PIO II papa

Enciclopedia Italiana (1935)

PIO II papa

Giovanni Battista PICOTTI
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Enea Silvio Piccolomini nacque il 18 ottobre 1405 a Corsignano, in quel di Siena, da una famiglia di nobili senesi, che vantava origini romane, ma che era decaduta economicamente ed era stata espulsa dalla città; era il più vecchio dei diciotto figlioli di Silvio Piccolomini e di Vittoria Forteguerri. Diciottenne, andò a Siena e vi attese a studî umanistici, acquistando una singolare cultura di lettere latine; già allora componeva poesie latine e volgari. Poi si diede, per volere del padre e contro suo genio, alla giurisprudenza; ma più era attratto dalla fama del Filelfo, che conobbe a Firenze, e degli altri umanisti più celebrati.

Nel 1432 andò al concilio di Basilea, nel seguito del vescovo di Fermo Domenico Capranica, di là scrisse alla signoria di Siena, mostrando di approvare l'atteggiamento del concilio ostile al pontefice. E passò poi ad altri padroni; fu strumento ai disegni del vescovo di Novara, di arrestare Eugenio IV, allora esule a Firenze, e, scoperte le trame, si salvò con la fuga; segretario del cardinale Niccolò Albergati, lo segui in Borgogna (1435) e fu mandato da lui nella Scozia. Di ritorno, rimase a Basilea scrittore e abbreviatore del concilio (1436), nel quale tenne il 16 novembre, discutendosi della nuova sede dell'assemblea, il primo discorso che lo trasse dall'ombra. Ebbe parte attiva nell'opposizione del concilio a Eugenio, tenne la cura esterna del preteso conclave che elesse papa Amedeo di Savoia, Felice V (1439); fu segretario dell'antipapa e difese in un suo Libellus l'autorità del concilio (1440). Inviato alla dieta di Francoforte, vi ebbe da Federico III la corona di poeta (27 luglio 1442) e fu assunto da lui come uno dei segretarî della cancelleria imperiale. Passò allora a Wiener Neustadt, in uffici di corte. Dell'autorità del concilio si professava, ancora nell'aprile del 1443, difensore; ma seguiva la politica dell'imperatore e del cancelliere Gaspare Schlick, di neutralità nella lotta fra il concilio e il pontefice, e condannava nell'una e nell'altra parte la riluttanza all'unione.

Fin qui egli era stato un servitore intelligente e devoto della causa altrui, un parlatore eloquente, un umanista raffinato e leggiero; "poeta", quale egli stesso s'intitolava dopo la coronazione nelle lettere sue. Era di costumi non puri, sebbene, rifiutando gli ordini sacri, che lo avrebbero condotto in Basilea a sedere nel conclave, per non obbligarsi a serbare castità, avesse mostrato consapevolezza già rara del dovere di un uomo di Chiesa. Pressoché quarantenne (20 settembre 1443), presentava al padre uno dei frutti dei suoi illeciti amori quasi con le parole della Ghismonda boccaccesca, scriveva la commedia Chrisis e quella famosa De duobus amantibus historia, alla cui vivezza lasciva è giustificazione troppo scarsa l'asserita volontà di mettere i giovani in guardia contro l'amorosa follia (1444). Ma il rapido declinare della salute, e assai più il maturarsi dello spirito innanzi ai grandi problemi che interessavano l'avvenire della cristianità e della Chiesa, produssero in lui un mutamento profondo e indubbiamente sincero, anche se potessero già sorridergli nuove ambizioni; fin dall'ottobre 1444 egli mostra un nuovo senso religioso e la volontà di servire a Dio solo. Egli si dà, ora, maggior pensiero della patria lontana, che non aveva tuttavia dimenticata mai; soprattutto si dà pensiero della Chiesa; che l'assemblea parlamentare di Basilea non avrebbe potuto riformare, né difendere dal pericolo di spezzarsi in chiese nazionali, e che aveva bisogno di cercare salvezza in più forte unità intorno al papa.

Ambasciatore di Federico III a Roma (1445) per invitare il papa a un nuovo concilio, fa ammenda degli errori passati e ottiene l'assoluzione dalle censure in cui era incorso come aderente al concilio di Basilea e il perdono del papa. Nel marzo 1446 è ordinato suddiacono, più tardi diacono e prete; e protesta di avere abbandonato la leggerezza della vita laicale, di voler desiderare e operare solo ciò che a Dio piaccia. Egli adesso lavora per guadagnare a Eugenio IV il re e la nazione germanica: il 7 gennaio 1447 pronunzia a Roma innanzi al papa un discorso, esponendo le condizioni poste dai Tedeschi al pontefice, e ha grande parte nella conclusione di quell'accordo, che fu detto concordato dei principi (febbraio 1447).

Nominato da Niccolò V vescovo di Trieste (19 aprile 1447), toglie dall'intestazione delle lettere il nome di poeta; dichiara di voler fare testimonianza del Vangelo; scrive al rettore dell'università di Colonia (13 agosto 1447) una lettera, confessando di avere errato nell'aderire al concilio e nel difenderlo e spiegando le ragioni che l'hanno spinto verso il pontefice; continua a operare per la completa riconciliazione della Germania. Fatto vescovo di Siena (23 settembre 1450), conchiude a Napoli le trattative per il matrimonio di Federico III con Eleonora di Portogallo e a Roma quelle per la coronazione imperiale di Federico e ne ha in premio il titolo di principe e consigliere dell'impero; accompagna a Roma il futuro imperatore e assiste alla coronazione, suggello dell'accordo fra i due capi della cristianità.

E allora, in un discorso del 25 aprile 1452, egli annunzia in concistoro, innanzi al papa e all'imperatore, quello che dev'essere il compito primo della cristianità, raccolta nella pace, quello che sarà ormai l'ideale della sua vita: la guerra contro gl'infedeli. Legato papale nella Boemia, nella Moravia, nella Slesia, nei ducati austriaci (18 aprile 1452), si rivolge al papa, ai cardinali, ai principi per esortarli a difendere Costantinopoli; e quando essa è caduta, incita con lettere e discorsi a riconquistarla; lamenta che i cristiani siano "procuratori dei Turchi", che considerino ormai il papato e l'impero come nomi vani, come figure dipinte; giudica che l'imperatore non sia all'altezza della sua missione, che lo stesso Niccolò V sia troppo freddo. Dall'agosto 1455 resta a Roma: lo zelo per la crociata, l'abilità in una legazione a Napoli gli ottengono la porpora (17 dicembre 1456); egli è ora l'anima dei disegni di Callisto III per la crociata, suo consigliere e difensore nelle relazioni non facili con la nazione tedesca, senza tuttavia trascurare di valersi del favore del pontefice per accrescere i suoi benefici già lauti.

Il conclave del 1458, messa in disparte, per l'energica e non disinteressata sua opera di difesa dell'italianità, la candidatura del francese G. d'Estouteville, lo elesse a pontefice (19 agosto 1458); con un ricordo alquanto pedantesco del pius Aeneas virgiliano, egli si chiamò Pio II. L'elezione fu accolta a Roma e in Italia con giubilo unanime: gl'Italiani si rallegrarono che il pontificato fosse rimasto in Italia; gli umanisti salutarono con infinite speranze l'elevazione dell'antico poeta.

L'aspettazione di questi fu in parte delusa, perché il nuovo pontefice, sebbene desse favore a Flavio Biondo, che gli dedicò la Roma triumphans, al Campano, ad altri dotti e letterati, sapeva troppo bene distinguere il molto orpello dall'oro, né, ad ogni modo, voleva distrarre le rendite della Chiesa a favorire uomini, che nulla o poco avevano di ecclesiastico o di cristiano. Egli fu invece magnifico protettore dell'arte; eresse a Roma la loggia per la benedizione papale in S. Pietro e la cappella di S. Andrea, a Siena fece costruire la "Loggia del papa" e il palazzo delle "papesse" e iniziare il palazzo Piccolomini; soprattutto seppe trasformare mirabilmente, con l'opera del Rossellino, la sua piccola Corsignano in un gioiello d'arte, Pienza (v.).

Nella politica non fu immune da nepotismo; ad Antonio Piccolomini procurò la mano d'una figliola illegittima di re Ferrante e i ducati di Sessa e di Amalfi, a lui e ad altri nipoti diede cariche e benefici. E disegni nepotistici non furono estranei all'aspra sua lotta contro Sigismondo Pandolfo Malatesta, che, dopo varia contesa (1460-63), fu battuto da Federico da Montefeltro e perdette Fano e Senigallia, rimanendo solo padrone di Rimini. Ma il fiaccare il turbolento signore, come il reprimere con la violenza le agitazioni romane, era anche necessità di difesa dello stato papale. E, del resto, le linee generali della politica di Pio furono ispirate a schietta italianità. Egli riconobbe fin dall'inizio del suo pontificato Ferrante d'Aragona come re di Napoli (10 novembre 1458), lo difese vittoriosamente contro le insidie dei baroni e l'invasione di Giovanni d'Angiò, ch'era sostenuto dal re di Francia, mentre gli altri signori d'Italia erano presso che tutti consenzienti o neutrali (1459-63); protestò di voler aiutare l'Italia, perché non avesse a soffrire servitù forestiera, per le discordie degl'Italiani.

Contro le dottrine antipapali, delle quali faceva nella bulla retractationis nuova ammenda solenne (26 aprile 1463), fu assertore energico, anche se non sempre fortunato, dell'autorità del pontefice. Fece pubblicare a Mantova una costituzione, che ridusse poi a bolla con la data del 18 gennaio 1460 (bolla Execrabilis), condannando come abuso esecrabile e inaudito l'appellare dal papa al concilio. Ottenne dopo lunghe trattative da Luigi XI l'abrogazione della prammatica sanzione di Bourges (24 novembre 1461), che fu celebrata come una grande vittoria del pontificato; ma non poté impedire che il re, deluso nella speranza di mutazione della politica italiana del papa, la facesse con molteplici ordinanze rivivere in parte. Nella Germania, turbata e divisa, mandò legato il Bessarione (1460-61); non poté evitare la guerra, né ottenere che fosse promesso il concorso alla crociata; non fu a tempo a vedere la composizione d'un grave conflitto col duca Sigismondo del Tirolo, da lui scomunicato e dichiarato eretico per le violenze contro il vescovo di Bressanone, cardinale N. Cusano; non riuscì a far riconoscere nella Boemia l'abolizione pronunziata da lui (31 mano 1462) dei Compactata del concilio di Basilea con gli utraquisti, vide anzi il re nazionale Giorgio di Poděbrady rianrmare la sua fede nella dottrina utraquista e imprigionare il nunzio del papa, e dovette iniziare contro di lui procedura per delitto di spergiuro e di eresia. Riuscì tuttavia a ottenere, dopo lunga lotta e maneggi abilissimi, che Diether di Isenburg, arcivescovo di Magonza, capo del movimento antipapale in Germania, da lui scomunicato e deposto, fosse abbandonato dai suoi stessi fautori e si sottomettesse al decreto di Roma (ottobre 1463).

Se i disegni di riforma, messi innanzi dal Cusano e dal vescovo di Torcello Domenichi, rimasero, per la difficoltà dei tempi, propositi vani, almeno P. poté togliere alcuni abusi, ristabilire in più luoghi la disciplina claustrale e appoggiare gli ordini religiosi riformati, dare nuovo splendore alle feste religiose, canonizzare una grande santa e grande italiana, la concittadina sua Caterina da Siena (29 giugno 1461); difese inoltre gli Ebrei e i Negri, combatté l'usura, favorì l'istituzione dei Monti di Pietà.

Ma il suo primo pensiero sempre, in molti periodi solo pensiero suo, fu la crociata; e, poiché l'imperatore non aveva né potere né volontà di mettersi a capo del mondo cristiano, il papa stesso, con geniale preveggenza di rapporti nuovi fra la Chiesa e le nazioni sorgenti, tentò di raccogliere le potenze cristiane in uno sforzo contro il comune nemico. Con una bolla (Vocavit nos) del 13 ottobre 1458 convocò i principi cristiani a una dieta, che fu aperta da lui a Mantova il 1° giugno 1459; ma appena il 26 di settembre si poterono, dopo un nuovo eloquentissimo discorso del papa, cominciare le trattative. All'entusiasmo del pontefice non corrispondeva in lui stesso una chiara visione della realtà politica: le potenze erano curanti ciascuna del proprio interesse, restie a ogni sacrificio; i Veneziani, il concorso dei quali era soprattutto necessario, temevano troppo giustamente di essere lasciati soli innanzi al terribile nemico. Dopo lunghe trattative separate con le varie delegazioni, il pontefice, senza avere ottenuto l'universale consenso, indiceva la crociata per tre anni, imponeva una decima a tutto il clero, una ventesima sui beni degli Ebrei, una trentesima sulle rendite dei laici d'Italia; e chiudeva il congresso, che era, nonostante il generoso suo sforzo, miserevolmente fallito (14 gennaio 1460).

Le contese religiose, le brighe politiche parvero per un tratto avere tolto a Pio, non che la speranza, il pensiero di muovere il mondo cattolico all'impresa d'Oriente: egli giunse allora a sognare la conversione di Maometto II, a cui diresse, con l'ingenuità di un predicatore entusiasta, una lettera per farlo cristiano e imperatore d'Oriente. Composte o attenuate quelle brighe, egli riprese il disegno della guerra, mutandolo in parte. Le circostanze parevano meno sfavorevoli: i Veneziani erano già in guerra; il duca di Borgogna annunziava la sua partecipazione alla crociata; Mattia Corvino prometteva il concorso dell'esercito ungherese; altri davano buone speranze; la scoperta delle miniere d'allume della Tolfa offriva i mezzi all'impresa. Il papa promulgò il 22 ottobre 1463 la bolla per la guerra santa; e, perché gli altri venissero dietro, volle farsi egli stesso il "Goffredo della nona crociata". E si avviò (18 giugno 1464), già infermo, ad Ancona, mentre le schiere raccogliticce ritornavano a precipizio, e venivano meno le promesse, e nel porto non v'erano le navi sperate. Il 15 agosto del 1464, sul colle di S. Ciriaco, Pio II chiudeva la vita con la fine eroica d'un martire.

Non immune da gravi mende dottrinali e morali nella sua giovinezza, non mai scevro da una, alcuna volta quasi fanciullesca, ambizione personale, familiare, cittadina; acuto osservatore del presente e preannunziatore vigile dell'avvenire, e tuttavia facile a lasciarsi trascinare da inconsiderati entusiasmi, pio, semplice nella vita, benefico, protettore illuminato dell'arte, P. II fu, pure con gli umani suoi difetti, figura nobilissima di pontefice e d'italiano.

L'umanista e lo scrittore. - È stato giustamente osservato che Pio II non adattò il pontificato all'umanesimo, come altri papi, ma asservì l'umanesimo al pontificato, servendosi di esso per la sua politica e per la sua stessa azione religiosa, cercando di evitare quei danni che il consolidamento e la difflusione della coscienza umanistica dovevano apportare alla religione, e che egli era in grado di valutare meglio di ogni altro. Condanna bensì da pontefice le sue scritture profane, così come sconfessa l'azione e le idee eterodosse del suo non molto lontano passato; ma porta intatti sul trono pontificio, pur nel nuovo e sincero ardore religioso, pur nella coscienza dell'altissima dignità, quell'amore per la solitudine, quel gusto un po' voluttuoso per le bellezze artistiche e naturali, quel dotto e vigoroso compiacimento pei classici latini, quell'umore sereno e mordace, quel blando scetticismo congiunto al vigoroso desiderio di gloria, quell'alta coscienza di sé, che avevano costituito l'essenza della sua anima di uomo e di artista dell'umanesimo.

Importanti documenti storici sono, specie nella loro dettatura originaria, le lettere che il P. scrisse in gran numero (alcune sono veri e proprî trattati), ricche di personali osservazionie di felici dipinture di uomini e di paesi, e le orazioni, anch'esse numerosissime, nelle quali egli ebbe modo di sfoggiare quella sua alta, dotta, pensosa eloquenza della quale sempre, anche da pontefice, molto si compiacque. I Commentarii de gestis Basiliensis Concilii, in tre libri di cui il secondo è perduto, scritti poco dopo l'elezione dell'antipapa Felice V (1440) narrano le vicende di quel concilio con vivacità polepica e descrittiva; più tardi egli rinarrò quelle vicende, con ben diverso spirito, nel De rebus Basileae gestis stante vel dissoluto concilio. Vanno qui ricordate altre due importanti opere storiche del P., l'Historia Bohemica e l'Historia rerum Friderici III imperatoris, composte poco prima della sua assunzione al pontificato, anch'esse pullulanti felicemente di ricordi e osservazioni personali, e un'opera geografica, che il P. già pontefice intraprese ma non condusse a termine, l'Historia rerum ubique gestarum locorumque descriptio, più nota col titolo di Cosmographia, non ben digesta mole di appunti eruditi. E ci limiteremo ad accennare ad altre minori opere dell'umanista: al De viris aetate sua claris, nel quale il P. ha modo di esercitare le sue doti di ritrattista; ai trattatelli sull'educazione dei principi, uno in un'epistola a Sigismondo duca del Tirolo (1443) e l'altro, De liberorum educatione, diretto a Ladislao di Ungheria; al De curialium miseriis, epistola a Giovanni de Eich (1444); a un dialogo d'imitazione dantesca (1453), in cui il P. immagina d'essere guidato da S. Bernardino da Siena nel regno dei morti, dove parecchi interlocutori discorrono vivacemente di varî argomenti.

Ma dal punto di vista artistico la fama del P. è raccomandata ad altre opere. Se le poesie amorose, dirette a una Cinthia, che dà il titolo al libro che le raccoglie, non si elevano molto dal livello comune e mediocre della lirica latina di quell'età; se la commedia Chrisis, nonostante lampi di originalità artistica, nascente essenzialmente dall'osservazione vigile della realtà, è nel complesso troppo fedele imitazione plautina, due altre opere in prosa, la De duobus an antibus historia e i Commentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt, mostrano, specialmente la seconda, l'alto segno cui poteva giungere l'arte del P. Né è senza significato che di esse l'una, l'Historia, sia del 1444, cioè anteriore solo di pochi mesi al profondo mutamento della coscienza e della vita dello scrittore; e l'altra, i Commentarii, sia stata composta da Pio nella pienezza della sua nuova personalità, tra le cure stesse del pontificato.

L'Historia, che pare abbia qualche fondamento in fatti realmente accaduti, narra l'amore di un cavaliere del seguito dell'imperatore Sigismondo, Eurialo, nel quale è forse adombrato il protettore del P., Gaspare Schlick, per Lucrezia, gentildonna senese. L'azione si svolge a Siena, durante la dimora che Sigismondo fece in quella città nel 1432-33: i due amanti, nonostante la vigilanza del geloso marito di Lucrezia, cui il P. ha attribuito il significativo nome di Menelao, riescono a godere del loro amore, con l'aiuto di servi compiacenti (Sosia è figuretta vivissima) e di parenti servizievoli. Ma Eurialo deve seguire il suo imperatore in Germania, e Lucrezia ne muore, mentre il suo amante, pur fieramente addolorato, in breve si consola nelle braccia d'una bellissima fanciulla, destinatagli sposa dal sovrano.

Lucrezia è disegnata, nonostante qualche incertezza, con profonda penetrazione psicologica. Ella è trascinata dalla sua passione carnale, che gode e soffre con quella profonda serietà di cui avevano dato esempio parecchie eroine boccaccesche, e in servizio della quale mette tutta la sua astuzia femminile; è trascinata ineluttabilmente, contro la coscienza dei suoi doveri, contro il suo stesso presentimento di dolore e di morte, e in ciò consiste il fascino poetico della figura di lei. Meno sicuramente è disegnato Eurialo, che oscilla tra la passione più profonda, che lo fa ammalare gravemente solo perché deve allontanarsi per poco dalla sua amante, e la leggerezza con la quale si consola così presto della morte di lei; tra l'ardore e la troppo accentuata paura per le conseguenze di quell'ardore. Lepidi episodî, lettere appassionate, sentenze morali (queste ultime invero non sempre opportunamente), stupende descrizioni di ambiente, sono inframezzati nell'operetta, scritta in un latino limpidissimo, che riesce a diventare strumento d'arte perché noncurante, sebbene corretto, di fisime ciceronianeggianti. La troppa frequenza delle reminiscenze classiche, specie d'Ovidio, l'imitazione boccaccesca, specie della Fiammetta, non tolgono freschezza all'Historia, che ebbe grande fortuna di edizioni (27 nel sec. XV) e di traduzioni. E fortuna ebbe anche un rifacimento o sconciamento in volgare, del notaio fiorentino Alessandro Braccesi (1445-1503).

Ma la limpidezza della prosa di P. trova la sua più alta espressione nei Commentarii, autobiografia in 12 libri che vanno sino al 1463. Il pio pontefice sorvola, com'è naturale, sulla sua vita anteriore al pontificato, che condensa nel I libro; negli altri libri si diffonde a esporre, virilmente compiacendosene, la sua azione politica e religiosa, non senza abbandonarsi qua e là al gaudio, connaturale in lui, delle vivide descrizioni di paesi e di costumanze.

Edizioni: Opera, Basilea 1551 e 1571. - Der Briefwechsel (1431-1454) a cura di R. Wolkan, Vienna 1909-1918; voll. LXI, LXII, LXVII, LXVIII dei Fontes Rerum Austriacarum; A. Ratti, Quarantadue lettere originali di Pio II, in Arch. stor. lomb., s. 3ª, XIX (1903). - Pii II Orationes, a cura di G. Mansi, Lucca 1755-59, voll. 3; altre pubbl. sparsamente. - Il De rebus Basileae gestis stante vel dissoluto concilio in C. Fea, Pius II a calumniis vindicatus, Roma 1823. L'Historia Friderici, rist. in F. Kollar, Monumentorum omnis aevi analecta, II, Vienna 1761; il De viris in append. alle cit. Orationes, III, Lucca 1759. - L'epistola pedagogica a Sigismondo, in Briefwechsel, cit., I,1, p. 222 segg. - Il De curialium miseriis, rist. a cura di W.P. Mustard, Baltimora 1928; il dialogo, vedilo in G. Cugnoni, in Atti Acc. Lincei, s. 3ª, VIII (1883), p. 505 segg. - La Cinthia, ibidem, p. 658 segg. - La Chrisis è inedita, in un codice del principe Lobkowitz a Praga. - La De duob. amant. historia, a cura di J. J. Dévay, Budapest 1904. - I Commentarii rer. mem., furono pubbl. (Roma 1584) da F. Bandini Piccolomini, che tagliò e modificò il testo; manca un'ediz. crit. Vedi i supplementi al testo cinquecentesco, pubbl. da G. Cugnoni, in Atti cit., p. 495 segg., e da G. B. Picotti, in Miscell. di studi stor. in onore di G. Sforza, Lucca 1915, p. 93 segg.

Bibl.: G. A. Campano, Vita Pii II, in Rer. It. Script., III, ii, p. 970 segg.; B. Platina, Historia de vitis pont. rom., Colonia 1626, p. 303 segg.; G. Voigt, E.S. de' P. als Papst Pius II., Berlino 1856-63; A. Weiss, A. S. P. als Papst Pius II., Graz 1897; W. Boulting, A. S., Londra 1908; L. Pastor, Storia dei papi, trad. it., II, Roma 1911; G. Soranzo, Pio II e la lotta politica italiana contro i Malatesta, Padova 1911; G. B. Picotti, La dieta di Mantova e la politica de' Veneziani, in Miscell. di st. veneta della R. Deput. di st. patria, s. 3ª, IV, Venezia 1912; C. M. Ady, Pius II, Londra 1913; Th. Buyken, E. S. P., sein Leben und Werden bis zum Episkopat, Bonn e Colonia 1931.

La migliore opera complessiva su P. come letterato resta sempre quella del Voigt, cit.; ma cfr. anche V. Rossi, Il Quattrocento, 2ª ed., Milano 1933, passim. - Sulla De duob. amant. historia, cfr. J. J. Dévay, in Zeitschrift f. vergleich. Litteraturgesch., IX (1896), p. 496 segg. (poi ristamp. in opuscolo, Budapest 1901); G. Zannoni, Per la storia di due amanti di E. S. P., in Rendic. Lincei, 4ª s., VI (1890), p. 116 segg.; id.-, Per la storia d'una storia d'amore, in Cultura, XI (1890), p. 85 segg.; L. Di Francia, Novellistica, Milano s. a., p. 305 segg. - Sulla Cosmographia, cfr.: A. Berg, E. S. P. in seiner Bedeutung als Geograph., diss., Halle-Wittenberg 1901; H. Müller, E. S. de' P. s literarische Tätigkeit auf dem Gebiete der Erdkunde, diss., Erlangen 1903.

Cfr. anche gli articoli di Zöpffel e Benrath, in Realencykl. f. protest. Theol. u. Kirche, XV (1904), e di C. Vansteenberghe, in Dict. de théol. cath., XII (1934), col. 1619 segg.; Bull. sen. di st. patr., XXXVIII (1931), p. 19 segg.

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