MARTINI, Pietro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 71 (2008)

MARTINI, Pietro

Antonello Mattone

– Nacque a Cagliari il 29 sett. 1800 da Nicolò, notaio originario di Sanremo, e da Giuseppa Rita Cadeddu.

Dopo gli studi presso le Scuole pie della città natale, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Cagliari, ove si laureò in utroque iure nel 1823. Dopo il tirocinio presso uno studio legale, nel 1826 fu assunto come applicato nella segreteria di Stato e di Guerra del Regno di Sardegna, dove rimase sino al 1842, dal 1838 con la qualifica di capo di divisione.

Insieme con i fratelli Antonio, avvocato, e Michele, impiegato nei Regi Archivi, il M. fu dal 1837 l’animatore e il più assiduo compilatore dell’Indicatore sardo, un periodico di stretta osservanza monarchico-assolutista. Agli anni Trenta risalgono pure i suoi primi lavori letterari e storici: una raccolta di Versi (Cagliari 1833), le Poesie in lode d’illustri sardi (ibid. 1834), l’Elogio storico di Giuseppe Maria Pilo vescovo d’Ales (ibid. 1836) e i due poemetti di argomento storico Amsicora ed Josto e la Profuga di Nora (ibid. 1837).

La prima, significativa opera del M. è la Biografia sarda, I-III, Cagliari 1837-38. L’autore, constatando che «le universali biografie si miravano ingemmate di pochissimi nomi ragguardanti la Sardegna», si proponeva di «dar seggio» a qualsiasi sardo «si offrisse meritevole di ricordo onorato dai tempi più remoti infine ai presenti». Il modello storiografico cui guardava era la Storia di Sardegna di G. Manno, che aveva dato spazio agli «uomini eccellenti nelle lettere e nelle scienze» dei secoli XVI-XVII, ma teneva conto anche dei Ritratti poetico-storici d’illustri sardi moderni (Cagliari 1833) dell’avvocato S. Caboni. Un aiuto determinante gli venne anche dal direttore della Biblioteca universitaria L. Baille che gli mise a disposizione la sua celebre «biblioteca sarda» e le numerose informazioni «raccolte sulle cose patrie in quest’isola e nelle dotte sue peregrinazioni in Italia». La Biografia sarda entrò in concorrenza con il Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna (I-III, Torino 1837) del magistrato ed erudito sassarese P. Tola, un’opera con cui era difficile competere, sia per il numero dei biografati (858 in Tola, 159 nel M.), sia per lo spessore storico e la completezza della documentazione (nel M. basata quasi esclusivamente sulle fonti reperibili a Cagliari e sullo schedario Baille). Lo stile del M. è inoltre piatto e dimesso. Lo stesso pubblico dei lettori gli riservò un’accoglienza tiepida: gli associati furono 389 contro gli 849 (saliti a 1063 nel 1838) del Dizionario di Tola.

Indubbiamente più interessante risulta la Storia ecclesiastica di Sardegna, I-III, Cagliari 1839-40 (aveva 472 associati nell’isola), che colmava un vuoto storiografico e valendosi di una ricca documentazione affrontava, in piena coerenza con l’ideologia dell’autore, tutte le fasi della storia ecclesiastica sarda: il primo volume, infatti, muovendo dalla diffusione del cristianesimo in Sardegna, ignorava le «mal fondate asserzioni» degli scrittori del XVI e XVII secolo, faceva proprie le conclusioni di J. Bolland, D. Papenbroeck e A.F. Mattei e si fermava con le concessioni giudicali agli ordini monastici nei secoli XI-XIII; il secondo trattava le dominazioni pisana e aragonese chiudendosi con la fine del governo spagnolo; il terzo, infine, esponeva le vicende del dominio sabaudo dal giurisdizionalismo settecentesco al regno di Carlo Alberto. Il M. aveva tenuto ampiamente conto della Sardinia sacra (Roma 1758) di Mattei, della Storia di Sardegna di G. Manno, dei documenti pubblicati da L.A. Muratori, E. Martène, G.B. Mittarelli e A. Costadoni e, ancora una volta, dei «preziosi diplomi» estratti da L. Baille «dall’archivio diplomatico di Firenze e dagli archivi capitolari di Genova e di Pisa».

Arrivarono così i primi riconoscimenti. Il 22 marzo 1842, auspice Manno, il M. fu nominato membro della Deputazione subalpina di storia patria e il 29 nov. 1849 fu chiamato a far parte, come socio corrispondente, dell’Accademia delle scienze di Torino; il 27 apr. 1854 ottenne la croce di cavaliere per merito civile. Il 27 sett. 1842, quando, per motivi di salute, il M. fu costretto a lasciare la segreteria di Stato, il governo lo nominò presidente della Biblioteca dell’Università di Cagliari, carica che occupò sino alla morte. Il nuovo incarico fu accolto con grande entusiasmo dal M. che ordinò razionalmente la biblioteca, la dotò di nuovi fondi librari e di nuovi periodici scientifici, acquisì nel 1843 la donazione da parte di F.C. Baille della «biblioteca sarda», accorpata nel corso di un cinquantennio dal fratello Lodovico (morto nel 1839), e decorò le sale di lettura con i ritratti dei sardi più illustri.

Appartengono a questa fase alcuni studi strettamente attinenti alla sua nuova attività di bibliotecario, come il Catalogo della biblioteca sarda del cav. Lodovico Baille (Cagliari 1844), la Memoria sulla Biblioteca della R. Università di Cagliari (ibid. 1845), la Memoria sulle vicende tipografiche in Sardegna (ibid. 1847), che costituisce uno dei primi studi sulla storia della stampa nell’isola, e il Catalogo dei libri rari e preziosi della Biblioteca dell’Università di Cagliari (ibid. 1863).

Nel 1847, in seguito alla prospettiva della «fusione» del Regno di Sardegna con gli Stati di terraferma e alla concessione in Piemonte della libertà di stampa, anche l’Indicatore sardo attuò, in sintonia con gli orientamenti governativi, una spregiudicata virata dalle originarie posizioni filoassolutiste verso aperture liberalconservatrici. Malgrado il suo trasformismo, stigmatizzato con durezza da Giovanni Siotto Pintor, il giornale continuò a essere considerato come l’organo della reazione e del dispotismo: non a caso, durante le manifestazioni del novembre 1847, gli studenti universitari cagliaritani ne bruciarono in pubblico alcune copie.

Il 15 dic. 1847 il M. pronunciò un «discorso popolare» Sull’unione civile della Sardegna colla Liguria, col Piemonte e colla Savoia (Cagliari 1847) esaltando i «due fatti grandissimi» rappresentati dall’atto di cessione dell’isola ai Savoia (1720) e dall’«unione» della Sardegna con gli Stati di terraferma «decretata dal gran re Carlo Alberto». Con la fusione, «aurora di grandi e nuove speranze» purché attuata con prudente gradualità, la Sardegna, uscendo dalle tristi condizioni di degrado economico, civile e culturale in cui era rimasta per secoli, sarebbe potuta «risorgere a nuova vita civile», grazie all’«entrata nella lega doganale italiana» e all’introduzione del sistema metrico-decimale adottato in Piemonte.

Nelle elezioni del Parlamento subalpino del 17-18 apr. 1848 il M. fu candidato per il partito governativo nel collegio di Cagliari I e, dopo una campagna elettorale particolarmente aspra, fu eletto deputato nelle elezioni suppletive del 27 giugno; ma a ottobre la salute malferma lo costrinse a rinunciare al mandato parlamentare. Nel 1849 il democratico G.B. Tuveri, che lo avrebbe sostituito come deputato nello stesso collegio, attaccava in uno sferzante pamphlet dal titolo Specifici contro il codinismo a 24 centesimi (Cagliari 1849; ora in G.B. Tuveri, Opere, III, Opuscoli politici, a cura di G. Sotgiu, Sassari 1991, pp. 179-263) il M. e i suoi fratelli considerati come i «commissari del codinismo in Sardegna». La risposta del M. fu una piccata querela.

Ritiratosi nel dicembre 1849 dalla collaborazione giornalistica (l’Indicatore cesserà le pubblicazioni nel 1852) e, in parte, dalla vita politica, rimase in contatto con gli esponenti della Destra moderata e conservatrice e, negli anni Cinquanta, il M. appoggiò con convinzione la politica liberale di C. Benso di Cavour. Intorno a lui e ai suoi fratelli si costituì un gruppo politicamente assai influente, battezzato dagli avversari come Camarilla cagliaritana o Consorteria Martini e formato dal magistrato F.M. Serra, dal barone B. Falqui Pes e dai deputati G. Meloni Baille e G.M. Grixoni (mentre il referente a Torino era G. Manno), che si riunivano nella sua casa nel quartiere di Castello per trattare e condizionare i problemi locali.

Il discorso del 2 luglio 1848 Sopra gli antichi ordini governativi ed amministrativi della Sardegna (Cagliari 1848) costituisce un’indubbia prova del liberalismo moderato del M., che individuava il «grande arcano del risorgimento della Sardegna» nei due «principj, fusione e libertà», cioè nell’uniformità politico-amministrativa e costituzionale, senza mostrare alcuna nostalgia verso le «antiche forme di governo» del Regno, considerate espressione dei vecchi ordinamenti feudali. Accenti simili si trovano nelle Memorie intorno alla vita del re Carlo Alberto (ibid. 1850), dove la politica di liberalismo moderato e le concessioni statutarie della dinastia sabauda erano esaltate contro gli «improvvidi» disegni rivoluzionari dei mazziniani.

La Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816 (ibid. 1852) è senza dubbio il più riuscito e significativo lavoro storiografico del Martini.

L’opera traeva origine dalla collaborazione con Manno, intento a scrivere la Storia moderna di Sardegna, e dalle «annotazioni» sui «registri» della segreteria di Stato cagliaritana che il M. inviava al suo corrispondente torinese.

Orientato inizialmente a ricostruire gli anni tra il 1773 e il 1814, in un secondo tempo Manno cambiò idea per la «povertà storica di quei tempi» confidando al M. di aver deciso di «dar termine al novello mio lavoro» con «l’anno 1799 o per meglio dire con l’arrivo in Cagliari della Regia Corte» (lettera del 28 giugno 1841). Il M. iniziò la narrazione dove Manno l’aveva lasciata. Si tratta di una ricostruzione storica ampia, documentata, precisa – ancor oggi utilissima –, priva di qualsiasi piaggeria nei confronti della dinastia regnante della quale sono evidenziati i limiti nel governo dell’isola. Quindi, con gli Studj storico-politici sulle libertà moderne d’Europa, dal 1789 al 1852 (ibid. 1854), un trattato di oltre 400 pagine che traccia una storia politico-ideologica d’Europa dalla Rivoluzione francese all’avvento di Napoleone III, il M. si inserisce a pieno titolo (nonostante la modesta diffusione) nel dibattito, successivo al 1848, sulle prospettive dell’unificazione nazionale italiana.

Nel 1845 il frate C. Manca offriva al M. una pergamena di provenienza incerta: lo studioso comprese subito l’importanza del documento e lo acquistò a proprie spese per donarlo alla Biblioteca dell’Università. Iniziava così la vicenda delle cosiddette Carte d’Arborea, i falsi che dal 1845 al 1870 avrebbero svolto un ruolo non secondario nel dibattito storiografico e filologico italiano ed europeo.

Al primo documento si sarebbero aggiunti nel corso di un decennio nuove pergamene, palinsesti, fogli cartacei che gettavano nuova luce sui periodi più oscuri della storia della Sardegna. Il M. non ebbe mai dubbi sull’autenticità di quelle fonti che davano una coloritura nazionale alle vicende dell’isola e, per circa un ventennio, si impegnò a fondo nella loro edizione e illustrazione, nella convinzione che le Carte gli avrebbero dato fama imperitura.

Con cinica intelligenza i falsari (l’archivista cagliaritano I. Pillito, ma probabilmente dietro di lui si celavano due fini letterati, S.A. De Castro e G. Nino, di orientamento antigovernativo e di simpatie democratiche), inserendosi nell’alveo degli studi eruditi sardi e piemontesi, riuscirono a fornire risposte apparentemente plausibili ai nodi irrisolti delle vicende dell’isola nei «secoli di mezzo», fabbricando pergamene, codici, carte sulla fine del dominio bizantino, sulla continuità della cultura classica nel mondo altomedievale, sulle origini delle lingue romanze e dell’uso letterario del volgare italiano in Sardegna e in Toscana nel XII secolo.

Il M. iniziò a pubblicare i falsi, Pergamena di Arborea illustrata (Cagliari 1846), Nuove pergamene di Arborea (ibid. 1849), Testo di due codici cartacei di Arborea del secolo XV (ibid. 1856), che sarebbero stati poi raccolti e illustrati in un corpus unitario: Pergamene, codici e fogli cartacei d’Arborea (I-II, ibid. 1863), risultando alla fine, insieme con Alberto Ferrero della Marmora e con Carlo Baudi di Vesme, la principale vittima dei falsari. In principio, grazie a Ferrero della Marmora e a Baudi, l’Accademia delle scienze di Torino accreditò, nella seduta del 27 genn. 1853, l’autenticità dei documenti e del Ritmo di Gialeto: in una memoria dal titolo Studi storici sulla Sardegna (in Memorie dell’Accademia delle scienze di Torino, s. 2, 1855, vol. 15), il M. si attribuì il merito della scoperta delle nuove fonti che imponevano una radicale «rivista della storia sarda dai tempi primitivi al secolo XV». Poi, nel 1856, pubblicò nell’Archivio storico italiano un saggio, Dei progressi della storia sarda degli ultimi trenta anni, nel quale poneva in evidenza il grande contributo dato dalle nuove fonti alla rilettura della storia della Sardegna all’interno di quella della «nostra madre comune, l’Italia». L’anno prima aveva pubblicato il Compendio della storia di Sardegna (ibid. 1855, sei edizioni successive), una riuscita sintesi delle vicende dell’isola rivolta a un ampio pubblico, che si basava sui falsi, come anche le Illustrazioni e aggiunte alla Storia ecclesiastica di Sardegna (ibid. 1858) e la Storia delle invasioni degli Arabi e delle piraterie dei barbareschi in Sardegna (ibid. 1861).

Nel 1858 sull’autenticità delle Carte affiorarono i primi sospetti: gli accademici torinesi L. Cibrario, C. Gazzera e F. Sclopis, supportati dal parere di M. Amari, presero a considerare le Carte come un’evidente falsificazione.

In Sardegna le considerava false P. Tola, mentre le difendeva G. Spano con la sua rivista Bullettino archeologico sardo (cui il M. collaborò stabilmente dal 1855 al 1862). Nel 1864 tentò di dimostrare la loro falsità il paleografo francese P. Meyer, seguito nel 1866 dal filologo tedesco A. Dove. Il M. rispose alle critiche ribadendo ancora una volta l’autenticità delle Carte. La parola fine sulla vicenda fu pronunciata nel 1870 da una commissione dell’Accademia delle scienze di Berlino, presieduta da Th. Mommsen, che dichiarò le Carte una falsificazione recente.

Il M. morì a Cagliari il 17 febbr. 1866.

Su delibera del Comune di Cagliari il dottor Efisio Marini pietrificò il suo cadavere per trasmettere ai posteri le spoglie di quello che allora era giudicato il più importante storico sardo del XIX secolo (cfr. A. Carli, Marini, Efisio, in Diz. biogr. degli Italiani, LXX, Roma 2008, p. 449).

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