CAPEI, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 18 (1975)

CAPEI, Pietro

PP. Treves

Nacque di antica e doviziosa famiglia, da Giovanni e Francesca Alberti, il 29 ott. 1796, a Lucignano in Val di Chiana. Da Lucignano passò ragazzo al seminario di Arezzo per gli studi di "umanità", quindi proseguiti, con una speciale inclinazione verso le discipline giuridiche o storico-giuridiche, alla scuola normale di Pisa, recente formazione napoleonica, destinata perciò a scomparire con la Restaurazione. Uscì nel 1818 dall'università col titolo di dottore in giurisprudenza: e il proposito di attendere alla pratica forense più che all'insegnamento. Ritenne, comunque, gli convenisse di ampliare, frattanto, la sua conoscenza del mondo classico mediante un soggiorno in Roma, dove rimase due anni col pretesto dell'avvocatura, in realtà dedito all'antiquaria e all'archeologia, che studiò sotto la guida del Nibby. Consapevole, tuttavia, dell'avanzamento delle ricerche storico-artistiche nell'Europa del Romanticismo, volle profittare del carattere socialmente cosmopolitico impresso alla Roma di Pio VII dal cardinale Consalvi; e in Roma, difatti, s'impratichì, o cominciò ad impratichirsi, nella conoscenza delle lingue straniere (fu esperto ugualmente di francese, di tedesco e d'inglese: cosa rarissima fra gli intellettuali italiani del tempo, come insegna l'esempio del Capponi, del Leopardi e del Tommaseo), mentre si legava in relazioni di colleganza o addirittura d'amicizia con dotti d'oltr'Alpe.

Rientrato a Firenze, dove già praticava l'avvocatura suo fratello Gaspero, e associatosi allo studio legale del Lamporecchi, ben tosto riconobbe che per le doti medesime del suo ingegno, non flessibile, né retorico, né facilmente comunicativo, la pratica forense non era affar suo; laddove il campo suo proprio, nell'attesa d'una eventuale cattedra universitaria, era l'attività storico-giuridica, il pubblicismo (in alto senso) divulgativo. In questo lo aiutarono due fattori (ai quali, d'altronde, il C. correlativamente contribuì): l'uno, l'atmosfera liberalmente stranierizzante ed elegantemente dotta della Firenze d'allora, massime il decennio (grosso modo) dalla rivoluzione del 1820 alla rivoluzione del 1831 (e al conseguente giro di vite, cui l'imperatore d'Austria e il duca di Modena sopra tutti costrinsero il governo toscano): l'altro, l'incontro con Giovan Pietro Vieusseux e la partecipazione del C. all'intrapresa dell'Antologia. Donde le frequenti e intrinseche relazioni del C., per tutto l'arco della sua esistenza, con francesi quali J.-J. Ampère, Thiers, Lamartine e M.me Hortense Allart, con tedeschi quali Av. Reumont, il Savigny, Karl Witte (oltre che con gl'italiani assidui alla "conversazione" e alla attività pubblicistico-patriottica del Vieusseux, come Leopardi, Tommaseo, Colletta, a tacere dei corregionali Capponi, Niccolini, Centofanti, ecc.).

Dell'Antologia fu collaboratore diligentissimo, e per cose importanti, sempre capace d'individuare, anche in una breve nota, il merito d'un uomo o d'un libro. Avvertì, per esempio, "essere" l'Avellino "uno de' più dotti uomini della dottissima Napoli" (Ant., XI, [1830], n. 118, p. 122), e la "dottissima Napoli" era, per il C., non tanto la Napoli degli antiquari, quanto la Napoli del Vico e della tradizione vichiana, ch'egli rievocò e celebrò nel confronto medesimo con l'inconsapevole "vichismo" del Niebuhr, nel mentre toglieva ogni carattere di menzogna, di occultamento o di partito preso alla effettiva ignoranza vichiana del maestro germanico (appellandosi discretamente in materia all'autorità, seppure non nominata, del Savigny).

Esperto ugualmente di cose classiche e di cose medievali-longobarde (donde i vari nomignoli di Vitichindo e Radelchindo che si divertiva ad affibbiargli il Capponi; cfr. Lettere, III, pp. 382 s.), diede sull'Antologia ragguaglio e dell'Istoriadel gius romano nel Medioevo di F. C. de Savigny e della Storia romana del Niebuhr (ch'egli conobbe sia nella traduzione inglese della seconda edizione, sia nella prima tedesca). Gli articoli sul Savigny (ai quali successivamente affiancò il necrologio del romanista, in Archivio stor. ital., XVI [1862], 13 pp. 3-24, importante anche per gli accenni proemiali biografico-autobiografici) dall'Antologia del 1828-1829trapassarono, quindi, e ne furono come il seme, nel Compendio dell'istoria del gius romano che, in collaborazione con G. Porri, il C. stampò a Siena nel 1849.

Gli articoli sul Niebuhr (nell'Antologia del 1830, t. XXXVIII, n. 112, pp. 19-53; n. 113, pp. 1-22; n. 114, pp. 45-65), che il C. scrisse sostituendosi, per così dire, al Leopardi, quando le tristissime condizioni della salute impedirono al poeta, di mantener la promessa fatta al Vieusseux (e per questa ragione, forse, dettando poco di poi il necrologio dello storiografo, il C. v'inserì la narrazione commoventissima dell'incontro in Roma del Niebuhr e del Leopardi: ibid., 1831, n. 123, pp. 156-61, rist. da E. Zazo nella Antologia della "Antologia", Milano 1945, II, pp. 197-206), restano memorabile contributo alla storia e della critica niebuhriana (di cui lo stesso C. era, tramite periodici inglesi, discretamente informato (cfr. ibid., t. XXXVIII, 1830, n. 114, pp. 60 ss.) e della storiografia italiana. Non soltanto perché il C. difese il Niebuhr da quanti, senza leggerlo e senza conoscerlo, l'accusavano di essere stato un plagiario del Vico, ma, e soprattutto, perché egli seppe anche inserirlo debitamente in una tradizione di studi che risaliva al Perizonio e al Beaufort, né mai si abbassò a tacciarlo di "secentista" o di "anticristiano", quasi fosse intenzionalmente il suo libro come in effetti pur era o riuscì, nonostante la sincera pietas religiosa dell'autore, un libro eversivo.

Può essere mera curiosità che il C. ne elogiasse i traits modernes ("a dichiarare le più riposte cose della romana istoria qualificossi il Niebuhr non solo con lo studio di tutti i classici scrittori in qualsivoglia ramo dell'antico sapere, ma eziandio vantaggiandosi della economia politica, della statistica, della cronologia e della fisiologia; scienze che tutte nacquero o ingigantirono ai tempi nostri. E, da quel grand'uomo di stato che ognun lo venera, avvisò egli l'indole della umanità presente, e indi trasse sapienza ed argomenti per chiarire qual fosse l'antica": ibid., p. 62) e ne tacesse affatto quand'ebbe a trattare del Mommsen, dove i traits modernes spiccano assai più che non presso il Niebuhr. Ma è significativo, del C., della sua maestria critica oltre che della sua fedeltà, che, per talune questioni puntuali e specifiche, ribadisse le tesi del suo primo, e più vero, maestro, quando, o quanto più, furono contestate o dimenticate. Presso il C., perciò, si ritrova, a critica della Römische Chronologie mommseniana, il ribadimento, indirettamente confermato ai dì nostri dalla scoperta delle lamine auree di Pyrgi, della validità della datazione polibiana del primo trattato fra Roma e Cartagine (cfr. Arch. stor. ital., XI[1860], 2, pp. 126 s.: "concluderemo potersi e forse doversi tuttavia serbare all'anno 245 [a.u.c.] il primo trattato di amicizia tra Roma e Cartagine"). Si ritrova, altresì, la rivendicazione, pur nella scia del Beaufort e del Niebuhr, della validità e verità della tradizione - contro il "mito" annalistico di Muzio Scevola, di Clelia e di Orazio Coclite - della conquista di Roma ad opera dell'etrusco Porsenna (cfr. Antologia, t. XXXVIII [1830], n. 114, p. 48; Arch. stor. ital., n. s., IV, 2 [1857], pp. 19, 131; XVIII, pp. 100 s., [1863], pp. 100 s., e la presunta scoperta di O. Skutsch, Studia enniana, London 1968, p. 140), quantunque il toscano C., amico al Micali e suo generoso difensore dalle severe critiche del Niebuhr, non peccasse, e in fondo si vantasse di non peccare, per "etruscheria", pur mentre ribadiva la tesi "italicistica", ma senza contaminazioni fra "nazionalistiche" o di "primato", delle origini etrusche (cfr. Antologia, t. XXXVIII [1830], n. 112, pp. 51-53; con parole, fra parentesi, significativamente assai simili a quelle che un secolo dopo avrebbe usate, in contesto analogo, l'antietrusco Gaetano De Sanctis, Scritti minori, VI, 1, Roma 1972, p. 438; Ricordi della mia vita, Firenze 1970, pp. 156 s.).

Il decennio liberale dell'Antologia fu, probabilmente, il periodo della più felice attività storiografica (e non meramente "scientifica") del C., come fu il preludio, o l'inizio, del solo momento "romantico", cioè poetico-passionale, nella sua altrimenti quieta e prosaica esistenza. A Firenze sulla fine dell'inverno 1826 conobbe, infatti, Hortense Allart ed entrò subito, fedelmente, nella cerchia dei suoi amici, ammiratori e corteggiatori. Le trovò una casetta nel Casentino perché vi soggiornasse dal marzo al maggio 1827, e fu con lei, quando abitava in Arezzo, nell'ottobre del 1828, la condusse a visitare la Val di Chiana, ma preferì fosse il Tommaseo a recensire sull'Antologia il romanzo Gertrude. Ripartita Hortense per la Francia, il C. tornò agli studi, vide la soppressione dell'Antologia e non gli furono risparmiati sospetti e angherie, nonostante il suo sostanziale legittimismo toscano: sospetti e angherie che non ostacolarono, tuttavia, nel novembre 1833 la sua nomina alla cattedra di istituzioni civili nell'università di Siena. Vi rimase sei anni, attendendo a ricerche storiche, a dar vita e sviluppo alla Deputazione toscana di storia patria, nonché a quella memoria sull'Origine della mezzeria in Toscana, che ebbe nel 1860 l'onore d'una ristampa nella "Biblioteca dell'Economista" (serie 2, vol. II, pp. 569 ss.).

Frattanto Hortense, tornata a Firenze il 14 giugno 1837, proseguiva il 26 per Siena, dove s'incontrò col C., il quale nei mesi successivi ne favorì la nomina a corrispondente delle Accademie di Siena e di Borgo San Sepolcro, nonché della Società Colombaria. Hortense pensava a "un mariage dans l'avenir". L'anno successivo, quando Hortense prese residenza a Belvedere presso Siena, il C. ne divenne l'amante, e dal C. Hortense ebbe il secondo suo figlio, nato a Firenze il 21 marzo 1839 e battezzato Henri-Marcus-Diodati nella chiesa evangelica della città. L'atto di battesimo non registrava la paternità del C., la quale rimase taciuta od ignota fino alle ricerche recenti del Ciureanu.

Né il C. venne meno ai propri affetti e ai propri doveri, come non era venuto meno ad obblighi di carità e di pietà assunti col Tommaseo, per esempio nei confronti dell'ex compagna fiorentina del dalmata, fino alla morte precoce del figlio tubercolotico, spentosi a Montlhéry nel luglio del '62.

Trasferito nel gennaio '39 alla cattedra d'istituzioni di diritto romano nell'università di Pisa, accompagnò dal 30 agosto al 16 ottobre di quell'anno il Capponi nel viaggio da Livorno a Marsiglia, quindi a Lione e a Ginevra, per consentire al marchese di consultare, invano, un illustre oculista elvetico e d'incontrarsi con Federico Confalonieri, col quale strinse anche egli amicizia.

Superata la tempesta accademica conseguente alla nomina del Giorgini e del Montanelli, nonché una grave crisi bronchiale (da cui non si riebbe mai bene) l'inverno del 1842, grazie altresì all'ospitalità amorevole del Capponi nella sua villa di Varràmista, passò nel '44 alla cattedra di pandette nella medesima università pisana, proludendo il 13 nov. col discorso Del metodo di esporre il diritto romano nella scuola delle Institute e nella scuola delle Pandette (Pisa 1845).

Allievo del Savigny e della scuola "storica" del diritto, riaffermò che pur la scuola delle Institute è scuola storica e quindi "ottimo riuscirà quello ammaestramento che ad un tempo sia dogmatico e storico e filosofico". Nella sua prolusione, però, il C. credette di dover impartire "una solenne avvertenza", distinguere, cioè, fra la "mera erudizione", o filologia, e la storia.

Stranamente, quanto più affermava la storicità del diritto, del suo insegnamento e del suo lavoro, tanto più il C. pencolava, invece, ormai e quind'innanzi, verso l'erudizione "pura": forse in concomitanza con la fondazione, e in conseguenza dell'attività (in cui subito anch'egli ebbe gran parte), dell'Archiviostorico italiano.

Gli scritti numerosissimi che vi pubblicò, la stessa amichevole polemica col Capponi (e indirettamente col Manzoni e col Troya) sulle strutture giuridico-politiche del dominio longobardo in Italia, anche le sue rassegne critiche maggiori (per es., la recensione al primo volume della Römische Geschichte di T. Mommsen e ai due primi volumi dell'Histoire romaine à Rome di J. J. Ampère) difettano, però, dell'impegno, dell'afflato, dell'intima e profonda storicità degli scritti "niebuhriani". È testimonianza della sua generosa medietas il temperatissimo ripudio dell'oltranzismo romantico mommseniano, a condanna della nostra poesia e della letteratura latina (cfr. Arch. stor. ital., IV, 2 [1857], p. 161). È testimonianza di verità, oltre le suggestioni e la soggezione dell'amicizia, il fermo ripudio del "sabinismo" dell'Ampère (ibid., XVIII, 2 [1863], pp. 103, 117 s.). Ma né avvertì (né certo si curò di farne avvertiti i suoi lettori) il presupposto anticesareo ed antibonapartesco della storiografia "romana" dell'Ampère nel clima politico del Secondo Impero; né colse la novità stilistico-storiografica dell'opera mommseniana.

Probabilmente restò "niebuhriano" in un mondo e una temperie che niebuhriani non erano più. Si spiega così la sostanziale sterilità e solitudine del C., della sua, tosto dimenticata, attività critica. Come fu breve e sterile cosa la sua attività "politica".

Benché la prolusione pisana preannunziasse l'impegno a "spendere la vita nostra in servigio e a decoro della carissima patria", dunque un impegno non pur letterario-culturale, ma concretamente "politico", il C. si trovò, in effetti, spaesato già prima del Quarantotto. Nominato il 31 maggio 1847 membro della commissione "per la compilazione di un codice civile corrispondente allo stato di civiltà e alle condizioni sociali, morali ed economiche della Toscana", e compilatore (con altri) dello Statuto, promulgato dal granduca l'11 febbr. 1848, fu poi, e parimenti, avverso alla "democrazia" del Guerrazzi e alla restaurazione "absburgica". La quale, però, lo mantenne al suo posto di consigliere di Stato; e in questo continuò pur dopo il rivolgimento del '59, benché avverso al "fusionismo" sabaudo e pessimista per l'avvenire del paese, massime durante la spedizione dei Mille e più durante la crisi del '66. L'anno prima (1865) era stato messo a riposo dalla carica di presidente del Consiglio di Stato: e si dimenticarono, o non vollero, con molto suo rammarico, nominarlo senatore. Declinava rapidamente, come già il 3 settembre 1867 scriveva il Capponi al barone von Reumont. Morì in Firenze, nella casa ospitale di Gino Capponi, la sera del 12 ag. 1868.

Gli sopravvisse un figlio naturale, non riconosciuto e rimasto altrimenti ignoto, d'una ventina d'anni o poco più, che l'Allart (come confidava al Capponi in una sua del 1º luglio 1870) si proponeva di raccomandare alla consorte di Urbano Rattazzi.

Fonti e Bibl.: Oltre agli scritti citati del C. si vedano: nell'Antologia e nell'Archivio stor. ital., sub nomine, i rispettivi Indici, benché a giudizio di P. Prunas (p. 89 n. 1) sia incompleta la registrazione nell'Indice gener. alfab. delle materie contenute nell'Antologia, Firenze 1863, pp. 37 s.; i carteggi contemporanei, anzi tutto le Lettere di G. Capponi e di altri a lui, pubbl. a cura di A. Carraresi, Firenze 1884-1890, ad nomen;ed H. Allart de Méritens, Lettere ined. a Gino Capponi, a cura di P. Ciureanu, Genova 1961, passim, specialmente (oltre i luoghi cit. nel testo) l'introduzione dell'ed., pp. VI, XXIV, LXII ss., LXXIII, LXXXIII; quindi il Carteggio Tommaseo-Capponi, a cura di I. Del Lungo-P. Prunas, Bologna 1911-1932, ad Indicem; l'Epist. di G. Leopardi, a cura di F. Moroncini, V-VI, Firenze 1938-1940, ad Indicem;il Carteggio Tommaseo-Vieusseux, acura di R. Ciampini-P. Ciureanu, I, Roma 1955, ad Indicem (del Tommaseo cfr., altresì, il trattatello Di Giampietro Vieusseux, Firenze 1864, passim). Essenziali i necrologi di G. Capponi nell'Arch. stor. ital. e di M. Tabarrini negli Atti dell'Accad. dei Georgofili, rist. rispettivamente in Scritti ed. e inediti, I, Firenze 1877, pp. 489-97, e in Vite e ricordi d'Ital. illustri del sec. XIX, Firenze 1884, pp. 138-57. Del Capponi vedansi anche le Lettere al prof. P. C. sulla dominazione dei Longobardi in Italia, che convien leggere non tanto nei cit. Scritti, I, pp. 54 ss., quanto nell'apposita edizione annotata da E. Sestan (Roma 1945), pp. 131 ss., 314 ss. Sulle relazioni del C. con l'Antologia e col Vieusseux, cfr. P. Prunas, L'Antologia di G.P. Vieusseux, Roma-Milano 1906; A. Panella, Gli studi stor. in Toscana nel secolo XIX, Bologna 1916; R. Ciampini, Gian Pietro Vieusseux, Torino 1953, ad Indices. Per il "vichismo" e la critica "niebuhriana" del C., cfr. B. Croce-F. Nicolini, Bibliografia vichiana, I, Napoli 1947, pp. 455 s., 505; S. Timpanaro jr., La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze 1955, pp. 220 ss. e passim. Sirammenti altresì l'amichevole giudizio di J.-J. Ampère, La Grèce,Rome et Dante, Paris 1848, pp. 315 s., e che il C., con lo pseudonimo di M. de l'Espine, è personaggio del romanzo autobiografico di Hortense Allart, Les enchantements de Prudence, Paris 1873.Significativo, d'altro canto, che né i carteggi né i biografi del Niebuhr e del Mommsen sembrino neppur mentovare il nome del Capei.

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