PIO VIII

Enciclopedia dei Papi (2000)

Pio VIII

Giuseppe Monsagrati

Terzo di otto figli (e secondo maschio), Francesco Saverio Maria Felice Castiglioni nacque a Cingoli (Macerata) il 20 novembre 1761, dal conte Carlo Ottavio e dalla contessa Sanzia Ghislieri. Nobili l'uno e l'altra, accomunati dall'origine lombarda delle rispettive famiglie, legate ovviamente anche ad altri nobili marchigiani, entrambi i genitori annoveravano tra i rispettivi antenati, oltre a vari ecclesiastici di rango, un papa: Celestino V lui, il ben più celebre Pio V, il papa di Lepanto, l'unico pontefice canonizzato dell'era moderna, lei. Malgrado una così illustre prosapia, lo stile di vita della famiglia era rimasto austero, improntato naturalmente ai valori della religione ma anche a quelli di una cultura di più ampio orizzonte; e, nel succedersi delle generazioni, il costante accumulo di un cospicuo patrimonio librario aveva comprovato la presenza nei Castiglioni di interessi tutt'altro che superficiali per il settore umanistico, in particolare per quello degli studi giuridici e scientifici, con una capacità di aggiornamento che nel corso del Settecento si era estesa fino ai testi dei "philosophes" senza peraltro tralasciare le opere della controversistica gesuitica. Il Castiglioni crebbe dunque in un ambiente solido, seguito da vicino da uno zio sacerdote e da un istitutore: restava più sullo sfondo il padre, tutto preso da una passione non del tutto dilettantesca per la numismatica e per l'antiquaria che il figlio, ereditandola, avrebbe sviluppato tanto da meritare l'appellativo di "pontefice numismatico". Nel 1773 il Castiglioni entrò nel collegio Campana di Osimo, un istituto riservato ai figli dei nobili che già aveva accolto tra i suoi alunni A. della Genga, il futuro Leone XII. Malgrado vi ricevesse il 26 dicembre 1774 gli ordini minori, di fronte ai severi metodi educativi del collegio mise in mostra un carattere piuttosto indocile e una certa predisposizione alla vivacità; ciò fu sufficiente perché i genitori si persuadessero dell'opportunità di trasferirlo (ottobre 1776) nel collegio pontificio Montalto di Bologna, dove un clima di maggiore apertura intellettuale sollecitò positivamente la personalità del ragazzo e tuttavia non cancellò le sue perplessità in merito ad una scelta - quella della carriera ecclesiastica - cui aveva forse intuito di essere predestinato. Mentre studiava filosofia, riemergevano dunque le intemperanze verbali e comportamentali che già a Osimo avevano attirato l'attenzione su di lui; e se il successivo passaggio ai corsi di diritto accendeva in lui la speranza di restare nel mondo laico per il tramite dell'avvocatura, le pressioni dei parenti perché si accostasse finalmente allo studio della teologia ebbero poco alla volta il potere di sgretolare nel Castiglioni il convincimento che la propria vocazione non fosse né sincera né meditata. Affidato a due ex Gesuiti, l'italiano Borsetti e il messicano E.M. Yturriaga, rispettivamente direttore spirituale e teologo-canonista, il giovane vinse le ultime resistenze psicologiche e nell'ottobre del 1782 si risolse ad abbracciare il sacerdozio: il 5 aprile 1783 a Bologna fu ordinato suddiacono, il successivo 20 dicembre diacono. Più tardi, il 17 dicembre 1785, avrebbe avuto luogo a Roma l'ordinazione sacerdotale. Proprio perché arrivata dopo tanti ripensamenti e riflessioni, la scelta compiuta fu dal Castiglioni intesa subito come una missione, tanto più in ragione del fatto che tramite i due gesuiti gli era arrivata una visione assai rigida dei rapporti tra Chiesa e mondo moderno, una visione in cui nulla si concedeva alle coeve istanze del giansenismo, l'autorità papale non conosceva smagliature di sorta e tutte le simpatie si orientavano verso quei settori del mondo cattolico (giornali, teologi) dove più accanita era la difesa dell'ortodossia cattolica e della costruzione politico-sociale che ne era scaturita, non solo contro la secolarizzazione già in atto in molti Stati ma anche contro i flebili tentativi di riformare dall'interno la vita della Chiesa. Tale tendenza, presente nel Castiglioni già al tempo della formazione bolognese, si rinsaldò dopo il suo passaggio a Roma nel 1785, rivestendosi dell'apparato dottrinario fornitogli dallo studio del diritto prima, poi dai tre anni di perfezionamento nello stesso campo vissuti a contatto con G. Devoti, canonista notevole per quei tempi, autore di quatto volumi di Istituzioni di diritto canonico e docente della stessa materia alla Sapienza; sotto il profilo teologico la frequentazione romana decisiva fu quella dell'ex gesuita F.A. Zaccaria, altro inflessibile sostenitore del primato papale all'interno della gerarchia e della società civile. Appunto dai Gesuiti il Castiglioni trasse la grande devozione portata al Sacro Cuore; ma, ad evitare almeno in parte che egli si corazzasse irrevocabilmente con le rigidezze estreme dell'intransigentismo fino a concepire il confronto con il mondo moderno - quello dei Lumi, e dal 1789 quello della Rivoluzione - come una lotta senza quartiere per il trionfo di un'unica verità, contribuivano la mitezza del suo carattere e un'innata inclinazione alla tolleranza umana, qualità, quest'ultima, che gli faceva accettare cristianamente l'errore più come qualcosa da correggere con i mezzi dell'apostolato che da esorcizzare con le condanne. Allo stesso modo si era rassegnato alla malattia cronica - un erpete - che lo aveva colpito nel 1782 e che, seguita da altre infermità, lo avrebbe accompagnato per quasi tutta la vita. Nel Castiglioni, insomma, la robustezza della preparazione dottrinaria non era tale da precludergli lo sforzo della comprensione, e l'attaccamento ai principi tridentini o alla morale di s. Alfonso de' Liguori, per quanto forte, non rappresentava l'unità di misura unica: perciò in lui il giurista che collaborava col Devoti nella Congregazione incaricata di mettere a punto gli elementi di condanna del giansenismo e il teologo che ricavava dai testi sacri la conferma della superiorità dell'autorità papale si completavano nell'uomo di Chiesa che credeva profondamente nel modello pastorale della cura d'anime che si era affermato nel corso del Settecento nelle Marche e che ai suoi occhi incarnava l'essenza stessa del cristianesimo. Il lungo ministero sacerdotale intrapreso a partire dal novembre-dicembre 1788 al seguito del Devoti che, nominato vescovo di Anagni, lo aveva voluto con sé come vicario generale della diocesi, pose dunque il Castiglioni a contatto con la realtà viva dei fedeli e di una devozione da risvegliare o da rafforzare non con le sole armi della teocrazia. Una certa distanza mentale dall'ambiente anagnino gli suggerì ben presto di aderire all'invito che, probabilmente su pressione dell'Yturriaga, il vescovo di Fano, monsignor A.G. Severoli, gli aveva rivolto nel maggio-giugno 1790 per indurlo a trasferirsi nella diocesi marchigiana, sempre come vicario. Incaricato dell'insegnamento di diritto canonico nel seminario, il Castiglioni corrispose bene alle aspettative dell'intransigente Severoli; intanto lo turbava l'incedere di quelli che avrebbe definito i "mali tempi" della Rivoluzione (O. Fusi-Pecci, p. 51), rispetto ai quali l'occupazione cui si dedicò tra il 1795 e il 1796, quando ebbe ottenuto di poter tornare nella natia Cingoli come prevosto del Capitolo della cattedrale, rappresentò una specie di rifugio dello spirito: approfittando della biblioteca paterna, sprofondò infatti nella ricerca erudita e nella storia sacra, compilando in latino i manoscritti di una serie di cronache di vita locale e, in epoca certamente successiva, di un più impegnativo Prospetto dei Monti frumentari del Cantone di Cingoli. In questi testi celebrava la dimensione municipale dello Stato della Chiesa e quasi evocava in tal modo le basi storiche del potere temporale, in esse configurando il solo rimedio alla minaccia incombente della disgregazione: timore, questo, che nel Prospetto tentava di esorcizzare contrapponendogli con efficacia la celebrazione delle virtù contadine e quel tipo di fratellanza tra gli umili in cui Castiglioni individuava lo "spirito primario della democrazia". All'inizio del 1797, con la nomina a vicario della diocesi di Ascoli, il Castiglioni tornava al ministero sacerdotale vero e proprio. Costretto presto a fare i conti con le turbolenze della lotta per il controllo della penisola che metteva di fronte Francesi e coalizione antirivoluzionaria avendo tra i suoi epicentri anche le Marche, diversamente dagli altri ecclesiastici non abbandonava la città, ma in un momento di debolezza accettava di firmare il giuramento civico (lo avrebbe ritrattato nel dicembre 1799). Sul finire del 1797 era di nuovo a Cingoli come vicario generale e poi come prevosto, e assisteva alla crisi del potere temporale cercando di ridurre al minimo i danni prodotti alla Chiesa dal regime repubblicano instauratosi a Roma all'inizio del 1798.

Un carattere portato più a conciliare che a prendere di petto le situazioni lo mise in grado di superare indenne la prima bufera rivoluzionaria; e la promozione alla dignità episcopale che il neoeletto Pio VII gli fece pervenire dietro consiglio del Severoli, assegnandolo alla diocesi di Montalto - il paese delle Marche che aveva dato i natali a Sisto V -, suonò anche come un autorevole riconoscimento alla sua duttile fermezza, ossia alla capacità con cui il Castiglioni era riuscito a tutelare i diritti della Santa Sede evitando di esasperare gli attriti con le autorità repubblicane. Soprattutto, di fronte al profilarsi di un'epoca di contrasti che minacciavano di avere anche risvolti giuridici, a Roma si intendeva portare in primo piano personaggi ferrati nella conoscenza dei canoni: sembra infatti che il Castiglioni facesse parte della squadra di consulenti di cui Pio VII si sarebbe avvalso per preparare il concordato del 1801 con la Francia. La fermezza entrò anche nel modo con cui il Castiglioni, consacrato vescovo il 17 agosto 1800 e entrato nella nuova sede il successivo 29 settembre, scelse di amministrare la diocesi, dando un forte impulso alle pratiche religiose, incoraggiando tra le pratiche di culto soprattutto quella mariana, seguendo da vicino la formazione del clero e pretendendo da esso la massima severità dei costumi. Le omelie e le pastorali con cui si rivolgeva al popolo dei fedeli tracciavano così i contorni di una società che sarebbe riuscita a neutralizzare il diffondersi dell'irreligione soltanto educando i giovani ai sani principi (fondamentale qui il ruolo delle famiglie) e impedendo la diffusione dei libri empi, portatori di filosofie ispirate ad ateismo e materialismo. Questo lavorare in profondità, andando alle radici stesse dei problemi e puntando sulla formazione e sul rinvigorimento delle coscienze, era assai congeniale al Castiglioni e alla sua mentalità di accorto e meticoloso organizzatore del lavoro pastorale. Ma ancora una volta fu interrotto bruscamente dai Francesi e dal giuramento di obbedienza e fedeltà a Napoleone che, annesse le Marche al Regno d'Italia il 2 aprile 1808, il clero fu costretto a prestare all'imperatore. Stavolta il rifiuto del Castiglioni fu netto anche se alieno da inutili atteggiamenti di sfida: colpito da un ordine di arresto, il 14 luglio 1808, dopo avere affidata la diocesi al vicario, dovette sottostare alla deportazione a Pavia e alla condizione di semilibertà in cui, nel chiuso di una casa religiosa, gli fu imposto di vivere. Negli anni della dominazione napoleonica il Castiglioni tenne ferma la propria volontà di restare fedele al papa e pagò l'implicita opposizione al regime peregrinando da una città all'altra: sballottato tra Pavia, Mantova (1810) e Milano (1813), trovò qualche conforto negli studi di erudizione e qualche aiuto nella solidarietà e nell'ospitalità di alcuni aristocratici tradizionalisti. Non sembra comunque che gli venisse mai meno la serenità; di tanto in tanto trapelava da qualche suo sfogo epistolare l'immagine di una Chiesa ricondotta ad un mitico ordine perfetto, quello del Medioevo; poi, però, la nostalgia si scioglieva nella presa di coscienza del carattere quasi provvidenziale delle persecuzioni, e ciò facilitava al Castiglioni l'accettazione del proprio destino. Non a caso il motivo della sofferenza come elemento di fondo della ripresa del cristianesimo e del suo trionfo sul male compariva nell'omelia che il 29 giugno 1814, riacquistata la libertà nel maggio e fatto ritorno a Montalto il 6 giugno, egli rivolgeva al popolo di quella diocesi. Doveva però passare ancora un anno prima che l'occupazione delle Legazioni ad opera di Gioacchino Murat avesse fine e la piena potestà pontificia fosse ristabilita sulla regione. Per il Castiglioni tale avvenimento precedette di pochi mesi la promozione alla porpora cardinalizia che un Pio VII riconoscente decretò nel Concistoro dell'8 marzo 1816 affidandogli nel contempo - e fu una decisione significativa - il governo della diocesi di Cesena, la città che gli aveva dato i natali. Fu, quella del papa, una scelta felice per la Chiesa, perché il Castiglioni nel mettersi all'opera dimostrò di volersi muovere secondo un organico programma di ricostruzione che presupponeva da parte del clero un impegno non meno rigoroso che da parte dei fedeli. L'azione pastorale del presule si dispiegò dunque lungo più direttrici tutte convergenti verso l'esigenza di un risveglio spirituale avente i suoi punti fermi in una più accurata selezione dei ministri del culto, in un loro esemplare ritorno ad una pienezza di vita interiore e, da parte delle famiglie, nell'istruzione cristiana dei figli e nella valorizzazione e rispetto sincero dei sacramenti. Conclusa solennemente da due settimane (1-15 dicembre 1816) di missioni evangeliche svolte da una squadra di predicatori in cui spiccava il passionista V.M. Strambi, la prima fase di recupero del territorio cesenate fu completata dalla visita pastorale che il Castiglioni annunziò l'8 maggio 1818 e che per un periodo di due anni sottopose tutti i luoghi di culto, i conventi, le opere pie, i seminari e le case religiose della diocesi ad una meticolosa ispezione in cui il presule in persona curò gli aspetti religiosi, occupandosi della catechesi dei fedeli, mentre i suoi collaboratori passavano al setaccio le situazioni amministrative e contabili. Tale accorta linea di condotta - accorta perché inattaccabile sia sul piano spirituale sia su quello temporale, dove peraltro non erano elusi i provvedimenti repressivi e i giudizi di condanna contro la proliferazione delle società segrete -, oltre ad avvicinare ulteriormente il Castiglioni a Pio VII, lo pose in piena sintonia con il segretario di Stato E. Consalvi, il cui realismo politico mal si sarebbe dovuto conciliare in teoria con un uomo che, come il vescovo di Cesena, aveva alle spalle una formazione da zelante, anche se di uno zelantismo temperato da un forte sentimento di umanità. Invece sul terreno di un comune spirito pragmatistico l'incontro tra i due ebbe luogo, e il Castiglioni, chiamato a Roma come titolare dal 13 agosto 1821 della diocesi suburbicaria di Frascati, si trovò ad essere cooptato nel sistema consalviano con la carica di penitenziere maggiore che, collocandolo a capo del Sacro Tribunale della Penitenzieria apostolica, gli conferiva la massima autorità in fatto di assoluzione dai peccati conosciuti solo dalla coscienza del singolo, che non avessero conseguenze pubbliche. Era dunque al suo equilibrio e alla sua esperienza di giudice che in Curia si faceva appello, le stesse doti che, unite alla rinomanza dei suoi interessi culturali, pochi mesi dopo facevano sì che gli fosse conferita la prefettura dell'importante Sacra Congregazione dell'Indice (10 novembre 1821) che il Castiglioni esercitò con prudenza e moderazione ma anche avendo ben in vista l'esigenza di difendere la dottrina, il magistero e anche l'egemonia della Chiesa dalle teorizzazioni dei pensatori laici (I. Kant e G. Filangieri, di cui era ribadita la condanna), dalle opere dei letterati e degli storici in quanto narratori o indagatori del fenomeno della ribellione (C. Botta e V. Alfieri), dalle annose polemiche di giansenisti e di gallicani. Nel susseguirsi di queste funzioni e di altre minori si arrivò all'elezione del successore di Pio VII, scomparso il 20 agosto 1823. Interrotta la visita pastorale che aveva da poco iniziato nella sua nuova diocesi, il Castiglioni entrò in conclave in una posizione che, nonostante l'abbastanza fresca promozione cardinalizia, lo vedeva tra i favoriti sia perché si voleva che il papa defunto lo avesse designato alla successione sia perché pareva che la sua candidatura, valendosi del gioco dei veti incrociati, avrebbe potuto rappresentare un buon punto di mediazione tra le due correnti - gli zelanti e i politicanti - che tradizionalmente si contendevano il potere pontificio. Legato infatti al Consalvi e come tale gradito alla Francia, il Castiglioni vantava buoni rapporti con gli intransigenti del Sacro Collegio, cosa che avrebbe dovuto rimuovere l'eventualità di un'opposizione da parte austriaca. Lo bruciò invece il troppo scoperto appoggio francese che lo rese sospetto a Vienna, dove la dirigenza metternichiana, ostile per un verso al cardinale Severoli, un tempo protettore e ora avversario del Castiglioni, era per l'altro alla ricerca di un candidato più affidabile; ma ciò che soprattutto gli costò l'elezione (un'elezione con la quale la maggioranza che avrebbe finito per prevalere voleva in fin dei conti dimostrare di essere indipendente dalle pressioni delle potenze) fu il suo rifiuto di non rinnovare in caso di successo la Segreteria di Stato al Consalvi, verso il quale aveva confessato, secondo un'autorevole testimonianza, "di avere delle obbligazioni" (G.A. Sala, Scritti vari, II, Vita di Domenico Sala, Roma 1980, p. 69). Il nuovo pontefice fu dunque Leone XII della Genga e inaugurò una politica che per il suo carattere integralista difficilmente avrebbe potuto riscuotere l'approvazione del Castiglioni, al quale nel 1824 venne a mancare anche il Consalvi che in punto di morte ricevette proprio da lui, nelle sue vesti di penitenziere, l'apostolica benedizione. Al Castiglioni non restò altro che ritirarsi nel chiuso delle sue occupazioni pastorali e dei compiti di Curia, lasciando scorrere quel primo biennio di pontificato durante il quale Leone XII si sarebbe logorato nel vano tentativo di portare avanti la riscossa della Chiesa sul mondo moderno, per poi rassegnarsi a soffocare, nel triennio conclusivo, il respiro trascendente degli esordi sotto l'accavallarsi anche convulso e improduttivo delle disposizioni amministrative. Si direbbe tuttavia che dal suo ritiro egli osservasse e seguisse con attenzione tutto quanto lo svolgersi del pontificato leoniano, vista la puntigliosità con cui, una volta divenuto papa e pur con il poco tempo a disposizione, ne avrebbe smantellato l'eredità: regola, questa, che nella storia del papato era quasi una consuetudine ma che egli applicò con particolare scrupolo. Anche se l'attesa non fu lunga - Leone XII morì il 10 febbraio 1829 - il Castiglioni entrò nel secondo conclave della sua vita ad un'età ormai avanzata: aveva infatti da poco compiuto i sessantasette anni e, soprattutto, si trovava in condizioni di salute assai precarie, elemento, quest'ultimo, che poteva anche giovargli nel caso che nel Sacro Collegio si fosse riproposta la spaccatura tra zelanti e politicanti (o tra austrofili e francofili) e che, per l'incapacità o l'impossibilità di venirne rapidamente a capo, si fosse deciso di trovare un papa di transizione rinviando la sfida decisiva ad un momento più propizio. In realtà il Castiglioni apparve papabile fin dalle prime votazioni, quando si trovò a competere soprattutto con il cardinale E. de Gregorio, l'uomo cui andavano i suffragi dello schieramento conservatore, ivi compresa la Francia, mentre un po' a sorpresa gli mancava l'appoggio dell'Austria, la quale, oltre a temere i contraccolpi che avrebbe potuto avere sulla propria legislazione ecclesiastica l'elezione di un intransigente, puntava su un candidato in grado di controllare la situazione interna dello Stato della Chiesa senza esasperare gli animi. A orientare le decisioni del conclave - apertosi il 23 febbraio 1829 - nella direzione gradita all'Austria e a far sì che le preferenze della maggioranza dei cardinali ricadessero sul Castiglioni fu il cardinale G. Albani, notoriamente assai sensibile alle pressioni viennesi; e tuttavia neanche questo grande elettore sarebbe riuscito a fare uscire il conclave dallo stallo di un ripetuto testa a testa (per essere eletti occorreva una maggioranza dei due terzi dei votanti), se alla fine i cardinali non avessero tenuto conto della non lunga aspettativa di vita del Castiglioni per risolversi a far convergere sulla sua persona i quarantasei voti che il 31 marzo 1829 lo portarono sul soglio papale. In tutta questa vicenda la Francia sembrò recitare un ruolo abbastanza marginale nonostante la pomposa orazione che il suo ambasciatore, il celeberrimo scrittore cattolico F.-A.-R. de Chateaubriand, aveva rivolto ai cardinali alla vigilia del conclave auspicando l'avvento di un papa capace di tenere la Chiesa al passo con i tempi; proprio Castiglioni gli aveva risposto delineando l'immagine di una Chiesa proiettata in un tempo più ampio del presente, più sollecita della salvezza spirituale dei fedeli che della loro felicità terrena, e dunque poco influenzabile dai disegni delle potenze. L'esito del conclave, pur premiando colui che nel 1823 la Francia avrebbe voluto vedere papa al posto di Leone XII, fu comunque tale da lasciare qualche dubbio. Ma la designazione immediata dell'austriacante cardinale Albani alla Segreteria di Stato risvegliò nella diplomazia transalpina le perplessità che la scelta del nome Pio VIII, annunziata all'atto dell'elezione, collocando il nuovo papa nel filone di un moderato riformismo, aveva appena fugato. "Che Iddio ispiri a Pio VIII la decisione di accordare ai suoi sudditi il Codice civile francese", annotava più scettico che speranzoso Stendhal (p. 265). I sudditi pontifici non avrebbero mai avuto il Codice civile francese, ma il fatto che il papa avesse optato per il nome di P. apriva uno spiraglio su quelle che sarebbero state probabilmente le sue intenzioni di governo. Non era solo questione di ricordare l'altro Pio di casa Castiglioni o di mostrare la propria gratitudine a colui che nel 1816 lo aveva fatto vescovo e poi cardinale e altro ancora: già prima di mettere su carta il proprio programma, il papa appena eletto dava un preciso segnale di voler superare di slancio il pontificato di Leone XII - da tutti discusso, e certamente impopolare - per riallacciarsi alla tradizione di papa Chiaramonti; il che non voleva dire che con lui la Chiesa non avrebbe visti difesi ed eventualmente riaffermati i propri diritti o che non si sarebbe perseguita la ricomposizione cristiana della società attorno al primato del pontefice, ma che lo si sarebbe fatto con uno spirito pastorale diverso. La differenza stava tutta lì: quella stessa religione che Leone XII aveva pensato di poter brandire come un'arma, per P. era uno scudo; e la battaglia in cui papa della Genga aveva profuso le sue virtù guerriere andava combattuta invece "con la prudenza del serpente e con la semplicità della colomba", cioè con quelle qualità cui, rispondendo al visconte di Chateaubriand, l'allora cardinale Castiglioni, inconsapevole del destino che lo attendeva, aveva giudicato necessario si dovesse ricorrere per salvare la barca di Pietro.

Il pontificato iniziava insomma nel segno della continuità con Pio VII, continuità che lo stesso P. sottolineava disponendo che la solenne cerimonia del possesso avesse luogo il 24 maggio 1829: come fu notato dal "Diario di Roma", giorno e mese erano quelli in cui il suo benefattore quindici anni prima era rientrato a Roma, reduce dalla lunga deportazione inflittagli da Napoleone. Salendo sul trono, P. fu circondato subito di un alone di simpatia, prima di tutto perché si riverberava su di lui il sollievo per la fine del papato leoniano, e poi perché alla fama di cui era circondato come uomo di scienza poco o affatto chiacchierato egli seppe aggiungere il plauso procuratogli dalla decisione di abolire i famosi "cancelletti", odiatissimi dal popolino romano per l'inutile funzione di controllo che per loro mezzo si sarebbe voluto esercitare sull'accesso alle osterie; ulteriore consenso gli venne dalla lettera, scritta ai parenti e immediatamente data alle stampe, con cui avvertiva che non avrebbe concesso nulla alle consuetudini nepotistiche della Curia. Non avendo la figura elegante ed austera di Leone XII ("grasso grasso, colle gote cascanti", lo descriverà M. d'Azeglio) ed essendo per di più strabico e sofferente di un ascesso al collo che lo costringeva a tenere il capo piegato, lo raggiunse comunque un sonetto di G.G. Belli, il nr. 11, carico di dileggio per le sue mille infermità ("[...] cianno fatto / un gran brutto strucchione de Pontefice" era la chiusa). Nessuno più di lui sapeva che il suo regno sarebbe durato poco, e forse fu per questo che sin dall'inizio ebbe le idee chiare su quelle che sarebbero state le linee guida della sua azione di governo: fondamentale, tra tutte, quella di tener distinta la direzione spirituale del mondo cattolico da quella politica, riservando la prima alla propria competenza esclusiva e confidando la seconda al cardinale Albani. Agendo così, era anche convinto che attraverso la sua persona si sarebbe potuto riequilibrare quello sbilanciamento verso Vienna che tanto aveva indispettito la Francia, il cui ambasciatore aveva salutato il segretario di Stato dicendosi lieto di "poter presentare il suo omaggio à deux ministres à la fois" (allusione ironica alla sua presunta funzione di garante romano degli interessi austriaci oltre che di primo ministro). Questa frase compariva in una lettera del cardinale T. Bernetti (al cardinale L. Amat, Roma, Museo Centrale del Risorgimento, b. 10/9/2) ed esprimeva il malumore degli ambienti zelanti per l'esito del conclave. Proprio il Bernetti, "esiliato" con la carica di legato a Bologna, era stato una delle prime vittime del nuovo papa che il 24 maggio 1829, lo stesso giorno della presa di possesso, aveva enunziato il proprio programma con la prima enciclica, la Traditi humilitati nostrae, con cui, oltre a ribadire l'autorità papale sui vescovi, aveva, in linea con la tradizione, fulminato bersagli quali l'indifferentismo religioso, le società bibliche e l'attività delle sette (contro queste ultime mise in atto uno sforzo repressivo che sfociò in molte condanne ma mai in esecuzioni capitali). Fissati tali capisaldi programmatici, P. si era poi incamminato sulla via delle riforme, senza staccarsi, per la verità, dalla logica antiquata dell'assistenzialismo e dei provvedimenti di blando incoraggiamento all'economia o di alleggerimento delle pastoie burocratiche che ben poco effetto potevano avere sullo sviluppo delle culture e delle forze produttive di cui aveva in particolare bisogno lo Stato. Così, il sostegno offerto all'agricoltura e alla zootecnia, l'importazione forzata di grani dall'estero in vista dello scarso raccolto del 1830, la riforma delle tariffe doganali, la protezione data all'editoria, e infine l'incremento delle opere pubbliche come settore in cui dare sfogo alla disoccupazione con il ricorso a forme di lavoro socialmente utile mostrarono la sua sensibilità al dramma della miseria ma lasciarono in gran parte le cose come stavano. Forse la sua misura più efficace in politica economica fu il chirografo del 28 gennaio 1830 con cui si ristabiliva il tribunale di appello commerciale di Ancona e si acceleravano i procedimenti giudiziari in materia di scambi e traffici, avvantaggiando in tal modo uno dei comparti più dinamici dello Stato pontificio. Era evidente in P. l'intenzione di approfittare dell'atmosfera di novità che sempre circonda ogni inizio di pontificato per marcare il proprio stile di governo. La più esplicita presa di distanza dai metodi e dagli indirizzi amministrativi di Leone XII in campo assistenziale fu comunque quella che si manifestò con i due brevi del 28 agosto e del 21 dicembre 1829: il primo, infatti, sciolse la commissione dei conservatori femminili istituita nel 1827 riattribuendone la competenza ai singoli istituti; il secondo operò qualcosa di analogo a proposito dei cinque maggiori ospedali romani, ricondotti in nome di una maggiore funzionalità ed efficienza alla condizione di massima autonomia; nell'un caso come nell'altro P. (ma non si dimentichi che alle sue spalle c'era l'Albani) ripristinava un principio di conduzione già caro a Pio VII e vanificava consapevolmente un disegno di centralizzazione che non era stato pensato a fini di risanamento economico ma che aveva inteso stabilire un più solerte controllo dall'alto sull'intera materia, nel quadro dell'ambizioso (e fallimentare) progetto di integrale restaurazione morale e religiosa perseguito da Leone XII; rispetto al quale aveva qualche significato anche la soppressione della Congregazione di Sorveglianza dei Funzionari Pubblici da quegli voluta e fatta funzionare con pratiche di vero e proprio spionaggio. Nell'insieme, sembra di poter dire tuttavia che il papa avesse scelto un profilo piuttosto basso e di moderato riformismo, profilo che non era contraddetto dal giubileo straordinario indetto con qualche velleitarismo il 18 giugno 1829. In effetti sul piano religioso si avverte una certa continuità col predecessore, attenuata tuttavia da una morbidezza che l'altro non aveva conosciuto e che però tendeva a perseguire con approcci meno frontali risultati non dissimili. Memore di come aveva esercitato il magistero episcopale, anche come papa P. puntava molto sulla ritualità, sul richiamo all'osservanza dei sacramenti, sul rilancio dei Gesuiti e sull'incremento delle vocazioni secolari e regolari; al contempo, promuoveva la canonizzazione di s. Alfonso de' Liguori - riconoscendo solennemente i miracoli proposti per questo e, con scelta significativa, proprio alla chiesa del Gesù - e favoriva la ripresa di una gerarchia francese più fedele a Roma, allarmando il Lamennais che deprecò lo stato di paralisi in cui a suo parere era caduta la Chiesa. Era lo stesso rilievo del Bernetti che da Bologna scambiava per inerzia la prudenza e osservava che a Roma tutto era "inazione, tristezza, stasi malinconicissima" (a L. Amat, 10 agosto 1829, Roma, Museo Centrale del Risorgimento, b. 10/9/4). Che invece proprio di prudenza si trattasse lo dimostrava la cura estrema con cui, concentrandosi sulle questioni spirituali, P. aveva mostrato di interpretare i suoi rapporti con gli Stati, cattolici o protestanti che fossero. Fu infatti in questo campo che il suo pontificato lasciò il segno, per il desiderio di evitare ad ogni costo le rotture e di cercare sempre le vie della mediazione che caratterizzò una politica che era insieme estera ed ecclesiastica. Era convinzione di P. che con il dialogo e comprendendo le ragioni degli altri la Chiesa sarebbe riuscita a tutelare i propri diritti assai meglio che con le aprioristiche conflittualità leoniane; e non era la pazienza a fargli difetto, dal momento che, come aveva confidato ad un cattolico francese, i tempi richiedevano "mezzi di dolcezza e persuasione" (J.-A.-F. Artaud de Montor, II, p. 59). Allo stesso personaggio aveva detto di non amare la parola "sùbito" (ibid., p. 17) perché non gli piacevano le decisioni precipitose, e ben lo sapeva il Rosmini che, avendolo sollecitato perché fosse approvata la propria Congregazione, si era sentito consigliare di non aver fretta e di procedere con "umiltà e prudenza" (a G.B. Loewenbruck, 23 maggio 1829, in A. Rosmini, Epistolario, III, Casale Monferrato 1888, p. 84). Armato di tale saggezza e deciso a creare con la sola autorità morale uno scenario di pace tra Francia e Austria il cui raggiungimento avrebbe conferito grande prestigio internazionale alla Chiesa, P. si lasciò guidare da un solo ma solido principio: che, cioè, Roma dovesse rispettare le istituzioni civili di ogni singolo Stato, prescindendo da un'origine eventualmente rivoluzionaria. Regolò in tal modo le faccende ecclesiastiche delle ex colonie latino-americane della Spagna accordando loro la presenza di vicari apostolici che in pratica preludeva alla loro indipendenza da Madrid; uguale flessibilità dispiegò nei confronti della Prussia sulla questione dei matrimoni misti in Renania, spingendosi (ma senza fortuna) fino a concedere una sanatoria per quelli già celebrati fuori del rito tridentino, e cioè senza un preciso impegno per l'educazione cattolica della prole; con moderazione cercò di affrontare anche i contrasti con la Russia, evitando di alimentare il malcontento dei cattolici polacchi nella speranza di ottenere la fine delle persecuzioni della Chiesa uniate. Certo, non tutti gli angoli furono smussati (con l'Olanda, ad esempio, fu impossibile trovare un compromesso a tutela della libertà religiosa dei cattolici belgi, che P. non volle abbandonare malgrado la loro alleanza coi liberali, dall'Albani definita "mostruosa" [J. Leflon, p. 757]), e quando lo furono non fu sempre merito del solo papa; ma è un fatto che con Londra, da dove proprio mentre P. veniva eletto era venuto l'Emancipation Act, si stabilì una condizione di reciproco rispetto e di comune volontà di contenere il disagio dell'Irlanda evitando le inutili provocazioni, così come con gli Stati Uniti si gettarono le basi per una piena integrazione dei cattolici in un paese a maggioranza protestante e si avviò la disseminazione della Chiesa locale sul territorio. Quando l'accordo non era possibile, alla rottura era sempre preferita una tattica temporeggiatrice che, senza dar l'idea della cedevolezza romana, lasciasse un margine alle trattative: tutto, insomma, piuttosto che abbarbicarsi alle rigidezze "ideologiche". Il beneficio che ne derivava era visibile ad esempio nell'appoggio delle potenze che consentì a P. di ottenere dalla Turchia l'emancipazione dei cattolici armeni. Sarebbe tuttavia errato oltre che riduttivo leggere questa prassi di governo alla luce del solo pragmatismo. Quelli di P. in materia di relazioni fra la Chiesa e il mondo postrivoluzionario erano convincimenti profondi, nati da una formazione culturale certamente orientata ma su cui molto aveva inciso l'esperienza personale dolorosa da lui vissuta sotto Napoleone; e nulla seppe illustrare la fermezza della sua personalità meglio dell'atteggiamento che egli tenne verso la rivoluzione francese del 1830. Quando infatti arrivò a Roma la notizia che a Parigi i Borboni erano stati deposti e sostituiti in seguito ad una rivolta popolare da un rappresentante della dinastia orleanista, P. si guardò bene dal considerare la cosa sotto il profilo del legittimismo (come invece suggeriva il nunzio a Parigi Lambruschini) o dal lasciarsi prendere la mano dall'Albani; non volle nemmeno tener conto - lui che aveva sempre predicato la prudenza - delle indicazioni dilatorie della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari e, deciso a gestire la questione in prima persona, optò a favore di un rapido riconoscimento del nuovo sovrano, affermando così un principio giuridico non molto familiare alle tradizioni della Chiesa, quello "del riconoscimento del potere politico indipendentemente dalla sua legittimità" (E. Piscitelli, p. 18): dove era significativo che, come avveniva ora con Luigi Filippo, il papa desse la propria sanzione ad un potere che non era di origine divina ma era imposto dalla volontà popolare, manifestatasi per giunta attraverso una rivoluzione, e che, parallelamente, facesse cadere la propria riprovazione su quegli esponenti dell'alto clero francese che avrebbero voluto offrire solidarietà e sostegno al re deposto. Questi atti sono del settembre del 1830. Il 30 novembre 1830, logorato ormai nella fibra, P. si spegneva dopo una breve agonia iniziata con alcuni attacchi di asma e conclusasi con un collasso. Il suo pontificato era durato in tutto venti mesi. Fu sepolto nella basilica di S. Pietro, da dove, alla morte di Gregorio XVI, i resti mortali furono trasferiti nelle Grotte vaticane. Sempre a S. Pietro, in forza di una disposizione testamentaria del cardinale Albani, gli fu elevato, ad opera dello scultore P. Tenerani, un monumento funebre assai accademico nel suo neoclassicismo ma fedele nella raffigurazione simbolica delle virtù, la Giustizia e la Prudenza, che gli avevano consentito di dare al proprio pontificato un "caractère progressiste, dans le sens d'un liberalisme modéré" (J. Schmidlin, p. 149).

fonti e bibliografia

L'Archivio storico Castiglioni è conservato a Cingoli presso gli eredi: provvisoriamente ordinato, comprende 1.210 fascicoli; altri 886 fascicoli sono temporaneamente depositati presso la Biblioteca Comunale di Cingoli che custodisce anche il patrimonio librario della famiglia, un totale di 11.500 opere in 17.500 volumi di cui è disponibile un inventario compilato a metà Ottocento. Su tale materiale archivistico, arricchito da documenti di varia provenienza (A.S.V., archivi diocesani di Cesena, Frascati, ecc.), è costruito il lavoro del sacerdote O. Fusi-Pecci, La vita del Papa Pio VIII, Roma 1965, frutto di una scrupolosa ricerca (bibl. alle pp. XII-XV) ma suscettibile, sia dal punto di vista della documentazione sia da quello dell'interpretazione, di ulteriori apporti conoscitivi quali quello di A. Pennacchioni, Il papa Pio VIII F.S. Castiglioni, Cingoli 1984, e il più recente La religione e il trono. Pio VIII nell'Europa del suo tempo, a cura di S. Bernardi, Roma 1995, che raccoglie le relazioni presentate al convegno tenutosi a Cingoli il 12-13 giugno 1993. In precedenza erano disponibili altre biografie (J.-A.-F. Artaud de Montor, Storia del pontefice Pio VIII, I-II, Milano 1844; G. Malazampa, Una gloria delle Marche. Cenni storico-biografici su Pio VIII [...], Cingoli 1931) e alcuni importanti medaglioni inseriti in lavori a carattere generale di storia della Chiesa o dello Stato pontificio: in partic. P. Feret, La France et le Saint-Siège, Paris 1911, pp. 403-37; J. Schmidlin, Histoire des papes de l'époque contemporaine, I, 2, Lyon-Paris 1940, pp. 138-84; J. Leflon, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche-V. Martin, XX, 2, Torino 1975, pp. 741-81; R. Aubert, La Chiesa cattolica e la Restaurazione, in Storia della Chiesa, a cura di H. Jedin, VIII, 1, Tra rivoluzione e restaurazione, Milano 1977, pp. 110 ss.; M. Caravale-A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, Torino 1978 (Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, 14), pp. 607 ss.

Quanto alle fonti edite, tra quelle diplomatiche molto materiale si è aggiunto a quello offerto a suo tempo da N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia, II, ivi 1865, pp. 422-29, e III, ivi 1867, pp. 21 s.; utile soprattutto Le relazioni diplomatiche fra lo Stato pontificio e la Francia, ser. II, 1830-1848, I, a cura di G. Procacci, Roma 1962, ad indicem.

Le carte della Nunziatura di Parigi e della Segreteria di Stato hanno reso possibili alcuni lavori su aspetti particolari della politica di P., specie di quella estera: tra gli altri R. Moscati, Il governo napoletano e il conclave di Pio VIII, "Rassegna Storica del Risorgimento", 20, 1933, pp. 257-74; E. Piscitelli, Stato e Chiesa sotto la monarchia di luglio, Roma 1950, ad indicem; C. Vidal, La S. Sede e la spedizione francese in Algeria (1830), "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 77, 1954, pp. 77-89; P. de Leturia, Pio VIII y la independencia de Hispanoamérica, in Id., Saggi storici intorno al papato, Roma 1959, pp. 387-400; G. Marino, Il pontificato di Pio VIII, tesi di perfezionamento, Università degli Studi di Roma "La Sapienza", 1961.

Fonti memorialistiche assai notevoli sono quelle di L. Lambruschini, La mia nunziatura di Francia, a cura di P. Pirri, Bologna 1934, ad indicem; M. d'Azeglio, I miei ricordi, a cura di A.M. Ghisalberti, Torino 1971, p. 351; Stendhal, Passeggiate romane, prefazione di A. Moravia, Roma-Bari 1991, ad indicem, e F.-A.-R. de Chateaubriand, Memorie d'oltretomba, a cura di I. Rossi, I-II, Torino 1995, ad indicem.

G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, LIII, Venezia 1852, s.v., pp. 172-88.

Dictionnaire de théologie catholique, XII, 2, Paris 1935, s.v., coll. 1683-86.

Dizionario del Risorgimento Nazionale, a cura di M. Rosi, III, Milano 1933, s.v., pp. 896 s.

E.C., IX, s.v., coll. 1508-10.

Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, II, Milano 1996, s.v., pp. 1157-58.

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