Pomponazzi, Pietro

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Filosofo (Mantova 1462 - Bologna 1525). Dalla vasta opera di P. emerge una delle figure più notevoli della cultura rinascimentale e soprattutto dell'aristotelismo cinquecentesco: in lui da un lato i problemi posti dall'aristotelismo sono svolti con rigida coerenza, dall'altro si avverte la crisi dell'aristotelismo, non tanto per la dichiarata inconciliabilità con l'insegnamento teologico (motivo già ampiamente sottolineato nella cultura scolastica medievale), ma per avere esso esaurito tutte le sue possibilità e anche per essere in contrasto con le nuove esperienze che allargavano l'orizzonte della cultura rinascimentale.

Vita

Allievo a Padova di Nicoletto Vernia e Pietro Trapolino, dove si laureò nel 1487 in medicina. L'anno successivo fu chiamato alla cattedra straordinaria di filosofia a Padova, dove ebbe come concorrente il famoso A. Achillini, già suo professore, e nel 1495 passò all'insegnamento ordinario di filosofia naturale. Nel 1510, essendo stato chiuso lo Studio padovano a causa della guerra della lega di Cambrai, si trasferì all'università di Ferrara e l'anno successivo a quella di Bologna, dove insegnò fino alla morte.

Opere e pensiero

Alle tematiche dell'insegnamento universitario si ricollegano certamente le prime opere a stampa di P., il Tractatus utilissimus in quo disputatur penes quid intensio et remissio formarum attendantur, nec minus parvitas et magnitudo del 1514, e il De reactione, apparso nel 1515 insieme alla Quaestio an actio realis immediate fieri potest per species spirituales (De actione reali), nonché le numerose reportationes dei suoi corsi universitari, molte delle quali sono state pubblicate in questi ultimi anni. Ma l'opera a cui soprattutto è legata la fama di P. è il De immortalitate animae, pubblicata a Bologna nel 1516, che sollevò subito la violenta reazione della Chiesa. A Venezia infatti il libro venne dato pubblicamente alle fiamme, mentre il Papa Leone X dava incarico ad A. Nifo di scriverne una confutazione. A questa, e agli attacchi di altri oppositori come G. Contarini, frà Bartolomeo Spina e Ambrogio Fiandino, P. rispose scrivendo nel 1517, e pubblicando nel 1518, l'Apologia contra Contarenum e nel 1519 il Defensorium adversus Augustinum Niphum. Del 1520 è la stesura del De naturalium effectuum admirandorum causis sive de incantationibus liber e del De fato, libero arbitrio, praedestinatione et providentia Dei, pubblicate soltanto molti anni dopo la morte di P., rispettivamente nel 1556 e, insieme, nel 1567. Postume (1563) vennero anche pubblicate le Dubitationes in quartum Meteorologicorum Aristotelis librum. Infine, nel 1521 apparve a Bologna il De nutritione et augmentatione, che sembra sia anche l'ultima opera da lui composta. La sua opera più famosa e discussa è, come si è accennato, il De immortalitate animae dove P. definisce la sua posizione sul problema; dapprima tentato dalla soluzione averroistica (nell'interpretazione data da Sigieri di Brabante), contro cui polemizza poi da un punto di vista tomistico, nel De immortalitate P. afferma nettamente l'impossibilità di dimostrare l'immortalità dell'anima nell'ambito della filosofia aristotelica, confutando così sia la tesi averroistica sia quella tomistica. L'anima umana per P. è per sé mortale (in quanto connessa nella sua attività alla vita vegetativo-sensitiva) e solo secundum quid immortale: essa non è immortale ma «profuma» (odorat) d'immortalità. Né questa tesi, sottolinea P., è dannosa per la morale, giacché la virtù non è legata a un premio ultraterreno, bensì è «premio a sé stessa», mentre «la speranza del premio e il terrore della pena comportano un certo atteggiamento servile che è contrario alla virtù». Esclusa la possibilità di «dimostrare» con i principi della filosofia aristotelica l'immortalità dell'anima, P. dichiarava che il problema è «neutro» e la sua soluzione può essere data solo da Dio ed essere quindi oggetto di fede. Delle altre opere, capitali sono il De naturalium effectuum admirandorum causis sive de incantationibus e il De fato: la prima opera risponde al problema se si diano cause soprannaturali di fenomeni naturali, ma il discorso si allarga subito alla discussione sul valore dei miracoli, delle profezie, delle religioni: la complessa problematica è svolta nell'ambito della filosofia aristotelica della natura, dove le cause di ogni accadimento sono ritrovate nelle «qualità» o «essenze» e nell'universale causalità dei cieli; la riduzione dei fenomeni «soprannaturali» (e quindi anche dei miracoli, dell'origine e sviluppo delle religioni, ecc.) nell'ambito di «cause naturali» ne permette un'interpretazione «naturalistica» e, se si vuole, razionalistica, purché si tenga presente che tutta questa prospettiva si colloca nell'ambito della filosofia aristotelica della natura, in cui entrano in gioco come cause forme ed essenze occulte, influenze celesti, che non hanno nulla in comune con il naturalismo empiristico, matematico e meccanicistico né con il razionalismo moderno. Ma forse l'opera speculativamente più originale di P. è il De fato, in cui è affrontato il problema dei rapporti tra provvidenza, fato e libero arbitrio: nella discussione sulle varie dottrine si presenta a P. come più coerente la posizione stoica che nega ogni contingenza e la libertà individuale e sottomette gli esseri a una ferrea necessità, anche a costo di fare di Dio «l'essere più crudele di tutti, carnefice al di sopra dei carnefici, ingiustissimo e carico di ogni cattiveria». Questa la soluzione «razionalmente» più coerente, mentre contraddittori appaiono i vari tentativi, anche della teologia cristiana, di salvare insieme libertà individuale e onniscienza e onnipotenza divina. Anche quest'opera si chiude, come già il De immortalitate, con una posizione estremamente problematica che constata l'inconciliabilità tra ragione e fede, tra filosofia e teologia: inconciliabilità che P. sempre sottolinea in polemica con i tentativi concordistici della teologia, soprattutto tomistica.

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