Pitagora

Enciclopedia Dantesca (1970)

Pitagora (Pittagora)

Giorgio Stabile

Filosofo greco nato a Samo. Molto controverse sono le sue date di nascita e di morte, databili rispettivamente intorno al 582 e 506 a. Cristo. Un'antica tradizione lo vuole alunno di Ferecide Siro, Epimenide, Talete e Anassimandro.

Quanto alla sua educazione e autorità di maestro (di epoca assai tarda, III-IV secolo, sono le biografie di Porfino e Giamblico e quella di Diogene Laerzio Vitae philosophorum VIII 1) una tradizione panegiritica lo volle dotato di una polymathia impareggiabile. Ciò spiega l'attribuzione di viaggi tra i popoli d'Oriente che lo avrebbero messo in contatto con le fonti stesse del sapere e della religione misterica: in primo luogo gli Egizi, ma inoltre i Fenici, i Caldei, i Maghi persiani, gli Indiani e gli Arabi.

La derivazione dalla sapienza orientale divenne una qualificazione tipica delle dottrine pitagoriche. Significativo, per l'intento concordistico tra pensiero giudaico-cristiano e pitagorismo, l'attribuzione a P. di dottrine attinte dall'insegnamento degli Ebrei e, specificamente, dagli scritti mosaici. Non poche pratiche (ascetismo, silenzio, astinenza, esame di coscienza, ecc.) e massime pitagoriche furono viste come anticipazioni del verbo cristiano e delle forme di vita cenobitica. Così pure, a farne una sorta di santo pagano, contribuirono la fama di uomo dai poteri soprannaturali, taumaturgo, ierofante e profeta (la tradizione dell'ipse dixit rivela come le sue massime fossero sentite come effata divina più che sentenze umane); da ricordare, infine, la leggenda di P. protagonista di una discesa agl'Inferi.

Altro dato di rilievo nella biografia di P. è il suo trasferimento dalla Grecia in Italia meridionale (forse intorno al 529 a.C.) dove avrebbe fondato, a Crotone, una celebre scuola filosofica - che è considerata fonte e origine della cosiddetta ‛ filosofia italica ' - nelle forme di una comunità religiosa con intenti di rigenerazione morale e politica.

La dottrina che caratterizza, più comunemente, la filosofia pitagorica è quella che considera il numero come essenza di tutte le cose, in quanto ogni aspetto del reale veniva ricondotto a una reciproca relazione o ‛ armonia ' di quantità numerabili (modello per eccellenza era ritenuta la concordanza dei suoni, la synphonia, realizzata nella musica attraverso intervalli matematici). Tutti i numeri, per i Pitagorici, erano suddivisi in due classi, dei pari e dei dispari (una terza era quella del parimpari, individuata nell'uno-monade). Pari e dispari formavano gli elementi universali dei numeri, e perciò delle cose. Il pari, rappresentato dal due, era considerato numero aperto e come tale illimitato; il dispari, simbolizzato dal tre, era considerato numero perfetto, limitato e in sé concluso. Connessa a questa opposizione fondamentale è la determinazione di dieci coppie di contrari che individuavano due serie di proprietà opposte costituenti il reale. Sotto il dispari-limitato cadevano le determinazioni positive e perfette, sotto il pari-illimitato quelle negative e impefette. In genere, l'antitesi limitato-illimitato veniva assimilata a quella bene-male.

Altre teorie tipiche del pitagorismo sono la reincarnazione o metempsicosi, e la dottrina cosmologica. La metempsicosi era la credenza nella trasmigrazione delle anime da un corpo a un altro - anche di diversa specie - dopo la dissoluzione. Si tratta di una delle dottrine di P. più spesso richiamate dalla letteratura cristiana; ora per accentuarne le affinità con l'insegnamento cristiano (corpo come carcere, l'anima immortale ‛ rinchiusa ' in esso nell'attesa della liberazione verso una beatitudine di vita incorporea, in un mondo più alto), ora per drammatizzarne le differenze (negazione dell'individualità dell'anima umana, sua uguaglianza con quella degli animali bruti, vegetali e miniere, ecc.). La dottrina cosmologica considerava al centro del cosmo il fuoco e attorno a esso, in orbite concentriche, i vari pianeti fino alla sfera estrema, racchiudente il tutto, formata anch'essa di materia ignea. Tra la Terra e il fuoco centrale era collocata l'antiterra (ἀντίχϑων, antichtona), che girava solidalmente alla Terra intorno al fuoco in 24 ore. In tal modo l'antiterra impediva che i raggi del fuoco raggiungessero direttamente la Terra e risultava invisibile dall'emisfero abitato, perché questo, nella sua rotazione, era sempre rivolto verso l'esterno della sfera. I raggi del fuoco centrale pervenivano all'emisfero abitato solo perché riflessi dal sole (che ruotava in un'orbita più ampia). Quando la terra si trovava dalla parte del sole si aveva il giorno, in caso contrario la notte.

Le dossografie medievali su P. (cfr. in particolare [Abu 'l Wēfa] Liber philosophorum moralium antiquorum, ediz. Franceschini 35-41; Giovanni di Salisbury Policraticus V 12, VII 1, 4, 5, 10, 11, VIII 21; Ugo di San Vittore Didascalicon I 3; Vincenzo di Beauvais Speculum morale III VII 2, IX 3, Speculum doctrinale II 10, V 170, Speculum historiale IV 24, 26; Gualtiero Burley De vita et moribus philosophorum XVII; Giovanni Waleys, Florilegium de vita et dictis... philosophorum III VI 1-12), come nel caso di altri filosofi da lui nominati, non sembrano presenti in Dante.

P. comunque è uno dei pochi filosofi presocratici su cui D., basandosi soprattutto su dossografie di Aristotele o di suoi commentatori, torna più volte. Anzitutto, ed è caso raro, per definire l'epoca in cui visse: Dico adunque che anticamente in Italia, quasi dal principio de la costituzione di Roma, che fu [sette]cento cinquanta anni [innanzi], poco dal più al meno, che 'l Salvatore venisse, secondo che scrive Paulo Orosio, nel tempo quasi che Numa Pompilio, secondo re de li Romani, vivea uno filosofo nobilissimo, che si chiamò Pittagora. E che ello fosse in quel tempo, pare che ne tocchi alcuna cosa Tito Livio ne la prima parte del suo volume incidentemente (Cv III XI 3).

Il passo, indubbiamente, a meno che D. non citi a memoria, presuppone una fonte intermedia, ed erronea, tra Livio e D.; l'espressione pare che ne tocchi alcuna cosa Tito Livio basta da sola a dimostrare che D. non leggeva direttamente dallo storico romano. Tanto più che Livio (I XVIII 1-2) aveva affermato proprio il contrario: " Inclita iustitia religioque ea tempestate Numae Pompilii erat... Auctorem doctrinae eius, quia non extat alius, falso Samium Pythagoram edunt, quem Servio Tullio regnante Romae centum amplius post annos in ultima Italiae ora circa Metapontum Heracleamque et Crotoniam iuvenum aemulantium studia coetus habuisse constat " (cfr. anche XL XXIX 3-9). Va notato, d'altro canto, che lo stesso riferimento cronologico è cauto e volutamente approssimato (quasi nel tempo di Numa Pompilio) e che il richiamo a un ‛ autore ' classico è dettato più dalla tecnica dell'auctoritas che da un riscontro documentario. Che Numa fosse stato scolaro di P. era un dato accreditato da una certa tradizione classica (cfr. Ovidio Met. XV 479 ss., Fast. III 151-154, Pont. III III 41-46, Plinio Nat. hist. XIII XVII 84-86; v. anche Plutarco Numa 8, 11, 14) che aveva accoppiato al primo grande re di Roma il primo grande fondatore della filosofia italica. Cicerone, in tal senso, dà una testimonianza chiara: " Erat in illis [ai primi Romani] paene in conspectu praestanti sapientia et nobilitate Pythagoras, qui fuit in Italia temporibus isdem quibus L Brutus patriam liberavit .. Quin etiam arbitror propter Phythagoreorum admirationem Numam quoque regem Pythagoreum a posterioribus existimatum. Nam cum Pythagorae disciplinam et instituta cognoscerent regisque eius aequitatem et sapientiam a maioribus suis accepissent, aetates autem et tempora ignorarent propter vetustatem, eum qui sapientia excelleret, Pythagorae auditorem crediderunt fuisse " (Tusc. IV I 2-3). Secondo Cicerone Rep. II 15 (cfr. anche Tusc. I XVI 38), Gellio (XVII XXI 1 § 6) e Giamblico (Vita Pythag. 35) P. sarebbe giunto in Italia al tempo di Tarquinio il Superbo. D., quindi, a parte l'improprio riferimento a Livio, si avvale di una fonte che riprendeva la tradizione di Numa scolaro di P. e dell'origine comune di religione romana e pitagorismo.

Immediatamente dopo, D. prosegue (Cv III XI 4-5) per celebrare in P. l'inventore stesso del termine filosofia: E dinanzi da costui erano chiamati li seguitatori di scienza non filosofi ma sapienti, sì come furono quelli sette savi antichissimi... Questo Pittagora, domandato se egli si riputava sapiente, negò a sé questo vocabulo, e disse sé essere non sapiente, ma amatore di sapienza. E quinci nacque poi, ciascuno studioso in sapienza che fosse ‛ amatore di sapienza ' chiamato, cioè ‛ filosofo '. Si tratta di un aneddoto notissimo nel Medioevo a cui il nome di P. rimase legato.

Già presente in Cicerone (Tusc. V III 7-9), fu certamente divulgato da Agostino che in Civ. VIII 2 afferma: " Quantum enim adtinet ad litteras Graecas... duo philosophorum genera traduntur: unum Italicum ex ea parte Italiae, quae quondam magna Graecia nuncupata est; alterum Ionicum in eis terris, ubi et nunc Graecia nominatur. Italicum genus auctorem habuit Pythagoram Samium, a quo etiam ferunt ipsum philosophiae nomen exortum. Nam cum antea sapientes appellarentur, qui modo quodam laudabilis vitae aliis praestare videbantur, iste interrogatus, quid profiteretur, philosophum se esse respondit, id est studiosum vel amatorem sapientiae; quoniam sapientem profiteri arrogantissimum videbatur. Ionici vero generis princeps fuit Thales Milesius, unus illorum septem, qui sunt appellati sapientes " (cfr. XVIII 25 e 37). Per la definitiva volgarizzazione del tema basterà citare Isidoro (Etym. VIII VI 1-5 e XIV VI 31), fiore e vita de filosafi 1 e soprattutto Uguccione, topico per D. (v. FILOSOFO).

Scopo di D. non è di resuscitare la figura di P. autore della filosofia italica e principe della filosofia speculativa (cfr. Agostino Civ. VIII 4) ma di rinvenire l'origine (e con essa - medievalmente - la natura o essenza) della Filosofia alle fonti stesse della tradizione italica e romana, nell'atto solenne dell'impositio nominis: dico e affermo che la donna di cu' io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia (Cv II XV 12). Ripercorrere l'etimologia (cfr. III XI 5-6 s.), per il medievale è al tempo stesso penetrare nell'essenza e risalire a ritroso verso l' ‛ atto originario ', verso una sorta di consacrazione profana.

Alla dottrina del numero e alla cosmologia pitagorica D. fa in più luoghi riferimento. In Cv II XIII 17-18 è detto: li principi delle cose naturali... sono tre, cioè materia, privazione e forma, ne li quali si vede questo numero. Non solamente in tutti insieme, ma ancora in ciascuno è numero, chi ben considera sottilmente; per che Pittagora, secondo che dice Aristotile nel primo de la Fisica, poneva li principi de le cose naturali lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose esser numero. A meno che non debba leggersi nel primo de la [Meta] fisica (nel qual caso si tratterebbe di Metaph. I 5) resta il fatto che il rinvio alla Physica è in realtà senza preciso riscontro; nel I libro di essa Aristotele non parla mai di P. e fa solo un accenno a quelli che considerano come principi i contrari e, tra questi, alcuni ritengono il pari e il dispari (I 5, 188b 34). Molto probabile è il ricorso a un commento esplicativo; si veda quanto dice ad locum Tommaso (I lect. X): " Aliqui posuerunt principia parem et imparem, scilicet Pythagorici, existimantes substantias omnium esse numeros, et quod omnia componantur ex pari et impari " (v. anche Alb. Magno Phys. I III 2).

In ogni caso, l'interpretazione del passo resta ardua. La voluta oscurità di D. non chiarisce se il rinvio a P. è una semplice conferma per auctoritatem che i principi naturali, nel loro insieme e separatamente, hanno in sé ragione di numero o se è, piuttosto, una giustificazione dello schema ternario di materia, privazione e forma, sulla base dello schema binario pitagorico (pari-impari) da cui dovrebbe, per qualche ‛ sottile ' considerazione, derivare.

A tal proposito va ricordato come nella speculazione trinitaria medievale il nome di P. tornasse a più riprese sia per la binarietà dispari-unità-Dio come forma, pari-dualità-materia come potenza, sia per la triade come prefigurazione della trinità divina e della connessione materia-forma-composto naturale (cfr. Librum hunc, ediz. W. Jansen, Breslavia 1926, 7* " Pythagoram, qui unitatem et binarium duo rerum principia constituit, unitatem Deum appellans, per binarium materiam designans ", Giov. di Salisbury, De Septem septenis, P.L. CXCIX 961 C " Haec [la trinità] est illa trium unitas: quam solam adorandam esse docuit Pythagoras... Ab hac ergo summa et aeterna trinitate descendit quaedam perpetuorum trinitas. Ab unitate namque descendit materia, ab unitatis equalitate forma, a connexione utriusque spiritus creatus, id est natura. Haec sunt tria principia, a primo principio descendentia ", Clarembaldo d'Arras Super Librum Genesis ediz. N.M. Häring, 24). Peraltro, anche in qualche commento ad Aristotele a Phys. I 6-7, sulla tripartizione dei principi naturali, non mancavano riferimenti a P. (cfr. Alb. Magno Phys. I III 6 " videtur enim antiquissima opinio Pythagoricorum esse, quod principia rerum sunt tria, scilicet unum quod est natura media, et superabundantia, et defectus ", Simplicio Comm. Phys. I 5, t.c. 41; III 2, t.c. 14).

Quanto alla teoria ternaria dei pitagorici, una fonte più volte ricordata è quella di Aristotele De coelo I 1, 268a 10 ss. " res omnes sunt tres et dividuntur in tres dimensiones. Et similiter quidem dicunt Pythagorici, quod totum et res terminantur tribus dimensionibus, fine scilicet et medio et principio, et hic quidem numerus est omnis rei significat trinitatem rerum " (interessante la volgarizzazione del tema nello ps.-Ovidio De Vetula III 725-735 " Res omnes sunt tres, numerus ternarius in re / qualibet existit "; una giustapposizione dello schema binario e ternario dei pitagorici compirà Nicola Oresme nel commento al passo aristotelico, Le livre du ciel et du monde I 1).

Alla teoria delle opposizioni fondamentali D. fa ancora riferimento in Mn I XV 2 in omni genere rerum illud est optimum quod est maxime unum... Unde fit quod unum esse videtur radix eius quod est esse bonum, et multa esse eius quod est esse malum; qua re Pictagoras in correlationibus suis ex parte boni ponebat unum, ex parte vero mali plurale, ut patet in primo eorum quae De simpliciter ente. Hinc videri potest quod peccare nichil est aliud quam progredi ab uno spreto ad multa.

D. sapeva infatti dalla Metafisica (= De simpliciter ente) di Aristotele (I 5, 986a 15 ss.) che i Pitagorici: " Videntur autem igitur et hi numerum putare principium esse quasi materiam existentibus, et quasi passiones et habitus. Numeri vero elementa par et impar; et quidem hoc finitum, illud vero infinitum... Eorundem autem alii decem dicunt esse principia secundum coelementationem dicta, finitum et infinitum, par et impar, unum et plura, dextrum et sinistrum, masculinum et femininum, quiescens et motum, rectum et curvum, lucem et tenebras, malum et bonum, quadrangulare et longius altera parte ". Il tema, come si vede, è strettamente congiunto a quello del passo precedente, ma si colora di toni etico-religiosi in chiave cristiano-neoplatonica. L'uno-plurale di P. diviene l'uno-molteplice dei neoplatonici, interpretato alla luce del pensiero cristiano: il permanere nell'Uno-Dio è bene, l'allontanarsi da lui è male. Qui il male è visto dunque come caduta nel molteplice, molteplice come materia e come male. Qui è ancora da ricordare l'interpretazione che dell'opposizione fondamentale dispari-limitato-bene, pari-illimitato-male, veniva dato in tarde elaborazioni neopitagoriche, sotto l'influsso di tematiche stoico-neoplatoniche e in concorrenza con analoghe dottrine gnostiche e manichee. In tale ambito, l'antitesi fondamentale pari-dispari s'era venuta costituendo in schema binario tra Unità come Dio, ragione universale, causa agente, forma, permanenza e bontà, e Dualità come demonio, sostanza passiva, materia, molteplicità e male.

Sulla correzione emanatistica dell'originaria coeternità Monade-Diade dei pitagorici, aveva dato un'argomentata testimonianza Calcidio (Comm. in Tim. § 295): " Numenius ex Pythagorae magisterio Stoicorum hoc de initiis dogma refellens Pythagorae dogmate... ait Pythagoram deum quidem singularitatis nomine nominasse, silvam [la materia] vero duitatis; quam duitatem indeterminatam quidem minime genitam, limitatam vero generatam esse dicere, hoc est, antequam exornaretur quidem formamque et ordinem nancisceretur, sine ortu et generatione, exornatam vero atque illustratam a digestore deo esse generatam, atque ita, quia generationis sit fortuna posterior, inornatum illud minime genitum aequaevum deo, a quo est ordinatum, intelligi debeat. Sed nonnullos Pythagoreos vim sententiae non recte assecutos putasse dici etiam indeterminatam et immensam duitatem ad unice singularitate institutam recedente a natura sua singularitate et in duitatis habitum migrante... "; (§ 296) " [Pitagora] Deum quippe esse... initium et causa bonorum, silvam malorum ".

Sulla fondamentale divisione secondo bene e male dei principi pitagorici parla anche Alberto Magno, il quale accenna peraltro anche a una loro partizione triadica: " Eorundorum autem Pythagoricorum quidam duas dixerunt esse sisticias principiorum, unamquidem boni et perfecti et alteram mali... Haec autem dicebant principia omnia, quoniam cum tribus modis varientur existentia ita quod quaedam ordinantur ad alia, a quibus accipiunt esse, quaedam autem sunt absoluta et inter absoluta quaedam prima existentia, quaedam sunt mobilia sive mota; dixerunt haec decem istam triplicem diversitatem entium a decem coëlementariis principiis sufficienter causari. Tria vero coëlementariter accepta dixerunt esse entis principia " (Metaph. I IV 4).

In Cv III V 4-5 è riportata, con una precisione che è certo derivata dalla parafrasi di una fonte, la teoria cosmologica dei pitagorici: Questo mondo volse Pittagora - e li suoi seguaci - dicere che fosse una de le stelle e che un'altra a lei fosse opposita, così fatta, e chiamava quella Anticthona; e dicea ch'erano ambe in una spera che si volvea da occidente in oriente, e per questa revoluzione si girava lo sole intorno a noi, e ora si vedeva e ora non si vedea. E dicea che 'l fuoco era nel mezzo di queste, ponendo quello essere più nobile corpo che l'acqua e che la terra, e ponendo lo mezzo nobilissimo intra li luoghi de li quattro corpi simplici: e però dicea che 'l fuoco, quando parea salire, secondo lo vero al mezzo discendea... Queste oppinioni sono riprovate per false nel secondo De Coelo et Mundo.

Aristotele infatti in Coel. II 13, 293 a 15 ss. esponeva questa stessa teoria, ma le parole di D. sembrano derivare piuttosto da un commento esplicativo. Affine sembra l'esposizione di Averroè (ibid., t.c. 72): " Pythagorici contradicunt omnibus antiquis et dicunt quod ignis est positus in medio. Et videtur quod ipsi opinabantur cum hoc quod coelum sit sphaericum; et videtur ex hoc, quod dicunt quod terra est aliqua stellarum, et quod movetur circa medium, et quod non opinabantur terram esse motam circa se... Et visum est quod stellae moventur cum eo, quod terra movetur, praeter motum diurnum, quem attribuunt terrae: et immo dixerunt quod ex motu eius fit nox, et dies. Et intendunt, secundum quod credo, quod movetur secundum totum in circulo. Et apparet ex hoc quod faciunt alteram terram oppositam. Et quod ipsi opinabantur quod in circulo, super quem movetur terra, est altera terra opposita isti, et quod movetur motu aequali ei. Et forte opinabantur hoc propter eclipses, quamquam aliquis potest imaginari hoc propter eclipses Solis et Lunae ". Di antichthona parla Tommaso (Comm. de Coel. II lect. XX) e anche Cicerone (Tusc. I XXVIII 69).

Il passo di Cv IV XXI 3, come vide bene il Nardi, è un chiarissimo prelievo da Alberto Magno; in esso D. afferma: Pittagora volse che tutte [le anime] fossero d'una nobilitade, non solamente le umane, ma con le umane quelle de li animali bruti e de le piante, e le forme de le minere; e disse che tutta la differenza è de le corpora e de le forme. Si tratta infatti della parafrasi di una dossografia che Alberto Magno riportava in De Natura et origine animae (II VIII): " Pythagoras... dixit... omnes animas esse unius rationis et naturae, sed impediri a quibusdam operationibus in quibusdam corporibus, a quibus non impediuntur in alio: et huius causam esse dixit defectum organorum. Propter quod dixit quod anima in caelo et stellis facit res naturae... et in corpore hominis facit multa artis opera... bruta etiam in operibus suis imitantur artem faciendo foveas et nidos et huiusmodi; et cum imitatio huius ad unum non fiat nisi ratione similitudinis naturae, putabat omnes animas unius et eiusdem esse rationis ", e in De Intell. et intelligib. (I I 5): " Nec est verum quod dicit Pythagoras, omnes animas esse intellectuales, et omnia corpora esse animata... Lapis enim; ut ait, animatum est... In plantis autem... ostendit et operatur anima vegetationem, sed non sensum. In brutis autem, minus terrestribus, operatur unum, vel duos vel omnes sensus. In humano vero corpore... omnes complete habet anima operationes ". (Cfr. B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967², 67-69, 75-77, 117, e D. e la cultura medievale, Bari 1949², 286).

La citazione del detto di P. di Cv IV I 1 Amore... congiunge e unisce l'amante con la persona amata; onde Pittagora dice: " Ne l'amistà si fa uno di più ", è di derivazione ciceroniana (Off. I XVII 56 " Nihil autem est amabilius nec copulatius quam morum similitudo bonorum; in quibus enim eadem studia sunt, eaedem voluntates, in iis fit ut aeque quisque altero delectetur ac se ipso, efficiturque id quod Pythagoras vult in amicitia, ut unus fiat ex pluribus ". Ma è cosa molto probabile che D. l'abbia estratta da uno dei tanti fiorilegi morali, ricchi di auctoritates di Cicerone.

È in riferimento alle capacità profetiche e divinatorie tradizionalmente attribuite a P. che Giovanni del Virgilio parla di ‛ Samius vates ' (" Samio si credere vati ") in Eg III 34.

Bibl. - P. Toynbee, D.'s References to Pythagoras, in " Romania " XXIV (1895) 376-384 (= D. Studies and Researches, Londra 1902, 87-96); E. Proto, Autori greci menzionati da D. - I: P., in " Atene e Roma " XVI (1913) 193-123; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, Parigi 1954, 73, 145, 161, 166-167, 262-264, 292, 379; P. Vinassa de Regny, D. e P., Milano 1956.

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