DONÀ, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 40 (1991)

DONÀ (Donati, Donato), Pietro

Antonio Menniti Ippolito

Figlio terzogenito del patrizio Nicolò, nacque a Venezia probabilmente intorno al 1390. Studiò a Padova: il 30 genn. 1410 si licenziò in arti e nel giugno di quell'anno viene già citato con il titolo di dottore artista. Si addottorò però in arti Solo il 19 ott. 1418 (suoi promotori furono Biagio Pellacani, Paolo Veneto e il prestigioso Gasparino Barzizza che declamò in questa occasione un'orazione in suo onore), e nel medesimo giorno si addottorò anche in diritto canonico (sostenuto da Raffaele Fulgosio e Prosdocimo Conti). Fu assai probabilmente scolaro di Francesco Zabarella, cardinale e insigne giurisperito, in onore del quale, nel 1418, recitò nella cattedrale padovana una celebrata orazione funebre. Per quanto il Degli Agostini - il primo ad aver tracciato un ritratto biografico del D. - riporti la notizia di una sua laurea in diritto civile, di essa non si è trovata alcuna conferma.

La carriera ecclesiastica del D. fu tanto rapida quanto prestigiosa (Luca de Oliva lo sottolineò in una lettera all'arcivescovo di Genova Pileo de Marini). Fu protonotario apostolico almeno dall'estate del 1411; alla fine di quell'anno diede mandato a Florio Valerio fu Benedetto di Ravenna perché impetrasse a suo nome presso la Curia romana benefici semplici e curati, nonché la dignità episcopale. E in effetti il 28 apr. 1415 fu eletto arcivescovo di Creta grazie ad una speciale dispensa del pontefice Giovanni XXIII, dispensa necessaria dato che il D. non aveva ancora raggiunto l'età canonica. Secondo l'Anecchini avrebbe ottenuto la nomina solo nel 1417; sembra, comunque, che egli non prendesse mai possesso della diocesi.

Dal 1420 servi la Curia romana; il 25 marzo 1423 venne inviato da Martino V a Pavia a presiedere il concilio che doveva colà riunirsi, insieme con il vescovo di Spoleto Giacomo de Camplo, Leonardo di Stagio Dati, generale dei domenicani, e Pietro abate di Rosazzo. La peste obbligò però presto i padri conciliari a lasciare quella città, e la scelta della nuova sede - che fu Siena - maggiormente gradita al pontefice, avvenne anche per il contributo del D. che diede il placet a nome della nazione italica (ma non sembra che avesse alcun titolo per parlare in questa veste). Ma il concilio, malgrado il trasferimento, non riusci ad avviarsi: per il mediocre numero di padri che convennero nella città toscana, e soprattutto per il violento emergere di quei contrasti che avrebbero segnato per decenni le vicende della Chiesa. Il 7 marzo 1424, il D. e gli altri legati papali lasciarono di nascosto Siena e una volta al sicuro in territorio fiorentino diedero ordine di affiggere sul portale della cattedrale di quella città un atto che decretava lo scioglimento dell'adunanza conciliare.

Martino V premiò il D. per tale operato. Il 25 ott. 1425 lo volle a Perugia in qualità di legato a latere del governo della città, carica che gli garantiva ampi poteri. Il 5 dicembre successivo poi il D. venne eletto vescovo di Castello.

Ancora una volta egli non raggiunse la diocesi assegnatagli: l'unico suo atto conosciuto a favore della Chiesa veneziana è la nomina, tramite un procuratore, di tre giudici sulle decime. Rimase pertanto a Perugia, a governare quell'inquieta provincia che era rientrata a far parte dello Stato pontificio nel 1424 (nel 1426 la competenza del D. venne estesa anche sulla vicina Assisi). A Perugia favori l'ampliamento della cattedrale e l'istituzione di un collegio, la "Nuova Famiglia", destinato a ospitare quaranta scolari. Nel 1427 partecipò all'impresa del Gattamelata che si proponeva di restituire al pontefice le terre occupate dai Varano (Gualdo, Montone, Città di Castello). Il 16 giugno 1428 Martino V lo nominò vescovo di Padova, ma il D. continuò a risiedere a Perugia e governò la sua diocesi per mezzo di vicari. Nel 1430 si scontrò duramente con i Priori perugini che non intendevano consegnare a Roma il monaco Angelo di Pascuccio. Nello stesso anno il pontefice lo richiamò presso di sé, in servizio di Curia. La permanenza romana questa volta fu breve: nel 1431 raggiunse la sua sede episcopale padovana.

Anche come vescovo il D. si dimostrò assai attivo. Si adoperò per riportare ordine nel clero e per favorire le corporazioni religiose: a tal fine riformò le costituzioni sulla disciplina del capitolo e della cattedrale. Nel 1431, per incoraggiare alla residenza i detentori dei benefici minori, istitui la "canevetta", ovvero una rendita spettante a chi rispettasse gli obblighi legati al proprio titolo. Nel 1432 convocò il sinodo generale della diocesi. Alla fine del giugno 1433, comunque, quando Ambrogio Traversari si recò a Padova a rendergli visita, egli era in procinto di partire per Basilea, per partecipare al concilio.

A partire da quello stesso 10 febbr. 1431 in cui Martino V l'aveva convocata, i rapporti tra il pontefice e l'assemblea di Basilea si erano rivelati tempestosi. La situazione non migliorò quando a Martino succedette Eugenio IV. Quest'ultimo, pur accettando nel 1433 quella città come stabile residenza del concilio - dopo avere a lungo tentato di trasferirlo in una città italiana -, continuò a rivendicare la propria superiorità sopra di esso, con l'effetto di vedersi minacciato di sospensione da quell'assise se non ne avesse riconosciuta la legittimità. Agli inizi del 1434 Eugenio IV, per le crescenti opposizioni sorte contro di lui nello stesso ambiente della Curia romana, fu alfine costretto ad accondiscendere alle richieste provenienti da Basilea. li 4 febbraio di quell'anno i legati del papa presentarono all'assemblea la bolla che esprimeva l'adesione del pontefice al concilio. Non che questo significasse la fine di ogni disputa: anzi, la volontà del pontefice, conseguente all'adesione che dopo pochi giorni si sarebbe espressa, di imporre suoi presidenti all'adunanza -ostitui una vera e propria sfida al concilio.

Il D. era frattanto giunto a Basilea il 18 ott. 1433, ma solo nel successivo dicembre tre bolle papali lo autorizzarono a presiedere quell'assemblea insieme con Giovanni Berardi, arcivescovo di Genova, e Ludovico abate di S. Giustina. Le suddette bolle vennero trasmesse al concilio Solo il 15 febbr. 1434, provocandone l'immediata reazione non volendo i padri conciliari accettare altri presidenti che quelli già nominati nel 1433. Solo grazie alla mediazione dell'imperatore Sigismondo si raggiunse un accordo e il 24 aprile i tre presidenti designati da Eugenio IV furono incorporati all'adunanza dopo aver giurato di osservare il decreto di Costanza sulla superiorità del concilio sul papa, di rispettarne la divisione interna in deputazioni, di non fare valere alcun tipo di giurisdizione coattiva su di esso. Condizioni assai dure, cui i legati del papa - soprattutto il D. e il Berardi - mostrarono ben presto di non volere aderire, malgrado l'impegno preso.

A partire dal marzo 1435 i due rappresentanti pontifici cominciarono a scontrarsi con l'assemblea, opponendosi alla decisione delle deputazioni che attribuiva al concilio la potestà di concedere indulgenze per consentire la riunificazione della Chiesa cattolica con quella greca. Solo il papa, sostenevano il D. e il Berardi, poteva concedere indulgenze, il denaro che il concilio voleva raccogliere per mezzo di queste non si rendeva d'altro canto necessario perché Eugenio IV si stava impegnando direttamente con i Greci in fruttuose trattative. Ma la durezza del confronto spingeva intanto i "due invincibili atleti" (così li defini il Traversari) e altri, pochi, loro seguaci, a rimeditare sul progetto di trasferimento del concilio in Italia.

Impegnato nelle complesse dispute che ponevano in discussione la struttura e i fondamenti della Chiesa, il D. si adoperò anche a sostenere presso il concilio le ragioni della Repubblica di Venezia nella causa che la impegnava contro fl patriarca di Aquileia. Già il 18 genn. 1434 si era recato fuori di Basilea per accogliere gli ambasciatori della Serenissima. nel gennaio 1436 informò premurosamente la Repubblica della minaccia di interdetto su di essa incombente se non si fosse sottomessa alle volontà del patriarca (e della stessa assise di Basilea).

Lo scontro definitivo tra i presidenti e il concilio avvenne quando quest'ultimo, il 9 giugno 1435, pose in discussione un decreto che aboliva le annate, ossia tutti i diritti percepiti dalla S. Sede in occasione della provvisione o conferma di benefici, collazione di ordini sacri ecc. In quell'occasione il D. e il Berardi accusarono l'assemblea di eresia e se ne allontanarono. Dopo ripetute e sempre più decise intimazioni perché si ripresentassero, i due presidenti acconsentirono a farlo Solo il 26 agosto successivo, ma senza con ciò ritirare la propria protesta.

Si riapriva frattanto la questione, ancora non risolta, delle indulgenze da concedersi da parte del concilio per la causa greca. Nuovamente il D. e il Berardi espressero la propria opposizione, mentre da parte del papa riemergeva nel frattempo il progetto di trasferire il concilio in altra sede. Fu questo probabilmente il motivo della successiva scelta dei due: dopo una nuova assenza alle assemblee generali dell'11 e del 14 apr. 1436, nel maggio lasciarono Basilea.

Il D. si recò dal papa a Bologna e presso Eugenio IV rimase due anni con permanenza talvolta interrotta da qualche spostamento nella vicina Padova. Nel 1438 fu a Ferrara, per partecipare al concilio di unione con la Chiesa greca: quando la peste costrinse l'assemblea a lasciare quella città, il D. segui il concilio a Firenze. Nel 1439 fu di nuovo a Padova, per la cui università aveva ottenuto da Eugenio IV un ampio privilegio; nel 1440 ancora a Firenze dove sarebbe rimasto presso il pontefice altri due anni. Nel 1442 tornò, questa volta definitivamente, nella sede della sua diocesi, interrompendo all'improvviso, forse a causa delle gelosie che il suo prestigio aveva suscitato, il più che ventennale rapporto di collaborazione intensa con il Papato e la Curia.

Tornò a Padova disilluso e amareggiato, confortato da amici come Francesco Barbaro, senz'altro affaticato dopo una tanto lunga e frenetica attività. Lo starebbe, tra l'altro, a dimostrare il fatto che il primo documento di un qualche rilievo del D. dopo il suddetto anno 1442 è il suo testamento, datato 14 sett. 1445. In esso, oltre a provvedere quanto ai suoi beni a favore di propri congiunti (dei nipoti in particolare), ordinò si istituisse in Padova un collegio universitario, denominato "Domus Sapientie", destinato ad accogliere venti studenti di diritto canonico bisognosi. Il D. Stesso, il 12 marzo 1446, concluse un contratto per la fornitura di materiale edilizio utile alla costruzione del collegio con Giovanni, figlio del giurista Paolo di Castro. Il progetto della "Domus Sapientie" dovette poi incontrare qualche difficoltà: il 14 sett. 1447 un codicillo aggiunto dal D. al testamento lasciava libera scelta agli esecutori dello stesso - entro un anno dalla morte del testatore -, di provvedere o alla costruzione di detto collegio, oppure all'erezione di un monastero di certosini o di altri monaci di regolare osservanza. Gli esecutori testamentari si orientarono, infine, verso la fondazione della certosa di Padova.

Nel 1446 il D. convocò un sinodo diocesano che si espresse contro l'abuso della libera distribuzione di oli santi ai secolari, si pronunciò sulla modestia necessaria all'abbigliamento del clero e dettò norme per la corretta utilizzazione e l'efficace sfruttamento dei beni della Chiesa dei quali veniva ribadita l'inalienabilità. Sempre in quell'anno mantenne a proprie spese la cattedra a Bartolomeo Cipolla, uno dei giuristi più insigni dello Studio padovano, e istitui due benefici per consentire l'insegnamento ai giovani chierici di grammatica e musica. Istitui la dignità arcidiaconale, e nel 1447 liberò da ogni censo e dal peso della contribuzione delle decime la chiesa di S. Maria in Monte Ortone. In quello stesso anno provvide al restauro del palazzo episcopale.

Morì a Padova, forse di peste, il 7 ott. 1447 e fu sepolto nella cattedrale padovana.

Il D. fu un prestigioso uomo di cultura, un appassionato bibliofilo, un fortunato scopritore di codici, e fu in rapporto con alcuni tra i più brillanti esponenti dell'Umanesimo. Nel 1408 già possedeva un codice di Quintiliano che il suo maestro Gasparino Barzizza dichiarava di desiderare; nel 1411 e 1412 entrò in possesso di un Catullo e di un esemplare del De officiis di Cicerone, entrambi trascritti dal nipote Girolamo. Il D. stesso, alla fine del 1415, copiò un Nonio Marcello da un codice che Francesco Barbaro aveva inviato al Barzizza. Negli anni Venti prestò diversi codici ad Ambrogio Traversari, tra cui esemplari di Vangeli e di orazioni ciceroniane. In un testamento redatto poco prima della sua partenza per Basilea, nel 1433, speciale posizione occupava un codice autografo, in parte, di Giovanni d'Andrea, e particolari menzioni riguardavano altri testi di diritto canonico e civile.

Gli impegni del concilio di Basilea non turbarono la passione per i codici del D., che in quella città fece copiare dal suo cappellano Giovanni da Monterchi un Lectionarium evangeliorum e forse un volume di epistole di s. Girolamo. Anzi, lavorando e viaggiando nelle province imperiali, scopri in sé la vocazione di rinvenitore di codici. Del 1436 è il rinvenimento del codice di Spira, contenente tredici opuscoli di varia ispirazione, tra cui la Cosmographia Aethici, che egli stesso ricopiò (l'autografo del D. è il Can. Misc. 378 della Bodleian Library di Oxford). Sempre negli anni di Basilea formò una silloge epigrafica ora in un codice Hamilton di Berlino. A poco dopo il ritorno del D. da Basilea deve essere datata la traduzione delle Atanasi Alexandrini episcopi contra gentiles (Bibl. ap. Vat., Vat. lat. 259) che il Traversari volle dedicargli in una breve prefazione ricca di elogi rivolti alla sua persona. Conservati nella sua biblioteca e a lui stesso ancora dedicati il poema Heptalogus o De septem verbis Domini nostri Iesu Christi in cruce pendentis composto dal certosino Mariano da Volterra, la traduzione di Luciano fatta da Lauro Quirini, il Libellus de conservanda sanitate di Bartolomeo da Montagnana e un non identificato Scriptum super libro offitiorum di Cicerone. Il Degli Agostini dà notizia di una traduzione da Apuleio indirizzatagli da Guarino Veronese, il Sambin del poema Gesueide che gli dedicò Girolamo Dalle Valli, la King del Libellus de magnificis ornamentis civitatis Padue dedicatogli da Michele Savonarola, del De confessione christiana dedicatagli da Sicco Polenton e della traduzione del De septem mundi spectaculi di s. Gregorio Nazienzeno dedicatagli da Ciriaco d'Ancona.

Durante il soggiorno fiorentino il D. fu cliente della bottega libraria di Vespasiano da Bisticci che certamente gli vendette un codice dello Speculum historiae mundi del Comestore e che avrebbe poi reso di lui un vivo ritratto nelle sue Vite. In tutti questi modi il D. raccolse una imponente biblioteca (un inventario ricostruito dal Sambin riporta trecentocinquantotto codici), una delle più ricche collezioni private del tempo: libri sacri, giuridici, teologici, trascrizioni da autori classici, scritti di erudizione geografica, storica ecc. Caratteristica di questa biblioteca è la frequente esistenza di più copie degli stessi testi: è probabile che i codici fossero stati raccolti con l'intenzione di destinarne alcuni ad uso comune, per una "libraria" universitaria o monastica.

Tra gli "scriptores" che il D. volle attorno a sé il nominato Giovanni da Monterchi, Arnoldo del fu Niccolò Rempenich, chierico di Colonia, Enrico Luberti di Sassonia (questi ultimi notai e cancellieri, Enrico anche dottore artista), il viennese Pangrazio, con una prevalenza di tedeschi che testimonia una familiarità con la cultura d'Oltralpe, di certo frutto del soggiorno a Basilea. All'inizio degli anni '40 è frequentemente presente nella sua cerchia più stretta il giurista Francesco Alvarotti.

Significativa fu in questi ultimi anni l'amicizia del D. con l'esule fiorentino Palla Strozzi, anch'egli appassionato ai codici. I suoi rapporti con gli umanisti sono testimoniati dalla sua corrispondenza con Benedetto Ovetario, Ambrogio Traversari, Francesco Barbaro, Poggio Bracciolini, Antonio Carabello, Lapo da Castiglionchio, Guarino Veronese, Pietro Del Monte e Ognibene Scola (al riguardo cfr. King). Elogiato da Vespasiano da Bisticci e da Lauro Quirini, il D. scrisse la già ricordata Oratio In exequiis cardinalis Francisci Zabarellis (edita in L. Bertalot, Eine Sammlung Paduaner Reden des XV. Jahrhunderts, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, XXVI [1935-36], p. 256); l'Oratio in laudem pape; l'Oratio de laudibus philosophiae in suo principio in artibus e l'Oratio ... ad reverendissimos patres in concilio Basiliensi existentes (King). Secondo il Sansovino scrisse anche una Defensio pro Alexandro contra Averroem de augmentatione.

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