BRESCIANI, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 14 (1972)

BRESCIANI, Pietro

John A. Tedeschi

Le notizie in nostro possesso su questo medico ed eretico di Casalmaggiore (Cremona) sono desunte essenzialmente da documenti dell'Inquisizione.

Le fonti principali per la sua prima attività sono il Costituto e l'abiura da lui fatta davanti all'inquisitore di Bologna (del 18 genn. 1552 e del 10 aprile dello stesso anno), nonché il Memoriale presentato alle autorità milanesi alla fine del 1553 o all'inizio dell'anno successivo per perorare il suo perdono (Chabod, pp. 240-247). Da tali fonti apprendiamo che la conversione del B. alla fede protestante risale all'incirca al 1540, quando in Casalmaggiore, dopo aver ascoltato i sermoni di certo Marco Antonio francescano, "io, comenzai a credere la giustificazione al modo lutherano, cioè per la sola fede intesa al modo loro". E cominciò anche a credere "che non habiamo libero volere et arbitrio" e "le imagine essere soverchie della Giesia". Lesse opere di Lutero, Melantone e Calvino procurategli da due amici, anch'essi medici, e altri libri, quali le Prediche di Bernardino Ochino e Giulio da Milano, la Tragedia di Francesco Negri e il Pasquino di Celio Curione, tutti stampati intorno al 1546. Il B. credeva "li sacramenti della Chiesa essere sol dua, cioè il Baptesmo e la Cena del Signore, et questi essere sol segni et non conferir la gratia"; negava la reale presenza del corpo e del sangue di Cristo nel sacramento dell'altare; considerava il purgatono, le indulgenze, il culto dei santi, l'osservanza del digiuno e il celibato ecclesiastico come infamie e invenzioni della Chiesa. Per lui il papa era l'Anticristo e i preti agenti del diavolo: tutto ciò che poteva servire al cristiano per la sua vita spirituale era racchiuso nella Scrittura. Poco tempo dopo la sua conversione il B. si dette ad una attiva opera di proselitismo ("secretamente io persuadeva queste opinioni et heresie quanto io poteva"), e riuscì a riunire intorno a sé un piccolo gruppo di discepoli, per lo più medici e maestri di scuola. Di essi rivelerà, poi, i nomi nella sua confessione del 1552. Né il timore della galera, né le suppliche della madre, della moglie e degli amici riuscirono a fargli abbandonare la nuova fede.

All'inizio del 1547 l'autorità civile colpì il B. e il suo gruppo. Vennero imprigionati e torturati. Nell'estate di quell'anno il B. si trovava ancora in una prigione milanese: era stato frustato pubblicamente, aveva indossato il copricapo degli eretici incarcerati, era rimasto per mezza giornata incatenato alla "colonna infame", ed infine era stato condannato a scontare la pena a vita nelle galere.

Non siamo in grado di dire con precisione cosa accadde subito dopo: sembra che il B. riuscisse a evitare la pena ma non è chiaro in quale modo. Il Memoriale presentato in sua difesa nel 1553-54dichiara che egli, sebbene condannato alle galere, "fugì per sua sorte da quel suplicio". Anche una lettera di un ufficiale milanese al governatore di Milano, Ferrante Gonzaga parla del B. come di uno "fugito di galera". Non si può tuttavia escludere che un'altra circostanza possa essere intervenuta a salvarlo. Quest'ultima interpretazione è rafforzata da un documento. pubblicato dal Fumi, un atto del Senato milanese che assolveva il B. dai suoi crimini: in esso si stabiliva che, sebbene condannato alle galere nel 1547, il B. "supplicand vero, qui hereticus compertus non fuit, perpetuo exilio multatus fuit, ab universo dominio Mediolanensi sub pena perpetuarum triremium et alia etiam graviori arbitrio Senatus irroganda". Sembra, dunque, che la pena venisse commutata in quella del bando dal Milanese.Quale che sia stato il mezzo per evitare la pena, troviamo il B. qualche mese più tardi a diffondere temerariamente e apertamente le dottrine protestanti a Mirandola, Cremona e città vicine.

Ci forniscono notizie su questo breve periodo (sette mesi) l'abiura del B. e specialmente le numerose lettere scritte per la sua cattura da Alessandro Ungarese, fiscale dello Stato, a Francesco Taverna, gran cancelliere dello Stato di Milano, nonché al governatore Ferrante Gonzaga (tutte edite in Chabod). Nella prima lettera al Taverna (15 apr. 1548)l'Ungarese dichiarava che l'eretico aveva trovato dapprima rifugio "in una sua villa de Cremona, chiamata Spineda, dove ha la moglie e figliuoli"; poi era andato a Mirandola "dove predica e fa peggio che mai, e li putti lo seguitano, cridando per la terra, brusia, brusia el luterano; el medemo se crida de notte". La predicazione del B. era così efficace - lamentava l'Ungarese - "ch'el tira quasi tutta la terra in la sua heretica opinione". In una lettera successiva - del 6 maggio - l'Ungarese suggeriva al Gonzaga di procedere alla confisca della vasta proprietà del B. nel caso che questi persistesse nel rifiuto di comparire dinanzi alle autorità: "Ha qua (Casalmaggiore) robba per ottocento scuti e più, e in un altro luoco qua apresso sul Ctemonese assai robba anchora". Per avere una idea più esatta della consistenza della sua proprietà, egli si era recato dai due cugini del B. residenti in Spineda "per vedere anchora il testamento dil padre de esso Bressano". Alla fine, fallito ogni mezzo per catturarlo, l'Ungarese il 5 giugno annunciava al Gonzaga: "Hoggi ho fatto publicare la taglia di Pietro Bressano; e qua se gli è trovato uno capitano, che pratica alla Mirandola, che dice non passerà uno mese che sarà amazato". Ma non sarà così: il perseguitato eretico riuscì a fuggire e a trovare asilo nella protestante Valtellina.

Sappiamo che il B. era già in esilio all'inizio dell'inverno del 1548. La notizia ci viene da una strana compilazione pubblicata dal Fontana (p. XXXIV) dal titolo Eretici che erano in Ferrara al tempo di Madama Renea (cioèRenata di Francia). In essa si legge: "Pietro Bresciano da Casalmaggiore scrive longamente a Madama per lettera di 20 decembre del 48 data in Chiavenna". A Chiavenna, ove l'ex agostiniano Agostino Mainardo presiedeva una numerosa comunità di evangelici italiani, il B. si trovò ben presto al centro del primo serio scontro dottrinale tra Italiani di tendenza radicale e quelli fedeli all'ortodossia protestante. Senza esitazioni egli si schierò dalla parte di Camillo Renato e Francesco Negri contro il Mainardo, la cui linea direttiva consisteva nelradesione obbligatoria alla rigorosa confessione di fede da lui elaborata per la chiesa di Chiavenna. In una violenta lettera del 7 ag. 1549, indirizzata a Enrico Bullinger, ministro di Zurigo, il Minardo accusava il B. di aver pubblicamente ammesso il suo anabattismo ("palam diceret se noviter baptizatum fuisse") e di averlo calunniato chiamandolo falso ministro posseduto da spirito maligno. Questi violenti vaneggiamenti - scriveva il Mainardo - erano stati espressi a tavola in presenza di Pietro Paolo Vergerio e di molti altri. Dal momento in cui aveva ricevuto il nuovo battesimo - avrebbe dichiarato il B. esultando - egli aveva raggiunto una rinascita spirituale "nempe innovatum et spiritu Dei plenum".

Pochi anni dopo, nella sua abiura di fronte all'inquisitore di Bologna (1552), il B. negò di aver ricevuto un nuovo battesimo a Chiavenna, pur ammettendo che la sua avversione per i luterani gli aveva consentito di essere in rapporti amichevoli con gli anabattisti. Lo Chabod (p. 148) osserva che l'accusa del Mainardo secondo cui il B. aveva ricevuto un nuovo battesimo è più degna di fede delle dichiarazioni fatte dallo stesso B. all'inquisitore, dichiarazioni ovviamente intese a fornire una confessione apologetica. Quale che sia la verità, non v'è dubbio che il B., probabilmente influenzato da Camillo Renato, si era decisamente indirizzato verso uno spiritualismo mistico e si trovava quindi in una posizione che gli rendeva insopportabile la vita sotto le nuove ortodossie delle Chiese protestanti da poco istituite. Profondamente deluso e disperando di trovare in esilio "un paradiso de costumi et fede", decise di tornare in Italia. È interessante notare che durante la sua assenza la famiglia del B. aveva cercato di rendere possibile il suo eventuale rientro in patria impegnandosi con la "Cesarea Camera" a versarle 200 ducati per il suo perdono: ma il tentativo, portato avanti all'insaputa del B., era fallito.

Alla fine del 1549 o agli inizi dell'anno successivo il B. ritornò in Italia e si stabilì in casa di Camillo Orsini. Cominciarono subito i tentativi per fargli ottenere il perdono. Alla fine, dopo aver abiurato di fronte all'inquisitore di Bologna nella primavera del 1552, dopo che numerose suppliche erano state presentate in suo favore, e grazie all'influenza del suo potente protettore, il B. ottenne la grazia, probabilmente l'11 sett. 1554 (Chabod, p. 240 n. 4). Il Memoriale presentato in sua difesa nel 1553-54 assicurava le autorità milanesi che nel periodo del suo soggiorno in casa dell'Orsini egli visse cattolicamente. Senonché è proprio in questo periodo - tra il suo ritorno, cioè, dai Grigioni e la concessione del perdono - che il B. entrò a far parte di quel circolo di umanisti, mercanti e accademici che si raccoglieva a Ferrara intorno a Giorgio Siculo. giustiziato poi come eretico il 23 maggio 1551.

Nell'abiura del 1552 il B. ammise i suoi rapporti con il Siculo, ma li limitò a un solo incontro. Tuttavia detti rapporti, sui quali il B. sorvolava, sono ampiamente illustrati da numerosi documenti recentemente scoperti. Nel 1570 l'umanista ferrarese Nascimbene Nascimbeni, che, aveva già fatto abiura davanti all'Inquisizione nel 1550 e nel 1561, al fine di prevenire ulteriori persecuzioni presentò due memoriali all'inquisitore di Venezia - il 7 e il 12 gennaio - nei quali descriveva nei particolari la sua partecipazione al gruppo del Siculo avvenuta vent'anni prima. Il memoriale del 7 gennaio ricorda tra i complici del Siculo il B. e suo nipote Alessandro, i quali "allora erano in Ferrara in casa del Signor Camillo Orsino". Essi erano "disciplinati da Giorgio". Il secondo memoriale rivela che i membri del gruppo "lodavano la dottrina di Giorgio, pratticavano seco spesso, sempre lo desideravano, et alcuna volta meco raggionavano de qualche articolo preter sententiam S. Ecclesiae Romanae". Non si era trattato, dunque, di un solo "ragionamento" con il Siculo, come il B. aveva raccontato nel 1552, bensì di una prolungata e devota comunanza e di una piena accettazione dplle, suè profezie: "et il fine di questo negocio era l'aspettare la giustizia et spirito di santificazione in terra, sicome Giorgio havea detto dover venire". Dopo aver sperimentato prima e rifiutato poi gli insegnamenti di Roma e di Zurigo, il B., ormai deluso, aveva riposto la sua fede nelle profezie del persuasivo visionario.

L'esecuzione del Siculo, avvenuta in Ferrara nel 1551, lasciò privi di guida il B. e i suoi compagni. Sette anni più tardi - stando al secondo memoriale dei Nascimbeni - essi la trovarono in un monaco di nome Stefano che affermava di essere il messia. Il B. era una figura centrale del gruppo. Fu lui a liberare Stefano dal suo monastero di Brescia, nella villa del B. a Spineda Stefano fu portato, e fu il B. che venne designato a recare al re di Francia la richiesta di Stefano di un aiuto armato. Secondo il Nascimbeni - che non si era mai lasciato convincere dalla predicazione di Stefano - fu una lettera da lui indirizzata ai membri del circolo di Spineda che pose termine alla vicenda. In seguito il B. e molti altri lo ringraziarono per averli liberati dal demonio. Quattro anni dopo, nel 1561, il Nascimbeni e il B. si incontrarono a Venezia in piazza S. Marco; il B. gli raccontò che Stefano aveva reso alla fine piena confessione ammettendo che "si havea dato al diavolo in anima et in, capo, et che havea fatto a Satan un scritto col suo sangue, promettendogli di essere l'Anticristo". E a conclusione del racconto il Nascimbeni commentava: "Quanto sia vero, nol so, so bene che M. Pietro è huomo veridico, et che per questo fallo digiunò cinque dì et cinque notte senza mai mangiare".

Anche prima che l'Inquisizione veneziana acquisisse i due memoriali del Nascimbeni del 1570 - memoriali che illustrano chiaramente la piena adesione del B. alle eresie messianiche del Siculo e di Stefano - il medico di Casalmaggiore era di nuovo caduto in sospetto. Le notizie su questo periodo sono scarse. Sembra che nella seconda metà degli anni '60 il vescovo e inquisitore di Cremona facesse vari tentativi per forzare il B. a comparirgli davanti. Rifiutatosi di comparire adducendo pretesti di malattie e altre scuse, il B. venne alla fine colpito dalla pesante multa di 500 scudi. Vari tentativi di confiscare la sua proprietà furono resi vani dai familiari; sembra che il B. stesso evitasse la pena, forse fuggendo di nuovo al Nord in esilio. Secondo il Rivoire la questione della confisca della sua proprietà non era stata ancora sistemata nel 1581.

S'ignora la data di morte del Bresciani.

Fonti e Bibl.: Il Costituto e l'abiura fatta dal B. davanti all'Inquisizione di Bologna - 18 gennaio e 10 apr. 1552 - insieme con il Memoriale presentato in sua difesa (senza data, ma del 1553-54) sono pubblicati in F. Chabod, Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V, Roma 1962, doc. nn. 37 e 38; vedi anche pp. 145-151, 154-157, 177, 1923 240-247, 251, 253, 257, 259, 261. I memoriali del Nascimbeni sono stati pubblicati e accuratamente studiati da C. Ginzburg, Due note sul profetismo cinquecentesco, in Riv. stor. ital., LXXVIII(1966), pp. 219-224, 226. La lettera del Mainardo al Bullinger scritta contro il B. si trova in Camillo Renato, Opere,documenti e testimonianze, a cura di A. Rotondò, Firenze-Chicago 1968, p. 229; vedi anche pp. 223, 322, 325, L. Fumi, L'Inquisizione romana e lo Stato di Milano, in Arch. stor. lombardo, s. 4, XIII (1910), pp. 351, 372 s.; B. Fontana, Renata di Francia, III, Roma 1899, p. XXXIV; P. Rivoire, Contributo alla storia della Riforma in Italia, in Boll. della Soc. di studi valdesi, LV (1936), pp. 65-66; D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Firenze 1939, pp. 58, 76, 78, 316.

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