PIANO-SEQUENZA

Enciclopedia del Cinema (2020)

Piano-sequenza

Elena Dagrada

La parola

L’espressione plan-séquence nacque in Francia intorno al 1949, quando André Bazin*, scrivendo la prima edizione del suo volumetto dedicato a Orson Welles, pubblicato nel 1950, per cogliere appieno il linguaggio e lo stile del grande regista avvertì la necessità di coniare un termine nuovo. La riprese qualche tempo dopo in alcuni importanti saggi, quindi nella seconda edizione del suo libro sul cineasta statunitense, scritta nel 1958 poco prima di morire, e pubblicata postuma nel 1972. La traduzione italiana letterale di plan-séquence è ‘inquadratura-sequenza’ ed evoca in modo efficace l’idea di un’inquadratura che coincide con la durata di una sequenza, ossia l’idea di una sequenza interamente composta da una sola inquadratura, cioè da un solo piano (dal francese plan).

Proprio questo è il significato che è stato infine assunto dall’espressione. Inizialmente, però, Bazin attribuì al termine un significato più complesso, inscindibile dalla sua riflessione sull’evoluzione del linguaggio cinematografico dovuta all’utilizzo della profondità di campo. Lo introdusse, infatti, per mettere a fuoco un’idea di regia – in particolare quella di Orson Welles – volta a privilegiare la rappresentazione di un’azione in un’unica inquadratura, anziché la sua segmentazione in più inquadrature attraverso il montaggio, come avveniva nel cosiddetto découpage classico. L’autore pone così l’accento sull’importanza del piano unico (dell’inquadratura unica) e della sua composizione, più che su cosa si debba intendere per sequenza. Tanto che nelle sue riflessioni insiste sempre sulla centralità del découpage in profondità di tale piano, ma usa indistintamente i termini sequenza, scena, azione, episodio, come fossero altrettanti sinonimi; e nel volume su Orson Welles fa due soli esempi, diversamente significativi.

Il primo, tratto da The magnificent Ambersons (1942; L’orgoglio degli Amberson) consiste nella conversazione in cucina tra George e zia Fanny: una lunga sequenza interamente composta da una sola inquadratura dove secondo Bazin si snodano un’azione ‘reale’ (zia Fanny vuole dal nipote informazioni sull’uomo che ama, ma senza darlo a vedere), e un’azione ‘pretesto’ o ‘apparente’ (George si ingozza di torta alla crema e zia Fanny lo esorta ad aggiungere altro zucchero). In questo modo, invece di frammentare la scena in diverse inquadrature, Welles opta per una lunga ripresa continua in profondità di campo, realizzando un p.-s. dove la tensione tra l’azione reale e l’azione pretesto si fa progressivamente intollerabile, fino a esplodere nella crisi di nervi di zia Fanny senza che un solo stacco di montaggio si intrometta mai tra il crescendo della tensione e l’oggettiva continuità della sua durata.

L’altro esempio, tratto da Citizen Kane (1941; Quarto potere), consiste nel tentato suicidio di Susan. Anche qui Bazin pone l’accento sull’unitarietà della composizione che, grazie alla profondità di campo, è in grado di riunire al suo interno tutti gli elementi significativi dell’evento rappresentato. In un’unica inquadratura si vedono infatti in primo piano un bicchiere, un cucchiaino e una boccetta di farmaci; dietro al bicchiere si intravede il letto di Susan, immerso in una zona d’ombra da cui giungono rantoli indistinti; sul fondo spicca la porta della stanza, da cui provengono colpi insistenti, finché Kane abbatte la porta e si precipita verso il letto della moglie.

A definire con maggior precisione ciò che si intende per sequenza – e conseguentemente per p.-s. – sarebbero stati pochi anni dopo gli studi di semiologia del cinema e narratologia filmica. Fu Christian Metz*, in particolare in un saggio del 1966 intitolato La grande syntagmatique du film narratif, ampiamente rivisto due anni dopo nel primo volume degli Essais sur la signification au cinéma, a individuare una tipologia dei principali modelli di sequenza (da Metz chiamati inizialmente sintagmi filmici) strettamente connessi alla dimensione narrativa del film e a definire il p.-s. come particolare tipo di ‘sintagma autonomo’, un’unità narrativa relativamente compiuta, composta da una sola inquadratura, che può non essere concepita in profondità di campo ma deve essere, a tutti gli effetti, una sequenza (un sintagma). Diversamente da Bazin, infatti, Metz esclude dalla sua riflessione sul p.-s. ogni considerazione sulla profondità di campo, e si preoccupa di formularne una precisa definizione formale. Ma in sintonia con Bazin, anche Metz coglie nel p.-s. una componente specificamente legata all’evoluzione del linguaggio e alla modernità cinematografica. E poiché, al fine di predisporre una verifica concreta della tipologia proposta, integra il suo studio con un’analisi descrittiva del film Adieu Philippine (1963; Desideri nel sole) di Jacques Rozier, scelto anche in quanto caratteristico del movimento della Nouvelle Vague, vi individua la presenza di un numero rilevante di p.-s., che interpreta come un elemento di modernità tipico del nuovo cinema.

Ampiamente semplificato e divulgato nel corso degli anni dai suoi numerosi seguaci, lo studio di Metz è rimasto alla base della definizione di sequenza intesa come unità narrativa compiuta che gode di una relativa autonomia nell’insieme della trama di un film, nonché dei principali tipi di sequenza fra cui il p.-s., a sua volta inteso come unità formale, come sequenza realizzata in una sola inquadratura. Perciò, con il progressivo imporsi e perfezionarsi della pratica dell’analisi filmica, per p.-s. si intende ormai un’intera sequenza composta da una sola inquadratura, e non un semplice episodio, o parte di un’azione, realizzato mediante un’inquadratura unica, sia essa più o meno lunga, elaborata o strutturata in profondità.

La forma

Se si conosce con precisione la data di nascita della locuzione piano-sequenza, più problematico è stabilire il momento in cui compare la forma che tale locuzione è chiamata a designare. Agli albori della storia del cinema il modello di découpage caratterizzato dalla frammentazione del montaggio analitico non sussisteva e ogni film era composto unicamente da una o più vedute autonome. Secondo Bazin, tuttavia, interpretare retroattivamente ciascuna di quelle vedute come altrettanti p.-s. sarebbe fuorviante, poiché all’epoca mancavano le condizioni per la scelta o il superamento di un modello differente di messa in scena. La realizzazione di un p.-s. presuppone infatti una consapevole scelta di regia, alternativa a quella comunemente adottata nell’ambito del cosiddetto cinema classico. Esso non rappresenta dunque un ritorno alla veduta fissa e unica del cinema delle origini, bensì incarna un progresso della regia; non rinuncia al montaggio, ma lo integra nella plasticità dell’immagine, nella complessità dell’inquadratura, secondo uno sviluppo dialettico che fa proprie le conquiste del linguaggio cinematografico fino alle soglie degli anni Quaranta.

Bazin non vide in Welles l’unico promotore di questa evoluzione. In un celebre saggio dal titolo L’évolution du language cinématographique distingue due approcci alla regia uno dei quali, tra l’altro, trascurerebbe il montaggio per privilegiare il rispetto della continuità dello spazio drammatico, nonché della sua durata. E colloca in questa tendenza registi attivi negli anni Venti come Friedrich W. Murnau, Eric von Stroheim o Robert J. Flaherty, che privilegiano a volte la ripresa continua, oltre a far uso della profondità di campo. Se perciò si deve attendere la codificazione del découpage classico per poter parlare di p.-s. come scelta di regia alternativa, già dagli anni Venti è possibile rintracciare registi che al montaggio analitico preferiscono a volte il rispetto della continuità spazio-temporale, persino a Hollywood. E se esiste una preistoria del p.-s., essa è da individuare nella storia della ripresa continua, o dell’inquadratura lunga – ciò che gli americani chiamano long take –, talvolta arricchita da elaborati movimenti di macchina e dal ricorso alla profondità di campo, come scelta di regia diversa da quella dominata dal montaggio analitico. Una storia che incrociò presto sul suo percorso intere sequenze realizzate in inquadrature uniche – cioè, veri p.-s.–, come accade per es. agli albori del sonoro in Scarface, noto anche come Scarface, shame of a nation (1932; Scarface – Lo sfregiato), che inizia con un bellissimo p.-s. di oltre tre minuti, in cui il regista Howard Hawks ricorre sia a un lungo movimento di macchina per seguire i personaggi nello spazio, sia, per qualche secondo, alla profondità di campo, per mostrare da lontano l’arrivo dell’assassino.

Fu però indubbiamente con l’avvento della modernità e dei suoi più originali precursori che il p.-s. si impose in tutta la sua forza. E se è relativamente raro, tranne che in quei registi che lo praticano con sistematica lucidità, come Jean-Luc Godard o Theo Anghelopulos (molto più numerosi sono infatti i maestri del long take, come Bernardo Bertolucci, Sergio Leone o lo stesso Anghelopulos), esempi di grande suggestione si trovano lungo tutti gli anni Quaranta. Nel cinema di Welles, dove irrompe con prepotenza in The magnificent Ambersons; in quello dei suoi immediati ammiratori, come Robert Siodmak che in The killers (1946; I gangsters) riecheggia Citizen Kane e realizza un p.-s. capace di osservare dall’alto lo svolgimento di un’intera rapina; o ancora in quello di Luchino Visconti, che in La terra trema (1948) sperimenta il p.-s. in chiave classica. Negli anni Cinquanta uno dei casi più celebri è quello ideato in Cronaca di un amore (1950) da Michelangelo Antonioni, che, grazie alla collocazione strategica della macchina da presa sul ponte dove si incontrano i due protagonisti, riesce a cogliere nel suo insieme la complessità della situazione rappresentata, sia sul piano spaziale sia su quello emotivo e personale. Ma anche Roberto Rossellini estremizza la sua tendenza alla ripresa continua realizzando alcuni p.-s. in La paura (1955), o Max Ophuls, per es. in La ronde (1950; La ronde – Il piacere e l’amore), Le plaisir (1952; Il piacere) o Lola Montès (1955). Finché negli anni Sessanta il p.-s. fu usato in tutta la sua carica trasgressiva dalla Nouvelle Vague, divenendo la figura della modernità per eccellenza.

Fu soprattutto Godard a sperimentarne le possibilità, sin da À bout de souffle (1960; Fino all’ultimo respiro) dove alterna sequenze dominate da un montaggio ipersegmentato a lunghi p.-s. di cui riesce a mostrare le variabili infinite: ne realizza di fissi, con i personaggi che entrano ed escono fuori campo continuamente; in movimento, con carrelli frontali che accompagnano i protagonisti mentre camminano per strada; o, ancora, con sinuosi movimenti laterali, che dei personaggi anticipano gli spostamenti, anche all’interno di spazi esigui. E in quasi tutta la sua prima produzione riassunse la lezione degli autori più amati dalla sua generazione, come Alfred Hitchcock, che sondò le possibilità estreme della ripresa continua in Rope (1948; Nodo alla gola o Cocktail per un cadavere) o in Under Capricorn (1949; Sotto il Capricorno o Il peccato di Lady Considine); o nuovamente come Welles, che scelse di iniziare Touch of Evil (1958; L’infernale Quinlan) con un folgorante p.-s. che attraversa il confine tra Messico e Stati Uniti – ma anche tra Bene e Male – in un’unica inquadratura che s’interrompe bruscamente con l’esplosione di un’automobile. Tra i registi vicini alla Nouvelle vague che hanno sperimentato le possibilità del p.-s. va almeno ricordato anche Jean Rouch, il quale in Gare du Nord (1965) – episodio di Paris vu par… – ne realizzò uno di circa sedici minuti che narra in continuità assoluta i dissidi di una giovane coppia e il suicidio di un uomo.

Negli anni Sessanta e Settanta furono numerosi i registi esponenti del nuovo cinema seguaci di questa sperimentazione; tra tutti, da ricordare Miklós Jancsó e i suoi Szegénylegények (1964; I disperati di Sandor), Scillagosok katonák (1967; L’armata a cavallo), Még kér a nép (1971; Salmo rosso). Ma, sempre nel corso degli anni Settanta, la lezione di Godard appare viva anche in Woody Allen, che in Manhattan (1979) alterna lunghi p.-s. a sequenze segmentate e dominate dallo stacco netto. Mentre in chiave più riflessiva si trovano esempi di p.-s. in De la nuée à la Résistance, noto anche come Dalla nube alla Resistenza (1979) di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; o ancora in O thiasos (1975; La recita) di Anghelopulos, regista che ha fatto del p.-s. e del long take la sua cifra stilistica (si veda anche Topio stin omichli, 1988, Paesaggio nella nebbia).

Negli anni Ottanta l’eredità della Nouvelle Vague ha continuato a sopravvivere nel cinema di Wim Wenders, che in Chambre 666 (1982) accumula un p.-s. dopo l’altro. Ma il rinnovato virtuosismo tecnologico di Hollywood ha preso ormai il sopravvento, e grazie al perfezionamento, tra l’altro, della steadycam, a partire dagli anni Novanta è divenuto sempre più possibile vedere p.-s. di mirabile fattura, meno sperimentali e più visionari, destrutturati e complessi. Fra i tanti, da ricordare quelli in Goodfellas (1990; Quei bravi ragazzi) di Martin Scorsese; The player (1992; I protagonisti) o Prêt-à-Porter (1994) di Robert Altman; o Snake eyes (1998; Omicidio in diretta) di Brian De Palma.

La teoria

Molti e diversi sono i motivi per i quali i cineasti hanno fatto e fanno ancora uso del p.-s.; tutti riconducibili a un aspetto comune: restituire sullo schermo la complessità della visione.

Già Bazin vedeva nel p.-s. in profondità di campo un procedimento ‘realista’, nel senso non di mera riproduzione del reale, bensì di restituzione della sua complessità e ambiguità. Il p.-s. restituisce infatti allo spettatore la continuità percettiva del reale, unitamente alla sua imprescindibile ambivalenza semantica. Inoltre per Bazin l’adesione del p.-s. alla continuità spazio-temporale di un evento si rivela un procedimento che mette lo spettatore in difficoltà, costringendolo a scegliere cosa guardare, e cosa inevitabilmente non guardare. Quindi si rivela un procedimento moderno in quanto problematizza il rapporto tra visione e spettatore richiedendo a quest’ultimo un atteggiamento mentale più attivo.

Di diverso interesse, ma egualmente riconducibile alla problematica della complessità della visione, è l’interpretazione di Pier Paolo Pasolini*. Nel saggio del 1967 Osservazioni sul piano-sequenza, egli sottolinea a sua volta la coincidenza tra la continuità spazio-temporale di un p.-s. e la rappresentazione della realtà, intesa come adesione a un evento nel suo esistere al tempo presente. Ma per Pasolini la restituzione di questa realtà in un p.-s. può essere solo l’equivalente di una soggettiva, in quanto l’assenza di montaggio presupposta dal p.-s. costituisce per il regista l’adesione obbligata a un unico punto di vista soggettivo, in quanto tale parziale e impreciso. E benché sia sempre la realtà che vi si esprime, con i suoi mezzi che per Pasolini sono quelli del «linguaggio dell’azione», essa si esprime sempre e solo in rapporto a qualcuno, aderendo appunto alla sua parzialità e alla sua incompiutezza. Pasolini compie così un passo ulteriore verso la problematizzazione della visione ottenuta mediante il p.-s.: se per Bazin vedere tutto equivale a vedere male, almeno in un primo tempo, paradossalmente per Pasolini equivale a vedere in modo parziale, soggettivo, senza poter accedere al senso imposto alle immagini dall’ordinamento logico del montaggio.

Solo Metz e i suoi discepoli, influenzati dal marchio di modernità che la Nouvelle Vague ha impresso al p.-s., inizialmente insistono soprattutto sull’aspetto trasgressivo del procedimento, sulla ribellione alla norma che presuppone. Ma presto ne colgono a loro volta tutta la ricchezza e la complessità, che cresce con il tempo e con il cinema che ne fa uso, esaltando ancora una volta ambiguità e complessità della visione, insieme con le potenzialità creative della macchina da presa.

BIBLIOGRAFIA

A. Bazin, Orson Welles, Paris 1950, 1972² (trad. it. Trento, 2005).

A. Bazin, Pour en finir avec la profondeur de champ, in “Cahiers du cinéma”, 1951, 3, pp. 17-23 (trad. it. in La pelle e l’anima. Intorno alla Nouvelle Vague, a cura di G. Grignaffini, Firenze 1984, pp. 4-8; ora in Il cinema secondo la Nouvelle Vague, a c. di Giovanna Grignaffini, Trento, 2006, pp. 19-24).

A. Bazin, L’évolution du langage cinématographique, in Qu’est-ce que le cinéma?, 1, Paris 1958 (trad. it. Milano 1973, 1986², pp. 74-83).

Ch. Metz, La grande syntagmatique du film narratif, in “Communications”, 1966, 8 (riveduto e ampliato in Essais sur la signification au cinéma I, Paris 1968; trad. it. Semiologia del cinema, Milano 1972).

P.P. Pasolini, Osservazioni sul pianosequenza, in Empirismo eretico, Milano 1972, pp. 237-41.

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