monumenti sepolcrali; i tre più significativi sono conservati nella chiesa di S. Giovanni in Canale. L'apparato plastico è utilizzato per la determinazione del dettaglio architettonico nel sepolcro della facciata della chiesa abbaziale cistercense di Chiaravalle della Colomba (prov. P.): sul sarcofago a cassa, decorato con motivi di derivazione paleocristiana, come in quello di Guglielmo Longhi a S. Maria Maggiore a Bergamo, anteriore al 1319, poggiano due coppie di colonnine binate con capitelli e mensole fogliate, su cui si imposta un'arcata acuta a ghiere multiple, di sapore pienamente gotico, mentre sul fondo della parete affiora un affresco assai guasto con una figura aureolata e benedicente.Lo stesso impianto e temi decorativi molto simili ritornano nel sepolcro Guadagnabene del chiostro di S. Giovanni in Canale del 1365, che conserva sul fondo tracce di un affresco con la Vergine e il Bambino, mentre qualche variante significativa è introdotta nel sepolcro Arcelli, aderente alla controfacciata, per lo slancio delle colonne e per la conformazione trilobata delle due arcate sovrastanti. Del sepolcro Scotti rimane il sarcofago a cassa con copertura a capanna e acroteri cubici; sulla fronte, entro la sequenza di cinque arcate trilobate su colonnine, sono raffigurati la Vergine con il Bambino e due figure genuflesse e i Ss. Pietro, Paolo, Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, sui lati a sinistra due angeli e a destra Cristo tra due angeli, mentre sullo spiovente anteriore campeggia un cavaliere con il falcone tra alberi con lo stemma degli Scotti; è accettata l'ipotesi che il monumento sia stato eseguito per Alberto I Scotti (m. nel 1318). Se la cassa marmorea con copertura a due spioventi e acroteri richiama il contesto lombardo, pur senza la figura giacente del defunto - come nell'arca di Ottone Visconti del duomo di Milano e nel sarcofago Maggi del duomo vecchio di Brescia -, la possibile presenza di un supporto a colonne, la sequenza delle figure entro arcate e la modulazione plastica, qualitativamente più alta in corrispondenza delle antefisse, possono richiamare opere di ambito veneto della prima metà del Trecento, quali la Vergine tra i ss. Pietro e Paolo all'esterno dell'abside di S. Polo a Venezia, i due pannelli dell'Annunciazione nella cripta dell'abbazia di S. Maria in Sylvis a Sesto al Réghena (prov. Pordenone), il paliotto di S. Maria in Organo a Verona.

Pittura e miniatura

Nessun frammento pittorico altomedievale si conserva a P., ma si ha notizia della donazione di Angilberga al monastero di S. Sisto di un salterio con pagine di porpora e lettere d'oro e d'argento, eseguito in un centro della Francia occidentale nell'827.La più antica testimonianza della pittura monumentale a P. si identifica negli affreschi della chiesa di S. Antonino, conservati sulle pareti finestrate della navata centrale. Al di sotto della fascia a meandro complesso, arcate e cuspidi su colonne, alternate secondo una ritmica ternaria alla reale sequenza delle finestre, configurano un loggiato dipinto entro il quale sono campite figure di profeti - un'iscrizione identifica Osea - e forse di re dell'Antico Testamento; nei bracci nord e sud del transetto una fascia decorativa ad arcate pensili includenti busti e corone segnava l'attacco della copertura lignea, come nella chiesa abbaziale di Sezzadio (prov. Alessandria) e nel duomo di Aosta. La rigorosa intelaiatura compositiva richiama, anche in termini di dilatata amplificazione dello spazio interno, il battistero del duomo di Novara, mentre l'alternanza di arcate e cuspidi, rara nel corso del sec. 11°, si può riferire a lontani precedenti, quali il battistero ravennate degli Ortodossi, o al complemento pittorico del battistero di Poitiers o alla mediazione di un testo miniato.Se è sicuramente vincolante per gli affreschi piacentini il riferimento alla pittura lombarda della prima metà del sec. 11° e al contesto ottoniano a essa correlato, la trama cromatica e luministica appare meno contrastata rispetto a S. Vincenzo a Galliano (prov. Como) e segue un percorso più unitario e disegnativo, anche se ricco di sedimenti pittorici, in confronto a Novara. D'altra parte, rispetto ad affreschi nei quali si registra l'incidenza consistente dell'influsso bizantino - quali i volti dei patriarchi nel S. Michele di Oleggio (prov. Novara), Mosè e Aronne di S. Calogero e Abramo di S. Pietro al Monte, entrambi a Civate (prov. Lecco) -, persuasive affinità tipologiche fanno emergere anche una trama cromatica più fusa e sottolineature meno incise del percorso lineare. Il confronto con gli affreschi, probabilmente precedenti, di Vigolo Marchese (prov. P.) evidenzia qualche coincidenza nella morbida sottigliezza di tratti, quasi disegnativa, ma nel contempo segnala una cronologia dilazionata almeno verso la metà del sec. 11° o poco oltre; va comunque considerata la possibilità di legare alcuni volti della controfacciata a una maestranza diversa o a una fase decorativa successiva, verso la quale orientano gli affreschi della fronte occidentale della stessa parete, probabilmente eseguiti in concomitanza con una rielaborazione della campata occidentale, forse connessa al portale meridionale del 1172. Entro un loggiato, il Cristo Giudice, con la Vergine e s. Giovanni, è affiancato dalle schiere angeliche e dai ventiquattro vegliardi dell'Apocalisse; nel registro sottostante gli apostoli sono seduti ai lati dell'Etimasia e sovrastano la raffigurazione dei dannati. La ripresa dell'intelaiatura compositiva della navata si affida ad accentuazioni del tracciato disegnativo, evidente nella modulazione più complicata del panneggio, vicina ad affreschi del pieno sec. 12°, per es. le figure di santi seduti di S. Giorgio in Borgovico, nei pressi di Como.Nella campata sottostante il campanile di S. Savino, la scena dell'Annunciazione della parete meridionale propone un impianto che ricorda quello dell'Annunciazione nella chiesa di S. Maria di Sorengo (Canton Ticino) e della Presentazione al Tempio nel S. Michele di Oleggio; il riferimento a Oleggio può valere anche sul piano stilistico per la formulazione tondeggiante dei volti e la trama semplificata dei panneggi, ancora ricca di sedimenti pittorici e luministici, che evidenziano un filone di continuità con la cultura del sec. 11°; sulla parete occidentale una scena frammentaria potrebbe riferirsi alla Pentecoste o all'Ascensione.Come nel S. Michele di Pavia, il mosaico pavimentale del presbiterio di S. Savino è articolato in stretta connessione con la struttura architettonica. Il cerchio centrale dell'Anno, che regge le raffigurazioni del Sole e della Luna, è contenuto in un cerchio esterno con animali affrontati, afferrato da quattro figure e retto da Atlante; nei quattro riquadri laterali a sinistra si affrontano due guerrieri e tre figure giocano a dadi, a destra una figura di iudex è genuflessa davanti a un'altra figura incoronata di rex e al di sotto si vedono due giocatori di scacchi. Le raffigurazioni simboliche, forse riferibili alle Virtù e alla Fortuna, si dispongono armonicamente entro la salda intelaiatura compositiva, evidenziando nel contempo spunti di vivace e spontanea immediatezza narrativa, affidati al tracciato di un duttile linearismo, che può consentire il riferimento all'ambito delle miniature del Codice Magno (Piacenza, Bibl. Capitolare, 65). Una datazione verso il primo venticinquennio del sec. 12° sembra suggerire anche il confronto con il re del mosaico della chiesa abbaziale di Saint-Bertin a Saint-Omer, del 1109.Nella cripta di S. Savino, clipei con la raffigurazione dei Mesi, accostati al corrispondente segno zodiacale, sono campiti su di uno sfondo marino con pesci, una sirena e un tritone, mentre sul bordo occidentale, a scene di combattimento segue la rappresentazione della Vergine con l'unicorno. Il confronto con la sequenza compositiva nel duomo di Aosta evidenzia un impianto costruttivo più sicuro, e il rinvio al mosaico del presbiterio mostra una matrice stilistica molto simile, ma un plasticismo più elementare anche rispetto ai mosaici bobbiesi.Il citato Codice Magno, detto anche Liber Magistri, ricava un sicuro termine ante quem dalla data 1142, il più antico riferimento dell'obituario, con un accenno a una donazione fondiaria ad libros faciendos, e contiene un riferimento alla donazione di Maria campanaria dell'oro per il codice; risulta importante in relazione alla tradizione religiosa locale, ma anche a temi scolastici e scientifici, soprattutto nella sezione astronomico-computistica iniziale. È ornato da numerose miniature con le raffigurazioni dei Mesi e dei segni dello Zodiaco, scene bibliche dalla Creazione del mondo alla Natività di Cristo, scene pertinenti alla vita dei santi e al Nuovo Testamento, strumenti musicali e le personificazioni degli otto toni musicali. Il linguaggio figurativo del codice può richiamare alcune miniature spagnole, ma soprattutto i mosaici di S. Savino e di S. Colombano di Bobbio, la plastica postwiligelmica e nicoliana (Quintavalle, 1963, pp. 24-25). Se echi del Codice Magno sono presenti nel più tardo messale (Piacenza, Bibl. Capitolare, 42), contatti con la miniatura francese compaiono nella Bibbia in due volumi (Piacenza, Bibl. Capitolare, 68-69), con la miniatura nonantolana e modenese in un manoscritto degli inizi del sec. 13° (Piacenza, Bibl. Capitolare, 44), con la miniatura bolognese in un altro manoscritto del tardo sec. 13° (Piacenza, Bibl. Capitolare, 32).Tra gli scarsi esempi duecenteschi della pittura monumentale si possono citare la figura di S. Cristoforo nel duomo e gli affreschi di S. Giovanni in Canale con il Cristo e santi entro un loggiato ad arcate e colonne, che possono essere ascritti allo scadere del secolo e avvicinati agli affreschi della cappella di S. Francesco nella omonima chiesa pavese.La testimonianza più importante della pittura trecentesca a P. è rappresentata dagli affreschi della chiesa di S. Lorenzo (Piacenza, Mus. Civ.); allo stesso ambito culturale appartiene l'affresco con la Vergine e il Bambino del transetto sud della cattedrale, che evidenzia comunque una trama cromatica e luministica più chiaroscurata. Nell'abside sinistra di S. Lorenzo, l'Annunciazione, la Crocifissione e il Battesimo di Cristo sono accostati a episodi della Vita di Daniele, mentre nella cappella di S. Caterina sono raffigurate Storie della santa; se si potesse identificare questa cappella con la 'cappella grande' ricordata nel testamento di Oberto Landi, del 1374, si potrebbe ricavare da tale data un termine post quem. Le esili quinte architettoniche, la calligrafia preziosa degli sfondi, le fisionomie dei volti, la sottile articolazione delle vesti ricordano affreschi tardotrecenteschi del duomo - Battesimo e due Madonne in trono sulla fronte della cripta - e di S. Francesco di Lodi - Madonna del secondo pilastro di destra, Nozze mistiche di s. Caterina sull'arcata della cappella di S. Bernardino, S. Elena e S. Caterina del quinto e settimo pilastro destro - e la Presentazione al Tempio di S. Francesco a Pavia. La raffinata cultura degli affreschi piacentini presuppone anche la conoscenza delle miniature attribuite a Giovannino de Grassi nell'offiziolo Visconti di Modrone (Firenze, Bibl. Naz., B.R. 397).

Bibl.:

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