POMPONAZZI, Pietro

Enciclopedia Italiana (1935)

POMPONAZZI, Pietro (latinizz. in Petrus Pomponatius)

Guido Calogero

Pensatore italiano del Rinascimento, nato a Mantova il 16 settembre 1462, morto a Bologna il 18 maggio 1525. Dopo avere studiato all'università di Padova, dove fu scolaro dell'Achillini (contro il cui averroismo ebbe più tardi a polemizzare), vi si addottorò in medicina nel 1487 e vi cominciò l'anno seguente ad insegnare, divenendo nel 1495 professore ordinario di filosofia naturale. Chiuso nel 1509 lo studio padovano per la guerra della lega di Cambrai, il P. passò nel 1510 all'università di Ferrara, e dopo uno o due anni a quella di Bologna, dove restò fino alla morte. A Bologna pubblicò, nel 1516, l'opera sua più celebre, il De immortalitate animae (la più recente e migliore ristampa è quella curata da G. Gentile nella collezione dei Testi filosofici inediti e rari, Messina 1925). Alla negazione dell'immortalità dell'anima, contenuta in quest'opera, la Chiesa reagì prontamente: a Venezia l'autorità ecclesiastica fece ardere pubblicamente il libro, a Roma Leone X incaricò Agostino Nifo di scriverne una confutazione. A quest'ultima il P., che già aveva replicato a un analogo scritto polemico del Contarini con l'Apologia contra Contarenum. (Bologna 1517), oppose il Defensorium adversus Augustinum Niphum (Bologna 1519). Tra le opere che il P. compose in seguito, negli ultimi anni della sua vita bolognese, sono da ricordare, oltre a un Tractatus de nutritione et augmentatione, il De fato, libero arbitrio, praedestinatione et providentia Dei, e il De naturalium effectuum admirandorum causis, sive de incantationibus liber (trad. francese, in parte compendiata, con ampia introduzione a cura di H. Busson, Parigi 1930). Un'edizione complessiva delle opere apparve a Basilea nel 1567.

Il De immortalitate animae, che, come si è detto, fu causa precipua della fama del P., è insieme il documento più importante del suo pensiero. Il P. muove dalla concezione aristotelica dell'anima, e in particolare dall'interpretazione che ne aveva data Alessandro di Afrodisia: s'intende quindi come la corrente da lui capeggiata abbia ricevuto il nome di "alessandrismo" (v. alessandristi), in contrapposizione all'"averroismo", il quale risaliva invece all'interpretazione di Averroè. Tale controversia ermeneutica non si riferiva tanto alla fondamentale concezione aristotelica dell'anima quale forma immanente della materia corporea, e quindi da essa inscindibile nell'unità dell'individuo, quanto alla teoria, formulata da Aristotele in un'oscuro capitolo del De anima, della dualità degl'intelletti attivo e passivo e della loro relazione con l'anima umana. Averroè infatti insistendo sul carattere di trascendenza dell'intelletto attivo, considerava quest'ultimo unico per tutti gli uomini e in sé immortale: e gli averroisti cristiani ricorrevano a questa immortalità dell'intelletto per salvare la tesi ortodossa dell'immortalità dell'anima, la quale peraltro non era più, in tale senso, una sopravvivenza individuale, ma bensì una risoluzione mistica nell'unico intelletto divino. Alessandro di Afrodisia invece, dal punto di vista dell'organicità e quindi della mortalità, che all'anima appariva pertinente in base a tutto il complesso della concezione aristotelica, aveva considerata anche la funzione intellettiva come intrinseca all'organismo psichico e quindi come destinata anch'essa a perire. Il P., approfondendo l'analisi gnoseologica, insiste nel dimostrare come l'attività dell'intelletto non sia concepibile senza quella della fantasia o immaginazione, e questa a sua volta senza quella del senso: un intelletto separato dal corpo è quindi impensabile. L'intelletto non è bensì corporeo, la sua capacità di riflessione e d'intellezione essendo essenzialmente diversa dalle capacità possedute e possedibili dagli organi materiali; ma ciò non toglie che, nella sua operazione, esso non possa prescindere dal corpo, e che quindi anche l'analisi della funzione intellettuale venga a confermare quella tesi dell'inscindibilità, e con ciò della parallela mortalità, del corpo e dell'anima, che risulta altrimenti dalla generale considerazione aristotelica del primo come materia e del seeondo come forma dell'individualità vivente.

Questa tesi veniva naturalmente a contraddire nel modo più reciso alla concezione cristiana dell'immortalità e alla conseguente etica ed escatologia. Un urto diretto è peraltro evitato dal P., in quanto questi, riprendendo e ravvivando la teoria averroistica della duplice verità, considera e accetta l'opposta tesi ortodossa come proposizione di fede, che si possa e debba accogliere pur riconoscendo che, sul diverso piano della filosofia, essa deve invece cedere il passo all'avversaria. Ma non tanto interessa questa giustificazione, che ha piuttosto l'aspetto di un espediente prudenziale diretto a evitare i rigori ecclesiastici, quanto quelle che il P. formula sul piano stesso della filosofia, considerando le conseguenze che nel campo etico possono discendere dalla sua tesi. La negazione della sopravvivenza e dell'aldilà non avrebbe, escludendo la speranza del premio e il timore del castigo oltremondano, arrecato pregiudizio alla moralità umana? Il P. risponde qui che praemium essentiale virtutis est ipsamet virtus, quae hominem felicem facit: anticipando così una tesi che sarebbe stata più tardi svolta dallo Spinoza e pienamente giustificata solo dal Kant. Si è bensì voluto trovare nel De prudentia del Pontano un'ulteriore anticipazione (che precederebbe così di un ventennio quella del P.) della stessa tesi (v. F. Fiorentino, Il risorgimento filosofico nel Quattrocento, Napoli 1885, p. 218); ma giustamente è stato osservato (G. Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, 2ª ed., Firenze 1925, p. 45 n.) che la virtù è concepita dal Pontano come fine a sé stessa nel medesimo senso dell'autosufficienza aristotelica, e che egli quindi non sorpassa menomamente il punto di vista eudemonistico di Aristotele. È peraltro caratteristico come, nel celebre passo del De immortalitate animae concernente la virtù premio a sé stessa, il P. muova anzitutto proprio da quegli esempî dell'etica socratico-platonica in cui si era sommamente manifestata la tendenza di tale etica a identificare la suprema virtù con la suprema eudemonia: come risulta, per es., in maniera tipica dall'immagine del tiranno ingiusto, sommamente felice dal punto di vista del volgo e sommamente infelice da quello filosofico, la quale deriva evidentemente dal Gorgia platonico. Ma mentre nel Gorgia la difficoltà di dimostrare questa tesi sul piano strettamente eudemonistico del socratismo conduce Platone a postulare proprio l'immortalità, per restaurare con la pena e col premio oltremondano il pericolante equilibrio mondano della virtù e dell'eudemonia, il P. finisce invece per giungere alla conclusione opposta e ad escludere la restaurazione ultraterrena dell'ordine etico-eudemonistico, proprio perché l'adempimento della virtù non abbia altra ragion d'essere che sé medesimo, cioè sia, come più tardi avrebbe detto il Kant, autonomo e non eteronomo. In ciò è il motivo veramente moderno della tesi etica del P., pure attraverso le forti reminiscenze classiche (e in particolare socratico-cinicostoiche), onde appare tuttavia rivestita.

Importanti dal punto di vista filosofico sono anche il De fato e il De naturalium effectuum causis. Nel primo il P. si pone il problema dell'antitesi tra la libertà dell'uomo, condizione necessaria della sua moralità e imputabilità, e il determinismo dell'accadere, quale necessariamente risulta dalle premesse dell'onniscienza e onnipotenza di Dio. E cerca di risolvere l'antitesi interpretando tale onnipotenza non tanto come volontà arbitraria, che concede caso per caso la grazia, quanto come universale legge dell'accadere, nel cui ambito trova modo di realizzarsi la libertà umana, da essa determinata appunto ad essere libera. La medesima tendenza a interpretare l'intervento divino nel mondo non come manifestazione saltuaria ma come realizzazione costante e universale di una legge di natura si presenta nel De causis, che mira a far rientrare anche i miracoli nell'ambito dell'ordine naturale e a dimostrare così come il più vero miracolo sia la stessa perfezione divina di quest'ordine.

Bibl.: Per la biografia può ancora consultarsi Chr. G. Bardili, Vita Pomponatii, nella sua edizione del De immortalitate animae, Tubinga 1791. La maggiore opera d'insieme sul P. resta tuttora quella di F. Fiorentino, P. P., Studî storici sulla scuola bolognese-padovana del sec. XVI, Firenze 1868; e v. anche Studi e ritratti della Rinascenza, Bari 1911, pp. 1-79. Tra gli altri scritti (oltre a quelli del Gentile e del Fiorentino citati nel corso dell'articolo) sono principalmente da ricodare: Ad. Franck, Moralistes et philosophes, Parigi 1872, pp. 85-136; L. Ferri, La psicologia di P. P., secondo un ms. della Bibl. Angelica di Roma, Roma 1877 (estr. dalle Memorie dell'Acc. dei Lincei: ma su questo lavoro v. Fiorentino, Studî, cit., pp. 3-39); Owen, The Sceptics of the Italian Renaissance, Londra 1894; A. H. Douglas, The philosophy and psychology of P. P., Cambridge 1910; W. Betzendörfer, Die Lehre von der zweifachen Wahrheit bei P. P., Tubinga 1919; C. Oliva, Note sull'insegnamento di P. P., in Giorn. crit. d. filos. ital., VII (1926), pp. 83-103, 179-90, 254-75; E. Cassirer, Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, Lipsia 1927, nei paesi a cui rinvia l'indice; G. De Ruggiero, Storia della filosofia, III, ii, Bari 1930, pp. 5-25. Ulteriore bibliografia in F. Ueberweg, Grundr. d. Gesch. d. Philosophie, III, iiª ed., Berlino 1924, p. 630.

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