GIORDANI, Pietro

Enciclopedia Italiana (1933)

GIORDANI, Pietro

Giovanni Ferretti

Nato a Piacenza da famiglia borghese il 1° gennaio 1774, il G. ebbe una giovinezza attediata da disgusti domestici e attraversata da frequenti impeti di ribellione. Subito dopo la laurea, esasperato per una passione amorosa infelice, si fece monaco benedettino a S. Sisto in Piacenza (1797). Vi rimase tre anni; poi, disgustato dell'ambiente, abbandonò il monastero prima d'essere ordinato sacerdote (1800) e dell'episodio gli rimase poi sempre un ricordo che colorì di violenze verbali il suo irritato anticlericalismo. Dal 1800 al 1808, il G. ebbe piccoli impieghi in diverse amministrazioni pubbliche, vagando scontento di sede in sede; e per qualche tempo fu supplente, mal retribuito, nella cattedra di eloquenza all'università di Bologna. Composto nel 1807, a Cesena, mentre era ospite di Pietro Brighenti, un Panegirico a Napoleone che lesse, applaudito, in quell'Accademia, ne ebbe in compenso dal viceré Eugenio qualche dono, e ottenne, premio della notorietà finalmente raggiunta, l'ufficio di prosegretario dell'Accademia di belle arti di Bologna, che coprì onorevolmente dal 1808 al 1815. Scrisse nel 1810, ma non portò a compimento, un Elogio di Antonio Canova: e del Canova divenne amicissimo, con quell'esuberanza sentimentale propria del suo temperamento, che lo portava a darsi all'amicizia con l'abbandono con cui altri si sarebbe dato all'amore-passione. Ripristinato nel 1815 il governo pontificio a Bologna, il G. perdette l'ufficio, e passò a Milano, dove, grazie alla fama di prosatore eloquentissimo che aveva ormai conseguita, fu per qualche tempo, con l'Acerbi e col Monti, condirettore della Biblioteca italiana, e ne dettò il Proemio. Nel 1817, mortogli il padre, ereditò un modesto patrimonio che gli assicurò l'indipendenza economica. Da allora pago delle tenui risorse di cui disponeva, che erano esuberanti rispetto alla sua vita frugalissima e castigatissima, senza ambizioni e senza aspirazioni, tutto dedito agli studî, alla lettura, al carteggio con gli amici lontani, alla conversazione con i vicini, il G. prese stanza nella nativa Piacenza, dove, col prestigio del nome già illustre e col fascino che gli derivava dall'appassionato e disinteressato amore del bene, divenne presto il centro e l'animatore d'ogni utile iniziativa. Promosse la fondazione di una Società di lettura e l'istituzione di asili infantili: combatté una campagna violenta - e lasciò sull'argomento lettere di calda e vigorosa eloquenza - contro i maestri che percotevano i piccoli nelle scuole popolari (1819); cercò i giovani, ne indirizzò gli studî, ne mise in valore con pronta generosità le prime manifestazioni. Tra questi giovani, è suo vanto l'aver rivelato al mondo Giacomo Leopardi, che conobbe di persona nel 1818 a Recanati.

La prefazione a una raccolta di versi in onore del nuovo vescovo della città, Antonio Loschi, procurò al G. per certe espressioni che sembrarono irriverenti verso la duchessa Maria Luisa, l'esilio da Piacenza nel 1824; ed egli, risentitosene, per quanto il provvedimento fosse poi subito revocato, si stabilì a Firenze, dove visse per sette anni "come in un paradiso terrestre": frequentò il Gabinetto Vieusseux e divenne uno degl'inspiratori dell'Antologia, strinse un'amicizia fraterna - costituivano, egli diceva scherzando, una "trinità" - con Gino Capponi e Pietro Colletta, rivide il Leopardi, conobbe il Manzoni. La sua fama, durante la dimora fiorentina, crebbe e si affermò con un'impronta schiettamente nazionale, quantunque fosse raccomandata più alle vaste possibilità dell'ingegno facondo e della versatile dottrina che a opere importanti in cui egli avesse dato piena misura di sé.

Da Firenze lo allontanò, nel novembre 1830, un altro provvedimento di polizia, dovuto alla supposizione, che risultò priva di fondamento, ch'egli avesse inspirato un gesto sdegnoso del Capponi verso il granduca. Il G. partì subito, sebbene già prima della sua partenza l'equivoco fosse dissipato; e non volendo riprender dimora a Piacenza, perché non dimenticava e non perdonava i torti che vi aveva ricevuti, si recò a Parma, dove visse quasi ininterrottamente fino alla morte. Sue occupazioni favorite, ancora, la lettura e il carteggio: scrisse tante lettere, diceva, da poterne riempire più stanze; e le scriveva liberissimamente, esprimendo giudizî su tutto, ed esercitando veramente, come è stato osservato, per l'ammirazione che esse destavano, una dittatura letteraria incontrastata sull'Italia del suo tempo.

Di queste lettere, però, la censura violava spesso il segreto: e fu la narrazione dell'assassinio del capo della polizia degli Stati parmensi, contenuta in una lettera confidenziale ad Antonio Gussalli, che richiamò, nel febbraio del 1834, l'attenzione della polizia austriaca, la quale, conoscendo i sentimenti liberali del G., lo sospettava, senza fondamento, mescolato nelle sette e nelle congiure da cui era invece alieno, e ne reclamò l'arresto. La sua prigionia durò ottantotto giorni; e gli diede occasione a lettere di protesta belle di concitata eloquenza. Liberato prima del giudizio, il G. ritornò alla vita di prima, più consapevole di sé e della sua fama, per quanto, mutati i tempi e gl'indirizzi spirituali, questa declinasse. Ma nel 1847 e nel 1848, se letterariamente era oramai un uomo superato, il risveglio della coscienza nazionale, ch'egli aveva auspicato e promosso soprattutto con l'azione animatrice dell'estesissimo carteggio, gli diede la meritata soddisfazione d'essere in primo piano nel mondo politico. A Pio IX, "vero stragrande miracolo", egli inneggiò subito commosso, rinunziando improvvisamente a quella pretofobîa che anche pochi anni prima gli aveva dettato una fiera campagna contro i gesuiti; e in Carlo Alberto ritrovò, con gioia, il principe che fin dal 1818, con Vincenzo Monti, aveva preconizzato come il solo da cui gl'Italiani potessero fondatamente sperare il loro riscatto. I Parmigiani, liberi dal governo borbonico, salutarono nel G. il loro profeta glorioso, e lo nominarono presidente onorario dell'università. Il G. esultò con loro; ma doveva, nell'agosto 1848, assistere al rovescio delle armi italiane, e rifugiarsi, disperato, nel pensiero della morte vicina, che infatti lo raggiunse il 2 settembre di quell'anno.

La vita del G. fu nobile, vissuta con coerenza e dignità, che si tradusse in un apostolato per ciò che considerava progresso, apostolato cui non si adeguò sempre l'opera sua di scrittore: perché fu soprattutto uno stilista: prosatore facondo e colorito, abbondante di felici aggettivi, armonioso. Nelle sue prime esercitazioni, il contenuto gli era indifferente; esso non era d'altra parte che un pretesto; il suo proposito di fronte ad esso era essenzialmente amplificativo ed esornativo. Ciò allontanava la sua prosa d'arte da quell'ideale di limpidezza e di potenza espressiva che pur professava: era uno scrittore che non prendeva sul serio gli argomenti che affrontava, e d'altra parte gli mancava la costanza e la forza di attendere lungamente a un lavoro. Ma quando un argomento lo appassionava davvero, era d'una eloquenza, d'una vigoria, d'una potenza polemica poche volte raggiunta nella letteratura italiana, e poche volte resa felice da una così sicura padronanza di tutte le risorse della lingua. Le sue cose migliori sono quindi le lettere: quelle specialmente dettate nei momenti più gravi della sua vita (la "causa dei ragazzi", la carcerazione), o quelle in cui, rivolgendosi a giovani o a intimi, discorreva abbandonatamente d'ogni cosa: come quando propagandava sane e spesso ardite vedute in materia d'educazione, o quando, a proposito delle letture che consigliava, esprimeva giudizi sugli scrittori e sulla letteratura italiana, con un'indipendenza coraggiosa che a lui, di gusto e di educazione classica, faceva ammirar senza riserve i Promessi Sposi.

Tra gli Scritti, che son dunque la parte meno viva della sua produzione, vanno ricordati, oltre a quelli di cui s'è fatto cenno a proposito della vita, un discorso, di tre che aveva divisato di scriverne, Sulle pitture di Innocenzo Francucci da Imola, un Elogio della Maria Giorgi, famosa cantatrice (1812), l'orazione Per le tre legazioni riacquistate dal Papa (1815), il discorso Degl'improvvisatori e dell'ordine nello studiare la storia e della tortura data a Galileo (1817), l'Istruzione a un giovane italiano per l'arte di scrivere (1821), importante per determinare l'ideale ch'egli cercava di attuare in sé e più efficacemente promoveva negli altri; una lettera al Capponi per una scelta di prosatori italiani (1825), un ragionamento su La prima psiche di Carlo Tenerani (1826), un affettuoso e lapidario Ritratto di V. Monti (1830), una descrizione dello Spasimo di Raffaello inciso da Paolo Toschi (1833), un saggio Dei volgarizzatori trecentisti (1834), un discorso Degli asili d'infanzia indirizzato al mecenate pistoiese Niccolò Puccini (1844). Vanno anche ricordate le iscrizioni, di cui egli diede molti saggi, affermando vittoriosamente per primo la possibilità della lingua italiana d'imporsi nell'epigrafia sulla latina, e facendo nobile prova di sé per la concettosa magniloquenza e la nobiltà dell'eloquio. Altre opere, di più larga mole, il G., come s'è accennato, cominciò o abbozzò: un trattato Sul vero nelle arti della parola e del disegno, una Storia dello spirito pubblico in Italta, un discorso Della religione in Italia: ma si trattò appena d'intenzioni, la cui vastità accentua il contrasto tra le possibilità di quell'ingegno singolare e la tenuità della sua azione diretta: e spiega come, disperdendo le sue risorse nella conversazione e nel carteggio, egli esercitasse un'influenza tanto superiore a quest'azione.

Edizioni complete: Opere, Firenze 1846, voll. 2; id., pubblicate da A. Gussalli, Milano 1854-1863, voll. 14.

Bibl.: I. Della Giovanna, P. G. e la sua dittatura letteraria, Milano 1882; G. Capasso, La giovinezza di P. G., Torino 1896; S. Fermi, Saggi giordaniani, Piacenza 1915; v. il catalogo sistematico delle Carte di P. G. nella Laurenziana compilato da C. Mazzi, in Riv. di Bibl. e degli Arch., XI (1900) segg.; e la Bibl. delle lettere a stampa di P. G., da S. Fermi, Firenze 1923.