CESI, Pier Donato

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 24 (1980)

CESI, Pier Donato

Agostino Borromeo

Nacque, non si sa se a Roma o a Todi, da Venanzio Chiappino e Filippa Uffreduzzi.

Intorno alla data di nascita sussiste qualche incertezza: mentre l'iscrizione sepolcrale in S. Maria della Vallicella lo dice morto nel 1586 all'età di sessantaquattro anni, appare invece da documenti concistoriali che nel 1546 aveva compiuto il ventiseiesimo anno. La maggior parte degli autori, comunque, ignora quest'ultima fonte ed assume perciò come data di nascita il 1522.

Dopo aver studiato a Perugia, Bologna e Pavia, il 24 maggio 1544 il C. conseguì, sotto la guida del celebre Andrea Alciato, la laurea inutroque iure nell'università di Ferrara. Terminati gli studi, si recò a Roma, ove venne accolto nel palazzo di un cugino di suo padre, il cardinale Federico Cesi. È probabile che alla protezione dell'influente congiunto egli dovesse la nomina alla sede episcopale di Narni, avvenuta nel concistoro del 25 giugno 1546: dato però che non raggiungeva ancora l'età prescritta, la provvisione pontificia lo pose a capo della diocesi in qualità di amministratore fino al compimento del ventisettesimo anno.

In che data A C. divenisse vescovo titolare non è noto: è certo però che la sua consacrazione episcopale avvenne prima del febbraio 1547 perché alla fine di quel mese egli giunse a Trento per prendere parte al concilio. Come quella di numerosi altri vescovi italiani, la sua partecipazione ai lavori dell'assise ecumenica fu puramente nominale, cosa del resto comprensibile se si tiene conto della sua formazione prevalentemente giuridica e della sua inesperienza in campo pastorale. Gli stessi motivi spiegano la brevità del suo soggiorno a Trento: dopo avere presenziato alle sessioni sesta e settima, il 9 marzo chiedeva licenza di assentarsi e, sebbene il 27 aprile successivo una lettera dei legati gli intimasse di venire a Bologna, ove nel frattempo si era trasferita l'assemblea, non risulta che il C. abbia più preso parte ai lavori del concilio, nemmeno nelle sue ultime fasi.

Tra il 1547 e il 1550 si perdono le sue tracce: sembra da escludere che dopo la partenza da Trento il C. si fosse recato nella sua diocesi, perché nulla attesta che egli vi abbia mai risieduto, né che si sia mai interessato ai problemi della sua Chiesa. È probabile piuttosto che avesse fatto ritorno a Roma, ove lo troviamo nel gennaio 1550, all'epoca del conclave dal quale dovevi uscire eletto Giulio III. Il nuovo papa, pochi giorni dopo la propria esaltazione al soglio pontificio, lo nominava coadiutore del cardinale Federico Cesi nella carica di sommista delle lettere apostoliche. Né questo sarebbe stato l'unico favore accordato da Giulio III al C., perché due giorni più tardi il papa gli conferiva il beneficio di S. Ippolito nella diocesi di Todi ed in quello stesso anno lo nominava referendario utriusque Signaturae. Alle rendite ricavate da questi uffici si sarebbero aggiunte più tardi quelle provenienti dalla commenda dell'abbazia benedettina di S. Maria in Val di Ponte, cedutagli con riserva dei frutti dal cardinale Federico, e quella dell'abbazia di S. Maria di Cerreto.

Gli esordi del C. nell'amministrazione dello Stato pontificio avvennero sotto il pontificato di Paolo IV con la nomina a presidente di Romagna, avvenuta il 17 sett. 1556. I due anni e mezzo del suo governo vengono ricordati dagli storici locali per le iniziative prese nel campo dei lavori pubblici, specialmente a Ravenna, ove fece eseguire il dragaggio del fossato, allora fonte di epidemie, nonché il restauro e l'abbellimento di alcuni edifici.

La grata che egli lasciò del suo operato è testimoniata da due lapidi a Faenza ed a Ravenna; i cittadini di quest'ultima vollero inoltre ascriverlo al patriziato della città: essi, del resto, conserveranno a lungo il suo ricordo, come attesta, nel 1584, il conferimento del titolo di protettore di Ravenna.

Agli inizi del 1559 veniva casualmente scoperta la serie di abusi e di malversazioni che i Carafa, profittando della fiducia del papa, avevano commesso a Roma e nello Stato pontificio. Paolo IV, che ne era rimasto fino a quel momento all'oscuro, dopo avere privato i nipoti di tutte le cariche, sottopose il loro operato ad inchiesta: nel quadro del provvedimento, il C. fu inviato a Bologna, ove il cardinale Carlo Carafa aveva ricoperto la carica di legato, per svolgervi le indagini in veste di commissario apostolico.

L'inchiesta si rivelò subito difficile anche perché, nel giugno successivo, dovette essere estesa ad alcuni testimoni imputati di essersi lasciati subornare e di avere dichiarato il falso. Sembra che il modo di procedere del C. sollevasse le proteste delle vittime dei Carafa, le quali ottennero che la causa fosse trasferita a Roma: fatto sta che di lì a pochi mesi, anche il C. faceva ritorno in Curia.

La sua assenza da Bologna doveva però essere di breve durata: morto Paolo IV nell'agosto 1559, Pio IV, asceso al soglio pontificio il 25 dicembre successivo, nell'aprile del 1560 nominava il cardinal nipote Carlo Borromeo legato a Bologna, affiancandogli il C. nella carica di vicelegato (11 apr. 1560). Dato che le gravose responsabilità affidate da Pio IV al nipote non consentirono mai a questo di risiedere a Bologna, tutto il peso del governo della legazione ricadde sul vicelegato. Il C. ebbe così modo di mettere in luce quelle doti di fermezza di carattere, di abilità e di efficienza che gli avrebbero aperto poi la via alle successive tappe della sua carriera ecclesiastica.

Il suo nome rimane legato alla storia di Bologna soprattutto per le grandiose opere di edilizia, di urbanismo e di decoro artistico che egli promosse durante il suo governo. La creazione della fontana del Nettuno con la celebre statua del Giambologna e la sistemazione dell'omonima piazza, l'abbellimento del palazzo del governo, l'innalzamento delle facciate del palazzo dei Banchi e dell'ospedale della Morte, il raggruppamento delle macellerie in tre apposite strutture edilizie e l'apertura di una strada, nota più tardi come via Urbana, sono testimonianza, oltre che di un non comune spirito d'iniziativa, di quella passione per le belle architetture e di quel fine gusto artistico che compaiono, anche successivamente, come tratti caratterizzanti della personalità del Cesi. Ma l'opera, di maggior rilievo, da lui ideata e portata a compimento, fu la costruzione del maestoso fabbricato delle Scuole Nuove, noto come l'Archiginnasio.

Fino agli inizi del XVI sec., le scuole dello Studio bolognese erano rimaste disperse in vari luoghi della città; soltanto nel 1520 le autorità cittadine avevano deciso di riunire i legisti e gli "artisti" in appositi locali presi in affitto. L'idea del C. di raccogliere le scuole in un unico edificio rispondeva perciò alla duplice esigenza di porre rimedio a una deficienza organizzativa e, nel contempo, di dotare l'università di una sede degna della sua fama. Ma essa veniva anche incontro alla necessità di esercitare un più attento controllo su docenti e studenti e sull'attività scientifica in generale: esigenza, questa, particolarmente sentita dall'autorità pontificia nel clima dell'incipiente Controriforma. Sin dal marzo 1561 il C. aveva ottenuto dal pontefice un breve che lo autorizzava a prelevare i fondi necessari alla nuova costruzione sui residui attivi della gabella grossa e sulle somme ricavate dalla soppressione della cattedre mutili. Vinta l'opposizione delle autorità locali, che non vedevano di buon occhio l'imposizione di una spesa giudicata non necessaria nel marzo 1562 il C. faceva dare inizio ai lavori. Essi venivano portati a termine a tempo di primato: la nuova sede dell'università, opera dell'architetto Antonio Terribilia, era solennemente inaugurata il 21 ott. 1563. Si apriva così una nuova era per lo Studio bolognese, anche perché il C. si era preoccupato di chiamarvi docenti di chiara fama quali il filosofo Federico Pendasio, lo storico Carlo Sigonio, il giurista Giovanni Angelo-Papio. Fu per il tramite di quest'ultimo che il vicelegato - il quale amava circondarsi di letterati e di uomini di cultura - prese sotto la propria protezione il giovane Tasso, il cui Rinaldo cominciava allora ad essere conosciuto. Protezione che nel 1564 valse a sottrarre il poeta alla condanna in un fastidioso processo intentatogli per una pasquinata di cui la voce pubblica lo faceva autore.

Nel gennaio 1564 Pio IV decise di sopprimere tutte le legazioni: il C. veniva però confermato a Bologna con titolo di governatore. Egli comunque non rimase a lungo nella carica, perché il 5 gennaio 1565 era sostituito da F. Grassi. Rientrato a Roma, il papa lo nominò alla carica prelatizia di chierico di Camera, concedendogli la ritenzione del vescovato (23 marzo 1565). A questa carica si sarebbe aggiunto poi l'ufficio di sommista vacato dopo la morte del cardinale Federico Cesi, avvenuta il 28 genn. 1565. L'inosservanza da parte del C. delle norme tridentine sulla residenza dei vescovi non poteva però durare a lungo, dopo che a Pio IV era succeduto il più rigoroso Pio V: posto dinnanzi all'alternativa di recarsi nella sua diocesi o di dimettersi, il C. preferì rinunciare al seggio episcopale in favore del fratello Romolo (5 luglio 1566). Il papa gli consentì comunque di conservare il titolo di vescovo di Narni, titolo con il quale compare infatti nei documenti successivi fino al 1570.

Le forzate dimissioni del C. non implicavano la sfiducia del pontefice nei suoi confronti, perché esse rientravano nell'ambito di provvedimenti generali ispirati dallo zelo riformatore di Pio V. Del resto, il papa doveva di lì a poco confermare la propria stima nel C., affidandogli una delicata missione diplomatica.

Sin dall'inizio del suo pontificato, Pio V aveva mostrato di nutrire - serie preoccupazioni per il deteriorarsi della situazione interna francese: ma la notizia della congiura di Amboise e del conseguente riaccendersi delle lotte civili e religiose, giunta a Roma nella prima metà dell'ottobre 1567, convinse il papa della necessità di intervenire decisamente a favore della monarchia francese. Il rilevante impegno finanziario che ciò supponeva lo indusse però a cercare la collaborazione degli Stati cattolici, ai quali vennero inviati straordinari. Nel quadro di questa azione diplomatica, il C. fu incaricato, nel novembre, di svolgere una missione presso i principi italiani; veniva nominato commissario apostolico e collettore generale a Bologna per la raccolta di un sussidio straordinario da destinare al medesimo scopo.

Le istruzioni date al C. sono illuminanti circa le concezioni politiche di Pio V; le argomentazioni sulle quali il nunzio straordinario deve far leva sono principalmente due. Innanzitutto, egli deve porre in risalto come la sicurezza dello Stato sia legata alla difesa dell'ortodossia; quindi, sottolineare che, sotto questo profilo, gli interessi dei principi cattolici sono coincidenti, motivo per cui essi debbono soccorrersi vicendevolmente contro il nemico comune rappresentato dall'eresia.

La missione del C. si risolse sostanzialmente in un fallimento: se la riscossione del sussidio a Bologna aveva fruttato l'ingente somma di 160.000 scudi, per contro l'appello del papa ai principi italiani era stato raccolto soltanto da Cosimo I di Toscana, il quale si dichiarava disposto ad inviare in Francia mille fanti e cento cavalieri per sei mesi.

L'insuccesso della missione non ebbe ripercussioni sulla posizione del C.: già in occasione della promozione cardinalizia del 1568 la voce pubblica lo indicava come uno dei più probabili candidati alla porpora; questa gli fu invece concessa nella successiva promozione del 17 maggio 1570. L'innalzamento al cardinalato non comportò per lui la nomina a cariche importanti: alla fine del 1570 fece parte di una congregazione cardinitizia incaricata di deliberare sull'opportunità di inviare un nunzio straordinario in Francia; partecipò inoltre alle trattative tra S. Sede, Spagna e Repubblica veneta per la conclusione della lega contro il Turco e firmò, insieme ad altri quattro cardinali, la relativa capitolazione (20 maggio 1571).

All'apertura del conclave riunito alla morte di Pio V, il nome del C. figurava nella rosa dei papabili: la sua esperienza amministrativa, la sua nota energia, le cospicue aderenze della famiglia ne facevano uno dei membri più in vista del Sacro Collegio. Ciò malgrado, la sua candidatura cadde subito perché, sebbene sostenuta dal card. Bonelli - che nella sua veste di nipote del defunto pontefice guidava il gruppo dei cardinali di Pio V - e caldeggiata dal granduca di Toscana, non godeva dell'appoggio della fazione spagnola. Persa ogni speranza di successo, il C. si adoperò attivamente per l'elezione del cardinale Boncompagni, al quale procurò i voti determinanti del Bonelli e dei suoi seguaci: il 13 maggio 1572 al termine di un conclave durato meno di quarantott'ore, il Boncompagni veniva così innalzato al soglio pontificio con il nome di Gregorio XIII.

Nonostante la parte svolta nell'elezione del nuovo pontefice, il C. non occupò una posizione di particolare rilievo nel periodo successivo. Fino al 1580 egli continuò quella vita di cardinale di Curia che aveva condotto negli anni precedenti, specialmente dopo la nomina a membro delle Congregazioni Pecuniaria, dello Stato ecclesiastico e della Segnatura di grazia, nomine avvenute probabilmente all'inizio del pontificato, ma comunque prima del 1574. Solo verso la fine del regno di Gregorio XIII il C. ebbe un incarico importante: nel concistoro del 4, luglio 1580, infatti, il papa lo nominò legato a Bologna.

La recrudescenza del banditismo - piaga peraltro comune a tutto lo Stato pontificio - e la difficile situazione finanziaria richiedevano l'intervento di un uomo di polso quale era, per comune consenso, il Cesi. Nei tre anni della sua legazione egli si dedicò a reprimere il brigantaggio, a risanare le finanze locali (l'indebitamento era giunto a tal punto che, inizialmente, il cardinale dovette provvedere di tasca propria alle spese della legazione), a correggere gli abusi amministrativi e a tentare di sedare le lotte tra le fazioni cittadine. Particolarmente difficili si rivelarono i rapporti tra il legato ed il vescovo, poi arcivescovo, di Bologna G. Paleotti. Gregorio XIII per consentire al C. di far fronte alla difficile, situazione generale, ed in particolare al diffondersi del banditismo, gli aveva concesso, oltre ai poteri ordinari, speciali facoltà che gli consentivano di procedere direttamente contro i chierici e di avocare, in determinati casi, le cause ecclesiastiche al proprio tribunale. Ciò aveva suscitato le vibrate proteste del Paleotti, il quale si vedeva di fatto esautorato nell'esercizio della propria giurisdizione: i conflitti non nascevano, però, da ripicche personali perchè, come l'arcivescovo stesso ebbe a riconoscere, il C. era favorevole al mantenimento della giurisdizione arcivescovile, pur essendo costretto a scavalcarla in forza delle istruzioni che gli giungevano da Roma. In effetti, non si trattava di una questione di rapporti personali, ma di una vicenda che trascendeva il caso singolo per inquadrarsi in quel processo di centralizzazione cui il Papato aveva dato l'avvio: era fatale perció che nello scontro fosse l'arcivescovo a dover cedere.

Nel settembre del 1583, su propria richiesta, il C. venne sollevato dall'incarico e nei primi mesi del 1584 fece ritorno a Roma. L'iniziativa alla quale egli doveva dedicare negli ultimi anni le sue energie, e soprattutto le sue sostanze, fu l'opera di assistenza svolta a favore della Congregazione dell'Oratorio.

Sin dal 1580, gli oratoriani avevano fatto sondare il C. - del quale erano noti lo spirito benefico e la munificenza - per accertare se fosse disposto ad aiutare la giovane Congregazione filippina a dotarsi di una sede decorosa e adatta alle proprie esigenze. Nel dicembre del 1581, al termine di complesse trattative, il C. si assunse l'impegno di portare a termine la costruzione della nuova grande chiesa della Vallicella; successivamente comperò anche due immobili adiacenti alla chiesa per trasformarli in abitazione dei padri. Egli era intenzionato a spendere dai 30 ai 35.000 scudi, ma sopraggiunte difficoltà finanziarie - in quel momento era impegnato in altri lavori, le cui spese lo costringeranno a disfarsi di alcuni pezzi della sua collezione di antichità - ridurranno gli esborsi a favore della Congregazione alla somma complessiva di circa 10.000 scudi, ai quali si aggiungerà per testamento un legato di 8.000 scudi. Ciò malgrado, l'intervento del C. a favore dei filippini fu determinante: non solo perché si verificò in un momento in cui la Congregazione non era in grado di fare fronte a simili impegni, ma anche perché furono il suo senso estetico ed il suo gusto architettonico ad imprimere alla costruzione un carattere più solenne e grandioso di quanto non prevedessero i piani iniziali.

Nel 1585, in occasione del conclave dal quale doveva uscire eletto Sisto V, fu affacciata nuovamente la candidatura del C. alla tiara: ma, come già nel conclave precedente, e per gli stessi motivi, il tentativo fu subito abbandonato.

Il C. morì a Roma il 29 sett. 1586.

Sin dal 1573, aveva fatto disegnare dal Vasari - con il quale era da tempo in rapporti - un monumento funerario, probabilmente per la cappella Cesi di S. Maria Maggiore, che non fu però mai eseguito; ebbe invece sepoltura in S. Maria della Vallicella.

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