CUSTODI, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 31 (1985)

CUSTODI, Pietro

Livio Antonielli

Nacque il 29 nov. 1771 a Galliate, presso Novara, da Giuseppe, originario di Inveruno, e da Geltrude Milanesi. All'età di soli tre anni rimase orfano di padre, per cui fu la madre, con l'aiuto di alcuni parenti, che dovette allevarlo e mantenerlo agli studi. Il C. studiò dapprima a Novara e poi, trasferitosi a Milano con la madre, nel collegio barnabita di S. Alessandro, dal quale passò infine, nel 1790, all'università di Pavia, presso il collegio Borromeo, dove si laureò in giurisprudenza il 30 maggio 1795.

Fu nell'ambiente del collegio S. Alessandro, che dalla riforma del 1774 proponeva un insegnamento aperto alla cultura illuminista, e più ancora in quello dell'ateneo pavese, ove prevaleva l'influsso delle dottrine giurisdizionaliste, che il giovane ricevette gli impulsi decisivi per la propria formazione. Non a caso, subito dopo la laurea, tentò di pubblicare un breve saggio nel quale già prevalevano tesi di chiara ispirazione radicale, come l'accusa alla diseguaglianza sociale di essere alla base dei guasti del vivere civile. Saggio che peraltro restò inedito perché, come contraccolpo degli avvenimenti francesi, molto era mutato nel clima politico della Lombardia. Importante per la formazione del C. fu anche il periodo successivo alla laurea, in cui a Milano fece pratica criminale presso il conte Gambarana, che, in quanto genero di Pietro Verri, lo fece entrare in rapporti personali con l'illustre uomo, che certo gli fu di stimolo agli studi storici ed economici.

All'arrivo, nel maggio 1796, delle truppe del Bonaparte a Milano, per il C. fu quasi una scelta naturale quella di schierarsi tra i sostenitori della causa democratica. Quale primo atto pubblico diede alle stampe un opuscolo dal titolo Della sovranità del popolo e dell'eccellenza di uno Stato libero, falsamente presentato come Opera scritta originalmente in inglese nell'anno 1656.

Questo lavoro è importante perché vi sono sviluppate alcune tesi politiche che il C. riprenderà con insistenza in successivi opuscoli e articoli: si sostiene dunque la necessità che il popolo intero sia partecipe della costruzione del nuovo ordine repubblicano e che lo faccia per il tramite di legittimi rappresentanti, il cui mandato resti però nelle mani dello stesso popolo (vale a dire sia sempre revocabile e sottoposto a costante controllo); in secondo luogo si dichiara che la prima preoccupazione per uno Stato libero, che voglia ottenere l'appoggio della popolazione, deve essere quella di rendere edotto ogni cittadino dei propri diritti, e che questo deve realizzarsi mediante un capillare sistema di istruzione.

Da questo momento si può dire avesse inizio la fase di più attivo impegno del Custodi. Posto di fronte a una sempre più netta distonia tra la necessità di cooperare alla costruzione di una società democratica e la realtà di uno Stato sottoposto a una vincolante dipendenza, sia politica sia economica, dai "liberatori" francesi, egli reputò che la posizione più utile per la difesa della causa democratica fosse quella della denunzia senza ambiguità e senza compromessi di ogni malefatta perpetrata ai vertici dello Stato. Pertanto si buttò senza incertezze nella lotta politica, e si servì per questo dell'arma a lui più congeniale, vale a dire quella dello scrittore polemico, capace a un tempo di essere vigoroso e pungente senza rinunziare al tono beffardamente ironico. Il 19 giugno 1797 pubblicò l'Avviso di unpatriota al comitato di costituzione, opuscolo nel quale denunciava la colpevole indifferenza con cui i membri del comitato incaricato di esaminare il testo della redigenda costituzione della Repubblica cisalpina, lasciavano che questo venisse compilato in termini ancora più restrittivi e limitativi della vita democratica di quanto già non facesse il suo modello obbligato, la costituzione francese dell'anno III. Il 1° luglio il C. fece seguire una Continuazione dell'avviso, con la quale insisteva nella denunzia di qualsiasi forma di dipendenza dei rappresentanti cisalpini dagli ordini del Bonaparte e del Direttorio francese. In una successiva Appendice dell'avviso, del 10 luglio, lo spirito polemico del C. prese di mira Pietro Moscati, membro del Direttorio, che nel frattempo lo aveva accusato di "indisporre il popolo" con le sue requisitorie.

Pochi giorni dopo, con manifesto del 15 luglio, il C. annunziò anche la prossima comparsa di un nuovo giornale, il Tribuno del popolo (titolo che ripeteva il Tribun du peuple di Babeuf), cui affidava la missione di difendere gli interessi del popolo, provvedendo nel contempo alla sua istruzione. In effetti, il 2 agosto il Tribuno del popolo iniziò le pubblicazioni, peraltro destinate a interrompersi presto, al terzo numero, per intervento dello stesso Bonaparte.

In questo giornale, che sulla testata portava quale monito l'articolo 354 della costituzione cisalpina, "A nessuno può essere impedito di dire, scrivere, stampare i suoi pensieri", il C. condusse con vigore la propria requisitoria contro i governanti cisalpini e contro le forze francesi d'occupazione. Con tono sempre ironico e sgombro da inutili rigidità ideologiche, il C. proponeva articoli sorretti da un ragionamento limpido, avvalorato da un continuo richiamo a testi ufficiali o a circostanze dimostrabili: in tal modo finiva inesorabilmente per colpire nel segno, denunciando senza pietà ogni manchevolezza od opportunismo. Punti fermi della sua polemica erano: in primo luogo la denuncia dell'asservimento dei governanti cisalpini ai voleri dei Francesi, ormai senza incertezze accusati di perseguire interessi incompatibili col programma di costruzione di uno Stato democratico; in secondo luogo l'allarmata constatazione del progressivo, e in prospettiva fatale, distacco tra i governanti e il popolo, sempre più sfiduciato dopo i primi entusiasmi; in terzo luogo l'accusa ai governanti di avere pericolosamente abbandonato la via, essenziale per il successo della loro azione, dell'istruzione popolare, intesa soprattutto come costante informazione dei diritti dei cittadino (indicativo in questo senso l'articolo Al Direttorio cisalpino, pubblicato nel numero primo del 2 agosto, nel quale denunciava l'autolesionistica decisione di chiudere la Società di pubblica istruzione, sorta agli inizi del 1797 e di cui lo stesso C., tra i membri fondatori, aveva redatto lo statuto).

Quando finalmente il C. arrivò al punto di mettere sotto accusa lo stesso Napoleone (nell'articolo Delle cause che corruppero lo stabilimento dell'italiana libertà nel terzo numero, del 16agosto), tacciandolo di comportarsi più da padrone che da amico, quest'ultimo reagì con durezza, e nella notte tra il 20 e il 21 agosto diede ordine di procedere all'arresto del giornalista, cosa che peraltro non poté effettuarsi essendo questi già riparato in luogo sicuro e sconosciuto. La latitanza del C. si protrasse per circa due mesi. Nel frattempo la madre inviò una supplica con richiesta di perdono per il figlio allo stesso Bonaparte, che decise per la revoca della disposizione d'arresto a patto che il C. portasse un maggiore rispetto ai rappresentanti del governo.

Sulle prime, in effetti, egli tenne un atteggiamento più prudente, tant'è che evitò di schierarsi pubblicamente tra i molti detrattori del trattato di Campoformio. Probabilmente è da inquadrarsi in questo sforzo di moderazione anche la disponibilità ad accettare una carica pubblica, che si concretò, tra il 1797 e il 1798, nell'esercizio per qualche mese dell'ufficio di redattore presso l'Assemblea degli juniori (detta Gran Consiglio) del Corpo legislativo.

Tuttavia, quando nel febbraio del 1798 iniziò il dibattito legislativo in merito allo sfavorevolissimo trattato di alleanza e di commercio che il Direttorio francese voleva imporre alla Repubblica cisalpina, lo sdegno del C. fu tale che preferì abbandonare volontariamente la carica per riprendere l'attività di libero denunciatore delle malefatte governative. Il 9 marzo pubblicò dunque la memoria AlGran Consiglio della Repubblica Cisalpina, con la quale segnalava la gravità dell'asservimento economico e politico cui era costretta la Cisalpina dal governo francese, nonché la pusillanimità degli stessi rappresentanti cisalpini, incapaci di opporsi risolutamente agli ordini provenienti dal di fuori. L'intervento gli costò questa volta l'arresto: il 13 marzo (vale a dire il giorno prima che l'Assemblea degli iuniori ratificasse il trattato con la Francia) per ordine del generale Leclerc, succeduto a Napoleone a capo dell'armata d'Italia, fu imprigionato. Sottoposto a regolare processo, fu assolto e liberato il 31 marzo su sentenza del tribunale d'appello, che confermava il giudizio assolutorio di prima istanza.

Si conserva di quell'episodio una lettera del C., Ai miei giudici, datata 30marzo (Milano 1798), in cui rivendicava il diritto di ogni cittadino di "soccorrere la libertà, tuttavolte che la crede compromessa", affinché la costituzione non rimanesse un documento senza valore.

Il periodo di libertà fu comunque di brevissima durata. Due giorni avanti l'arresto del 13 marzo, il C. era infatti passato a collaborare col Monitore italiano (come è attestato da una nota pubblicata nel numero ventiseiesimo del periodico), il foglio fondato dal Foscolo, dal Gioia e dal Breganze, sin lì distintosi per l'atteggiamento polemico verso il Direttorio cisalpino. Benché sul giornale non si conservi alcun articolo a firma del C. sia relativamente ai due giorni precedenti l'arresto sia dopo la sua liberazione (31 marzo), tuttavia uno scritto pubblicato anonimo (in realtà opera del Gioia, come asserisce il C. nella sua Memoria ultima manoscritta, parte III, par. VIII), di tono piuttosto violento. fu dalle autorità attribuito a lui, che venne così di nuovo arrestato e detenuto nel Castello di Milano per quarantacinque giorni, senza che a suo carico si istruisse alcun procedimento penale.

Segnato da queste esperienze, ormai definitivamente convinto "per prova che la costituzione è inutilmente invocata contro le passioni de' potenti" (Ai miei giudici, cit., p. 1), il C. andò progressivamente smorzando il tono delle polemiche, pur non rinunciando a una presenza attiva nella vita politica cisalpina. Mentre dal mese di giugno del 1798 in avanti il governo della Repubblica fu sottoposto in rapida sequenza a ben tre rivolgimenti, imposti da due inviati del Direttorio francese (il Trouvé e il Rivaud) e dal generale Brune, in seguito ai quali il già instabile equilibrio politico della Repubblica si trasformò in vera e propria ingovernabilità, il C. continuò, nei limiti del possibile, la sempre più disperata battaglia per la libertà e per la democrazia. Schieratosi contro il nuovo testo costituzionale imposto dal Trouvé, nel quale vedeva un ulteriore attentato al principio democraticorappresentativo, egli accettò l'incarico di scrutatore nell'occasione delle votazioni pro o contro questo testo che si tennero in piazza del duomo nei giorni 26 e 27 ottobre. Conclusasi la giornata elettorale con una piccola sommossa, e resosi impossibile lo spoglio dei voti per l'avvenuta distruzione di alcuni registri, egli si oppose con energia alle pressioni esercitate su di lui dal Direttorio perché accettasse di sanzionare egualmente la vittoria dei sostenitori della costituzione. Ma al di là della fermezza con la quale seguitò a difendere le proprie posizioni, il C. seppe anche valutare come fosse ormai impossibile mantenere l'atteggiamento di pubblico accusatore svolto nei mesi precedenti. Pertanto affidò alle lettere private o al suo diario i pesanti giudizi contro la classe politica cisalpina, senza più arrischiarsi a pubbliche denunce.

Contemporaneamente alla riduzione dell'attività politica, il C. intensificò la mai abbandonata attività di studioso, rivolgendo sempre più il proprio interesse al settore dell'economia politica. Un riconoscimento della competenza acquisita lo ebbe, sempre nel periodo della prima Repubblica cisalpina, con la nomina a segretario nell'ufficio della contabilità nazionale, carica che non risulta esattamente per quanto tempo conservò.

Dopo la sconfitta dei Francesi, l'arrivo delle truppe austro-russe in Milano e la caduta della Repubblica (aprile 1799)., il C. non cercò salvezza nella fuga, bensì scelse di vivere appartato tra Milano e Galliate, dove tra l'altro fu chiamato ad assistere la madre morente. Benché fosse accompagnato dalla fama di caldo fautore dei principi democratici, non ebbe a patire, durante i tredici mesi della Restaurazione, la prigionia che toccò invece a numerose altre personalità cisalpine. Vari elementi convergono a spiegare la circostanza: in primo luogo il fatto, molto semplice, che non finì se non molto tardi nelle mani della polizia austriaca un elenco che lo indicava tra i "politici pericolosi"; in secondo luogo, più importante ragione, il fatto che egli era in fondo un personaggio secondario, che non aveva ricoperto se non cariche modeste, per giunta addirittura perseguitato dagli stessi Francesi. Ciò permise al C. di trascorrere in relativa tranquillità quei difficili mesi, nel corso dei quali ai sostenitori del cessato regime non furono risparmiate vessazioni di ogni genere.

Benché non direttamente perseguitato, egli restò comunque segnato dall'esperienza della restaurazione. Da una parte si rese conto di quanto il precedente sistema, sebbene imperfettissimo. fosse preferibile all'ipocrita riesumazione dei "sacri valori" che ebbe luogo nei tredici mesi, accompagnata da scelte di amministrazione economica assai sfavorevoli alle classi più umili; da un'altra parte valutò con molto interesse quanto l'aumento del costo della vita e il deteriorarsi in genere delle condizioni economiche portasse in breve le stesse categorie di persone che avevano accolto con favore la cacciata dei Francesi ad augurarsi il loro ritorno: ciò gli chiariva definitivamente come le concrete ragioni economiche del vivere quotidiano finissero per prevalere sul piano dei condizionamenti ideologici.

Non c'è dunque da stupirsi che il C. fosse tra i patrioti recatisi a portare omaggio a Napoleone al suo rientro in Milano il 2 giugno 1800, e accettasse senza eccessivo risentimento le minacce che egli formulò contro i democratici non disposti a piegarsi alle sue direttive. A dimostrazione di ciò, nel nuovo periodico, L'Amico della libertà italiana, che pubblicò a partire dal 5 giugno 1800, il C. assunse toni ben diversi da quelli che avevano caratterizzato la precedente attività giornalistica.

Non più ostilità verso il Bonaparte, tolleranza nei confronti della religione, addirittura disponibilità ad accettare sacrifici finanziari per le casse della Repubblica al fine di mantenere la forza armata francese. Ciò però non vuole dire che egli avesse abdicato ai principi difesi con forza in precedenza: il suo moralismo non era destinato a venir meno e neppure dovevano cessare le proposte d'ispirazione democratica, quale la richiesta di una tassazione progressiva; ma la realizzazione di un ordine democratico non era più sentita come imminente: al contrario l'imperativo del momento diveniva quello, assai più realistico, del cominciare "dallo stare men male" (n. 2 del 10 giugno 1800).

Significativo è poi il modo col quale il C., giunto il 29 agosto al numero venticinquesimo del periodico, decise di sospenderne le pubblicazioni: convintosi infatti dell'inopportunità di una battaglia aperta contro il governo cisalpino e contro Napoleone, egli si rese anche conto che, seguitando nei toni moderati propri dell'Amico della libertà italiana, con l'attività di giornalista ben poco avrebbe potuto fare per la causa italiana. Pertanto si risolse a proseguire in altro modo la propria azione, e tenne ferma la decisione anche dopo che gli fu offerto di dirigere la Gazzetta nazionale cisalpina, ovvero Monitore universale, testata ufficiale del governo cisalpino. Infatti dopo che il numero del 2 settembre aveva annunziato la nomina del C. a redattore capo, l'11 ottobre una nota aveva rivelato ai lettori che egli non aveva mai assunto le relative funzioni (si può però forse attribuire al C. l'articolo Cenni sul ritardato risarcimento dei danni sofferti dai repubblicani, pubblicato nel numero ventiquattresimo e siglato p.c.). In luogo della professione giornalistica il C. aveva pensato di seguire una strada che meglio gli consentisse di operare nel concreto funzionamento del nuovo Stato, e questa via non poteva essere che quella dell'impiego pubblico. Scelta alla quale era spinto anche dal bisogno di procurarsi un regolare stipendio, stante la sua non florida situazione econornica. Così, prima ancora che l'abbandono del giornalismo fosse cosa fatta, quando il 27 sett. 1800 Antonio Smancini fu nominato ministro di Giustizia e Polizia, egli accettò la nomina a segretario generale della divisione di polizia di quel ministero, dando perciò inizio a una carriera di funzionario che solo il mutare delle circostanze politiche avrebbe poi troncato.

Contemporaneamente alla carriera burocratica il C. continuò l'attività di studioso. Nel 1801 fu pubblicata a Milano la traduzione, da lui curata, del rapporto del commissario di finanza, Haller, a Napoleone, su Le rendite e le spese pubbliche dell'anno IX; lavoro per il quale egli aveva preparato una prefazione dal titolo Sopra un progetto di ben ordinare una Repubblica senz'imposte.

In queste pagine è bene individuabile l'evoluzione che il C. andava subendo: quello che era dato alle stampe non era più un violento opuscolo politico, bensì uno studio nel quale già traspariva la solida preparazione in materie finanziarie dell'autore; tuttavia lo spirito della trattazione era ancora quello democratico-umanitario della felicità sociale che negli anni precedenti aveva sorretto il suo slancio politico, che ora si traduceva in una proposta di livellamento delle ricchezze per mezzo di un'imposta progressiva sulle successioni.

Il definitivo trapasso da "politico" a "funzionario" doveva comunque avvenire, come del resto per numerosi altri "patrioti", con l'instaurazione della Repubblica Italiana e della vicepresidenza di Francesco Melzi d'Eril.

In quanto funzionario della seconda Repubblica cisalpina, per giunta impiegato nel politicizzato settore della polizia, il C. incontrò sulle prime non poche difficoltà a farsi confermare, a causa dell'ostilità con la quale il moderatissimo Melzi guardava al personale amministrativo ereditato dal cessato governo. È noto il giudizio espresso su di lui dal vicepresidente: "non è possibile lasciare questo soggetto al suo posto. Patriota esagerato; centro e capo delle fazioni" (lettera del 26 apr. 1802 al Marescalchi, ne Icarteggi di Francesco Melzi d'Eril duca di Lodi, I, Milano 1958, p. 254). Il risultato fu che, passata la polizia alle dipendenze del ministero dell'Interno, il C. venne trasferito a capodivisione della divisione III di economia pubblica dello stesso ministero. I suoi trascorsi politici dovevano però essere ricordati con preoccupazione anche dal diretto superiore, il ministro Villa, che ben presto richiese e ottenne (4 ott. 1802) dal Melzi la sospensione del C. dalla carica, adducendo come pretesto un indebito allontanamento dall'ufficio. Per mitigare la durezza del provvedimento il Villa aveva poi domandgo che gli venisse affidato l'incarico di compilatore della statistica della Repubblica, incombenza che già il C. svolgeva nella posizione di capodivisione; ma della cosa non se ne fece poi nulla, perché con il 1° dic. 1802 egli entrò nelle nuove funzioni di notaro cancelliere del tribunale speciale di Milano, eretto con legge del 2 1 sett. 1802 per gli oggetti di leso interesse nazionale, e dipendente dal gran giudice ministro della Giustizia, catica che conservò sino al 1804.

Certamente, alla base del recupero del C. e di molti altri democratici a funzionari, nei quadri di un'amministrazione che politicamente non aveva più nulla a che vedere col precedente governo cisalpino. vi era l'impossibilità materiale di procedere a un massiccio ricambio di personale. Ma nel caso specifico del C. intervenivano favorevolmente due altri elementi: le indiscutibili capacità e la fama di onestà che lo circondava. Soprattutto a quest'ultimo aspetto era particolarmente sensibile il Melzi, che in generale guardava con disprezzo agli uomini della seconda Cisalpina proprio per la riputazione di corrotti amministratori che li accompagnava.

A questo punto intervenne comunque anche l'attività di studioso a sollecitare il pieno inserimento nell'establishment della Repubblica italiana. Tra il 1803 e il 1805 furono infatti stampati a Milano, per i tipi di Destefanis, i primi quarantotto volumi (due altri seguiranno nel 1816) dell'imponente raccolta degli Scrittori classici italiani di economia politica, opera che il C. completò totalmente da solo, in tre anni di accanito lavoro.

Questo lavoro, poco curato dal punto di vista filologico ma di fondamentale importanza per gli autori e per le opere che vi erano compresi, poté vedere la luce solo per l'appoggio che ricevette dal governo della Repubblica, che dapprima anticipò al C., nell'occasione diventato vero e proprio editore di se stesso, una sovvenzione di 20.000 lire di Milano, poi fece seguire a questa un'ulteriore sovvenzione di 15.000 lire e la sottoscrizione di 70 copie, e più tardi ancora, allorché le scarse vendite fecero emergere un passivo importante, si impegnò nell'acquisto dei 460 esemplari dell'opera ancora giacenti (dei 1.000 complessivi dell'edizione) pagandoli in parte in contanti e in parte in beni nazionali. Il concreto appoggio accordato dal Melzi era una conseguenza del tipo di lavoro che il C. andava realizzando: l'economia politica, secondo il modello culturale "illuminista" accolto dallo stesso vicepresidente, costituiva, per usare le parole del C., "il modo di fare prosperare le nazioni, mediante il concorso dell'agricoltura, delle arti, delle manifatture, e del commercio" (Raccolta degli economisti italiani. Prospetto, Milano 1803, p. 3). Orbene, in questo senso la grandiosa raccolta degli economisti italiani stava a rappresentare, sia per il C. che ne era il realizzatore, sia per la maggior parte delle persone allora ai vertici dello Stato, una evidente dimostrazione della civiltà nazionale italiana, precisamente riconoscibile nella disciplina più importante per la crescita economica e sociale della nuova entità statale. Come sostenne alcuni anni più tardi Giuseppe Pecchio, con gli Economisti classici italiani "l'apparato della nostra scienza economica diveniva utile ne' primordi d'un nuovo stato, e necessario a nostra giustificazione contro quegli stranieri, che ci insultavano come fanciulli nella grand'arte dell'uomo di stato" (Saggio storico sulla amministrazione finanziera dell'ex Regno d'Italia dal 1802 al 1814, London 1830, p. 145). Il lavoro assumeva dunque un carattere nazionale nel quale si identificavano gli esponenti di una cultura innovatrice, volta all'industriosità e alla "scienza applicata", e figlia al tempo stesso del pragmatismo economico settecentesco. Non deve pertanto stupire che il Melzi accogliesse con favore una prima organica pubblicazione delle opere di personaggi quali Pietro Verri, Gian Rinaldo Carli, Pompeo Neri, Lodovico Ricci, Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, e altri ancora; mentre è da ascrivere a completo merito del C. l'avere saputo valutare l'importanza di studiosi ancora poco conosciuti, quale in prirno luogo il veneziano Gianmaria Ortes. Neppure deve stupire che la raccolta degli Economisti classici italiani diventasse in breve l'obbligatorio punto di riferimento per un'intera generazione di economisti italiani, e ciò per lo meno sino a metà '800, quando apparve la Biblioteca dell'economista del Ferrara.

Rientrato dunque, come funzionario e come studioso, nell'ortodossia del regime, il C. ebbe modo di far valere i meriti della propria preparazione in materie di finanza e di compiere così un'importante carriera. Nel 1804 passò a segretario negli uffici della contabilità nazionale; poi, dopo aver rinunziato, nel luglio del 1805 (nell'occasione delle nomine per il nuovo Regno d'Italia), alla nomina nella commissione per il nuovo regolamento del notariato e, nel giugno 1806, al trasferimento in Dalmazia quale segretario generale del provveditore Vincenzo Dandolo, egli accettò la temporanea missione di commissario straordinario per il coordinamento delle imposte nei territori ex veneti. Alla fine del 1806 divenne segretario generale del Demanio e diritti uniti e da qui, il 2 sett. 1807. il Prina lo volle a segretario generale nel ministero delle Finanze da lui diretto. Il 14 dic. 1811, il C. ottenne infine la nomina a consigliere di Stato nel Consiglio degli uditori, carica che, per intervento diretto del Prina presso il viceré Eugenio di Beauharnais, poté cumulare alla precedente, sia come funzioni sia come stipendio. Ricompensato anche con l'ascrizione alla nobiltà napoleonica col titolo di barone (titolo che gli verrà tolto dall'Austria nel 1815 e riconosciuto nel 1817). con l'ammissione al Collegio elettorale dei dotti e con la nomina a cavaliere della Corona ferrea, si può proprio dire che il C. fosse a pieno diritto entrato a fare parte della cerchia dei "notabili napoleonici".

Legato ormai profondamente al Regno d'Italia, è comprensibile che egli fosse poi pronto a difenderlo, per 'cui quando la situazione politica e militare cominciò a farsi precaria si rese disponibile a delicati incarichi d'emergenza: il 21 nov. 1813 partì per Bergamo con la qualifica di consigliere di Stato in missione nel dipartimento del Serio; quindi si accollò il rischioso e pesante incarico di commissario straordinario addetto alle requisizioni per l'armata.

Per via di quest'ultimo incarico egli non era a Milano, bensì presso il quartier generale del viceré Eugenio, nella drammatica giornata del 20 apr. 1814, culminata con l'uccisione del suo diretto superiore il ministro Prina. Rientrato nella capitale dopo la resa del 26 aprile, trovò così improvvisamente tutto mutato, e per lui ebbe inizio un periodo di profonde amarezze. Subito ebbe il disappunto, unico tra i segretari generali dei ministeri, di non vedersi designato provvisoriamente dalla Municipalità di Milano a fare le veci del superiore: era questo un riflesso della fama di "democratico" che ancora lo circondava, nonché dei rimproveri che era stato costretto a rivolgere al Corpo civico per l'inefficienza dimostrata nelle requisizioni per l'armata. Reintegrato nella posizione che già occupava dal plenipotenziario Bellegarde, che secondo i dettami del governo austriaco si mostrava disposto a chiudere entrambi gli occhi sul passato politico di un funzionario di sicure capacità nell'amministrazione finanziaria, egli accettò di continuare il servizio nonostante le mutate circostanze politiche, spinto a ciò dalla necessità di percepire un regolare stipendio. Ben presto, però, ulteriori elementi si aggiunsero a rendergli insopportabile la permanenza in quell'ufficio. In primo luogo il disprezzo cui era fatto segno dai filoaustriaci, immediatamente riemersi dopo anni di silenzio; poi il vedersi in breve circondato da "una folla d'uomini dotti, saggi e fedeli del bel paese [l'Austria], dove gli uomini nascono colla scienza infusa e colla monomania della fedeltà" (Memoria ultima, parte III); in terzo luogo l'incertezza circa il suo futuro di funzionario. in vista della fine del sistema amministrativo provvisorio e della complessiva riorganizzazione.

Punto poi nell'orgoglio dall'avere visto rifiutata a livello governativo l'offerta fattagli dal Monti, dal Giordani e dal Breislak per una collaborazione all'appena fondata Biblioteca italiana, il C. decise di lasciare Milano e nel dicembre 1815 accettò la proposta di collaborare con i nuovi fermieri delle finanze ducali di Parma e di trasferirsi in quella sede quale intendente generale delle Finanze. Accettato dall'imperatore, per conto della figlia Maria Luigia, il contratto, la cosa fu decisa, e troppo tardiva giunse la proposta del ministro delle Finanze conte Stadion perché passasse a presiedere la direzione generale delle dogane e privative a Milano. Il 14 marzo 1816 furono pertanto accettate le sue dimissioni dalla carica di segretario generale dell'intendenza generale di finanza in Milano e il 10 genn. 1817 egli poté prestare giuramento a Parma in qualità di intendente generale della ferma mista.

Purtroppo per lui la nuova esperienza fu catastrofica. Nel ducato trovò infatti molti nemici e più ancora se ne fece tra i maggiorenti locali, colpiti dall'introduzione di tariffe più alte e profondamente turbati dal vedere alla direzione della politica finanziaria del ducato un uomo dal passato di acceso democratico, per giunta ex braccio destro del Prina. Inoltre il C. entrò presto in attrito con i fermieri con i quali si era accordato, e per tutta conseguenza il 12 maggio dello stesso 1817, appena giunto a Piacenza per effettuare una ricognizione sui confini commissionatagli dal conte Neipperg, si vide recapitare un dispaccio contenente un decreto a stampa della sovrana portante la sua destituzione (Arch. di Stato di Milano, Presidenza di governo, b. 18). A nulla valsero allora le rimostranze e la minaccia di recarsi addirittura a Vienna per fare valere le proprie ragioni: il C. fu costretto a lasciare il ducato e a rientrare in Lombardia, lasciando in questo modo per sempre la carriera degli impieghi.

Da quel momento la sua esistenza fu tutta dedicata agli studi. Rifugiatosi nella sua casa di Galbiate, in Brianza, diede inizio a un lungo periodo di vita schiva e ritirata, interrotta solo da brevi e sporadiche apparizioni in Milano (di solito regolate secondo l'amichevole accordo intercorso con la moglie, Febronia Colombo, sposata nel 1805 alla morte del primo marito di lei, dalla quale si era separato nel 1817 dopo l'avventura parmense: l'accordo prevedeva che Febronia Colombo potesse usufruire della casa di Galbiate per due brevi periodi annui, durante i quali il C. si trasferiva in Milano. Alla morte della Colombo, nel 1829, egli sposò in seconde nozze Nina Arioli). Però, nonostante questa condotta ben lontana dall'attività politica di un tempo, col ritorno in Lombardia ebbe inizio per lui un periodo difficile e tormentato. Venuto meno il suo apporto di sperimentato funzionario, il governo austriaco di Milano prese automaticamente a considerarlo come "antico giacobino", e come tale non gli risparmiò fastidi di ogni genere.

Dopo essere riuscito a pubblicare nel 1816, quando a Milano egli era ancora qualcuno, il quarantanovesimo e cinquantesimo volume degli Economisti classici italiani, ottenendo persino una sottoscrizione di 300 copie da parte della Reggenza, cominciò per lui un periodo di continue difficoltà editoriali, che finì col rendergli problematico ogni tentativo di pubblicazione. Suo principale avversario divenne, come logico, l'ufficio di censura. Già nel 1817, appena rientrato in Lombardia, gli fu impedito di dare alle stampe il manifesto per la pubblicazione di un Extrait de la Biographie moderne des personnes vivantes commenté par un italien, ou premier "errata corrige" de dit ouvrage, lavoro col quale si proponeva di controbattere le ingiuste valutazioni su molti italiani contenute nella raccolta di biografie curata dai fratelli Michaud, appena stampata in Francia.

Il progetto del C., che era in prospettiva quello di pubblicare a sua volta una raccolta di biografie di italiani illustri, secondo il modello di celebrazione nazionale dell'industre ceto civile che già era stato alla base della compilazione degli Economisti classiciitaliani, trovava nello scontro con l'opera dei Michaud un primo spunto costruttivo, frutto dell'esigenza di ribattere l'alterigia di questi francesi, "che dopo di averci spogliati per tanti anni c'insultano ora per dispetto della ritolta preda" (lettera del 26 giugno 1817 diretta all'ufficio di censura, in Arch. di Stato di Milano, Autografi, b. 1243 f. 11). La censura austriaca, che al di là del tono antifrancese dello scritto aveva colto la vera intenzione dell'autore, naturalmente vietò la pubblicazione del manifesto; giudizio che ribadirà ancora nel 1820 e 1827 a seguito di ulteriori suoi tentativi. Egualmente nel 1841 non fu consentita al C. la pubblicazione dei primi volumi di biografie da lui approntati. Con fatica, e a prezzo di numerosi tagli, poté solo fare stampare due ampliamenti delle biografie di Pietro Verri e di Cesare Beccaria, per conto dei sessanta quaderni delle Vite e ritratti d'illustri italiani curati dallo stampatore Nicolò Bettoni (Milano 1820), benché si trattasse di semplici rifacimenti delle introduzioni biografiche già proposte negli Economisti classici italiani.

Questo stato di cose portò in breve il C. a un atteggiamento di aperta polemica verso la censura e verso il governo che la dirigeva; ma, a dimostrazione che per lui i tempi erano proprio cambiati, il direttore della polizia, Raab, sfruttando la circostanza, nell'ottobre 1818, di una sua grave crisi depressiva, lo fece rinchiudere in un carcere per pazzi, ove restò per trentadue giorni. Tornato in libertà, riprese subito a ingaggiare dispute con gli uffici di censura, anche se in toni più moderati. Nel 1822, dopo molte difficoltà, poté stampare a Milano un volume dedicato "a quel bizzarro ingegno del Baretti": Scritti scelti inediti o rari di Giuseppe Baretti con nuove memorie della sua vita (seguito nel 1823 da un secondo volume dallo stesso titolo). Poco dopo si accinse a un impegnativo lavoro storiografico, avendo accolto nel 1824 l'incarico di portare a termine l'incompiuta Storia di Milano di Pietro Verri, rivedendola parte relativa al periodo 1525-1565, completata nel 1798 in modo assai discutibile dal canonico Antonfrancesco Frisi, e compilando la parte dal 1565 al 1792 sulla base degli appunti lasciati dallo stesso Verri.

Benché il C. compisse un lavoro filologicamente corretto, sforzandosi di formulare giudizi politici accettabili dal governo asburgico, anche quest'opera ebbe un destino travagliato: passata all'esame della censura milanese dopo alcuni tagli e stampata nel 1825 per i tipi del Destefanis, fu dopo pochi mesi sequestrata per diretto intervento dell'ufficio di censura di Vienna, e benché l'autore tentasse per lungo tempo di avere ragguagli in merito alla determinazione, non poté che rassegnarsi a ricevere risposte evasive e a subire il danno economico della decisione.

Il trauma per questo insuccesso fu molto forte. Pur continuando a studiare e a lavorare il C. non riuscì più a portare a compimento lavori importanti. Invero molte cose continuò a preparare, ma tutto rimase interrotto: la raccolta delle Vite e scritti inediti di diversi illustri italiani, di cui già si è detto, rimase solo abbozzata; di un progetto d'Illustrazione dei viaggi di Marco Polo veneziano, con dissertazioni sull'industria e il commercio degli italiani dei secoli XIII e XIV, vide la luce solo un breve articolo (Di Marco Polo e dei suoi commentatori, negli Annali di statistica del giugno 1828); un grosso studio sulla vita di Francesco Sforza restò fermo alla fase della raccolta di materiale; progettate e mai realizzate restarono una Relazione di viaggi nell'Alta Italia e un'autobiografia dal titolo Mia vita e memorie storiche dell'Italia dal 1796 al 1814.Questo per citare solo alcuni dei lavori ai quali il C. andò dedicando gli ultimi anni della sua vita. Putroppo l'ostilità delle autorità governative riuscì pian piano a spegnere la sua energia, contribuendo così, prima di ogni altra cosa, all'insuccesso di tanti ambiziosi progetti. Del C. di quegli anni si possono ancora ricordare due ultime brevi pubblicazioni, il Discorso sopra una bibliografia dell'economia politica, negli Annali di statistica del gennaio-marzo 1830, e le Nuove illustrazioni sulla Signora di Monza, nell'Eco del 19 ott. 1835; per il resto la censura non ebbe più ad occuparsi di lui.

Il colpo di grazia alla operosità dei C. si può dire venisse dato dalla pubblicazione, nel 1835, del volume Semplice verità opposta alle menzogne di Enrico Misley, stampato anonimo, ma da tutti conosciuto come opera di Paride Zaiotti, con la falsa data Parigi 1834.

Nel volume, oltre a molteplici valutazioni politiche (relative in particolare alla restaurazione del 1799-1800) che sembravano fatte apposta per indispettire un personaggio quale il C., vi era poi un passo nel quale il volume della Storia di Milano del Verri da lui curato veniva accomunato ed altre opere per le quali si giudicava l'intervento censorio giusto, in quanto effettuato su pubblicazioni "riprovevoli", offensive "alla religione, alla morale e all'ordine pubblico", e comunque destinate a marcire nelle botteghe dei librai.

Il C. non resse all'affronto. Cercò di avere soddisfazione delle accuse sofferte, ma un intervento del governatore della Lombardia, il conte von Hartig, che gli intimò il silenzio, gli fece capire che non era il caso di insistere. Si chiuse allora per anni in un ostinato silenzio, dedicandosi con passione solo ad accrescere la sua già considerevole collezione di libri e di manoscritti, per quanto gli consentiva la pensione di 6.000 lire milanesi annue che gli proveniva dall'essere stato consigliere di Stato e cavaliere della Corona ferrea. Per il resto continuò, quasi ossessivamente, a lavorare intorno a una Memoria ultima da consegnare all'i. r. governo, con la quale venivano respinte tutte le falsità e le deformazioni storiche proposte dallo Zaiotti relativamente agli anni napoleonici.

Intristito e avvilito dalle tante ingiustizie sofferte, il C. morì a Galbiate (Como) il 15 maggio del 1842. La sua enorme collezione di volumi e di manoscritti, che aveva destinato per testamento all'Ambrosiana, finì invece per strane vicissitudini smembrata, cosicché solo una parte del materiale pervenne alla biblioteca milanese, mentre il grosso terminò in Francia, ed è ora consultabile presso la Biblioteca nazionale di Parigi.

Opere: la gran parte dell'enorme mole di materiale manoscritto lasciato dal C. è a Parigi, Bibl. Nationale, nei Manuscrits Italiens-Collection Custodi, cfr. al proposito L. Auvray, Inventaire de la Collection Custodi, in Bulletin italien de la Faculté des lettres de Bordeaux, III (1903), pp. 308-335; IV (1904), pp. 149-155, 244-256, 316-327; V (1905), pp. 73-89, 146-159, 349-379. Molti scritti sono anche conservati in Milano, Biblioteca Ambrosiana, Manoscritti Custodi Miscellanea, varie segnature. Tra questi un diario relativo alle vicende del 1798-99 è stato pubbl. da C. A. Vianello, Un diario inedito di P. C., Milano 1940. La Memoria ultima manoscritta è consultabile a Bergamo, Biblioteca civica A. Maj, Carte Custodi (non inventariate); a completamento di questa, è stata recentemente rinvenuta la minuta di un seguito della Memoria ultima da parte di D. Rota, che sta ora preparando l'edizione critica di entrambi i testi. Oltre alle opere citate nel testo, si ricordano: Osservazioni sul libro intitolato: concordia tra la società e la religione, Milano 1797; Lettera del barone P. Custodi a sua eccellenza il barone Antonio Mazzetti, a cura di F. Longhena, ibid. 1848.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Studi, p.m., b. 231; Autografi, b. 124, f. 11; Uffici e tribunali regi, p. m., b. 515; Presidenza di governo, b. 18; G. Sangiorgio, P. C., in La Rivista europea, VI (1874), pp. 254-276; F. Cusani, Memoria politico-economica del conte Pietro Verri, in Arch. stor. lombardo, VI (1879), pp. 299 s.; S. Pellini, Nuovo contr. alla biografia di P. C., in Boll. stor. per la provincia di Novara, I (1907), pp. 115-137; G. Ferretti, Pietro Giordani e P. C., in Boll. stor. piacentino, VI (1909), pp. 3-12; G. Gallavresi, Alcune lettere del barone C. riguardanti le relazioni del munifico bibliofilo coll'Ambrosiana e colla famiglia Borromeo, in Miscell. Ceriani, Milano 1910, pp. 403-412; E. Rota, G. Poggi e la formazione Psicologica del patriota moderno, Piacenza 1923, pp. 150 s.; A. Tadini, Ancora della vita e degli scritti di P. C., in Boll. stor. per la provincia di Novara, XXI (1927), pp. 72-75, 179-184, 439-450; XXII (1928), pp. 163-167, 281-288, 421-426; XXIII (1929), pp. 309-332; XXIV (1930), pp. 11-35, 189-209, 434-445; XXV (1931), pp. 56-88, 468-482; XXVI (1932), pp. 107-114; A. Tadini, Vincenzo Monti e P. C., ibid., XXII (1929), pp. 427-434; C. A. Vianello, Cinquantaquattro lettere intorno ai comizi di Lione, censurate da P. C., in Rass. stor. del Risorgimento, XXV (1938), pp. 51-86; G. Bustico, P. C. e "L'Amico della libertà ital.", in Il Giornalismo, XVII (1939), pp. 87 ss.; R. Soriga, P. C. cospiratore, in Le società segrete, l'emigrazione politica e i primi moti per l'indipendenza, Modena 1942, pp. 137-145; A. Aspesi, P. C. L'uomo, lo scrittore, il patriota e il politico, Milano 1955; M. Berengo, Le origini del Lombardo Veneto, in Riv. stor. italiana, LXXXIII (1971), p. 534; G. Rastelli, P. C., da 'Tribuno del Popolo' a funzionario, tesi di laurea, facoltà di lettere dell'Università degli studi di Milano, a.a. 1973-74; Id., Censura, autocensura e sequestro di un libro scomodo; P. C. e il IV volume della "Storia di Milano" di Pietro Verri, in Rass. stor. del Risorgimento, LXIV (1977), pp. 387-408; M. Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino 1980, pp. 22 s.; L. Perini, Editori e potere in Italia dalla fine del sec. XV all'Unità, in Storia d'Italia [Einaudi], Annali 4, pp. 838-41.

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