PILA

Enciclopedia Italiana (1935)

PILA

Giovanni Giorgi

. Si dà il nome di pile elettriche, in generale, a quei generatori di corrente elettrica che non hanno organi in movimento e quindi non trasformano energia meccanica, ma solamente energia chimica interna o energia termica o simili. Più tipicamente, il nome compete alle pile ad azione chimica o pile voltaiche. Di queste si tratterà qui appresso, e precisamente di quelle primarie o pile propriamente dette; per quelle secondarie v. accumulatori.

È noto come la prima pila sia stata ottenuta alla fine del secolo XVIII da Alessandro Volta, dopo aver preso lo spunto dalle esperienze con gli archi bimetallici compiute da Galvani. L'invenzione fu comunicata dal Volta il 20 marzo 1800 in una lettera al presidente della Royal Society di Londra; e l'importanza ne era decisiva, perché realizzava il primo esempio di "elettricità dinamica", come si diceva allora, cioè di corrente elettrica duratura.

L'era dell'elettricità comincia veramente con questa invenzione, che coincide con l'inizio del sec. XIX.

La pila originale di Volta, detta pila a colonna (fig. 1), era costituita di elementi formati da un disco di rame e un disco di zinco, separati da un panno di lana, bagnato in acqua salata o acidulata. Il liquido che imbeve la lana mantiene una certa differenza di potenziale fra i due dischi o elettrodi; e congiungendo questi con un filo conduttore, esso filo resta percorso da una corrente che va dal polo rame (positivo) al polo zinco (negativo). La colonna è formata di tanti elementi sovrapposti e tutti orientati nello stesso verso, in modo che il rame dell'uno sia a contatto immediato con lo zinco del successivo: così. la colonna forma una batteria di elementi, riuniti fra loro in serie, e la differenza di potenziale ottenibile risulta moltiplicata per il numero degli elementi. Con questa pila a colonna furono fatti i primi esperimenti sulle correnti elettriche.

Ben presto il Volta modificò la pila stessa ideando il tipo a corona di tazze (fig. 2); ogni elemento è formato da un vaso di vetro contenente l'acqua acidulata o salata, e in questo vaso pescano le lastre dei due metalli, parallele e verticali: per formare la batteria si riunisce elettricamente lo zinco del primo elemento col rame del secondo, e così di seguito, di guisa che il primo zinco e l'ultimo rame formano i poli della batteria. Si ha in questo modo, in ogni elemento, una maggiore disponibilità di liquido, e si evita lo scolare del liquido stesso, che avveniva nelle pile a colonna tenute verticali e che dava luogo da correnti secondarie e ad effetti parassiti.

Modificazioni successive della pila a corona di tazze furono: la pila a truogoli di Cruikshank (1802), formata da una cassetta di legno verniciato, divisa in compartimenti per mezzo di pareti bimetalliche aventi cioè una faccia di rame e una di zinco; la pila di Wollaston (fig. 3), nella quale gli elettrodi della serie di tazze si possono sollevare ed estrarre tutti insieme quando la pila non è in uso; la pila di Muncke che era una combinazione di queste due; le pile di Young, di Ørsted, di Sturgeon e d'altri, tutte nei primi anni del sec. XIX.

In quanto a spiegazione teorica, il Volta aveva trionfato dell'ipotesi dell'elettricità animale del Galvani, sostenendo che la differenza di potenziale nasce per il contatto di due metalli eterogenei, e costruendo la pila come applicazione dello stesso principio: il liquido interposto fra rame e zinco aveva secondo lui una funzione solamente di separatore, e come tale veniva chiamato conduttore di seconda classe, per distinguerlo dai metalli, dal carbone e simili, che sono conduttori di prima classe e dànno luogo alle differenze caratteristiche di potenziale a ogni contatto. In una catena chiusa formata da soli conduttori di prima classe, la somma algebrica delle differenze di potenziale è nulla: così, per es., in ogni contatto zinco-rame si avrebbe un salto di potenziale opposto a quello del corrispondente contatto rame-zinco, e quindi una pila senza conduttori di seconda classe darebbe effetto nullo. Secondo il Volta, gli strati bagnati nella sua pila a colonna avrebbero l'effetto d' impedire quei contatti, che sarebbero salti di potenziale in senso opposto a quelli che si vogliono raccogliere.

Questa teoria può essere ancora sostenuta quale spiegazionc plausibile della differenza di potenziale iniziale, cioè, diciamo, dell'adescamento della pila; ma non rende sufficiente ragione del come la corrente venga mantenuta anche a circuito chiuso. A quei tempi non erano ancora acquisite le nozioni di lavoro e la legge della conservazione dell'energia. Alla stregua di queste nozioni, si può chiedere da qual fonte provenga l'energia che la pila fornisce al circuito esterno e che in questo circuito viene continuamemc utilizzata o dissipata; se il conduttore di seconda classe avesse solamente la funzione passiva di separatore, la pila creerebbe energia dal nulla.

Pur senza conoscere in forma esplicita le leggi energetiche, il fiorentino G. Fabbroni (nato nel 1752, morto nel 1822) seppe preoccuparsi di questo lato delle questioni, e preconizzò la cosiddetta teoria chimica, secondo cui gli effetti della pila sono dovuti all'azione chimica esercitata dal conduttore di seconda classe su uno dei metalli. Questa teoria fu poi ripresa da Wollaston, da Davy, da De la Rive, da Faraday, e d'allora in poi accettata generalmente. Nella pila di Volta, il funzionamento si spiega così: lo zinco passa in soluzione nel liquido, e con questo sviluppa energia, una parte della quale viene consegnata al circuito elettrico; il rame non è intaccato dal liquido e serve solamente per raccogliere la corrente. Andando oltre nello studio, si riconosce che gli effetti elettrici sono legati alla decomposizione elettrolitica del liquido, operata dalla corrente stessa mentre passa. Il liquido deve essere un elettrolita: uno dei prodotti della decomposizione deve combinarsi con lo zinco, mentre l'altro generalmente si depositerà sul rame, o altro equivalente conduttore inerte, senza intaccarlo. Se il liquido agisce direttamente sullo zinco indipendentemente dal passaggio della corrente, si ha azione locale, cioè un attacco chimico indipendente da quello che si compie per via elettrolitica, e quindi un consumo permanente dello zinco, che prosegue anche a circuito aperto, e al quale non corrispondono effetti elettrici, ma soltanto produzione di calore.

Come caso tipico, consideriamo l'elettrolita composto d'acqua acidulata con acido solforico. Quando è adescata la corrente (per effetto delle differenze di potenziale fra i metalli, secondo l'ipotesi del Volta, o per qualche altra ragione), l'anione SO4 si porta sullo zinco e forma solfato di zinco ZnSO4, che passa in soluzione, e il catione H2 si sviluppa sulla superficie del rame. Siccome l'energia di formazione dello ZnSO4 è maggiore di quella occorrente per decomporre H2SO4 nei suoi ioni, si ha come residuo del bilancio un lavoro; e questo lavoro si ritrova come energia elettrica della corrente. Ma siccome l'acido solforico discioglie lo zinco anche direttamente, l'azione locale si verifica, e la dissipazione di materiale e di energia a circuito chiuso si sovrappone all'effetto voltaico e a circuito aperto prosegue indipendentemente da esso. Se invece di acido solforico si adopera un elettrolita più debole, che non attacchi o attacchi poco o zinco direttamente, l'azione locale diminuisce; ma la pila riesce molto meno efficace, per il doppio motivo che il liquido risulta meno conduttore e che il bilancio energetico è molto meno attivo.

Queste considerazioni si presentarono ai fisici dei primi decennî del sec. XIX, sia pure in forma non precisa, per mancanza d'un linguaggio basato sui quanta d'energia: esse rendevano conto in grosso modo del funzionamento della pila di Volta e additavano le possibilità di modificazioni e di perfezionamenti.

La pila originaria del Volta aveva due difetti: uno era l'azione tocale ora detta, la quale, con il variare l'elettrolita, si poteva ridurre solo a spese della potenzialità della pila: l'altro era la cosiddetta polarizzazione. Questo secondo fenomeno è ancora mal compreso oggigiorno; in grosso modo si tratta di questo: con riferimento al caso descritto ora, l'idrogeno sviluppato dalla reazione elettrochimica va a depositarsi sulla superficie del rame, e vi aderisce parzialmente, in modo che dopo qualche minuto di funzionamento della pila, questa funziona con un elettrodo positivo modificato, e la forza elettromotrice si abbassa. Questi inconvenienti furono presto riconosciuti, e gli sforzi degl'inventori furono rivolti a eliminarli e a migliorare le altre caratteristiche della pila, potenzialità come forza elettromotrice, potenzialità come attitudine a erogare forti correnti, conservazione a circuito aperto e in funzionamento.

L'azione chimica locale sullo zinco fu ovviata molto efficacemente amalgamando lo zinco stesso in superficie; quando una lastra di zinco ha la superficie ricoperta da uno strato di mercurio fino a divenire specchiante, può venire immersa in una soluzione anche al 10% di acido solforico in acqua, senza che venga sensibilmente attaccata; così, se questa lastra viene usata come elettrodo negativo, si riconosce che durante il funzionamento della pila l'idrogeno si sviluppa bensì al polo positivo, ma non sullo zinco stesso; e a circuito aperto la lastra resiste molte ore prima di alterarsi e di dare quindi origine al processo di attacco da parte dell'acido. Una pila così fatta si conserva a lungo, se gli zinchi sono estratti quando la pila non si adopera. Ma volendo una conservazione più lunga e senza dover estrarre gli zinchi, si ricorre a elettrolita salino, invece che acido, e l'amalgamazione può essere allora meno completa. Quanto a sostituire lo zinco con altri metalli, si è visto che in generale non conviene, perché i metalli più attivi dello zinco vengono attaccati rapidamente e non si lasciano proteggere con l'amalgamazione, quelli meno attivi sono troppo poco efficaci.

Per ovviare alla polarizzazione, si è ricorso a circondare l'elettrodo positivo con una sostanza ossidante, o comunque capace di combinarsi con l'idrogeno o con quel qualunque altro catione che l'elettrolisi sviluppa: sostanza che fu detta depolarizzante. Non solamente così si riesce a mantenere la forza elettromotrice costante durante la scarica, ma il processo di depolarizzazione o clorurazione può molte volte fornire energia addizionale, donde una forza elettromotrice più elevata. In relazione alla scelta del depolarizzante e per evitare reazioni con esso, fu spesso sostituito il rame dell'elettrodo positivo con altri metalli o con carbone conduttore. In modo lento e meno efficace si ottiene la depolarizzazione mantenendo molto bassa la densità di corrente sull'elettrodo positivo, e ricorrendo a dispositivi fisici che favoriscono l'allontanamento dell'idrogeno.

Il principio della depolarizzazione da effettuarsi mediante un elettrolita ossidante, che sarebbe stato tenuto separato dall'altro elettrolita mediante un diaframma poroso, fu indicato dal Becquerel nel 1829, e diede origine alle pile a due liquidi.

La prima di queste fu la pila "a corrente costante", inventata dall'inglese J. F. Daniell nel 1836 (fig. 4). Questa è stata realizzata e utilizzata su vastissima scala, in forme assai diverse, ma sempre secondo questo schema:

Nella forma tipica, si aveva un vaso cilindrico di vetro, in cui era immersa una lastra cilindrica di zinco; e più intemamente un vaso poroso (di porcellana non verniciata) e dentro a questo l'elettrodo di rame. Il vaso poroso veniva riempito fino a pochi centimetri dall'orlo con la soluzione ramica, e nel vaso esterno la soluzione acidula arrivava a un livello un poco superiore al livello del liquido interno. A circuito aperto, non si ha alcuna reazione, purché la pila non rimanga montata a lungo. A circuito chiuso, nel vaso esterno le cose avvengono come nella pila di Volta; ma i cationi d'idrogeno prima di arrivare al rame, devono traversare il diaframma poroso e il liquido depolarizzante; in presenza di questo, l'idrogeno si sostituisce al rame, secondo la reazione:

Quindi in definitiva, invece di svilupparsi idrogeno si torna a formare una molecola di acido solforico, che va a sostituire quella che era stata decomposta dallo zinco, e sull'elettrodo rame si deposita nuovo rame, restando così inalterato il carattere della sua superficie. Quindi non si ha polarizzazione e l'erogazione della corrente lascia inalterata la struttura della pila, salvo un arricchimento dell'elettrolita esterno in solfato di zinco; si ovvia all'impoverimento della soluzione interna lasciandovi immersi alcuni cristalli di solfato di rame. Il risultato è che mentre la pila di Volta originale aveva la forza elettromotrice di 1,3-1,5 volt inizialmente, cadendo però a una piccola frazione di volt durante l'erogazione di corrente, la pila Daniell aveva circa 1,08 volt a circuito aperto, ma a circuito chiuso discendeva ben poco, mantenendosi intorno a 1,05 volt quasi indefinitamente, se l'intensità di corrente era moderata. Quindi era una pila specialmente appropriata per lavorare a circuito chiuso. Così trovò largo impiego in galvanoplastica e più ancora in telegrafia, per il quale uso si è conservata fino ai giorni nostri con varie modificazioni. Una di queste varianti fu fatta in Germania da J. H. Meidinger (fig. 5). Un'altra è quella conosciuta sotto il nome di pila italiana (fig. 6), perché ru ideata e usata ampiamente dall'amministrazione dei telegrafi italiani: in questa pila, in luogo di ricorrere al vaporoso che è ingombrante e fastidioso da mantenere in buono stato, la separazione dei due liquidi è fatta per gravità: il vaso di vetro ha una strozzatura o rientranza a metà altezza: al disotto stanno il liquido ramico e la lastra di rame curvata a cilindro e munita di un filo isolato che porta la corrente fuori; la parte superiore alla strozzatura è riempita dall'acqua acidulata (o di altro liquido corrispondente, per es., soluzione diluita di solfato di zinco).

I vantaggi di queste pile a solfato di rame, Daniell o derivate, erano la regolarità e la costanza a circuito chiuso. Inconvenienti erano la bassa forza elettromotrice, la resistenza interna piuttosto elevata e il limitato potere depolarizzante, inoltre l'ingombro e il peso e la fastidiosa manutenzione; e inconveniente più grave di tutti era che i liquidi, nonostante qualunque artificio di separazione, tendevano a diffondersi l'uno nell'altro: fino a che la pila eroga corrente, la penetrazione del solfato di rame nell'altro elettrolita è arrestata, perché nel suo cammino esercita la sua funzione di depolarizzatore e si decompone; ma a circuito aperto, cioè quando la pila è in riposo, il sale di rame finisce per arrivare in contatto con lo zinco; ivi si decompone e deposita rame, il quale, formando con lo zinco una pila di Volta chiusa in corto circuito, provoca la rapida distruzione dello zinco stesso. Quindi la pila Daniell non si può adoperare per gli scopi di servizio intermittente, ove la batteria sia esposta a lunghi intervalli di riposo; se deve restare qualche tempo senza funzionare, occorre smontarla.

Per raggiungere potenzialità superiori a quelle ottenibili con le pile a solfato di rame, l'inglese sir W. R. Grove nel 1838 pensò di usare come depolarizzante l'acido nitrico. La pila di Grove (fig. 7) è composta come quella di Daniell, con la differenza che il vaso poroso è riempito di acido nitrico concentrato invece che di soluzione ramica, e all'elettrodo rame (che si discioglierebbe nell'acido nitrico) è sostituito un elettrodo di platino. Questa pila era molto energica, raggiungeva la f. e. m. di 1,85 volt circa, con una resistenza interna molto bassa (circa 1/8 di ohm, con un elemento alto 20 cm. e avente diametro di 9 cm.), e si prestava a erogare correnti intense (5 amp. e più per un elemento) senza mostrare effetti di polarizzazione. Sino dal loro apparire le pile Grove furono usate per esperimenti, quale unico mezzo allora conosciuto per produrre effetti elettrici intensi, e in particolare per alimentare archi voltaici. Ma il platino, anche allora, era troppo costoso perché una pila con elettrodi di questo metallo potesse avere larga applicazione.

La pila Bunsen (fig. 8), che fu inventata nel 1842, superava questa difficoltà, perché in luogo del platino usava un carbone conduttore (in origine carbone di storta, indi carbone agglomerato di polvere di coke, grafite e nero fumo, o simili) quale elettrodo positivo; e divenne subito di uso comune in tutti i laboratorî. Ancora nel 1883, vi era un teatro in cui la sorgente dell'energia per l'illuminazione elettrica del palcoscenico era una batteria di pile Bunsen. Costituita con zinco amalgamato, soluzione 10% di acido solforico, vaso poroso, acido nitrico fumante, carbone di storta, la pila Bunsen raggiungeva una f. e. m. di 1,92 volt, e la manteneva anche erogando correnti intense. In comune con la pila di Grove, quella di Bunsen ha il difetto delle esalazioni corrosive di ipoazotide, che si producono durante la reazione depolarizzante, e che oltre ai danni generali, logorano i contatti d'ottone. Non è molto più adatta della Daniell per rimanere a circuito aperto; e lo smontarla e rimontarla, a causa dell'acido nitrico, è operazione sgradevole. Era quindi adatta solo per usi temporanei e sperimentali, e per il solo caso in cui si richiedeva una potenza elevata, quale ora si ottiene con le batterie di accumulatori.

Nello stesso anno 1842 in cui R. W. Bunsen ideava la pila ad acido nitrico e carbone, un altro tedesco, J. C. Poggendorff otteneva un'altra pila, alquanto meno potente, ma più maneggevole e pratica ed esente da esalazioni corrosive, usando quale depolarizzante una soluzione cromico-solforica. Questa soluzione ha il pregio di poter arrivare anche in contatto con lo zinco senza gravi inconvenienti.

La pila di Poggendorfl fino dall'origine fu costituita in due modelli, a due elettroliti e a un elettrolita. La prima forma è quella a cui si applica più particolarmente il nome dell'inventore; è costituita di: zinco, acqua acidulata, vaso poroso, soluzione contenente circa 15% di bicromato potassico e 15% di acido solforico, elettrodo positivo di carbone; con questo insieme si raggiungevano 2,0 e anche 2,2 volt; ma la corrente erogata è meno grande che nella pila Bunsen.

La seconda forma è conosciuta più generalmente come pila Grenet (fig. 9), dal nome del fisico francese che la rese popolare, dandole il modello di bottiglia rigonfia, in cui lo zinco sotto forma di piastra rettangolare piana è in mezzo a due piastre di carbone vicinissime e parallele, che insieme formano l'elettrodo positivo; un dispositivo permette di estrarre facilmente e mantenere fuori del liquido la lastra di zinco quando la pila non deve agire: il liquido, unico, secondo i suggerimenti del Grenet, dovrebbe essere composto di: acido solforico 300 parti, bicromato potassico 100 parti, acqua 1000 parti, sempre calcolate in peso; la f. e. m. è di poco inferiore a quella della pila a due liquidi.

Queste due pile, Poggendorff a due liquidi e Grenet a un liquido, con molte loro varianti costruttive del Radiguet, del Trouvé, del Baudet e d'altri inventori, sono state molto usate e lo sono tuttora, nei gabinetti di fisica, specialmente per le esperienze di scuola. Col progresso dei tempi si è riconosciuto utile sostituire al bicromato di potassio quello di sodio, infine a entrambi l'acido cromico, che ora si ottiene facilmente dal commercio. Le pile composte con il bicromato potassico davano origine a cristalli voluminosi di allume di cromo, che si formava per effetto della reazione depolarizzante e che aderiva tenacemente agli elettrodi; quelle con acido cromico non hanno quest'inconveniente. La durata a circuito aperto non è illimitata, perché l'acido solforico reagisce lentamente con i sali cromici e con l'acido cromico anche a freddo, fino a produrre i sali di cromo che dovrebbero essere il prodotto finale della reazione depolarizzante: e si riconosce che il liquido è trasformato, quando da rosso è divenuto verdastro o violaceo. Ma si tratta sempre di durate superiori a quelle consentite dalle pile tipo Daniell, Grove e Bunsen, senza però raggiungere quelle che le pile Daniell, hanno a circuito chiuso. Le pile a bicromato, ottime per esperienze di laboratorio, non sono adatte per telegraffa e simili applicazioni.

Dal 1845 in poi sono state suggerite molte altre pile a due liquidi, variando l'elettrolita depolarizzante. Soluzioni di nitrati, clorati, ipocloriti, perclorati, permanganati, sali ferrici e così via, possono sostituirsi alla miscela cromica del Poggendorff; press'a poco qualunque liquido ossidante e clorurante è buono a questo scopo. I risultati ottenuti non sono stati però molto felici; solo in alcuni casi si ha il vantaggio della maggiore conservabilità, però con potenzialità diminuita.

Altro tipo di pile è quello a depolarizzante solido, le quali intendono raggiungere i vantaggi delle pile a un liquido, senza rinunciare all'impolarizzabilità, e assicurando la conservazione a circuito aperto. Queste finiscono per essere le pile più pratiche, sempre quando non faccia ostacolo la più lenta azione depolarizzante, che ha sempre l'elettrolita solido in confronto di quello liquido.

Il francese E.-H. Marié-Davy probabilmente è stato il primo (nel 1859) a preconizzare le combinazioni pratiche con depolarizzanti solidi, insistendo a questo scopo sull'uso dei solfati di mercurio e del cloruro d'argento. Col nome di pila Marié-Davy è particolarmente conosciuta la combinazione: zinco, acqua salata o leggermente acidulata, pasta di solfato di mercurio, carbone; il solfato che si adopera è quello mercuroso, quando si vuol assicurare una conservabilità lunga (applicazioni telegrafiche), solfato mercurico normale o solfato basico di mercurio negli altri casi. Originariamente la pila fu costruita con vaso poroso separatore, poi si trovò convenienza a fare a meno di questo, disponendo gli elettrodi orizzontalmente, e la pasta mercurica nel fondo sopra la piastra di carbone. Queste pile a solfato di mercurio raggiungono una f. e. m. di 1,3 fino a 1,5 volt, con attitudine a erogare una corrente modesta. Raggiungono in pratica i requisiti delle Daniell, ma con una sufficiente permanenza a circuito aperto, un ingombro minore, ma un costo più elevato. Sono state quindi sempre discretamente usate per apparecchi elettroterapici, spesso combinate a colonna come la prima pila del Volta, e con l'aggiunta di solfato di piombo alla pasta depolarizzante.

Col nome di pila Warren de La Rue (fig. 10) fu introdotta poi in uso (nel 1868) quella con depolarizzante a cloruro d'argento. La combinazione è questa: zinco, soluzione 25:1000 di cloruro sodico in acqua, cloruro d'argento, argento. Praticamente l'elettrodo positivo è un filo d'argento, intorno a cui è stato fuso il cloruro d'argento. L'azione depolarizzante si ha in quanto quest'ultima sostanza cede cloro e viene ridotta ad argento. La f. e. m. è di 0,97 volt. Si è poi riconosciuto che, usando cloruro d'ammonio invece di cloruro di sodio, il funzionamento è migliore, e si raggiunge la f. e. m. di 1,03 volt. Questa pila è costosa e di potenzialità modesta, ma di azione regolare e ben conservabile. È stata adoperata piuttosto per scopi sperimentali e di precisione, p. es., quando nei laboratorî si tratta di raggiungere una f. e. m. elevata mediante una batteria di molti elementi di dimensioni piccole.

Non è il caso di ricordare l'uso che è stato fatto di molti altri depolarizzanti solidi, con successo poco brillante; due sono tipici e importanti: il biossido di rame e il perossido di manganese.

L'ossido di rame non può essere usato in elettrolita acido, perché vi si scioglierebbe e darebbe soluzione ramica che reagirebbe con lo zinco: funziona invece abbastanza bene con elettrolita alcalino. Secondo tali criterî fu composta nel 1881 la pila De Lalande e Chaperon (fig. 11), con questi costituenti: zinco, soluzione di potassa caustica, ossido di rame, rame o ferro. Spesso il ferro veniva usato come recipiente, entro cui il resto della pila era ermeticamente chiuso. La pila De Lalande e Chaperon vantava la rigenerabilità e il consumo quasi nullo a circuito aperto; e per questi motivi ebbe qualche voga; ma la f. e. m. troppo bassa (0,90 e 0,98 volt, anche con soluzioni forti di potassa caustica) toglieva molto dell'utilità pratica. Occorre riflettere che, quando un elemento ha metà forza elettromotrice d'un altro, vale circa quattro volte meno, perché occorre metterne due in serie per raggiungere lo stesso voltaggio; con questo si raddoppia la resistenza, e allora si è obbligati a mettere due di queste serie in parallelo fra loro, quindi a fare uso di quattro elementi per raggiungere lo stesso risultato; ciò a parità di resistenza unitaria, e resterebbe solo il vantaggio di poter erogare maggior corrente. Ma nelle pile a ossido di rame la resistenza unitaria non era minore e l'attitudine a sopportare forti scariche non era maggiore che nelle pile di altro tipo. Quindi ora sono pressoché dimenticate.

La combinazione galvanica che ha dato migliori risultati e che lentamente si è affermata nell'industria è quella realizzata nel 1868 col nome di pila Leclanché (fig. 12). Il depolarizzante è perossido di manganese e l'elettrolita è una soluzione di cloruro d'ammonio. Nella forma originale la pila era composta con un vaso di vetro, contenente una bacchetta di zinco, amalgamato o no, e immerso in una soluzione concentrata di cloruro ammonico; nel centro pescava un vaso poroso, che nell'interno aveva un elettrodo di carbone: l'intervallo fra questo elettrodo e il vaso poroso era riempito di una miscela di perossido di manganese in grani fini, mischiato con granuli di carbone di storta e di coke. La f. e. m. raggiungeva 1,48 volt; la capacità di erogare corrente era piccola, perché il depolarizzante agiva con molta lentezza; ma la pila aveva il grande vantaggio di potersi conservare a circuito aperto quasi indefinitamente, con un'inalterabilità che nessun altro elemento ha mai raggiunto. Per questi motivi l'elemento Leclanché divenne il preferito per tutte le applicazioni di telefoni, campanelli elettrici domestici e apparecchi varî di segnalazione, il che vuol dire per tutte le applicazioni più estese nelle quali si usano le pile. Soltanto nella telegrafia rimasero in uso le pile Daniell, salvo in quanto sostituite dagli accumulatori; e per usi elettromedicali e di laboratorio si adoperarono promiscuamente le diverse pile già descritte, a bicromato, a sali di mercurio e simili.

Progressi successivi hanno trasformato la pila Leclanché in modo da renderla più efficace e più pratica. Fu soppresso il vaso poroso, del tutto inutile dal momento che si tratta di pila a un solo liquido. La miscela depolarizzante fu fatta non più di grani, ma di polvere fina di perossido di manganese e di carbone pressati insieme, in modo da formare un agglomerato solido e consistente che circonda il carbone. Lo zinco, anziché in bacchetta, fu foggiato a cilindro, che circonda completamente l'agglomerato: e più tardi fu usato lo zinco stesso come recipiente, risparmiando il recipiente di vetro. Con questo si è ottenuta una pila compatta, maneggevole e di efficienza relativamente elevata rispetto al peso.

Nel tempo stesso è incominciato a costruire le pile del tipo detto a secco, invece che del tipo a liquido. La denominazione "a secco" (fig. 13) è alquanto esagerata. Una pila che maggiormente meritava di essere detta secca era stata costruita, a dire il vero, nel 1812 da G. Zamboni, professore a Verona. Essa era una pila a colonna, composta di un grandissimo numero di dischi di carta sovrapposti, ognuno dei quali era stagnato da una parte, e dall'altra verniciato con perossido di manganese e gomma. Con 1000 o 1500 dischi si otteneva una colonna assai maneggevole, capace di mantenere fra i suoi estremi una differenza di potenziale di 500 o 600 volt; ma la costituzione a secco faceva sì che la corrente erogabile era estremamente piccola, appena sufficiente per produrre effetti elettrostatici. Intanto per avere usato il biossido di manganese, lo Zamboni era stato un precursore di A.-A. De la Rive e del Leclanché.

Delle moderne pile a secco è stato argutamente detto: sono pile che lasciate a sé rimangono sempre umide, a differenza delle pile umide, le quali lasciate a sé divengono secche. In realtà si tratta di pile nelle quali l'elettrolita liquido è imprigionato in una pasta in modo da formare una massa gelatinosa, più vicina allo stato solido che a quello liquido; e tutto poi è imprigionato sotto uno strato di mastice fuso sopra, in modo da impedire qualunque evaporazione. Questo tipo di esecuzione si applica in modo particolarmente vantaggioso all'elemento Leclanché. Dal 1910 in poi la tecnica si è orientata con grande preferenza verso la pila Leclanché secca e con questo tipo di elemento studiato e perfezionato si è principalmente affermata l'industria moderna delle pile.

La condizione di questa industria si delinea così: nelle diverse applicazioni a cui le pile erano adibite all'inizio, esse furono bensì sostituite dai generatori meccanici e dagli accumulatori, ma nuove applicazioni sorgono sempre, per cui il numero e il valore complessivo delle pile voltaiche che si usano nel mondo moderno è sempre in aumento, e l'industria di fabbricazione delle pile è oggi fiorente e dà lavoro a stabilimenti importanti. La grande luce elettrica non si fa più con le pile, gl'impianti telefonici e molti di quelli telegrafici hanno batterie centrali di accumulatori, ma sono sviluppate molto oggigiorno le lampadine tascabili, attivate da pile ridotte a dimensioni piccolissime; e in molti casi anche per lampade portatili più grandi di quelle tascabili (da automobili, da biciclette, da miniere) si usano generatori a pila; grande applicazione trovano le pile nella telegrafia da campo, in tutte le stazioni radio portatili, emittenti e riceventi; e svariate e numerose sono sempre le applicazioni ad apparecchi di segnalazioni, a poste telefoniche domestiche o portatili, a usi di laboratorio e sperimentali. Si può dire che gli elementi voltaici, che ora la grande industria produce e che si adoperano nella quasi totalità di queste applicazioni, sono elementi Leclanché, quasi sempre a secco, eccezionalmente a liquido.

Gli elementi a secco moderni sono composti così: vaso di lamiera di zinco, amalgamato per immersione in soluzione mercurica; elettrolita costituito da una soluzione acquosa di cloruro d' ammonio con aggiunta di cloruro di zinco: l'elettrolita è addensato impastandolo con farina di grano e lasciandolo digerire a temperatura moderata fino a semi-solidificazione avvenuta; corpo centrale costituito da una bacchetta di carbone conduttore artificiale, circondato da un agglomerato depolarizzante formato da perossido di manganese, grafite e nero fumo, il tutto compresso fino a ottenere una massa solida ben aderente al carbone: l'insieme della pila è chiuso superiormente fondendovi sopra un mastice a base di colofonia; la chiusura dev' essere ermetica, e fatta in modo che solamente gli elettrodi sporgano fuori. La riuscita della pila dipende dalla selezione accurata delle materie prime e dalle precauzioni seguite durante la fabbricazione: solamente in questi particolari differiscono le pile del commercio l'una dall'altra.

Ecco i risultati ottenuti con una delle migliori fabbricazioni: elemento alto 10 cm.; peso 3800 gr.; resistenza interna circa o,05 ohm; f. e. m. iniziale circa 1,6 volt; id. media circa 1,5 volt; corrente di corto circuito 30 amp.; corrente normale di funzionamento 1 amp.; capacità totale di erogazione 150 amp-ora con detta corrente; id. fino a 300 amp-ora con scariche meno intense e intermittenti; f. e. m. alla fine della scarica, 1 volt. Questi elementi vengono prodotti dai fabbricanti in tutte le forme e grandezze per tutte le applicazioni, e spesso già riuniti in batterie, contenenti più elementi in serie per raggiungere voltaggi determinati. Se si confronta la capacità in watt-ore di una batteria di queste pile con quella di una batteria di accumulatori di pari peso, si trova che è circa la stessa. La batteria di accumulatori ha il vantaggio di poter sopportare scariche elevate e continuative. La batteria di pile ha invece quello di non richiedere cure, di non esigere stazioni di ricarica, e di poter durare a lungo a circuito aperto: le buone pile a secco moderne di medie dimensioni si conservano in magazzino parecchi anni senz'altro deperimento che una lieve e progressiva diminuzione della f. e. m.

Quanto alle pile Leclanché a umido del commercio, sono fatte come quelle a secco, ma con la differenza che vengono vendute senza elettrolita: la soluzione salina dev'essere aggiunta da chi le usa, al momento di cominciare il servizio, e ripristinata, se occorre, con acqua per ovviare all'evaporazione. I risultati di funzionamento sono all'incirca gli stessi, ma con lieve vantaggio nell'erogazione di corrente, dovuto alla mobilità dell'elettrolita.

Gl'inventori sono tuttora all'opera per ottenere miglioramenti nei particolari e per cercare di realizzare tipi nuovi di pila, o rimettere in vita qualcuno degli antichi, che forse può essere stato abbandonato troppo frettolosamente.

Pile campioni. - Una categoria speciale di pile sono quelle destinate a servire come campioni di forza elettromotrice nei laboratorî.

Le pile campioni più antiche erano del tipo Daniell: così quella di E. Kittler (1862), quella di A. Fleming (1885), quelle del Post Office di Londra (1883-1895), quella di O. Lodge e quella di W. v. Beetz. Qualunque elemento a due iiquidi di detto tipo, con depolarizzante a solfato o a nitrato di rame, è atto a servire come campione di forza elettromotrice, purché sia costrutto con sostanze pure, e con elettroliti mantenuti a un grado di concentrazione ben determinato. Se la temperatura o la concentrazione variano, la forza elettromotrice subisce variazioni, ma assai piccole. Per impedire la miscela dei liquidi si deve scomporre la pila quando non è in uso (così nei modelli del Post Office) oppure tenere i liquidi in vasi di vetro distinti, e comunicanti mediante un tubo capillare. La forza elettromotrice era di 1,05 fino a1, 10 volt negli elementi a elettrolita salino, e raggiungeva1, 182 volt nell'elemento Lodge, che aveva liquido eccitatore acido. Si può raggiungere 1 volt esatto prendendo come depolarizzante il nitrato, invece del solfato di rame. Queste pile campioni a rame sono ora pressoché dimenticate, perché non raggiungono il grado di precisione di quelle a mercurio; possono invece rendere tuttora servigi utili, usandole come campioni secondarî nel corso delle esperienze, perché in confronto alle pile a mercurio hanno il grande vantaggio di costare poco, di sopportare meglio le scosse, e soprattutto di mantenersi costanti anche mentre erogano corrente.

Altri tipi di pile campioni furono escogitati da Baille e Féry (a cloruro di piombo), dal Regnauld (con varie combinazioni), dal Gouy (a ossido di mercurio), dal Warren de La Rue e da altri: ma non ebbero grande successo.

Le pile campioni di precisione moderne derivano dalla pila LatimerClark, il cui tipo originale (del 1873) era costituito così: zinco puro, soluzione di solfato di zinco, pasta di solfato mercuroso, mercurio puro; l elemento era costituito da un tubo di vetro al cui fondo si trovava il mercurio, comunicante con l'esterno mediante un filo di platino che attraversava il fondo del tubo; sul mercurio era deposta la pasta depolarizzante, che veniva a trovarsi a fondo della soluzione salina; nella quale pescava la bacchetta di zinco che attraversava il coperchio (la fig. 14 ne rappresenta un tipo modificato). Il tutto era chiuso ermeticamente. Con opportune precauzioni, la forza elettromotriee era esattamente 1,437 volt. La pila Latimer-Clark fu perfezionata da lord Rayleigh nel 1885 e successivamente dal Carhart; si ottennero in tal modo campioni di forza elettromotrice sicuri e costanti fin oltre la terza cifra decimale, sempre però se usati con la precauzione di non erogare corrente, tenendo protetto l'elemento con una resistenza di almeno 10 mila ohm. Altre varianti furono realizzate dal Callender, dal Kahle e da altri.

Ma nel 1893 Edward Weston modificò in modo più essenziale gli elementi campioni a sali di mercurio, sostituendo allo zinco un amalgama di cadmio, e alla soluzione di solfato di zinco una soluzione di solfato di cadmio, satura o no. La pila Weston ha il grande vantaggio di un coefficiente di temperatura del tutto trascurabile, di una costanza e sicurezza nel valore della forza elettromotrice ancor superiore a quella ottenibile dalle pile tipo Clark, ed è più facilmente maneggevole. Ha quindi ormai sostituito tutte le altre pile campioni. Viene oggi costruita da case specializzate, che certificano il valore della forza elettromotrice fino al decimillesimo di volt. La costruzione oggi adottata è a due tubi di vetro verticali uguali, riuniti verso il terzo superiore da un tubo trasversale, in modo da formare un H (fig. 15); uno dei tubi verticali porta al fondo il mercurio puro, ricoperto da uno strato di solfato mercuroso; l'altro porta al fondo un amalgama di cadmio, sormontato o no da uno strato di cristalli di solfato di cadmio: l'elemento è riempito da soluzione di solfato di cadmio. I diversi costituenti sono immobilizzati mediante diaframmi di porcellana porosa e altri dispositivi, in modo da consentire il trasporto. Due tipi sono in uso: quello normale o saturo, usato per gli scopi di massima precisione, ed è quello che contiene i cristalli di solfato di cadmio; quello di uso comune, più maneggevole e meno preciso, formato con elettrolita che è saturo solamente a 4° C., e non contiene cristalli. La forza elettromotrice tanto dell'uno quanto dell'altro tipo è 1,0183 volt internazionali alla temperatura di 20° C.; la variazione con la temperatura è inferiore a mezzo decimillesimo di volt, per cui con opportune precauzioni gli effetti di temperatura e le differenze individuali da elemento a elemento si risentono solo nella quinta cifra decimale. Precauzione essenziale anche nell'elemento Weston è l'usarlo solamente a circuito aperto, perché può essere danneggiato anche dall'erogazione di pochi centesimi di milliampere.

Tutte le misure elettriche di precisione moderne (di forza elettromotrice e di corrente) si fanno praticamente sulla base dell'elemento Weston: e le riunioni dei comitati internazionali per le unità elettriche hanno stabilito, nella cifra di cui sopra, il rapporto tra la forza elettromotrice di esso elemento e il volt internazionale, e stabilito le norme e le precauzioni con cui l'elemento deve essere composto.

Pile voltaiche di tipo vario e -d'interesse teorico. - Oltre alle pile finora descritte, che sono quelle costruite industrialmente e utilizzate nelle applicazioni pratiche e nei laboratorî di misura, molti altri elementi a base elettrochimica sono stati realizzati, aventi interesse scientifico per lo studio dei fenomeni elettrochimici.

Un primo gruppo di queste sono le pile a gas. È nota la pila a gas di Grove, consistente in un voltametro ordinario a elettrodi di platino, e acqua acidulata come elettrolita, con disposizione tale che ad elettrolisi inoltrata le lastre di platino si trovino parzialmente immerse nei due gas prodotti dalla decomposizione: togliendo la somministrazione di elettricità, e chiudendo il circuito, una corrente passa in senso inverso, mentre idrogeno e ossigeno si ricombinano attraverso l'acqua. In questo modo l'elemento funziona come pila secondaria o accumulatore, e come tale ha dato la prima idea da cui sono derivati gli accumulatori a piombo; ma se nei tubi l'idrogeno e l'ossigeno vengono riforniti, prodotti per altra via, si ha in questo elemento una vera pila primaria. La forza elettromotrice raggiunge o,8 fino a o,9 volt, ma l'intensità di corrente ottenibile è molto piccola. Si ottiene un miglioramento sostituendo elettrodi di palladio a quelli di platino.

Altre pile a gas, con varî accoppiamenti di sostanze gassose, di cui una era sempre l'ossigeno (o l'aria) sono state ottenute dal Gaugain e da altri fisici. Un altro gruppo di pile, che avrebbero dovuto diventare industriali, ma che sono rimaste allo stato di curiosità, sono quelle in cui l'elettrodo che passa in combinazione è carbone invece che zinco. Naturalmente, se per questa via si riuscisse a utilizzare l'energia di ossidazione del carbone trasformandola in energia elettrica, si avrebbe un generatore elettrico assai più economico di una centrale a vapore. Teoricamente il ricavare energia elettrica dall'ossidazione elettrochimica del carbonio non è impossibile, e lo provano le pile costruite con elettrodo a carbone dal Borchers, dal Reed, dal Jacques e da altri. Ma la funzione elettrochimica del carbone è tale che non forma sali, e non entra in combinazione nello stesso modo dello zinco o del ferro o dei metalli in generale, cioè intervenendo come catione in un liquido avente proprietà di elettrolita bene sviluppate. Quindi i risultati tecnici degli elementi a consumo di carbone sono stati praticamente evanescenti.

Altri elementi voltaici, di particolare interesse teorico, sono quello a due elettrodi dello stesso metallo e con elettroliti diversi, quelli che traggono la forza elettromotrice da differenze fisiche delle sostanze, e in particolare i cosiddetti elementi a concentrazione, in cui la differenza di potenziale è dovuta al contatto e alla conseguente diffusione reciproca di due soluzioni che differiscono solo nella concentrazione. Per lo studio di questi dispositivi, si rinvia ai trattati speciali. Si deve ricordare anche il tentativo d'impiego nelle pile voltaiche dei diaframmi semipermeabili aventi la finalità di costituire pareti di separazione più efficaci che non i vasi porosi ordinarî, perchè dovrebbero lasciar passare gli ioni prodotti dall'elettrolisi delle soluzioni e non le soluzioni stesse.

Teorie delle pile voltaiche. - Quando si arrivò a formulare la dottrina dell'energia in fisica, W. Thomson (lord Kelvin) poté tradurre in formule quantitative la teoria elettrochimica del Fabbroni, perché calcolando le varie energie di combinazione e di decomposizione corrispondenti alle varie reazioni che avvengono nelle pile e tenendo conto degli equivalenti elettrochimici delle varie sostanze (cioè delle quantità di esse che vengono liberate o decomposte dal passaggio di un coulomb) "e ammettendo che tutta l'energia chimica risultante dal bilancio delle reazioni si converta in energia elettrica", si ricava per via teorica la forza elettromotrice della pila. Così nella pila Daniell, il passaggio di un coulomb corrisponde alla formazione di una nota quantità di solfato di zinco e alla decomposizione simultanea di un corrispondente numero di molecole di solfato di rame; si conosce, da informazione separata, l'energia di formazione dell'unità di massa dell'uno e dell'altro sale; moltiplicando per le masse che entrano in giuoco, facendo la differenza ed esprimendola in ioule, si ha secondo il Thomson, nella cifra ottenuta, la forza elettromotrice dell'elemento. Questo calcolo è quasi sempre possibile in base a dati conosciuti; ma eseguendolo, si constata che le forze elettromotrici così previste non corrispondono sempre con quelle sperimentali.

La ragione fondamentale del divario fu trovata dal Helmholtz, facendo riflettere che l'ipotesi espressa nella frase riportata più sopra tra virgolette non risponde a realtà; il bilancio energetico formulato da sir W. Thomson non è completo, perché una parte dell'energia resa libera dalle reazioni chimiche può trasformarsi in calore; oppure le reazioni possono avvenire con assorbimento di energia dall'ambiente. Di qui nasce un termine additivo o sottrattivo, che il Helmholtz insegnò a esprimere in funzione del coefficiente che dà la variazione della forza elettromotrice in dipendenza dalla temperatura. La formula del Helmholtz è più completa di quella del Thomson, ma gli elementi di correzione che contiene implicano dati che non sono conosciuti a priori; quindi essa rimane con un valore teorico, e non può essere adoperata per prevedere la forza elettromotrice degli elementi.

Il meccanismo delle azioni voltaiche è stato poi spiegato meglio nei suoi fenomeni elementari attraverso la teoria osmotica dell'elettrolisi dovuta al Nernst. Rimandiamo per lo studio di questa teoria ai trattati speciali. Attraverso le formule del Nernst e facendo intervenire in conto i voltaggi di dissoluzione e quindi i dislivelli di potenziale tra un metallo e una soluzione di un suo sale, o fra due soluzioni dello stesso sale diversamente concentrate, si spiegano razionalmente molti fenomeni delle pile, e si arriva, per es., a rendere conto del funzionamento di certi elementi, come le pile a concentrazione, che per altra via resterebbe inesplicabile. La teoria elettrochimica nernstiana si completa quando viene posta in collegamento con le nuove teorie delle forze elettromotrici di contatto fra metalli che, per opera di O. M. Corbino e di altri, hanno felicemente rimesso in valore e in forma moderna le idee del Volta. È ormai certo che il semplice contatto fra metalli fa nascere una differenza di potenziale: di questo fenomeno è necessario tener conto per spiegare l'adescamento della pila, cioè il primo nascere della sua forza elettromotrice, mentre il bilancio elettrochimico dell'energia è quello che poi determina la forza elettromotrice in esercizio, cioè durante l'erogazione di corrente.

Nonostante tutti questi progressi, e le spiegazioni atomistiche ed elettroniche che vi si collegano, noi non abbiamo ancora una teoria quantitativa completa del funzionamento della pila voltaica. Quando pensiamo che ancora non sappiamo prevedere a priori né la forza elettromotrice né tanto meno i dati di funzionamento di un elemento voltaico di costituzione assegnata, e che nemmeno sappiamo dire sempre con certezza se una certa modificazione della sua composizione influirà in un dato senso o in senso opposto sui risultati d'esercizio, dobbiamo confessare che le nostre cognizioni al riguardo, nonostante tutto il valore delle indagini eseguite, sono ancora allo stesso punto in cui era la dottrina sui calcoli delle dinamo, prima del 1888, quando non si conosceva ancora la teoria dei circuiti magnetici, e si procedeva al calcolo con formule complicate contenenti coefficienti di valore sconosciuto.

Bibl.: D. Tommasi, Traité des piles électriques, Parigi 1889; H. S. Carhart, Primary batteries, Boston 1891; W.R. Cooper, Primary batteries, Londra 1901; W. Jaeger, Die Normalemente, Halle 1902; P. Ferchland, Grundriss der reinen u. angewandten Elektrochemie, Halle 1903; C. Grimm, Die chemischen Stromquellen der Elektrizität, Monaco 1908.