GRADENIGO, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 58 (2002)

GRADENIGO, Pietro

Franco Rossi

Soprannominato Pierazzo o Perazzo, nacque a Venezia verso la fine del 1250, figlio di Marco di Bartolomeo. La madre, almeno volendo prestare fede al genealogista Marco Barbaro, era quasi certamente una Querini; di lei però le fonti tacciono il nome. Le genealogie gli attribuiscono un unico fratello, probabilmente maggiore, Marino, il padre del doge Giovanni. Di eventuali sorelle non si ha alcuna notizia. Nulla si conosce della sua adolescenza, della sua giovinezza, dei suoi studi, della sua formazione, dei suoi interessi. Come solitamente avveniva in quei tempi, intorno ai quattordici-quindici anni fu probabilmente associato dal padre nei suoi ripetuti incarichi militari, per mare e per terra, potendo così maturare sul campo quell'esperienza all'azione, quella prontezza nel comando, quella risolutezza nelle decisioni che costituirono i tratti più distintivi della sua condotta di governo.

"Vir nobilis, probus, sapiens, persona decorus, animosissimus […] sensu naturali perfectus atque omnibus virtutibus circumspectus", lo definì l'anonimo autore della Venetiarum historia (p. 194) e "accorto huomo, prudente, d'animo invitto et molto eloquente" il Sansovino (p. 565). La Cronaca attribuita a Daniele Barbaro lo vuole invece "huomo accortissimo et che sempre cerchò de vencer et de condur avanti le sue operation più presto col dissimular et con l'arte che con la forza, la qual esso soleva dir che non era mai da usar se non quando s'era seguri che l'operarla non podesse portar né danno né pericolo alcuno. Fu fermo nelle sue volontà, nei discorsi pronto; et che molto anteccedeva ai suoi amisi, et a quei che s'adherivano al suo voler era grattissimo et beneficentissimo, et dall'altra parte dei nemisi et de quei che gh'eran contrarii, accerbissimo et crudelissimo persecutor, et che mai se soleva satiar se non col sangue" (c. 51rv).

Si unì in matrimonio - non se ne conosce l'anno - con Tommasina Morosini, figlia di Giovanni e nipote di Tommasina, moglie del principe Stefano d'Ungheria e madre del re Andrea III, il Veneziano, che gli diede numerosi figli e che sicuramente gli premorì. Tra i maschi i genealogisti ricordano Bertucci, Giacomo, Paolo, Marco e Nicolò; tra le figlie Belluzza, Beriola, Engoldisa, Caterina e Isabetta, detta anche Anna. I figli, forse a motivo dell'ingombrante presenza paterna, ebbero modestissimi carichi politici e di governo, almeno per quanto è dato di conoscere. Di Nicolò, detto Nicoletto, si ricorda un'ambasciata a Treviso, nel 1314, insieme con Enrico Dolfin, per significare a quel Comune le congratulazioni di Venezia per la recuperata libertà. Marco fu invece podestà di Padova nel 1319-20, quando questa era ancora libero Comune. Bertucci, premorto al padre, per accondiscendenza del Pregadi nei confronti del G. ebbe solenni funerali di Stato. Al G. sopravvissero in ogni caso solamente Marco e Nicolò. Nel testamento, dettato al notaio Marco della Vigna il 14 sett. 1309, il G. istituisce infatti suoi "fidecommissari" appunto Marco e Nicoletto, mentre tace degli altri figli maschi. Quanto alle figlie, Caterina fu monaca a S. Lorenzo e Isabetta sposò in seconde nozze Giacomo da Carrara verso il 1310, alla conclusione della guerra di Ferrara. Al G. viene attribuita, ma con scarso fondamento, una seconda moglie, Agnese Zantani, con la quale si sarebbe sposato in tarda età. Di quest'ultima, comunque, nel testamento non si fa alcuna menzione.

Non volendo dare troppo credito a quanto sostenuto dall'anonimo autore della Venetiarum historia, che lo pone al comando delle forze di terra veneziane contro i Bolognesi nel 1272-73, comando attribuibile invece con maggiore certezza al padre, il primo incarico pubblico del G. di cui si abbia notizia sembra essere stato la partecipazione alla missione diplomatica di Giacomo Dandolo (o Dondulo), Giovanni Tiepolo, Girardo Morosini, Giovanni Donà, Giovanni Canal e Raffaele Bettonio, inviati a Bologna nel 1274 per trattare la pace. In precedenza era stato eletto in Maggior Consiglio una prima volta nel 1269, quindi nel 1270 e nel 1276. Nel 1279 venne inviato in Istria, unitamente a Tommaso Querini e Ruggero Morosini provisores, con il compito di imporre nuovamente la presenza veneziana in quelle terre, di riprendere possesso delle città istriane e di reprimere eventuali tentativi di rivolta. I tre provveditori, secondo quanto riferito dal doge-cronista Andrea Dandolo, ma anche da Marino Sanuto e dall'autore della Venetiarum historia, eseguirono alla lettera e con particolare severità le istruzioni ricevute. In Istria il G. ritornò altre due volte, come podestà di Capodistria, agli inizi degli anni Ottanta e immediatamente prima di assumere il principato. Tra un mandato e l'altro, quasi certamente prima del 1285, resse anche la podestaria di Caorle, centro minore del Dogato ma in quel tempo di notevole rilevanza strategica per il controllo del contrabbando del sale, che attraverso il fiume Livenza veniva distribuito in tutto il Friuli occidentale, ed entrò ripetutamente in Minor Consiglio, nel 1285-86 e nel 1288-89. Altri incarichi pubblici non sono conosciuti prima del mandato dogale.

Il 2 nov. 1289, mentre il G. si trovava appunto a Capodistria nella sua veste di podestà, venne a morte Giovanni Dandolo. Il giorno successivo "secundum statuta et ordinamenta Veneciarum", il regimen fu assunto dal Minor Consiglio e dai capi di Quarantia.

Lo spirito pubblico in quei giorni appariva particolarmente turbato; le difficoltà economiche avevano infatti messo a dura prova le magre finanze del popolo minuto, soprattutto quelle dei modesti artigiani e dei piccoli mercanti, che ricordavano con particolare rimpianto i tempi dei dogi Giacomo e Lorenzo Tiepolo, ritenuti, a torto o a ragione, più vicini ai ceti popolari, quando i "grandi" non monopolizzavano ancora del tutto la vita pubblica veneziana, e vi poteva essere spazio anche per la loro voce, per far sentire la loro insoddisfazione, il loro malessere, le loro esigenze. Da più parti veniva reclamata a gran voce l'elezione di Giacomo Tiepolo, figlio di Lorenzo, anche in dispregio delle collaudate procedure istituzionali. Il 22 novembre, mentre ancora si attendeva l'elezione del nuovo doge, scoppiarono gravi disordini; il clima infatti era particolarmente incandescente proprio a motivo della lunghezza estenuante e sospetta della procedura elettorale. Il Tiepolo, "essendo molto prudente et di singular bontà, per fugir li odii et discordie che sarebbono seguite, volse absentarsi et se conferì nella sua villa de Marocho, dove spesse fiate ai soi piaceri dimorar soleva" (Caroldo, Istoria veneta, c. 194v). Il G. era pure lui lontano da Venezia, trattenuto a Capodistria dai suoi obblighi istituzionali, ma tra le lagune vi era chi brigava per lui e si premurava di tenerlo almeno informato della piega che stavano prendendo gli avvenimenti. Conoscendo lo spirito e il temperamento dei contendenti, ma più ancora quello delle fazioni del tempo, vi è più di una ragione di dubitare delle parole del cronista a proposito della "singolare bontà" di Giacomo Tiepolo; senz'altro più remunerativo, in termini storiografici, puntare invece l'attenzione sul quel predicato "molto prudente", che dà proprio la misura dell'uomo, accorto alle circostanze e fatto esperto degli umori, violenti ma instabili, delle masse. Quasi certamente, infatti, il Tiepolo si ritirò in campagna non per libera scelta ma perché così costretto dallo schieramento dei "grandi" che, dopo attenta ricerca, avevano trovato l'uomo giusto da opporre alle ambizioni eversive dei ceti popolari.

La ricostruzione più attenta e l'analisi più originale di quei fatti così importanti per tutta la successiva storia istituzionale veneziana si ritrovano senz'altro nella Cronaca attribuita al Barbaro, che collega lo scontro a distanza tra il Tiepolo e il G. alle divisioni interne di Venezia e a quelle che più in generale coinvolgevano in quei medesimi anni le principali città dell'Italia centrosettentrionale, e anche per Venezia parla di partito guelfo contrapposto a partito ghibellino. Magari potrà sembrare un po' troppo forte il richiamo ai guelfi e ai ghibellini, evocativo di ben altri scenari; tuttavia va ricordato che neppure le più tranquille acque lagunari andarono immuni dalle lotte intestine e dai conflitti di classe e che, anche volendo prescindere da etichette e da classificazioni sociopolitiche, era del tutto inevitabile che pure a Venezia, quando le circostanze lo richiedevano, ci si richiamasse ai due massimi poteri del tempo. Semmai furono le soluzioni adottate a fare della Serenissima un caso del tutto speciale e avulso dal contesto nazionale. Anche in questa occasione, che avrebbe potuto offrire il pretesto ottimale a risposte istituzionali del tutto eversive rispetto al dettato normativo, la soluzione della crisi assunse i contorni più confacenti agli interessi dei ceti sociali dominanti, dei "grandi", delle famiglie che più saldamente detenevano le leve del potere e non intendevano assolutamente spartirlo con chi invece era avvertito come portatore di interessi opposti e contrastanti.

Tuttavia lo scontro violento con i Tiepolo e con chi dai Tiepolo si sentiva rappresentato era solo rinviato. In effetti l'elezione del G. costituì solamente il primo tempo di un confronto aspro e drammatico tra le due diverse anime di Venezia, un confronto che gli "elettori" in senso lato del nuovo doge fecero di tutto per inasprire e portare al punto di non ritorno, e che si chiuse soltanto quasi mezzo secolo più tardi, quando la mannaia del carnefice troncò la testa all'incolpevole Marino Falier, quando ormai i "grandi" si erano necessariamente ricompattati a difesa di un mondo che non poteva non vederli tutti solidali nell'interpretazione della perfetta Repubblica, dello Stato diverso e migliore di ogni altro.

Il 25 novembre la scelta per il nuovo doge cadde, come ormai a tutti era parso inevitabile, sul G., che il Maggior Consiglio si affrettò a prelevare da Capodistria nel timore di nuovi disordini di piazza. Il G. fece così il suo ingresso in città, "ma non però con universal allegrezza et applauso del popolo, per causa, come ho detto, d'esser la fation contraria", puntualizza Daniele Barbaro (c. 6v) e assunse le funzioni dogali solo il 3 dic. 1289.

Gli anni del dogato del G. non furono particolarmente tranquilli per Venezia, almeno sul versante della politica estera. Infatti si riaccese ancora una volta il conflitto con Genova, che causò all'armata veneziana una sonora sconfitta nelle acque di Curzola a opera di Lamba Doria (7 sett. 1298), e che si chiuse solamente grazie alla mediazione di Marco Visconti. Nel 1304 scoppiò la guerra con Padova, nel 1309 quella con il patriarca d'Aquileia, e nel 1310 si ribellò ancora una volta Zara. Ma più grave di tutti fu il conflitto che contrappose Venezia a papa Clemente V per il possesso di Ferrara (1308-13). La guerra, imputabile in gran parte all'ambiziosa politica del G., che ispirò direttamente tutte le iniziative intraprese al riguardo dai Consigli veneziani, condividendo a malapena il suo operato con il Minor Consiglio e i tre capi di Quarantia, salvo poi, quando le cose cominciarono a mettersi veramente male per Venezia, per due volte scomunicata (16 ott. 1308 e 27 marzo 1309), tentare di scaricare ogni responsabilità sul Maggior Consiglio, compromise seriamente le finanze pubbliche e private della città, ridotta allo stremo delle sue forze, ed espose i Veneziani tutti quasi al pubblico ludibrio e agli assalti impuniti di chiunque avesse ardire di passare all'azione.

La guerra di Ferrara divise ancora una volta la città in due schieramenti contrapposti, anche se la condotta di Clemente V, che non esitò a usare le armi spirituali della scomunica, dell'interdetto e dell'anatema a esclusiva difesa dei propri interessi temporali, di riflesso contribuì non poco a far maturare in città uno spirito patriottico che, come in altre simili occasioni, riuscì a legare nel comune sforzo per la sopravvivenza ceti sociali altre volte lacerati da interessi per forza di cose divergenti.

Ma fu soprattutto sul versante interno che l'azione del G. lasciò un suo segno indelebile. Se possono così passare in secondo piano l'ingrandimento in Arsenale della "Casa del canevo", la futura Tana e i primi lavori di ampliamento dei cantieri pubblici (1304), lo stesso non può dirsi per gli interventi di carattere istituzionale che presero il via a partire dalla cosiddetta "serrata" del Maggior Consiglio, la riforma che pose le fondamenta di tutto l'ordinamento, sociale e statuale a un tempo, di Venezia, mantenutosi poi tale sino al fatidico 12 maggio 1797.

La serrata venne già dai contemporanei ascritta soprattutto al G., anche se egli non fu certamente il solo a elaborare il progetto e quindi a mandare in esecuzione, tassello dopo tassello, i necessari provvedimenti normativi che dovevano accompagnarlo. L'aristocrazia più conservatrice, che ne aveva voluto l'elezione a doge, muoveva ancora una volta insieme con lui le fila di un disegno politico il cui obiettivo, ormai evidente, era quello di allontanare, e per sempre, gli homines novi e i populares dall'esercizio del potere.

Questi ultimi non tardarono molto a cogliere gli esiti sociali provocati dalla riforma e a manifestare in forme più o meno violente il loro dissenso. "Così se viveva all'hora adoncha nella città, con odio, con rancor et con suspetto dall'una parte et dall'altra […] et perzò ne seguirno molti scandoli et molti tumulti" racconta dei mesi immediatamente successivi alla riforma Daniele Barbaro (c. 17r), il più attento nel riferire fin nei minimi particolari, con palese simpatia per gli esclusi, il clima di quei giorni carichi di trepidazione e di fermenti.

La congiura scoppiò per opera di Marino Bocconio, ma, male preparata e peggio ancora messa in atto, si concluse tragicamente per i rivoltosi. Il goffo tentativo dell'iroso popolano di essere ammesso in Maggior Consiglio forzando le porte del palazzo, la sua eccessiva ingenuità nel fidarsi della parola del ben più scaltro doge, l'irresolutezza dimostrata dai suoi sostenitori, restii all'azione armata, non potevano certamente sortire alcun esito positivo. Non era certamente questo il modo migliore per far tornare sulle loro decisioni il G. e gli altri "grandi", per costringerli ad aprire nuovamente le stanze del potere agli esclusi: "Cognosceva il Dose, che era accortissimo [aggiunge di suo il cronista] l'humor del so popolo, et comprendeva per certo che non l'amor ma la paura il tegniva quieto" (ibid., c. 20r).

La serrata, e più ancora l'esito disastroso della guerra di Ferrara, imputata da tutti gli avversari politici all'ambizione e alla poca lungimiranza del doge, ebbero nondimeno di lì a qualche anno conseguenze drammatiche, forse non del tutto inattese dall'aristocrazia conservatrice, convinta però di tenere la situazione del tutto sotto controllo, di aver ridotto all'impotenza, attraverso la stabilizzazione del Maggior Consiglio, l'opposizione interna guidata dai Tiepolo e dai Querini.

Il pretesto per una nuova prova di forza, destinata in questo caso a coinvolgere in prima persona proprio gli esponenti più in vista di quel patriziato che non condivideva la politica del G., venne offerto dall'ostinazione del doge, dei Giustinian, dei Michiel e di altri ancora nel voler imporre in Minor Consiglio, contro le leggi vigenti, il conte Doimo di Veglia. Questa volta l'opposizione al doge e ai suoi alleati trovò espressione proprio negli esponenti più significativi della fazione avversaria, "i gelfi", Marco Querini e suo genero Baiamonte Tiepolo, figlio di quel Giacomo che aveva vanamente conteso il dogato proprio al G., fatto venire in tutta fretta dai possessi aviti di Marocco. La "congiura" poteva e doveva aver luogo.

L'obiettivo primario era indubbiamente il doge, ostacolo principale alla restituzione del potere alle sue vecchie forme, alla restaurazione della costituzione dell'immediato passato, il quale per questo doveva essere soppresso fisicamente e sostituito con l'esponente più significativo di quello che Daniele Barbaro insiste nel definire il partito guelfo, appunto Marco Querini. Le linee guida dell'azione dei congiurati vennero tracciate proprio dal Querini. Nella notte tra il 14 e il 15 giugno 1310 due schiere di armati, guidate rispettivamente da Marco Querini e da Baiamonte Tiepolo, avrebbero dovuto irrompere in piazza S. Marco, uccidere il doge e quanti si fossero loro opposti, provocare la sollevazione di tutto il popolo e impadronirsi del governo. Un insieme di circostanze, alcune fortuite altre imputabili alla non perfetta organizzazione della manovra delle due squadre, che secondo i piani predisposti avrebbe dovuto essere a tenaglia, fecero venir meno il fattore sorpresa. Il G., ripetutamente messo sull'avviso da tanti segnali, e già pronto in armi protetto da una nutrita schiera di sostenitori, poté predisporre con relativa tranquillità le contromisure e addirittura attaccare i congiurati prima che questi avessero la possibilità di unire le loro forze. Marco Querini venne ucciso senza che neppure potesse avvicinarsi al doge e Baiamonte Tiepolo fu costretto a ritirarsi in tutta fretta per evitare di fare la stessa fine del suocero.

La repressione del G. non si fece attendere. Tolti di mezzo con relativa facilità i vertici della congiura, fu altrettanto facile eliminare le seconde e le terze file nonché i fiancheggiatori occasionali. Le liste dei congiurati, veri o presunti che fossero, si allungarono a dismisura e del pari quelle dei condannati, a morte ovvero banditi. Di conseguenza le divisioni interne si acuirono maggiormente; la città era come spaccata in due, partigiani del Tiepolo e sostenitori del doge, e solo la paura del carnefice, come aveva facilmente previsto il G., poteva tenere a freno gli animi più accesi.

Le condanne capitali furono numerose e il terrore regnò a lungo sovrano; le delazioni si sprecarono e i tribunali si accanirono con sospetta determinazione contro i colpevoli, veri o presunti, di tradimento, di lesa maestà, di assembramento sedizioso, e pure contro i loro figli e nipoti. Era sufficiente manifestare ad alta voce la propria insoddisfazione, il proprio disagio, persino la propria opinione nei confronti del doge, del governo, dell'aristocrazia, per incorrere nelle sanzioni più dure e crudeli, quasi sempre la forca e l'ignominia perpetua, estesa anche alle generazioni future, agli amici, ai conoscenti.

Lo Stato, il potere comunque costituito e legittimo, riuscì a trionfare anche questa volta. Il G. poté allora accreditarsi come tutore ed estremo difensore della legalità costituzionale minacciata da un ristretto gruppo di sediziosi, animati esclusivamente dalla propria ambizione e da insaziabile fame di potere; una legalità costituzionale che proprio il doge non aveva esitato a stravolgere nelle sue linee strutturali pur di raggiungere il suo reale obiettivo: respingere lontano dal potere politico (ed economico, va osservato) in una sorta di ben architettata conventio ad escludendum i ceti popolari, gli homines novi, gli "altri", a tutto vantaggio di un gruppo ristretto di famiglie, destinate in virtù di una scelta predeterminata a esplicitare erga omnes i valori di una particolarissima aristocrazia e a trasmettere ereditariamente, di generazione in generazione, ai propri discendenti diritti politici e status sociale. Per gli esclusi, come lucidamente aveva saputo cogliere Baiamonte Tiepolo, neppure la speranza.

Dalle ceneri della "congiura" l'ordinamento istituzionale veneziano uscì profondamente rinnovato: i vincitori, le famiglie che avevano a suo tempo voluto eleggere il G., che avevano appoggiato il doge e che dal doge avevano tratto appoggio, la fazione dominante, i "ghibellini" - per ripetere la definizione del cronista -, quasi non si sentissero del tutto al sicuro entro le difese costituzionali che avevano innalzato a salvaguardia dei propri privilegi, vollero tutelarsi ulteriormente con la protezione giudiziaria garantita da un tribunale speciale, il Consiglio dei dieci, dapprima straordinario e temporaneo, finalizzato alla repressione della congiura Querini-Tiepolo, quindi, a far tempo dal 10 luglio 1335, stabilizzato e reso definitivo nei suoi assetti interni.

Il G. tuttavia non poté godere a lungo della vittoria sugli antagonisti. "Oppresso da grave infermità" (Caroldo, Istoria veneta, c. 233v), morì a Venezia il 13 ag. 1311, a poco più di sessant'anni.

Fu sepolto senza troppi onori, quasi di nascosto, nella chiesa di S. Cipriano di Murano, anche perché era ancora scomunicato; ma a maggior ragione in quanto si temeva una sollevazione popolare, e un possibile ritorno sulla scena del Tiepolo. Circa le cause reali della sua morte permangono ancora numerosi dubbi, visto che da più parti venne subito avanzato il sospetto che il G. fosse stato ucciso non dai disagi di una vita intensa e travagliata quanto piuttosto dal veleno. Non appare in ogni caso del tutto inverosimile che, quasi a compensazione del sangue versato a causa delle sue ambizioni politiche, la vita del G. finisse non in maniera naturale. Come scrisse poi il Caroldo, "passato di questa vita l'illustre duce Gradenico, tutta la cità ne sentiva piacere, sì per le guerre a suo tempo sostenute con infinito danno de le facultà et de le persone, come per la conspiratione di Beomonte et principalmente per haver lassata la cità contumace di santa Chiesa, con le censure et interdetti, delle qual tutte cose era data imputatione al duce" (cc. 233v-234r).

E certamente il popolo non ebbe a dolersi della morte del doge, salutata quasi con gioia, anche se le conseguenze più dolorose del suo operato non cessarono con lui, ma durarono ancora a lungo in una città inevitabilmente segnata dalle divisioni e dalle fratture interne. Non fu facile per gli elettori ducali trovare un successore al G.; Stefano Giustinian, eletto in prima battuta, preferì infatti evitare il pesante fardello e prese la via del chiostro, indossando l'abito dei benedettini in S. Giorgio Maggiore. Il 23 agosto, alla fine, la scelta ricadde su Marino Zorzi, un patrizio conosciuto più per le virtù morali e per la singolare devozione religiosa - tanto da essere chiamato "il santo" - che per il cursus honorum e i meriti politici.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, cc. 53, 59, 71, 77; 56: Cronaca veneta [veneziana] dall'anno 1280 all'anno 1413 attribuita a Daniele Barbaro, cc. 5v-6r, 7v, 15v-17r, 24r, 27r, 29rv, 35r, 46r, 51rv, 52r, 53v; 63: Elenco dei dogi da Pauluccio ad Andrea Gritti, c. 45v; 74: P. Gradenigo, Memorie istorico-cronologiche spettanti ad ambasciatori della Serenissima Repubblica di Venezia spediti a vari principi, c. 372r; Misc. codd., III, Codici Soranzo, 21: Historia veneta scritta da Gio. Giacomo Caroldo… in forma di cronica dalla fondazione di Venetia sino l'anno 1361, cc. 194rv, 217rv, 218v-219r, 233v-234r; 32: G.A. Cappellari Vivaro, Campidoglio veneto, II, cc. 580 s.; Maggior Consiglio, Deliberazioni, Liber Luna (copia), c. 132v; Liber Zaneta (copia), cc. 294v, 312r, 341r; Liber Magnus et Capricornus, cc. 6r, 8r; Cancelleria inferiore, Notai, b. 219, Notaio Marco della Vigna (testamento del G. in data 14 sett. 1309, ad diem); Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna, 2329: Storia delle famiglie venete persistenti con le particolarità degli uomini illustri che figurano nella Repubblica, c. 34v; 3782: G. Priuli, Li pretiosi frutti del Maggior Consiglio…, II, c. 103r; Codd. Gradenigo, 133/I, cc. 35r, 37r, 71r, 76rv, 78r-79v, 204r; Ibid., Bibl. naz. Marciana, Mss. it., cl. VII, 192 (= 8230): Vita del doge Bartolammeo Gradenigo scritta dal n.h. ser Piero Gradenigo qm Giacomo, p. 6; cl. VII, 128 (= 8639): G.G. Caroldo, Cronica, cc. 128r, 141v-142r; M. Sanuto, Vitae ducum Venetorum Italice scriptae, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXII, Mediolani 1733, coll. 571, 577, 588; A. Dandolo, Chronica per extensum descripta, a cura di E. Pastorello, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XII, 1, pp. 326, 370 s.; M. Sanuto, Le vite dei dogi, I, a cura di G. Monticolo, Ibid., XXII, 4, p. 9; F. Corner, Creta sacra, II, Venetiis 1755, pp. 318, 331, 334; L. De Monacis, Chronicon de rebus Venetis, a cura di F. Corner, Venetiis 1758, p. 274; Diplomatarium Veneto-Levantinum, a cura di G.M. Thomas, I, Venezia 1880, pp. 1 s., 13, 19, 23, 26, 28, 33, 43, 46, 48, 50, 55, 59, 62, 75 s., 78, 85 s.; Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, III, a cura di R. Cessi, Bologna 1934, pp. 248-252, 396, 417; I, a cura di R. Cessi, ibid. 1950, pp. 289, 292, 301; Venetiarum historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di R. Cessi - F. Bennato, Venezia 1964, pp. 189, 194-196, 205 s., 210, 299; Le promissioni del doge di Venezia dalle origini alla fine del Duecento, a cura di G. Graziato, Venezia 1986, pp. 132 s.; F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare descritta in XIII libri, Venetia 1581, pp. 488, 565 s.; F. Verdizzotti, De' fatti veneti dall'origine della Repubblica sino all'anno 1504, I, Venezia 1686, pp. 201, 207, 216; M. Foscarini, Della letteratura veneziana libri otto, Padova 1752, pp. 162 s.; C. Tentori, Il vero carattere politico di Baiamonte Tiepolo, Venezia 1798, pp. 13, 24-26, 28-33, 35, 37, 39, 48, 50-54, 57-59, 61, 64, 66-69, 94, 102; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, II, Venezia 1854, pp. 309, 315, 323 s., 343; III, ibid. 1855, pp. 8, 11, 24-26, 29, 49 s., 80 s., 83, 85, 90, 115; N. Papadopoli, Le monete di Venezia, I, Venezia 1893, pp. 140 s.; E. Besta, Il Senato veneziano. Origine, costituzione, attribuzioni e riti, Venezia 1899, pp. 89 s.; G. Soranzo, La guerra fra Venezia e la S. Sede per il dominio di Ferrara (1308-1313), Città di Ca✄tello 1905, pp. 43, 67 s., 7✄ s., 91, 103-105, 132, 143, 179 s.; G. Maranini, La costituzione di Venezia, I, Dalle origini alla serrata del Maggior Consiglio, Firenze 1927, pp. 342, 344, 350; II, Dopo la serrata del Maggior Consiglio, ibid. 1927, pp. 274 s., 278; A. Da Mosto, I dogi di Venezia con particolare riguardo alle loro tombe, Venezia 1939, pp. 70-73; G. Volpe, L'Italia e Venezia, in La civiltà veneziana del Trecento, Firenze 1956, p. 27; R. Morozzo della Rocca, Cronologia veneziana del '300, ibid., p. 240; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1966, pp. 115-119; G. Cracco, Società e Stato nel Medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967, pp. 325, 327, 355 s., 363 s., 366, 396; G. Scarabello, Le dogaresse, in I dogi, a cura di G. Benzoni, Milano 1982, p. 172; A. Tenenti, La rappresentazione del potere, ibid., pp. 73, 95; U. Tucci, I meccanismi dell'elezione dogale, ibid., p. 111; E. Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia, Milano 1984, p. 28; G. Cracco, Un "altro mondo", Venezia nel Medioevo. Dal secolo XI al secolo XV, Torino 1986, pp. 108-110, 114, 116 s., 119; G. Gullino, Una famiglia nella storia: i Gradenigo, in Grado, Venezia, i Gradenigo (catal.), a cura di M. Zorzi - S. Marcon, [Venezia] 2001, pp. 138 s., 141; F. Rossi, Quasi una dinastia: i Gradenigo tra XIII e XIV secolo, ibid., pp. 155-159, 162-170, 187.

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