DELLA SCALA, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 37 (1989)

DELLA SCALA, Pietro

Gian Maria Varanini

Figlio illegittimo di Mastino (II), signore di Verona e Vicenza, nacque probabilmente attorno agli anni '30 del secolo XIV: nel 1389 era abbastanza avanti negli anni da poter essere definito "senex", ma la sua data di nascita non può essere arretrata più di tanto, giacché il padre nacque nel 1308.

Non sono note le generalità della madre, né si sa alcunché della sua infanzia. Dal 1344 aveva comunque un seggio canonicale nella cattedrale di Verona, ove presenziava ripetutamente alle riunioni capitolari e ad atti amministrativi diversi. Chierico dall'ottobre 1350 (ma celebrò la sua prima messa solo il 5 ott. 1354), fu consacrato vescovo di Verona il 3 dic. 1350, in un momento nel quale le relazioni fra la signoria scaligera e la Curia avignonese erano buone.

Si deve precisare che la denominazione, spesso adottata, di "Pietro II Della Scala" per designare il D. va abbandonata, avendo lo Hagemann dimostrato come il primo Pietro "de Scala", vescovo di Verona fra il 1291 e il 1295, non appartenga agli Scaligeri bensì ad una famiglia. omonima bergamasca (Documenti sconosciuti dell'Archivio capitolare..., in Scritti in onore di mons. G. Turrini, Verona 1973, p. 385).

II D. (cui successe nel seggio canonicale un altro illegittimo di Mastino, Aimonte) sostituì sulla cattedra di s. Zeno il domenicano Giovanni "de Naso", trasferito alla sede di Bologna. Con lui inizia un periodo di più ordinata e continuativa amministrazione della chiesa veronese, dopo che il ventennio dell'espansione e della crisi della potenza scaligera (1330-50) aveva coinciso con una serie di episcopati brevissimi, segnati dall'assenza del titolare o addirittura conclusisi nel sangue (il vescovo Bartolomeo Della Scala fu ucciso da Mastino [II] in persona), nonché con vacanze della sede.

Gli inizi della carriera ecclesiastica del D., rapidissima e tutta legata al favore paterno, potevano lasciar presagire un episcopato completamente appiattito sul potere politico signorile. E certo un esame preliminare dell'ampia documentazione conferma una sostanziale subordinazione alla volontà dei domini; tale era da quasi un secolo la posizione dei vescovi veronesi. Coesistono però con questo atteggiamento scelte che - non contraddittorie con esso - possono essere lette nel senso di una puntigliosa gestione dell'episcopio e della diocesi. Un atteggiamento di attenta considerazione - almeno sul piano formale: ma non solo su quello - per diritti e prerogative preesistenti si manifestò sin dall'inizio dell'episcopato. quando il D. si fece riconoscere da Cangrande (II) i beni e le giurisdizioni spettanti all'episcopio, e riconobbe a sua volta al capitolo - l'ente da cui proveniva - i diritti e i privilegi ad esso spettanti (1351). Negli stessi anni il D. amministrò effettivamente, a mezzo di vicari, le "ville" di giurisdizione episcopale (Monteforte e Bovolone). Più tardi, nel 1362, tenne ad affermare la competenza dell'episcopio veronese riguardo alla nomina dell'abate di S. Zeno, in occasione dell'elezione di Ottonello Pasti. E non mancò di difendere con energia i diritti episcopali nell'amministrazione dei sacramenti, contro le pretese del capitolo: per tale motivo giunse nel 1380 a vie di fatto con l'arciprete, subendo un processo di fronte a Marquardo patriarca di Aquileia.

Col medesimo capitolo aveva avuto anche altre dure vertenze, almeno dal 1371 in poi, provvisoriamente risolte con una conferma di privilegi di quell'ente (avversario "storico" dell'episcopio) nel 1376 ma poi riprese. Anche in atti di più ordinaria amministrazione ecclesiastica (accorpamento di benefici a favore di alcuni preti in cura di anime; interesse per una confraternita avente sede nella cattedrale, il "consorcium beate Virginis"; rispetto rigoroso della normativa canonica nelle ordinazioni ecclesiastiche, attestate negli anni 1356-58) si manifestò un atteggiamento quanto meno di scrupolosità formale, non del tutto banale per l'epoca e per il contesto nel quale il D. si trovò ad operare; senza per questo volergli attribuire velleità di "riforma". In epoca imprecisata (infondata è la datazione al 1376) il D. confermò poi - sembra - con aggiunte di scarso rilievo, quelle Constitutiones per il clero che il suo predecessore Tebaldo aveva promulgato nei primi anni del Trecento.

Per un giudizio complessivo sull'attività del D. hanno dunque rimarchevole importanza i succitati provvedimenti ed interventi - del resto ancora da approfondire adeguatamente - oltre che i rapporti con il potere signorile. Nei primissimi anni del suo episcopato un'ombra di sospetto lo sfiora, sotto il profilo politico: fra il 1351 e il 1353 comparvero ripetutamente in curia numerosi personaggi che saranno di lì a poco implicati nella grave congiura del 1354 contro Cangrande (II): fra di loro lo stesso Fregnano Della Scala, fratellastro del D. e capo di quel tentativo. Ma non esistono prove in proposito di connivenza, e i rapporti del D. con i domini sembrano restare, allora e in seguito, buoni: al riconoscimento delle prerogative dell'episcopio corrispose un pronto adeguamento alle richieste della signoria, ad esempio sotto il profilo fiscale. Così nel 1354 il D. si indebitò per 2.000 fiorini con il fiorentino Bandino da Lisca in occasione della costruzione della nuova residenza signorile, il castello di S. Martino Aquaro (attuale Castelvecchio), né sembra si sia opposto alle drastiche iniziative di Cansignorio che nei primi anni '70 avocò alla "fattoria signorile" l'amministrazione di tutte le decime della diocesi, e in genere "detinet iura ecclesiarum", ovvero alla impietosa pressione fiscale cui Cansignorio medesimo, e poi Antonio, sottoposero la Chiesa veronese.

Allo stato attuale delle conoscenze, nessun episodio di rilievo segna l'episcopato del D. negli ultimi anni, sotto la signoria di Antonio. Va invece rimarcato, sulla scorta del Cipolla, il suo dignitoso comportamento al momento della caduta della signoria scaligera. Ormai vecchio e malato, fu relegato nei primi mesi del 1388 da Gian Galeazzo Visconti, nuovo signore di Verona, a Lodi. Ivi egli seppe resistere con fermezza per due volte alle pressioni dei rappresentanti del dominus milanese, che voleva indurlo a rinunziare all'episcopato veronese per assumere quello della cittadina lombarda, e minacciava di ricorrere alla Curia romana perché - in caso contrario - attribuisse tale carica a persona gradita. Il D. rispose di voler "vivere et decedere episcopus veronensis", pur riconoscendosi suddito del Visconti. Indottosi, infine, ad accettare l'episcopato laudense (novembre 1388), il D. lo resse fino al 29 giugno 1390, quando (in sospetta, ma non confortata da prove, coincidenza con la grave ribellione antiviscontea verificatasi a Verona pochissimi, giorni avanti) fu cacciato da Gian Galeazzo e si rifugiò a Mantova. Qui morì poco dopo, nel 1392 o 1393.

Il D. ebbe, da una Costanza da Ponte Pietra di Verona, tre figli (Giovanni Leonardo, Iacopo Filippo, Franceschino Donato), documentati soltanto nel 1379-80, quando risultano adulti, e dei quali null'altro si sa.

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