PIO da Pietrelcina, santo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 84 (2015)

PIO da Pietrelcina, santo

Sergio Luzzatto

PIO da Pietrelcina (Francesco Forgione), santo. – Nacque a Pietrelcina, in provincia di Benevento, il 25 maggio 1887, quarto di otto figli. Il padre Grazio e la madre Maria Giuseppa erano contadini di modesti mezzi economici. Secondo una tradizione familiare, la scelta del nome di battesimo fu dovuta alla pronunciata devozione della madre verso la figura di s. Francesco d’Assisi. Quanto alla vocazione religiosa del futuro santo, sembra avere influito sul piccolo Francesco la figura di un frate cappuccino incontrato a Pietrelcina intorno al 1898, padre Camillo da Sant’Elia a Pianisi.

Dopo un anno di noviziato, frate Pio fece professione dei voti semplici nel gennaio 1904. Il suo apprendistato ecclesiastico e gli esordi del suo ministero sacerdotale si svolsero fra la provincia di Benevento e la contigua provincia di Campobasso. Morcone, Montefusco, Gesualdo, Venafro, Sant’Elia a Pianisi, San Marco la Catola: la geografia dei conventi cappuccini dove Francesco Forgione divenne padre Pio restituisce il fitto ordito di istituti religiosi che la Controriforma cattolica aveva trasmesso al Mezzogiorno moderno, in particolare grazie all’attivismo devozionale degli ordini regolari, e che la crisi successiva alla conquista sabauda non era bastata a cancellare.

Ordinato sacerdote nel 1910, padre Pio prese a muoversi dall’uno all’altro convento del Mezzogiorno prima di ricevere dai superiori l’autorizzazione a risiedere in famiglia, a Pietrelcina, onde evitare gli stati morbosi che immancabilmente accompagnavano le sue permanenze nel chiostro. Dal 1911 al 1913 il frate cappuccino divenne addirittura l’uomo di casa della famiglia Forgione, quando il padre Grazio e il fratello Michele tentarono l’azzardo dell’emigrazione in America.

Fu quello un triennio particolarmente intenso nel percorso spirituale di padre Pio, come attestano le lettere da lui inoltrate ai suoi direttori di coscienza: padre Benedetto da San Marco in Lamis e padre Agostino, lui pure da San Marco in Lamis. L’infanzia di Gesù, la corporeità del Salvatore e della Vergine, il sangue del Crocifisso, il peccato, la sofferenza, la redenzione, l’espiazione, l’io come oggetto passivo dell’azione divina, la profferta di se stesso quale vittima: le missive di padre Pio parlavano il linguaggio più proprio dell’ascetica e della mistica. E il percorso mistico del cappuccino era reso tanto più drammatico da un sentimento di identificazione con la figura di Gemma Galgani: la giovane stigmatizzata di Lucca, morta a inizio secolo in odore di santità.

Nell’autunno del 1911, padre Pio aveva raggiunto padre Agostino da San Marco in Lamis al convento di Venafro, dove questi era stato trasferito quale insegnante di sacra eloquenza. E a Venafro, padre Agostino aveva sperimentato da presso le estreme esperienze mistiche di padre Pio: dolori stigmatici, visioni estatiche, vessazioni sataniche. Durante le crisi, più di una volta padre Agostino fece accorrere al convento un medico del luogo, perché fosse dato a occhi clinicamente addestrati di assistere all’impressionante spettacolo ed eventualmente di emettere una diagnosi. Presumibilmente, un’analoga motivazione indusse padre Agostino a prendere contatto epistolare – a Milano – con Agostino Gemelli: l’intraprendente frate francescano che i cattolici italiani avevano imparato a conoscere come medico, intellettuale, polemista, e che era noto negli ambienti ecclesiastici per i suoi studi sul rapporto fra nevrosi e santità.

Nel 1915, all’entrata dell’Italia nel primo conflitto mondiale, padre Pio fu arruolato nel regio esercito in qualità di prete soldato: salvo combattere la guerra dal fondo delle retrovie meridionali, a colpi di certificati medici anziché di mortaio. Approdò al convento garganico di San Giovanni Rotondo, in licenza, una prima volta nel luglio del 1916, poi ancora nella primavera del 1918 (non se ne sarebbe più allontanato per il mezzo secolo successivo, fino alla morte). E mentre pregava davanti a un piccolo crocifisso nel coro della chiesa conventuale, il 20 settembre 1918, il trentunenne frate di Pietrelcina vide iscriversi sul suo proprio corpo le cinque piaghe della Passione di Cristo.

Secondo testimonianze coeve del frate stesso, verso le nove di mattina di quel giorno, mentre da solo era raccolto in preghiera, vide pararsi dinanzi a sé «un misterioso personaggio» che perdeva sangue dalle mani, dai piedi e dal costato. Sgomento, il cappuccino invocò l’aiuto del Signore. La figura si dileguò all’istante, ma il terrore di padre Pio non poté che aumentare quando scoprì che le stigmate della crocifissione di Gesù gli si erano iscritte addosso: «mi avvidi che mani, piedi e costato erano traforati e grondavano sangue». «Tutto il mio interno piove sangue e più volte l’occhio è costretto a rassegnarsi a vederlo scorrere anche al di fuori»; «temo di morire dissanguato» (Epistolario, 20004, pp. 1090-1094).

Le stigmate di padre Pio non giungevano in un momento come un altro. Se pure il frate cappuccino aveva testimoniato da anni − nelle lettere ai direttori spirituali − del sentimento che si andasse in lui rinnovando la crocifissione di Gesù, la tempistica dell’evento decisivo trascendeva l’orizzonte dell’esperienza privata per investire quello della sfera pubblica. L’autunno del 1918 fu una stagione straordinaria nella sensibilità collettiva: enormemente bisognosa di sacro. Al carico di terrore e di dolore della Grande Guerra si aggiunse un nuovo peso, altrettanto gravoso o più ancora: l’incubo dell’influenza ‘spagnola’, che al di qua delle Alpi cominciò a mietere vittime nell’agosto, e che in sette mesi avrebbe provocato un numero maggiore di morti che i caduti italiani nell’intero conflitto mondiale. Padre Pio ricevette le stigmate quando la morte andava bussando a tutte le case di San Giovanni Rotondo, del Gargano, della Puglia, dell’Italia, dell’Europa. Dunque, quando eccezionalmente accorate salivano verso i pastori di anime, da parte di ogni agnello del gregge, una richiesta di intercessione, una preghiera di grazia, una domanda di miracolo.

Così, non si dovette attendere a lungo prima che schiere di uomini e di donne prendessero a sollecitare la figura del cappuccino stigmatizzato. La sua fama di santità si sparse rapidamente non solo nelle Puglie o nel Mezzogiorno, ma nel resto d’Italia e anche fuori, in Francia, in Spagna. Venivano attribuiti a padre Pio i portenti più vari: oltre al terribile premio delle stigmate, fenomeni di levitazione, bilocazioni, e soprattutto miracoli di guarigione. Perciò, a dispetto dell’isolamento geografico di San Giovanni Rotondo, già nel 1919 i pellegrini affluivano nel Gargano. Quand’anche non avessero miracoli da chiedere, speravano di essere personalmente confessati ed espressamente assolti da padre Pio. E contavano di partecipare alla sua messa, durante la quale il frate si trovava nell’obbligo liturgico di togliere i mezzi guanti che aveva l’abitudine di indossare: rendendo più che mai evidente la sua condizione di sanguinante alter Christus.

La fama di santità di padre Pio tornò a raggiungere, a Milano, Agostino Gemelli: il medico francescano che si preparava allora a fondare l’Università cattolica del Sacro Cuore, e la cui formazione scientista mal si prestava all’indulgenza verso i fenomeni carismatici. Dopo una visita compiuta a San Giovanni Rotondo fra il 19 e il 20 aprile 1920, padre Gemelli inoltrò al tribunale vaticano del S. Uffizio un severo rapporto, nel quale non si accontentò di denunciare l’«atmosfera di suggestione» (Luzzatto, 2007, p. 81) che circondava il frate con le stigmate. Guardando al caso di padre Pio da psicologo oltreché da istologo, Gemelli diagnosticò la manifestazione somatica di una sindrome isterica.

Più che un essere umano abitato dal sovrumano, padre Pio era – secondo il rapporto di Gemelli – un povero di spirito: «un uomo a ristretto campo della coscienza, abbassamento della tensione psichica, ideazione monotona, abulia». «Si tratta di un caso di suggestione inconsciamente prodotto dal Padre Benedetto in un soggetto malato com’è il P. Pio e che ha condotto a quelle caratteristiche manifestazioni di psittacismo che sono proprie della struttura isterica». Stando così le cose (e a fronte dell’«accorrere incessante» di pellegrini italiani come stranieri), Gemelli mostrava pochi dubbi sul da farsi. Occorreva «togliere per alquanto tempo il P. Pio dall’ambiente artificioso in cui è», sottoponendolo all’esame di una commissione mista formata da un medico, da uno psicologo e da un teologo. La presenza di quest’ultimo rischiava peraltro di servire a poco, in quanto il frate di Pietrelcina non presentava «nessuno degli elementi caratteristici della vita mistica» (ibid.).

Fra il 1921 e il 1922, emissari del S. Uffizio raccolsero a San Giovanni Rotondo ulteriori elementi − la circolazione di sostanze chimiche all’interno del convento, tali da far sospettare manipolazioni improprie delle stigmate; la promiscuità di vita del frate con le terziarie francescane della sua cerchia; il traffico di reliquie intorno al sangue delle piaghe − che convinsero il tribunale della fede a imboccare risolutamente la strada della repressione. Né l’atteggiamento del S. Uffizio mutò dopo la morte di papa Benedetto XV, nel gennaio 1922, e l’avvento al soglio petrino di papa Pio XI.

Contro il culto di padre Pio, le gerarchie vaticane impiegarono l’arsenale che riservavano da secoli agli individui sospetti di «affettata santità». Per un decennio, a partire dal 1923, applicarono una varietà di provvedimenti intesi a limitare la portata del ministero sacerdotale di padre Pio e l’impatto di questo sulla comunità dei fedeli. Pubblicate a partire dal 1924, le prime biografie – cioè le prime agiografie – del frate con le stigmate vennero regolarmente iscritte all’Indice dei libri proibiti, e la sua corrispondenza fu sistematicamente controllata. A tratti, il cappuccino si vide vietata la facoltà stessa di confessare i penitenti e di officiare in pubblico il rito eucaristico.

La suprema congregazione sarebbe andata anche oltre (progettava di trasferire padre Pio in un luogo segreto), se non si fosse scontrata con la forte opposizione del laicato di San Giovanni Rotondo: più esattamente, con lo spiccato carattere clerico-fascista di una devozione che fin dal 1920 aveva coinvolto, tutt’insieme, pie donne ed ex combattenti, illustri porporati e massoni convertiti, mansueti cristiani e feroci squadristi. Il ricorso del S. Uffizio ai buoni uffici della polizia di Benito Mussolini, affinché padre Pio fosse deportato lontano da San Giovanni, non diede quindi risultati concreti. Spalleggiati dal ras fascista di Capitanata, Giuseppe Caradonna, i devoti del frate organizzarono una vera e propria guardia pretoriana a tutela della sua incolumità.

Nel frattempo, il principale imprenditore nazionale della fama di santità di padre Pio – un faccendiere torinese altrettanto losco che talentuoso, tale Emanuele Brunatto − aveva trovato il modo per coinvolgere nell’opera di diffusione della vox populi l’editore romano Giorgio Berlutti, personaggio chiave della piccola inteligencija di regime. Dopo la svolta degli anni Trenta, quando alla propaganda agiografica di matrice fascista si sommarono gli effetti di attività spionistiche esercitate da Brunatto così per il Vaticano come per l’Ovra (la polizia segreta), il S. Uffizio pensò bene di sospendere le misure repressive all’indirizzo di padre Pio. Nel 1933, il cappuccino del Gargano ritrovò l’integrità delle funzioni sacerdotali e poté ritornare a compiere quanto i fedeli si aspettavano da lui. Rinnovare, nella messa mattutina, lo spettacolo impressionante della Cena. Confessare per il resto della giornata, infaticabilmente. Operare pretesi miracoli di guarigione.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il peculiare tessuto carismatico della Chiesa di Pio XII e la progressiva trasformazione di padre Pio in personaggio mediatico inaugurarono l’età d’oro del culto di padre Pio come ‘santo vivo’. Del resto, le più diverse circostanze sociali e culturali favorirono il boom del culto garganico. Contò l’accresciuta mobilità delle persone: in un’Italia fatta più corta dal miglioramento della rete stradale, e più ricca dai dollari del Piano Marshall, pellegrinare verso il Gargano divenne cosa alla portata di quasi tutti. Contò altrettanto, o forse più, l’accresciuta mobilità delle parole e delle immagini: limitato per decenni ai circuiti scrupolosi ma faticosi del passaparola privato e della pubblicistica devozionale, il racconto dei miracoli di padre Pio si ritagliò uno spazio fisso nel caleidoscopico universo del rotocalco. Contò la vitalità sempre maggiore dell’associazionismo cattolico, liberato dalla scomoda concorrenza dell’associazionismo fascista: cenacoli laici di devoti del cappuccino (i ‘gruppi di preghiera’) poterono diffondersi a macchia d’olio nell’Italia della Democrazia cristiana. E contò il compimento di un progetto ospedaliero d’eccezione: la Casa sollievo della sofferenza, che fece di San Giovanni Rotondo un luogo di assistenza e di cura non solo per i fedeli di padre Pio, ma per i malati dell’intero Mezzogiorno.

Nel 1957, padre Pio domandò e ottenne da Pio XII una dispensa dal voto di povertà, così da poter amministrare in prima persona i beni della Casa sollievo della sofferenza. Di contro a ogni retorica pauperistica, l’anziano cappuccino aveva ereditato dal francescanesimo delle origini un’idea concreta, realistica, della carità verso gli infermi. D’altra parte, nel 1963, dopo la riforma liturgica approvata dal Concilio Vaticano II, padre Pio domandò e ottenne un’ulteriore dispensa, per continuare a celebrare il rito della messa in latino anziché in italiano. Sino all’ultimo, il frate cappuccino visse la liturgia dei sacramentali come una teoria e una pratica dell’arcano, dove solo l’incomprensibilità della lingua garantiva la protezione del mistero. E schiere di credenti si dimostrarono affascinati da una proposta religiosa così singolare, che all’imprenditorialità capitalistica associava una pietà misterica, e al miracolo taumaturgico uno scrupolo scientifico.

Il brulichio di anime cristiane intorno al confessionale di padre Pio spinse i cappuccini di San Giovanni Rotondo a istituire un sistema di prenotazioni. Un’ulteriore misura d’ordine venne dall’assegnazione di fasce orarie secondo il sesso dei penitenti: le donne al mattino e nel primo pomeriggio, gli uomini verso sera. Ma provvedimenti del genere non bastarono a risolvere i problemi derivanti dal numero enorme di iscritti alla confessione. Anche perché il sistema delle prenotazioni veniva gestito da pie donne che si trovavano da anni nella cerchia ristretta di padre Pio, e che approfittavano del privilegio per fare il bello e il cattivo tempo: manovrando i biglietti numerati e le liste di iscritti, dettando al cappuccino la tempistica delle confessioni. Per giunta, il carattere focoso del frate lo induceva a enfatizzare i propri gesti quando apriva o chiudeva la grata del confessionale, ad alzare il tono della voce quando impartiva o negava l’assoluzione, rendendo così manifesto quanto avrebbe dovuto rimanere segreto.

Nel corso del 1960, le invidie di larghi settori della Chiesa italiana per il volume delle offerte raccolte dal culto garganico, la diffidenza del nuovo papa – Giovanni XXIII – verso interpretazioni troppo carismatiche dell’esperienza cristiana, le derive della pratica religiosa nel quotidiano andazzo sangiovannese combinarono i loro effetti fino a produrre una miscela esplosiva: a settantatré anni, padre Pio si trovò coinvolto in un autentico dramma, che non dovette riuscirgli meno gravoso delle persecuzioni subite dal S. Uffizio tre o quattro decenni prima. Fattore scatenante della crisi fu l’iniziativa di alcuni suoi avversari − ispirati da un prelato romano, don Umberto Terenzi − di collocare apparecchi registratori nella cella e forse addirittura nel confessionale di padre Pio, per spiare i risvolti più intimi della sua vita claustrale e sacerdotale.

Il S. Uffizio non fu all’origine dell’impresa di spionaggio. L’assessore della Sacra Congregazione, monsignor Pietro Parente, partecipò comunque dei suoi sviluppi nel momento in cui mise mano sulle bobine registrate a San Giovanni Rotondo e le consegnò al pontefice in persona. Per parte sua, Giovanni XXIII trasse spunto dalla vicenda per emettere su padre Pio un giudizio devastante.

In data 25 giugno 1960, papa Roncalli descrisse nella sua agenda (privata, ma in qualche modo ufficiosa) il proprio stato d’animo: «Stamane da mgr. Parente, informazioni gravissime circa P.P. e quanto lo concerne a S. Giov. Rotondo. L’informatore aveva la faccia e il cuore distrutto. Con la grazia del Signore io mi sento calmo e quasi indifferente come innanzi ad una dolorosa e vastissima infatuazione religiosa il cui fenomeno preoccupante si avvia ad una soluzione provvidenziale. Mi dispiace di P.P. che ha pur un’anima da salvare, e per cui prego intensamente. L’accaduto – cioè la scoperta per mezzo di filmine, si vera sunt quae referentur, dei suoi rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana sin qui infrangibile intorno alla sua persona – fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente. Nella calma del mio spirito, io umilmente persisto a ritenere che il Signore faciat cum tentatione provandum, e dall’immenso inganno verrà un insegnamento a chiarezza e a salute di molti» (Luzzatto, 2007, pp. 369 s.).

A seguito dell’affaire delle bobine, Giovanni XXIII convenne con il S. Uffizio e con il ministro generale dell’ordine cappuccino, padre Clemente da Milwaukee, l’opportunità di una visita apostolica a San Giovanni Rotondo. E a seguito di questa visita le autorità vaticane ordinarono vari provvedimenti, intesi sia a ridimensionare l’autonomia amministrativa della Casa sollievo della sofferenza, sia a contenere la produzione agiografica intorno alla figura di padre Pio, sia a limitare l’affollarsi dei fedeli – in particolare delle donne – intorno al suo confessionale.

L’importanza di padre Pio nella storia religiosa del Novecento è attestata dal mutare delle sue fortune a ogni morte di papa. Dal 1918 al 1968, durante il mezzo secolo in cui il corpo del cappuccino fu segnato dalle cinque piaghe, ciascun pontefice di Santa Romana Chiesa volle imprimere su padre Pio (direttamente o indirettamente) il proprio sigillo. Benedetto XV si mostrò scettico verso la figura del santo allo stato nascente, permettendo che il S. Uffizio procedesse da subito contro di lui. Pio XI fu più diffidente ancora: sotto il suo pontificato, la severità del Vaticano nei confronti di padre Pio arrivò quasi al punto di azzerarne le facoltà sacerdotali. Pio XII, al contrario, consentì il dispiegarsi pieno e indisturbato del culto garganico. Giovanni XXIII fece marcia indietro, autorizzando rinnovate misure di contenimento.

Paolo VI fu l’ultimo papa nella vita terrena di padre Pio, e neppure lui mancò di lasciarvi un segno. Da sostituto della segreteria di Stato, monsignor Montini aveva avuto un ruolo rilevante nel propiziare, all’indomani della seconda guerra mondiale, un finanziamento delle Nazioni Unite che aveva reso possibile la costruzione della Casa sollievo della sofferenza. Asceso al soglio pontificio dopo la scomparsa di papa Roncalli, nel giugno del 1963, Paolo VI non perse tempo prima di manifestare nuovamente la propria benevolenza nei confronti di padre Pio. Nel febbraio del 1964, i vertici del S. Uffizio comunicarono alla provincia cappuccina di Foggia come fosse volontà del Santo Padre che il frate di Pietrelcina svolgesse il suo ministero «in piena libertà». Poche settimane dopo, a San Giovanni Rotondo venne tolta la clausura nella sacrestia della chiesa conventuale, affinché padre Pio potesse intrattenersi senza ostacoli con le donne che desideravano parlargli. In seguito, il cardinale Ottaviani trasmise alla provincia una nuova disposizione di Paolo VI, intesa a solennizzare il settantasettesimo compleanno di padre Pio: il cappuccino aveva ormai facoltà di comportarsi «come se non fosse tenuto al voto di obbedienza» (Tosatti, 2005, pp. 174 s.).

Al resto pensò la provvidenza. Secondo la testimonianza di alcuni devoti, durante l’estate del 1968 le piaghe cristiche sulle mani di padre Pio presero a cicatrizzarsi. E il 20 settembre di quell’anno, alla messa officiata nel cinquantesimo anniversario dell’apparizione delle stigmate, i più occhiuti tra gli astanti ebbero modo di notare − scrutando le mani nude del frate ormai moribondo − la scomparsa delle stigmate stesse. Padre Pio si spense tre giorni dopo, la notte del 23 settembre 1968.

L’ultimo miracolo nella vita di padre Pio − la scomparsa delle cinque piaghe − ebbe l’effetto di precipitare nell’imbarazzo i cappuccini responsabili delle esequie. In effetti, logica avrebbe voluto che il corpo del frate, una volta ricomposto nella bara e offerto al commiato dei fedeli, non portasse più alle mani i mezzi guanti, né ai piedi le calze che per mezzo secolo erano serviti a celare il sanguinolento mistero delle stigmate. Le ferite essendosi rimarginate, non c’era più nulla da nascondere: il frate poteva riavere le mani libere come unicamente le aveva avute, dal 1918 in poi, durante l’officio eucaristico, e poteva riabbracciare in articulo mortis la regola dell’osservanza cappuccina, che vieta espressamente l’uso delle calze. Il ragionamento del padre guardiano del convento sangiovannese, padre Carmelo da San Giovanni in Galdo, fu invece diverso. Se il corpo di padre Pio fosse stato esposto sul catafalco con le mani e i piedi nudi, la scomparsa delle stigmate si sarebbe prestata a «false e affrettate interpretazioni», e a «scandalo per i deboli». Meglio lasciar credere che le piaghe fossero ancora al loro posto, senza avventurarsi in una delucidazione «per tanti motivi impossibile a farsi a tutta la stragrande moltitudine» (Malatesta, 2002, pp. 50 s.).

Trent’anni più tardi − alla svolta del terzo millennio − sia la devozione personale di papa Giovanni Paolo II per il frate cappuccino, sia l’inclusiva politica della santità perseguita dal papa polacco, garantirono esito felice a un processo di canonizzazione che era stato istruito già sotto il pontificato di Paolo VI. Domenica 2 maggio 1999, al cospetto di oltre un milione di fedeli giunti a Roma da ogni angolo del mondo, Giovanni Paolo II officiò la cerimonia di beatificazione di padre Pio da Pietrelcina. Egli stesso, ormai, uomo della sofferenza, malatissimo vicario di Cristo, papa Wojtyła elevò agli altari il frate presso il quale si era recato in pellegrinaggio, da studente di teologia, nella primavera del 1948, sulla cui tomba si era raccolto in preghiera, nel 1974, da cardinale arcivescovo di Cracovia, e per il centenario della cui nascita era ritornato a San Giovanni Rotondo nel 1987, da successore di Pietro, come a suggellare una devozione indefettibile. Seguì dopo pochissimi anni, il 16 giugno 2002, la cerimonia di canonizzazione.

Fonti e Bibl.: P. da P., Epistolario, I, Corrispondenza con i direttori spirituali (1910-1922), a cura di M. da Pobladura - A. da Ripabottoni, San Giovanni Rotondo 20004.

Y. Chiron, Padre Pio. Le stigmatisé, Paris 1989; C.B. Ruffin, Padre Pio. The true story, Huntington 1991; J. Bouflet, Des foudres du Saint-Office à la splendeur de la vérité, Paris 2002; E. Malatesta, L’ultimo segreto di Padre Pio, Casale Monferrato 2002; P. Zovatto, Padre Pio: il santo più carismatico del secolo, in Storia della spiritualità italiana, a cura di Id., Roma 2002, pp. 701-748; M. Tosatti, Quando la Chiesa perseguitava Padre Pio, Casale Monferrato 2005; S. Luzzatto, Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, Torino 2007.

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