Planetologia

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Planetologia

Giovanni F. Bignami
Simona di Pippo

di Giovanni F. Bignami e Simona di Pippo

Planetologia

sommario: 1. Introduzione. 2. La fisica dell'origine ed evoluzione di un sistema planetario. 3. L'esplorazione del sistema solare: scoperte e prospettive. a) Corpi minori del sistema solare. b) Pianeti interni. c) Pianeti esterni. 4. L'origine della vita e la ricerca di vita extraterrestre. 5. La scoperta di nuovi sistemi planetari. □ Bibliografia.

1. Introduzione

La planetologia è una particolare branca dell'astronomia che studia l'origine, l'evoluzione, la morfologia attuale e futura di oggetti celesti, di varie dimensioni e che non siano stelle, mediante modelli teorici e informazioni raccolte sia tramite osservazioni a distanza sia - novità degli ultimi decenni - attraverso l'esplorazione in situ, impensabile per stelle e galassie.

Per almeno 4.000 anni, dai Sumeri a Galileo, lo studio dei cinque pianeti visibili a occhio nudo ha consentito di comprendere le modalità del loro moto e di stabilire che esso avviene in un piano non facente parte del cielo delle stelle fisse. Nei 400 anni successivi all'invenzione del telescopio, lo studio dei corpi del sistema solare si è arricchito e completato in varie tappe, dall'osservazione di 4 dei satelliti di Giove (Galileo Galilei) allo studio degli anelli di Saturno (Gian Domenico Cassini e Christian Huygens) nel XVII secolo, alla scoperta di Urano (William Herschel), a quella di Cerere, il primo corpo minore non cometario (Giuseppe Piazzi). E negli ultimi due secoli, sempre più rapidamente, sono stati osservati tutti gli altri pianeti, i loro satelliti, le loro caratteristiche fisiche e superficiali (come i 'canali' di Marte studiati da Giovanni Schiaparelli e Percival Lowell alla fine dell'Ottocento) e la popolazione delle comete e dei corpi minori (studiati da Jan Hendrik Oort e Giovanni Gerard Pieter Kuiper).

Parallelamente al progresso delle osservazioni si è evoluta anche la teoria. La prima fase dello sviluppo si ebbe con Johannes Kepler e, soprattutto, con Isaac Newton, che, nel Seicento, diedero inizio allo studio teorico delle orbite e dei principî della gravitazione. Nel XVIII secolo, Edmund Halley fu il primo a calcolare l'orbita di una cometa periodica; Johann D. Titius e Johann E. Bode proposero l'elegantissima legge che porta il loro nome sulle distanze dei pianeti dal Sole; Immanuel Kant sviluppò una teoria della formazione del sistema planetario da un disco gassoso circumstellare. Il trionfo della teoria matematica fu la scoperta di Nettuno, e di quella fisica la dimostrazione, effettuata nel 1850 da James Clerk Maxwell, che gli anelli di Saturno devono necessariamente essere composti da particelle solide indipendenti.

La planetologia dell'inizio del Novecento è dominata dallo sviluppo delle teorie fisiche, con la datazione dell'età della Terra (Bertram B. Boltwood, 1907) e, poco dopo, con la formulazione della teoria della deriva dei continenti (Alfred Wegener, 1915) e successivamente con l'impostazione fisicochimica data da Harold C. Urey. Ma è stata l'esplorazione spaziale degli ultimi 40 anni circa che ha fatto avanzare la planetologia più di quanto avesse fatto il telescopio nei quattro secoli precedenti, e questa fase ha avuto un inizio ben preciso, vale a dire il lancio dello Sputnik (1957) da parte dell'URSS, seguito dall'invio di sonde sulla Luna. Il primo successo risale al 1959, quando la sonda Lunik 2 cadde sul nostro satellite e fu il primo oggetto terrestre a raggiungere un altro corpo del sistema solare.

Da allora, per tutti gli anni sessanta e settanta, diverse generazioni di missioni esplorative sempre più complesse videro le due superpotenze competere per una supremazia tecnologica (e propagandistica) ancora collegata, in parte, alla sfera militare, ma già ricca di importantissime idee e risultati scientifici. Nel seguito, dopo aver delineato un quadro sintetico delle teorie moderne sulla fisica della formazione del sistema solare, analizzeremo in dettaglio soprattutto i risultati spaziali più recenti, accennando anche ai programmi futuri. Accenneremo quindi al problema dell'origine della vita nella prospettiva della moderna astrobiologia e alla ricerca di forme di vita extraterrestre su Marte o su altri corpi del sistema solare. Infine, considereremo i progressi compiuti nello studio di altri sistemi planetari, sui quali disponiamo di quantità sempre crescenti di dati.

2. La fisica dell'origine ed evoluzione di un sistema planetario

Lo studio dell'origine di un sistema planetario deve andare di pari passo con le teorie della formazione ed evoluzione stellare: non possono nascere pianeti se non intorno a una stella e, comunque, questo è certamente il caso del Sole e del sistema planetario in cui viviamo. L'origine comune di Sole e sistema solare è da cercarsi, quasi certamente, nel collasso gravitazionale di una nube molecolare, una delle tante della nostra galassia, nella quale, oltre a circa cento miliardi di stelle, esiste una componente di 'mezzo interstellare' composto soprattutto da idrogeno (e contenente tracce di altri elementi). L'idrogeno, a seconda delle condizioni in cui viene a trovarsi, può essere allo stato ionizzato, atomico o molecolare. In quest'ultimo caso il mezzo interstellare forma le cosiddette 'nubi molecolari', che hanno temperature di qualche decina di gradi kelvin e densità di oltre un migliaio di molecole per cm3. A una nube molecolare galattica, come a qualunque altro mezzo, si applica il criterio ideato da James Jeans e noto, appunto, come 'criterio di Jeans': per un dato valore di temperatura e densità media, esso definisce la minima massa che la nube deve avere affinché, in presenza di fluttuazioni di densità, le forze gravitazionali di attrazione tra le sue varie parti siano più forti di quelle che si oppongono a tale contrazione, come l'agitazione termica. Se si verificano le condizioni che consentono l'inizio del processo di contrazione gravitazionale, la nuvola si frammenta in parti, ciascuna con una massa vicina a una massa solare, che a loro volta si contraggono indipendentemente. L'aumento di densità conseguente al collasso gravitazionale, se supera un dato limite, porta all'innesco delle reazioni di fusione nucleare, che liberano una grande quantità di energia e provocano l'accensione della stella.

La stella appena formata presenta una rotazione dovuta alla conservazione del momento angolare del materiale che si contrae, e la stessa legge di conservazione spiega anche la possibilità di formazione di un disco appiattito, creato dalla contrazione e rotante intorno alla stella (il 'disco protoplanetario'). Il disco conterrà, oltre a gas di idrogeno ed elementi più pesanti, polvere e grani interstellari che tendono ad attirarsi gravitazionalmente e a disporsi nel piano equatoriale del disco protoplanetario. Poco a poco, la coesione gravitazionale forza i granelli di polvere ad accumularsi e a formare corpi sempre più grandi, finché si costituiscono i 'planetesimali', o 'planetesimi', che hanno dimensioni di circa un chilometro. La 'cattura' di un planetesimo da parte di un altro planetesimo di dimensioni maggiori, ovvero il bombardamento dei frammenti più piccoli su corpi già formati, origina alla fine veri e propri pianeti, più o meno lontani dalla stella centrale. Il risultato di questo processo è che il Sole, nonostante contenga il 99,9% della massa del sistema solare, ha un momento angolare che corrisponde soltanto al 2% del momento angolare totale.

I tempi ipotizzati per le varie fasi della formazione planetaria sono particolarmente interessanti: brevissimi, forse mille anni, per il processo iniziale di sedimentazione del disco, a causa dell'elevato valore della densità nel piano centrale. I planetesimali formati dalla rottura del disco per instabilità, che sono in gran numero (forse mille miliardi all'interno dell'orbita di Marte), già in 10.000 anni si accumulano in oggetti di circa 500 km di raggio che poi, soprattutto per collisione, in un intervallo di tempo che va da 10 a 100 milioni di anni formano i pianeti.

Nel caso del sistema solare, i corpi di massa planetaria formati con successo sono otto, chiaramente classificabili in due gruppi di quattro. Il modello fenomenologico descritto sopra sembra funzionare abbastanza bene per i pianeti interni, detti 'rocciosi' o 'terrestri' (Mercurio, Venere, Terra, Marte); per quelli esterni, i 'giganti gassosi' (Giove, Saturno, Urano, Nettuno), esiste una versione ad hoc di questo modello secondo la quale questi avrebbero conservato anche gran parte del contenuto originario della nebulosa protoplanetaria. Il modello ritenuto migliore prevede per i pianeti esterni un nucleo roccioso relativamente piccolo (da 12 a 18 masse terrestri) circondato da un involucro gassoso la cui composizione, in particolare per quanto riguarda Giove, rispecchia la composizione solare dal punto di vista del rapporto H/He. L'evoluzione finale del sistema solare è strettamente collegata all'evoluzione del Sole stesso.

L'astronomia osservativa e teorica ha a disposizione molti dati su stelle simili al Sole in vari stadi della loro evoluzione nella nostra galassia. Questo ci permette di prevedere con buona approssimazione che tra circa 5 miliardi di anni il combustibile che ora tiene acceso il Sole finirà e la stella si trasformerà in una 'gigante rossa', avente un raggio anche 100 volte maggiore dell'attuale; ciò comporterà la distruzione di Mercurio e forse anche di Venere e della Terra, vaporizzati all'interno della stella. Lo stadio di gigante rossa durerà circa 100 milioni di anni, durante i quali il Sole produrrà energia per contrastare la contrazione gravitazionale, con una combustione di carburante nucleare sempre meno efficiente. Nel processo, i pianeti rimanenti saranno sottoposti a un 'vento solare' milioni di volte più forte di quello attuale e perderanno nello spazio gran parte delle loro atmosfere. Alla fine, inevitabilmente, le forze gravitazionali avranno la meglio e il Sole si contrarrà in una 'nana bianca', destinata lentamente a raffreddarsi, circondata dai resti gelidi dei pianeti sopravvissuti allo stadio di gigante rossa. Ovviamente, nessuna delle forme di vita note potrà più svilupparsi e, probabilmente, nessuna traccia di vita passata sopravviverà, eccetto forse satelliti artificiali, magari in orbite profonde, che saranno l'unica testimonianza che una forma di vita intelligente sia mai esistita intorno al Sole.

3. L'esplorazione del sistema solare: scoperte e prospettive

La fase pionieristica dell'esplorazione spaziale è racchiusa in venti anni di storia: dal 4 ottobre 1957 al 5 settembre 1977, vale a dire dal lancio del primo Sputnik all'ultimo lancio di un Voyager; durante questa fase, di grande rilevanza, le agenzie spaziali dei principali paesi coinvolti, l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti, hanno imparato a costruire sistemi spaziali affidabili, aprendo la strada all'importantissima fase successiva, quella dell'esplorazione sistematica e coordinata a livello internazionale del nostro sistema solare. Unione Sovietica e Stati Uniti inviarono nello spazio i loro primi satelliti a distanza di pochi mesi l'una dagli altri (il primo satellite statunitense immesso in orbita, Explorer, venne lanciato il 31 gennaio 1958) e subito dopo si concentrarono sull'obiettivo Luna. L'Unione Sovietica diede inizio ai tentativi di esplorazione del corpo del sistema solare più vicino alla Terra con la missione Lunik 1, peraltro fallita, ed effettuò il primo contatto lunare con Lunik 2 il 12 settembre 1959. La faccia oscura della Luna venne invece ripresa e trasmessa a terra da Lunik 3, meno di un mese dopo.

Nel continente americano, intanto, la NASA, creata nel 1958 subito dopo il lancio dello Sputnik, cercò senza successo il contatto con il suolo lunare con i veicoli spaziali della serie Rangers. Il salto di qualità venne dopo la decisione di inviare degli esseri umani sulla Luna, dando l'avvio alla vera rivoluzione nella storia dell'esplorazione spaziale: le missioni Apollo. Siamo quindi al fatidico 21 luglio 1969, quando, appena dodici anni dopo lo Sputnik, i primi uomini posero piede sul suolo lunare. Contemporaneamente agli sforzi volti alla conquista della Luna, la NASA iniziò anche a focalizzare la sua attenzione sui due pianeti più vicini, Marte e Venere, e così fece l'Unione Sovietica. Una serie di ripetuti fallimenti (dal 1961 al 1965 almeno undici lanci dei Sovietici verso Venere non ebbero buon esito, e nel 1962 il Mariner 1 della NASA esplose in volo) fu però soltanto il preludio a un'era di successi, di grandi scoperte scientifiche e di avanzamento tecnologico, il preludio dunque all'avvio della fase sistematica dell'esplorazione del sistema solare.

Si giunse così alla costruzione dei due Voyager, che hanno rappresentato una vera e propria rivoluzione tecnologica; lanciati il 20 agosto (Voyager 2) e il 5 settembre 1977 (Voyager 1), le due sonde hanno esplorato Giove e Saturno, proseguendo poi il loro viaggio fino a Urano (1986) e Nettuno (1989), fino a uscire dal sistema solare attraversando l'onda di urto che separa l'ambiente solare dal mezzo interstellare. Nel contempo, a terra, veniva sviluppata una rete di grandi antenne, il Deep Space Network (DSN), il cui compito iniziale era seguire i due Voyager nei loro viaggi nello spazio profondo. Dal punto di vista tecnologico, il vero passo in avanti è rappresentato principalmente dal livello di autonomia di queste sonde, progettate e costruite per viaggiare sino ai confini del sistema solare, dove la distanza dalla Terra rende impossibili eventuali interventi da parte di operatori terrestri. I diversi sottosistemi (potenza, controllo termico, ecc.) devono essere sviluppati in modo assolutamente affidabile e con un tempo di vita sufficiente a consentire di effettuare le rilevazioni scientifiche previste. Per di più, è indispensabile dotare sonde come queste di strumenti scientifici diversificati, ampliando la possibilità di portare a termine le attività previste per le singole missioni.

Le scoperte effettuate nel campo dell'esplorazione planetaria sono pertanto la conseguenza dei risultati sia scientifici sia tecnologici ottenuti nella fase pionieristica, che è stata seguita da alcune missioni nel decennio successivo, in particolare le missioni Galileo e Giotto, che costituiscono una vera e propria pietra miliare nel processo di conoscenza del sistema solare. Per cercare di effettuare un'analisi sistematica, possiamo suddividere le diverse missioni spaziali in funzione del loro obiettivo: corpi minori del sistema solare (asteroidi, comete), pianeti interni e pianeti esterni.

a) Corpi minori del sistema solare

Giotto, la sonda lanciata nel 1985 dalla European Space Agency (ESA), aveva l'obiettivo di effettuare un incontro ravvicinato con la cometa di Halley - una cometa periodica che prende il nome da Edmond Halley, l'astronomo inglese che la scoprì - e presenta un periodo di 76 anni: è l'oggetto celeste che fu immortalato da Giotto ai primi del 1300, osservato da Galileo e Kepler nel 1607, fotografato nel 1910 e che si è ripresentato nei nostri cieli nel 1986. Nel marzo 1986 Giotto si avvicinò alla cometa di Halley sino a 596 km, il tutto a una distanza di 144 milioni di chilometri dalla Terra. Le immagini inviate dalla sonda ci mostrano la cometa di Halley come un solido di forma irregolare, lungo circa 14 km, con alcuni crateri visibili sulla sua superficie. È anche l'oggetto più 'nero' del sistema solare, a conferma della teoria secondo cui la cometa sarebbe costituita da una palla di neve coperta da un composto organico carbonioso. Queste scoperte hanno dato un notevole impulso alle teorie che ascrivono l'origine della vita nel sistema solare alla formazione di macromolecole prebiotiche in ambiente cometario, data la bassa gravità e la presenza di concentrazioni di materiali organici e di acqua.

I risultati di Giotto spinsero i ricercatori a occuparsi in modo più sistematico della composizione e della natura di altri corpi minori, gli asteroidi. Capire se quelli che oggi vengono chiamati asteroidi non siano altro che resti di nuclei cometari dopo che tutto il materiale volatile è scomparso, sublimato sotto l'azione del Sole, oppure se si tratti di condriti, i frammenti di roccia più antichi che si conoscano, probabilmente campioni di materia dei primordi, è diventato di particolare interesse per le teorie sull'origine del sistema solare. Per rispondere a questo interrogativo, il 17 febbraio 1996 venne lanciata dalla NASA la missione NEAR (Near Earth Asteroid Rendez-vous), con l'obiettivo principale di cominciare a conoscere la natura e l'origine dei cosiddetti Near Earth Objects (NEO), ossia oggetti le cui orbite attraversano quella della Terra; essi sono così denominati per distinguerli da altri oggetti che orbitano invece nella fascia compresa tra Marte e Giove. I NEO sono di particolare interesse sia perché hanno orbite che potrebbero potenzialmente presentare un rischio di impatto con la Terra, sia in quanto la loro natura può fornire informazioni sulla formazione dei pianeti interni. I due asteroidi-obiettivo erano Mathilde, raggiunto nel giugno del 1997, e, principalmente, 433 Eros, il più grande dei NEO, avvicinato nel febbraio 2000. La sonda NEAR - ribattezzata Shoemaker in onore del geologo Eugene M. Shoemaker che per decenni influenzò la ricerca sul ruolo degli asteroidi e delle comete nella formazione dei pianeti - atterrò su Eros il 12 febbraio 2001, prima sonda a entrare in contatto con la superficie di un asteroide. In un solo anno, i dati raccolti da NEAR Shoemaker hanno permesso di rispondere a interrogativi rimasti aperti da molto tempo. Eros è un asteroide di classe S, di composizione rocciosa. Si ha ragione di ritenere che la fonte primaria dei frammenti rocciosi chiamati 'condriti' (costituiti da una matrice rocciosa indifferenziata, primordiale, che ha al suo interno delle 'condrule', piccole sfere di materiale primordiale, formatesi per fusione nelle prime fasi della formazione del sistema solare) che raggiungono il nostro pianeta sotto forma di meteoriti, siano proprio gli asteroidi di classe S. Sulla base dei dati forniti da NEAR, questa ipotesi è stata confermata e oggi sappiamo con certezza che Eros è proprio uno degli oggetti primordiali del nostro sistema solare. Nel contempo, dalla missione NEAR abbiamo imparato che non ci sono collegamenti evidenti tra Eros e un nucleo cometario estinto, e questo sembrerebbe quindi confermare che non siano corrette le teorie che ipotizzavano un collegamento tra comete degasate e oggetti vicini alla Terra.

Lo studio dei corpi minori del sistema solare è continuato con alcune importanti missioni, come CONTOUR (COmet Nucleus TOUR, lanciata nel luglio 2002), Stardust (lanciata nel febbraio 1999) e Deep Impact (lancio previsto nel dicembre 2004) della NASA, insieme alla missione Rosetta dell'ESA (lancio effettuato il 2 marzo 2004). CONTOUR doveva incontrare nel 2003 la cometa Encke, che ha mantenuto un'orbita molto stabile per migliaia di anni, e nel 2006 la cometa Schwassmann-Wachmann 3 (SW3). Encke, scoperta nel 1786, è stata osservata ben 57 volte sino a ora, avendo un periodo di soli tre anni. SW3 è invece stata scoperta nel 1930 e la sua attività è stata prevedibile sino a metà degli anni novanta, quando si è suddivisa in diversi pezzi (1995). Lo scopo era quello di riuscire a osservare una superficie inalterata e individuare il materiale che prima era parte dell'interno del nucleo e dopo la frammentazione è divenuto materiale superficiale. CONTOUR prevedeva anche la possibilità, se si fosse mostrato necessario, di cambiare bersaglio e incontrare un'altra cometa (come ad esempio Hale-Bopp, che ha fatto il suo ultimo passaggio nel 1997), cambiando il suo percorso dopo l'incontro con Encke. CONTOUR era la sesta missione della NASA del programma Discovery, di cui hanno fatto parte missioni come NEAR, cioè missioni a basso costo, con un obiettivo scientifico ben focalizzato e con una fase di sviluppo in genere abbastanza breve. Avrebbe dovuto offrire le migliori immagini mai catturate del nucleo di una cometa. Purtroppo, il 15 agosto 2002, durante la fase di accensione dei motori necessaria per far uscire la sonda dall'orbita terrestre si verificò un incidente e la sonda andò distrutta, frammentandosi in pezzi che sono ancora nella stessa orbita prevista per la sonda madre.

Stardust, un'altra missione del programma Discovery, ha invece raggiunto la cometa Wild 2, con la quale si è incontrata all'inizio del 2004. Wild 2 è un oggetto relativamente nuovo sulla scena della zona interna del sistema solare: prima del 1974, infatti, aveva un'orbita intorno al Sole più distante di quella di Giove. Ma proprio nel 1974, nelle vicinanze di Giove, l'attrazione gravitazionale dovuta alla presenza del pianeta ha fatto sì che l'orbita della cometa si modificasse, e ora essa si colloca tra Giove e la Terra. Il compito primario di Stardust è quello di prelevare campioni di gas e polvere dalla chioma della cometa e riportarli a terra. I campioni, raccolti in un materiale a bassa densità chiamato aerogel, saranno analizzati all'interno di una capsula che rientrerà nell'atmosfera e, grazie a un paracadute, atterrerà sulla superficie terrestre nel 2006.

La cometa Tempel è l'obiettivo della missione Deep Impact che, se lanciata come previsto nel 2004, la raggiungerà nel 2005. Lo scopo è quello di inviare un 'proiettile' di rame sulla superficie del nucleo, creando un cratere che avrà con ogni probabilità le dimensioni di un campo di calcio. La strumentazione a bordo studierà i detriti di ghiaccio e il materiale primordiale prodotti dall'impatto. Le principali questioni scientifiche a cui Deep Impact si appresta a rispondere riguardano la natura del materiale di cui è composto il nucleo di una cometa e come si differenzia dal materiale in superficie; i fattori che permettono di identificare quegli asteroidi che erano comete; le modalità di formazione dei crateri sulle comete.

Sul fronte europeo, Rosetta costituisce una missione dell'ESA considerata di importanza fondamentale, una di quelle missioni che durano venti anni, dal momento in cui vengono concepite a quando i dati vengono rimandati a terra per essere analizzati. Rosetta (lanciata il 2 marzo 2004, dalla base di Kourou, nella Guyana Francese) incontrerà dopo un viaggio di dieci anni la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko. Giunta nei pressi della cometa, rilascerà una sonda (alla quale è stato dato il nome di Philae) la quale, dopo essere atterrata sul nucleo, eseguirà delle analisi geochimiche in situ, prelevando anche dei campioni del suolo a profondità variabili sino a 230 mm. I prelievi verranno effettuati utilizzando un sistema di perforazione di concezione e realizzazione completamente italiana; il sistema è anche dotato di un meccanismo di distribuzione dei campioni ai vari strumenti, in modo da consentire l'effettuazione dell'analisi in situ. Per la prima volta, a eccezione di un esperimento eseguito dai Russi sul suolo lunare, un sistema di perforazione entrerà in azione su un corpo del sistema solare, cioè nel nucleo di una cometa.

Rosetta deve il suo nome a quello della famosa stele, scoperta nel 1799 da un gruppo di soldati francesi dell'armata napoleonica vicino alla città di Rashid (Rosetta appunto) e risalente al 196 a. C. Così come nel 1822, grazie a questa stele, Jean-François Champollion fu in grado di decifrare i primi geroglifici, aprendo la strada alla comprensione dell'antica scrittura egizia, nello stesso modo ci aspettiamo che Rosetta sveli i segreti della fase più antica del sistema solare: lo studio delle comete, che hanno una permanenza su orbite di lungo periodo e quindi in zone molto fredde, lontanissime dal Sole, ci consentirà di risalire alle origini del sistema solare.

Anche la missione Genesis, lanciata dalla NASA l'8 agosto del 2001 e facente parte del programma Discovery, dovrebbe aiutarci a comprendere l'origine del sistema solare che, 4,6 miliardi di anni fa, si sarebbe formato per collasso gravitazionale di una nube di gas interstellare, ghiaccio e polvere. Successivamente, la maggioranza della polvere e del gas si è combinata a causa della gravità sino a formare il Sole, mentre il ghiaccio e la polvere restanti si sono combinati a formare pianeti, lune, comete e asteroidi. L'obiettivo di Genesis è quello di misurare la composizione del Sole in termini di ossigeno e gas nobili, riportando a terra campioni di materia solare, il che dovrebbe aiutare anche a comprendere le variazioni isotopiche in meteoriti, comete, campioni lunari e atmosfere planetarie. Genesis, collocato nel punto di librazione Terra-Sole (un punto dove la gravità dei due corpi è bilanciata) denominato L1, raccoglierà campioni di particelle di vento solare, che verranno poi inviati a terra attraverso una speciale capsula. Il 2004 è l'anno previsto per il rientro dei campioni a terra.

Per quanto riguarda lo studio degli asteroidi, nell'ambito del programma Discovery della NASA si profila la missione Dawn (lancio previsto a maggio 2006) che avrà l'obiettivo di approfondire le nostre conoscenze sull'origine del sistema solare attraverso lo studio degli asteroidi Cerere (nel 2014) e Vesta (nel 2010). La questione principale a cui si propone di rispondere Dawn riguarda il ruolo della presenza di acqua nel determinare l'evoluzione di un pianeta. Cerere e Veste sono due asteroidi ideali per questo tipo di indagine, in quanto sono due dei protopianeti più grandi, la cui crescita si è interrotta a causa di Giove. Cerere e Vesta si sono evoluti in circostanze radicalmente differenti, in luoghi diversi del sistema solare, più di 4,6 miliardi di anni fa. Cerere è stato probabilmente raffreddato dall'acqua durante la sua evoluzione. C'è infatti evidenza di ghiaccio o vapore sulla sua superficie ed è possibile che vi sia acqua liquida sotto la superficie. Viceversa, le origini di Vesta sono state violente e a temperature elevate. Il suo interno si è fuso e la sua superficie si è seccata. Ciò indica che mentre Cerere è rimasto nel suo stato primordiale, Vesta si è evoluto nel corso di milioni di anni. È importante notare che un notevole impulso a nuove scoperte scientifiche sarà dato anche dalla possibilità di confrontare dati provenienti da comete diverse, in quanto alcune osservazioni di Dawn saranno parallele a quelle di Rosetta.

b) Pianeti interni

I pianeti più vicini alla Terra, Marte e Venere, sono stati oggetto di importanti missioni scientifiche. Il 4 maggio 1989 venne lanciata dalla NASA la missione Magellan, che ha eseguito, dall'agosto del 1990 all'ottobre del 1994, una mappatura di circa il 98% della superficie di Venere. Ogni ciclo di osservazione è durato 243 giorni terrestri (pari a un giorno venusiano); Magellan ha dovuto compiere cinque cicli per eseguire le sue misure e ha fornito numerose informazioni: Venere ha dimensioni simili a quelle della Terra, non mostra segni di tettonica a placche e per l'85% della sua superficie è ricoperto da materiale vulcanico. Si è rilevata la presenza di catene montuose, nessuna presenza di acqua in superficie, pochi segni di erosione eolica e una superficie che non mostra più di 500 milioni di anni di età. Quest'ultimo dato rimane ancora da spiegare, insieme alla mancanza di campo magnetico e di cinture di radiazione.

Dopo Magellan, sarà l'Europa a tornare su Venere con la missione Venus Express (VEX), prevista per novembre 2005. È una missione decisa recentemente, che riutilizzerà il vettore già sviluppato per la missione Mars Express (MEX) e molti strumenti creati per MEX e Rosetta. In questo modo, sarà possibile affrontare una missione impegnativa come questa in tempi rapidi e a costi ridotti. Scopo principale di Venus Express sarà quello di investigare le cause del tremendo effetto serra sul pianeta, cercando eventualmente di capire che cosa potrebbe accadere sulla Terra se si verificassero fenomeni anche lontanamente simili. A tal fine VEX studierà la composizione della bassa atmosfera (CO, OCS, SO2, H2O) con le sue variazioni sotto lo strato di nubi, analizzando anche la struttura delle nubi stesse. Inoltre, mapperà i venti sul lato notturno, cercando di comprendere i fenomeni di transizione tra troposfera e termosfera. Si ritiene inoltre che, effettuando la mappatura termica della superficie, si possano individuare le zone calde legate all'attività vulcanica, così come sarà ricercata l'evidenza di attività sismica mediante lo studio della propagazione acustica amplificata nella mesosfera. Anche in questo caso il ruolo italiano è fondamentale per il successo scientifico della missione.

Per quanto riguarda l'esplorazione di Marte, c'è stata anche qui un'alternanza di successi e fallimenti, ma dopo ogni fallimento i risultati scientifici della missione successiva hanno fatto quasi scomparire il ricordo dell'insuccesso precedente. Dopo i disastri delle ultime missioni - prima la perdita di contatto con le sonde sovietiche Phobos 1 e 2 nel 1988, poi il Mars Observer americano, lanciato il 25 settembre 1992 e perso alcuni giorni prima dell'inizio delle manovre di inserzione in orbita marziana, e ancora Mars96, sonda russa ricaduta nell'Oceano Pacifico a causa di un errore nella fase di lancio - Mars Global Surveyor (MGS) e Pathfinder della NASA hanno risollevato le sorti dell'esplorazione del pianeta rosso. Si tratta di missioni basate sul concetto di 'faster, cheaper and better': missioni a basso costo, con tempi di realizzazione più brevi, che consentono di aumentare la frequenza di accesso nello spazio. MGS aveva lo scopo principale di effettuare la missione che avrebbe dovuto effettuare Mars Observer, mentre Pathfinder ha dimostrato l'importanza di svolgere analisi in situ. Il 4 luglio 1997 la sonda Pathfinder arrivava quindi sulla superficie di Marte (da quel momento le è stato dato il nome di Carl Sagan Memorial Station) e rilasciava un piccolo veicolo mobile, denominato Sojourner, che si aggirò per diversi giorni intorno alla sonda. L'arrivo di MGS nella giusta orbita nel 1999 ha consentito di ottenere importanti informazioni sulla presenza di acqua liquida sulla superficie di Marte, aprendo quindi la strada a un'esplorazione sistematica del pianeta, sia con sonde robotiche sia con l'invio eventuale di astronauti. Subito dopo, la sfortuna si accaniva di nuovo su altre tre sonde. Prima la giapponese Nozomi, lanciata nel luglio del 1998, non riuscì a inserirsi nella giusta orbita marziana e venne posta in orbita di parcheggio.

Tra la fine del 1998 e l'inizio del 1999, altre due sonde americane, il Mars Climate Orbiter e il Mars Polar Lander, furono lanciate regolarmente ma poi perdute per banali errori. Mars Polar Lander avrebbe dovuto atterrare sulla superficie di Marte proprio nella zona dove, nel giugno 2002, Mars Odyssey (lanciata dalla NASA il 7 aprile 2001 e giunta intorno a Marte dopo circa sette mesi) aveva rivelato la presenza di acqua. Si tratta di ghiaccio a profondità che vanno dai trenta ai sessanta centimetri dalla superficie, in quantità tali da riempire, se allo stato liquido, il lago Michigan: una grandissima scoperta scientifica, che è destinata a rivoluzionare i piani di esplorazione di Marte, soprattutto in quanto la presenza di acqua a così poca profondità dovrebbe consentire di risolvere alcuni dei principali problemi che un equipaggio umano incontrerebbe una volta giunto sulla superficie e quindi accelerare i preparativi per una eventuale colonizzazione.

La ricerca dell'acqua su Marte continuava con tre missioni nel 2003, una delle quali, Mars Express dell'ESA (lanciata nel giugno 2003) era la prima sonda europea verso Marte. MEX ha a bordo otto strumenti, tra cui un radar penetrante, di concezione e realizzazione italiana e sviluppato in collaborazione con la NASA/JPL (Jet Propulsion Laboratory), in grado di rilevare la presenza di acqua a profondità di parecchie centinaia di metri sotto la superficie. Lo scopo scientifico principale di Mars Express è infatti quello di contribuire a svelare il mistero dell'acqua su Marte. L'acqua era probabilmente presente su Marte 3,8 miliardi di anni fa, quando la sua atmosfera era più densa. Ci sono valli e letti di fiumi, e anche evidenze di fenomeni violenti, collegabili al fluire dell'acqua. Ma circa 3,5 miliardi di anni fa, il clima cambiò radicalmente. In cento milioni di anni, l'atmosfera si è rarefatta e raffreddata, l'acqua è scomparsa e il pianeta si è trasformato in un luogo secco e freddo. Quindi, la domanda principale a cui rispondere è se l'acqua di Marte sia evaporata oppure sia intrappolata sotto la superficie. Ci sono evidenze di questo secondo fenomeno ed è per questo che Mars Express, inserita in orbita marziana il giorno di Natale del 2003, ha in programma una mappatura completa del pianeta.

Durante l'avvicinamento, Mars Express ha rilasciato una sonda, denominata Beagle 2, destinata a eseguire analisi in situ di rocce e suolo marziano ma purtroppo persa dopo il rilascio. MEX è accompagnata da una coppia di rovers americani che, lanciati tra giugno e luglio 2003, hanno raggiunto Marte rispettivamente il 4 e il 25 gennaio 2004. Ciascuno dei due rovers ha una missione nominale da svolgere in tre mesi. Saranno in grado di viaggiare per diverse centinaia di metri e nel contempo analizzeranno il suolo marziano per determinare la mineralogia delle rocce e del suolo. Ogni qualvolta verrà individuato un sito interessante, il braccio robotico a bordo consentirà di effettuare analisi dettagliate in situ. I luoghi di atterraggio saranno selezionati tra quelli che mostrano fenomeni che inducono a pensare a processi superficiali che hanno implicato la presenza di acqua.

Nel frattempo, benché la sonda giapponese Nozomi sia inutilizzabile pur trovandosi nelle vicinanze di Marte, dopo un viaggio di quattro anni la missione NASA Odyssey continua a fare scoperte molto importanti. Nell'ultimo periodo, infatti, il biossido di carbonio ghiacciato presente al Polo Nord è evaporato, consentendo di rivelare la presenza di notevoli quantità di ghiaccio d'acqua, addirittura maggiori di quelle rilevate al Polo Sud.

Per quanto riguarda il futuro, per il 2005 è in preparazione da parte della NASA anche la missione MRO (Mars Reconaissance Orbiter), che ha a bordo un facility instrument italiano (il radar penetrante SHARAD, Shallow Radar), evoluzione di un analogo strumento presente su MEX, mentre quattro missioni sono state selezionate per una prima fase di studio per il 2007. Si tratta di quattro proposte molto interessanti, che mostrano anche l'elevato interesse della comunità scientifica per una comprensione più approfondita del pianeta. SCIM (Sample Collection for Investigation of Mars) ha l'obiettivo di riportare a terra campioni di polvere atomosferica e gas usando l'aerogel, con lo scopo di meglio comprendere la chimica, l'atmosfera, l'evoluzione interna e l'eventuale attività biologica di Marte. Con obiettivi simili si presenta la missione ARES (Aerial Regional-scale Environment Survey), che ha lo scopo di comprendere l'evoluzione chimica del pianeta, la sua storia climatica e, anche in questo caso, l'eventuale attività biologica. Phoenix, la terza delle missioni in gara, si propone invece di effettuare analisi in situ di molecole organiche, concentrandosi sulle zone dove Mars Odyssey ha verificato l'esistenza di grandi quantità di ghiaccio d'acqua. Infine, MARVEL (Mars Volcanic Emission and Life Scout), ha l'obiettivo di eseguire una mappatura globale dell'atmosfera in cerca di emissioni che indichino fenomeni di vulcanismo attivo e di individuare il comportamento dell'acqua nell'atmosfera durante un intero ciclo. Sono ora in discussione alla NASA le missioni del 2009-2011, che probabilmente comprenderanno una missione in cui saranno riportati a terra campioni del suolo e sottosuolo marziani.

Anche l'ESA sta pianificando un programma di esplorazione di Marte attraverso la definizione della fase di sviluppo di AURORA. Questo nuovo programma opzionale dell'ESA, vale a dire un programma a cui i vari Stati membri dell'ESA partecipano in funzione del loro interesse, è stato approvato per la sola fase di studio nella riunione del Consiglio ESA a livello ministeriale del novembre 2001; la fase di sviluppo delle prime missioni individuate dovrebbe essere proposta alla prossima conferenza ministeriale, che sarà probabilmente organizzata nel corso del 2004.

Il programma scientifico dell'ESA è ormai bloccato sino a dopo il 2010-2012, con le diverse missioni già decise e, a parte Mars Express, non sono previste altre missioni verso il pianeta rosso. Anche l'ESA potrebbe però scendere in campo proponendo una missione che riporti i campioni a terra. Missioni di questo tipo richiedono grossi investimenti e presentano un notevole grado di complessità, anche per le questioni connesse ai problemi di protezione planetaria. Tale protezione si articola in due sensi: da un lato occorre proteggere il suolo marziano da eventuali contaminazioni terrestri, che potrebbero anche alterare il risultato scientifico dell'investigazione in situ, dall'altro bisogna evitare che la Terra venga inquinata da eventuali microrganismi che potrebbero essere introdotti tramite i campioni. Ovviamente tutto ciò viene fatto soprattutto in preparazione dello sbarco umano sul pianeta, che permetterà di aprire un nuovo, fondamentale capitolo nelle attività spaziali. In ogni caso, ci si aspetta che nei prossimi anni Marte sia una fonte di notevoli scoperte scientifiche.

Infine, le visite ai pianeti interni saranno completate da una fondamentale missione dell'ESA verso Mercurio, già nota come BepiColombo, dal nome del grande scienziato padovano Giuseppe 'Bepi' Colombo, scomparso nel 1984. Questa missione dovrebbe consentire, per la prima volta nella storia dell'esplorazione spaziale, di studiare la superficie del pianeta e analizzare le interazioni con il vento solare che, data la vicinanza di Mercurio alla nostra stella, sicuramente ha avuto e continua ad avere un impatto notevole sulla sua evoluzione. La struttura superficiale di Mercurio dovrebbe riflettere - almeno questa è l'aspettativa scientifica internazionale - la sua evoluzione e le sue caratteristiche principali. BepiColombo è probabilmente la missione più articolata mai programmata, almeno sino a ora, dall'ESA. Si tratta in realtà di due missioni in una, con due sonde che rimarranno in orbita intorno a Mercurio. Verranno eseguite rilevazioni della superficie, osservati asteroidi, misurati campi e particelle, e, dall'orbita bassa, verrà analizzato il suolo. È anche una missione che interessa vari ambiti scientifici, dalla planetologia allo studio del Sole, passando per lo studio dei NEO e della fisica di base. Allo stato attuale della pianificazione, il suo lancio è previsto dopo il 2010.

Sempre riguardo a Mercurio, anche la NASA ha pianificato la sua missione d'esplorazione, denominata Messenger. Il lancio della sonda è avvenuto il 3 agosto 2004 ed essa, prima di entrare nell'orbita di Mercurio, effettuerà quattro fly-by, rispettivamente di Venere e Mercurio in modo alternato, sino ad arrivare all'inizio della fase di acquisizione principale ad aprile 2009; essa terminerà le sue osservazioni dopo un anno terrestre.

c) Pianeti esterni

La rivoluzione sul fronte dei pianeti esterni negli ultimi anni è dovuta invece alla missione Galileo della NASA, il cui obiettivo è l'esplorazione di Giove e dei suoi satelliti galileiani: Io, Europa, Callisto e Ganimede. Lanciata nel 1989 a bordo dello Shuttle Atlantis, è stata immessa in un'orbita che sfrutta l'idea, introdotta da Bepi Colombo, della 'frusta gravitazionale' per navigare nel sistema solare: effettuando passaggi ravvicinati in prossimità di vari altri pianeti, si riesce a utilizzare il loro campo gravitazionale per cambiare la direzione della sonda, allineandola sempre più alla direzione ottimale per raggiungere la destinazione. In questo viaggio, Galileo ha incontrato gli asteroidi Gaspra e Ida, sino ad arrivare vicino a Giove, dove ha rilasciato una sonda che è penetrata nell'atmosfera.

Le immagini e le informazioni scientifiche fornite in dieci anni da questa missione hanno rivoluzionato la nostra conoscenza del sistema gioviano. L'ultimo passaggio ravvicinato di Galileo ha riguardato Amalthea; successivamente la sonda è stata inserita nella traiettoria di impatto con Giove, impatto che è avvenuto il 21 settembre 2003. Questo passaggio ha consentito di effettuare un'altra importante scoperta: la bassa densità di Amalthea rivela che questa luna di Giove è piena di 'buchi'. La sua densità è infatti vicina alla densità del ghiaccio d'acqua, ma non ci sono evidenze che questa sia la sua composizione. Potrebbe trattarsi di un aggregato di parecchi pezzi, tenuti insieme dalla forza di gravità: quando i diversi elementi non combaciano perfettamente l'uno con l'altro, rimangono spazi vuoti. Amalthea non aveva al momento della sua formazione massa sufficiente per diventare un corpo solido e sferico, come le altre quattro lune più grandi di Giove. Uno dei modelli più accreditati per la formazione delle lune di Giove suggerisce che quelle più vicine al pianeta sarebbero costituite da materiale più denso di quelle più esterne. Questo implicherebbe che il giovane Giove, una sorta di versione più debole del giovane Sole, avrebbe emesso tanto calore da impedire alle lune più vicine di incorporare il materiale a più bassa densità. I quattro satelliti galileiani darebbero ragione a questa teoria, tanto più che Io, il più denso, è anche il più interno; tuttavia, esso orbita a una distanza pari a circa due volte quella di Amalthea, la cui bassa densità resta dunque un mistero.

Il pianeta Giove ha una composizione gassosa (81% H, 18% He) molto simile a quella di una stella, con presenza di metano, fosforo e acqua. Proprio alla circolazione di acqua negli strati superiori dell'atmosfera sono dovute le tempeste che scuotono il pianeta, con venti a 150 metri al secondo e una temperatura intorno ai -130 °C. Il nucleo è invece molto più caldo, e la temperatura raggiunge anche i 30.000 °C. Galileo ci ha fatto scoprire che Giove ha un anello, costituito da grani di polvere provenienti dai quattro satelliti maggiori e da nubi di ammoniaca solida. E, soprattutto, ci ha offerto lo spettacolo eccezionale dei suoi quattro satelliti; Io è al momento considerato l'oggetto più attivo del nostro sistema solare, con un numero elevato di vulcani, alcuni dei quali più caldi di quelli terrestri, che eruttano lava composta da silicati ricchi di magnesio; Callisto sembra avere un oceano molto al di sotto della superficie, che appare ricoperta di crateri (la presenza di un oceano è suggerita dal fatto che il satellite presenta un forte campo magnetico, che potrebbe essere generato dall'interazione tra la distesa di acqua salata e il campo magnetico di Giove); Ganimede, il più grande satellite del sistema solare, ha un campo magnetico e due calotte polari; infine Europa, sul quale vi sono grandi zattere di ghiaccio, sotto le quali, quasi sicuramente, si trova un oceano di acqua. La scoperta di Europa ha spinto la NASA ad affermare che la sua esplorazione si poteva equiparare alla scoperta dell'America, avvenuta oltre cinquecento anni fa: per la prima volta dopo Cristoforo Colombo si poteva attraversare un oceano sconosciuto per scoprire una nuova terra. Su Europa non ci sono crateri, la morfologia del ghiaccio cambia (il che costituirebbe la conferma della presenza di acqua in movimento sotto il ghiaccio) ed è stata rilevata la presenza di una sottile atmosfera di ossigeno. Verso questa luna di Giove è in fase di progettazione una missione, non ancora approvata, che prevede un lancio nel marzo del 2008 per poi, dopo essere entrata in orbita intorno a Giove nel 2010, arrivare a Europa nel 2011-2012. Lo scopo principale della missione è quello di mappare la superficie del satellite e, grazie all'ausilio di un radar penetrante, di verificare lo spessore del ghiaccio sull'intera superficie. Ciò servirà a preparare una futura missione con lo scopo di atterrare sulla superficie e perforare lo strato di ghiaccio sino a raggiungere l'acqua sottostante. Conoscere lo spessore del ghiaccio sarà quindi fondamentale per determinare il luogo di atterraggio.

Verso Saturno e la sua luna Titano è in viaggio ormai dal 1997 la missione NASA/ESA/ASI (Agenzia Spaziale Italiana) denominata Cassini-Huygens, la cui inserzione in orbita è avvenuta il 1° luglio 2004. Da Cassini si aspettano informazioni sulla struttura e composizione dell'atmosfera di Saturno, sui suoi anelli, sui suoi satelliti ghiacciati, sui suoi parametri fisici e chimici. Il piano di volo della missione è complesso: dopo il lancio, avvenuto il 15 ottobre 1997, sono stati effettuati due fly-by di Venere, uno della Terra, il 18 agosto 1999, uno dell'asteroide Masursky, nel gennaio 2000, e uno di Giove, undici mesi dopo, aspettando l'inserzione nell'orbita di Saturno. E da lì, sono previsti due fly-by della sua luna Titano, sino al rilascio della sonda Huygens il 24 dicembre 2004. Quando la sonda Huygens scenderà su Titano, raccoglieremo informazioni importanti su questo satellite che presenta un'atmosfera e una superficie particolarmente interessanti per i processi chimico-fisici in corso. La sopravvivenza degli strumenti a bordo della sonda dovrebbe essere di quattro ore, in cui si concentreranno tutte le misurazioni, quattro ore che coroneranno vent'anni di lavoro e di studio. In realtà, Cassini manderà durante tutta la sua missione immagini e informazioni dalle quali ci aspettiamo grandi scoperte e importanti novità scientifiche.

Una missione che, pur non essendo ancora approvata, suscita enorme interesse sia in ambiente scientifico sia nel pubblico è quella denominata Pluto-Kuiper Express. La sua data di lancio dovrebbe essere il 2006 e si tratterà di una missione ai confini del sistema solare; arriverebbe a Plutone e Caronte nel 2015-2017, per raggiungere la zona in cui sono localizzati gli oggetti della fascia di Kuiper nel 2026. Plutone è l'unico 'pianeta' del sistema solare a non essere ancora stato mai visitato da una sonda e le sue caratteristiche e dimensioni, per quanto se ne sa oggi, lo potrebbero far considerare più un asteroide o una cometa che un pianeta, visto che la sua luna, Caronte, ha dimensioni e massa pari a circa la metà di quelle di Plutone. In anni recenti si è consolidata l'opinione che Plutone appartenga alla classe degli oggetti della fascia di Kuiper, una fascia in cui sono localizzati corpi celesti costituiti dal materiale rimasto dopo la formazione del sistema solare. Plutone presenta buone quantità di molecole contenenti idrogeno, ossigeno e carbonio, precursori di forme di vita. Data la sua bassa gravità, questo materiale sarebbe scomparso se il pianeta fosse stato più vicino al Sole. La sua distanza dalla nostra stella, invece, avrebbe mantenuto questo materiale sulla superficie e la sua analisi potrebbe portare a interessanti scoperte sia sulla formazione e sulle origini del sistema solare, sia sulla presenza di eventuali forme di vita. La tesi che Plutone sia in realtà un corpo minore e non un pianeta troverebbe conferma anche da un'importante, recente scoperta, effettuata il 4 giugno del 2002 all'osservatorio di Monte Palomar: si tratta dell'asteroide denominato Quaoar, l'oggetto più grande individuato nel sistema solare dopo Plutone, scoperto nel 1930. Quaoar ha dimensioni pari alla metà di quelle di Plutone e appartiene ovviamente agli oggetti della fascia di Kuiper. Se Plutone fosse stato scoperto oggi, nessuno probabilmente lo avrebbe classificato come un pianeta.

Riassumendo, il prossimo decennio sarà principalmente dedicato allo studio delle comete, meno sviluppato nel decennio precedente, alla continuazione di una esplorazione sistematica del pianeta rosso, alla ricerca dell'acqua e, quindi, di possibili forme di vita, a realizzare la missione verso Mercurio, ad aprire le porte della conoscenza di Saturno e Titano, al ritorno su Venere, alla ricerca e alla scoperta della parte veramente primordiale del sistema solare e forse, infine, all'esplorazione di Europa.

La conoscenza del nostro sistema planetario progredisce con ogni missione spaziale e, con ogni probabilità, alla fine del prossimo decennio avremo risposto a molte domande, ad esempio come si sono formati i pianeti, come si sono evoluti, come si è formata la vita e come si è sviluppata sulla Terra. Per progredire ulteriormente nello studio del nostro sistema planetario saranno però necessari importanti salti di qualità a livello tecnologico, che permettano di raggiungere mete sempre più ambiziose.

Infine una riflessione: come abbiamo visto, per realizzare appieno una missione di esplorazione del sistema solare, dal momento in cui essa è ideata alla fase in cui vengono trasmessi a terra i dati per essere elaborati, passano in alcuni casi fino a due decenni. Questo è ovviamente un limite al rapido processo della conoscenza, che al momento però non è superabile, se non parzialmente. La limitazione principale, infatti, deriva dalla tecnologia oggi disponibile in termini di velocità delle sonde lanciate nello spazio profondo e, quindi, strettamente connessa anche alla distanza dalla Terra dei pianeti e corpi esterni del sistema solare. Se non si riesce a far viaggiare le sonde a velocità più sostenute, in modo da ridurre drasticamente i tempi di percorrenza, l'esplorazione dei confini del sistema solare continuerà a richiedere tempi lunghi e risulterà sempre difficile. Interventi più incisivi possono invece essere fatti sul fronte dello sviluppo delle sonde stesse, riducendone la complessità e il numero di strumenti a bordo. È d'altro canto indubbio che la filosofia del 'faster, cheaper and better' può essere applicata con più soddisfazione alle sonde destinate ai pianeti prossimi alla Terra, dove le opportunità di lancio si presentano con maggiore frequenza (circa ogni due anni terrestri nel caso di Marte, ad esempio). Non si può invece applicare questa filosofia a sonde che impiegano molti anni a giungere sul luogo di osservazione: in questi casi è molto più logico, allo stato attuale della tecnologia, equipaggiarle con il maggior numero possibile di strumenti.

4. L'origine della vita e la ricerca di vita extraterrestre

È difficile dare una definizione generale di 'vita', ma possiamo adottare, almeno a livello operativo, quella biochimica, secondo la quale è il prodotto dell'interazione tra due gruppi di sostanze biochimiche, gli acidi nucleici e le basi, a creare complessità sempre maggiori, come la capacità di riprodursi. Questi building blocks biochimici sono presenti, senza dubbio, sulla Terra e sono, a loro volta, combinazioni di elementi della tavola periodica, dall'idrogeno all'uranio, in complessità e peso crescenti. Questi elementi, sintetizzati dal Sole e dalle altre stelle, sono presenti, più o meno con le stesse abbondanze relative, in tutto l'Universo. In un esperimento del 1953 Stanley Miller dimostrò che per produrre amminoacidi era possibile partire da un 'brodo primordiale', cioè un'atmosfera simile a quella terrestre primordiale, sottoponendolo a stimoli energetici, come scariche elettriche e fulmini. In questo tipo di esperimenti in laboratorio, però, si formano amminoacidi che sono, in egual misura, di forma destrorsa o sinistrorsa, mentre gli organismi viventi possiedono solo amminoacidi sinistrorsi: il meccanismo di Miller non è quindi sufficiente per spiegare la nascita della vita. Da quando, nel 1937, la radioastronomia identificò la prima molecola organica nello spazio interstellare (il radicale CH, seguito nel 1940 dal cianogeno CN) sono state trovate circa 200 specie molecolari organiche di complessità crescente fino agli amminoacidi e agli zuccheri. Nello stesso periodo di tempo è stato possibile studiare in grande dettaglio la 'accrezione' di polvere interplanetaria e interstellare sulla Terra. Ora sappiamo che ogni giorno cadono sulla Terra circa 30 tonnellate di materiale organico, soprattutto - ma non solo - di origine cometaria. In questo materiale, come nei meteoriti, sono state identificate ben 70 specie di amminoacidi, tra i quali almeno 8 dei 20 necessari per costituire le proteine. Inoltre, per la maggior parte questi amminoacidi sono sinistrorsi, proprio come quelli dei quali siamo fatti noi. Che la vita provenga dalle stelle? Di sicuro, grazie alla nucleosintesi. Che essa sia nata sulla Terra grazie alle comete o alla polvere interstellare? Forse, anzi probabilmente, se crediamo ai significativi indizi riportati. La prova finale verrà dall'analisi in situ delle comete (v. cap. 3, § a) e, forse prima, da evidenza di vita su un altro pianeta.

Nel sistema solare, Marte si presenta come il candidato di gran lunga migliore per la ricerca di vita extraterrestre, presente e passata, anche se ci si attendono importanti risultati riguardanti materiale prebiotico anche dall'esplorazione di Titano e di Europa (v. cap. 3, § c). L'esplorazione di Marte è stata molto influenzata dai 'risultati' fantasiosi dell'astronomo statunitense Percival Lowell. Partendo da un'errata interpretazione e traduzione dei risultati di Giovanni Schiaparelli, Lowell creò una vera e propria leggenda scientifica di una civiltà intelligente su Marte, capace di scavare enormi canali per l'irrigazione, ecc. Dalla scienza si passò alla spinta popolare, tanto che, all'atto della creazione della NASA, nel 1958, il neonato programma di esplorazione planetaria era pesantemente influenzato dalla credenza che esistesse vita su Marte (anche perché solo negli anni sessanta la spettroscopia astronomica dimostrò la vera natura dell'attuale atmosfera marziana, dove l'acqua liquida non può sopravvivere).

Fu così che, appunto negli anni sessanta, nacque la missione Viking per l'esplorazione di Marte. La missione aveva a bordo quattro esperimenti separati, destinati allo studio della biologia marziana. I risultati, magistralmente riportati, tra gli altri, da Harold (Chuck) Klein, furono negativi: nessuna traccia convincente di vita o di materiale organico di origine biologica fu trovata su Marte, nel 1976, nei due punti di atterraggio delle due sonde gemelle nei 'mari' Cryse e Utopia. In attesa di dati molto più completi dalle varie missioni di quasi un trentennio dopo, a cominciare dalla missione europea Mars Express, abbandoniamo l'idea di Marziani, di canali o di qualunque forma di vita attualmente presente sulla superficie del pianeta e analizziamo brevemente la possibilità che sia esistita vita nel passato, anche remoto, di Marte. Non c'è dubbio che su Marte l'acqua sia scorsa abbondante in forma liquida, con processi a livello fluviale che hanno lasciato testimonianze in erosioni di dimensioni anche di centinaia di chilometri. La morfologia delle valli fluviali e dei laghi fa capire che l'acqua era stabile, con stime della quantità totale di acqua che variano da 6 a 500 m per lo spessore medio su tutto il pianeta.

L'atmosfera di Marte fu per qualche tempo abbastanza densa da permettere a questa grande quantità d'acqua di restare liquida, almeno in parte. Il componente principale di tale atmosfera era, come del resto è oggi, CO2. Grazie all'effetto serra sulla radiazione solare, una pressione al suolo da 1 a 5 bar di CO2 sarebbe stata sufficiente, appunto, a mantenere liquida l'acqua superficiale. Insieme al CO2 era presente una significativa quantità di N2 (anche 10-300 mb), anch'esso, come il CO2, trasportato su Marte (e sugli altri pianeti interni, Terra compresa) da qualche meccanismo interplanetario. I due componenti, CO2 e N2, sono, insieme all'acqua, fondamentali per il ciclo prebiotico. Il problema non ancora risolto è come si possa mantenere sul pianeta un'atmosfera abbastanza densa (che permetta la permanenza dell'acqua) per un tempo sufficientemente lungo, per esempio un miliardo di anni. A contrastare le perdite atmosferiche, dovute ad esempio all'assorbimento di CO2 per formazione di carbonati nelle rocce, potrebbero essere stati impatti cometari e altri fattori.

La conclusione, comunque, è che probabilmente su Marte sono esistite condizioni per lo sviluppo della vita. La prova di ciò potrebbe venire da ritrovamenti fossili, sia individuali, sia in strutture macroscopiche informi, sia - ancora più in generale - con evidenza di materiale organico di origine biologica. Le strutture fossili potrebbero essere stromatoliti, simili a quelli terrestri, dovuti all'accumularsi di strati fossili depositati da microrganismi in bacini lacustri. Più in generale, come sulla Terra, si può ricercare in una variazione nei rapporti isotopici del Carbonio (12C/13C) la firma dei processi biologici. Questi ultimi, infatti, alterano in modo piccolo ma significativo (2%) il rapporto 12C/13C nel carbonio esistente in natura. Insomma, la strumentazione nelle prossime sonde marziane (e dei primi astronauti che esploreranno Marte) dovrà avere la capacità, dopo la lezione del Viking, di analizzare in dettaglio e con vasto campionamento la morfologia e la chimica superficiale di Marte alla ricerca di conferme attendibili della presenza di vita extraterrestre. Una simile capacità, anche se necessariamente molto ridotta, è già patrimonio degli strumenti a bordo della sonda Cassini-Huygens della NASA/ESA/ASI.

La sonda ESA, in particolare, scenderà su Titano, il più grande satellite di Saturno, di dimensioni poco inferiori a quelle di Marte. Titano ha un'atmosfera gassosa quattro volte più densa di quella della Terra ed è composto soprattutto di metano, presente sia in forma gassosa sia in forma liquida, a causa della bassa temperatura. Proprio il metano, sottoposto negli strati superiori al bombardamento ultravioletto dello spazio e in quelli inferiori all'attività vulcanica presente sul satellite, potrebbe dar luogo a interessanti processi chimici prebiotici. La sonda Huygens, dopo il 2004, dovrebbe fornirci informazioni al riguardo.

5. La scoperta di nuovi sistemi planetari

Trecento anni prima di Cristo, Epicuro sosteneva che "ci sono infiniti mondi, sia simili sia diversi dal nostro". L'opinione non era condivisa da Aristotele, che negava potessero esistere altri mondi. Il dibattito è continuato nel corso dei secoli. La teoria dell'infinità dei mondi, che nel 1600 portò Giordano Bruno al rogo, nel 1678 spinse Huygens a cercare di rivelare pianeti orbitanti intorno ad altre stelle, benché egli si rendesse presto conto che questo tipo di osservazioni erano al di sopra delle sue capacità e di quelle degli strumenti dell'epoca; tali sarebbero rimaste fino al 1992, quando due radioastronomi rivelarono il primo sistema planetario intorno a una stella di neutroni pulsante, osservando le perturbazioni che i pianeti del sistema inducevano nei regolarissimi impulsi prodotti dalla stella di neutroni rotante. Tre anni dopo, con osservazioni di spettroscopia nel campo ottico, venne scoperto un pianeta intorno alla stella di tipo solare 51 Peg, anche in questo caso grazie a una rivelazione indiretta, dato che la rivelazione diretta è resa difficilissima dalla bassa luminosità del pianeta, la cui luce riflessa è miliardi di volte più debole di quella della stella.

Seguendo l'esempio delle osservazioni del 1992, erano state utilizzate le perturbazioni indotte dal moto orbitale del pianeta nelle righe presenti nello spettro della stella, secondo il metodo generale che descriviamo. In un sistema planetario tutti i componenti ruotano intorno al baricentro del sistema, che è vicino al baricentro della stella ma non coincide con esso. Poiché lo spostamento del baricentro del sistema causa un piccolo moto orbitale della stella, possiamo 'indovinare' la presenza di sistemi planetari registrando accuratamente per anni la posizione delle righe negli spettri di stelle vicine (e brillanti), selezionate per la loro somiglianza con il Sole. Una volta accumulati abbastanza dati, si deve vedere se la frequenza delle righe mostri piccole variazioni periodiche riconducibili o meno alla presenza di uno o più pianeti in orbita intorno alla stella. Poiché l'influenza dei pianeti sul baricentro del sistema è tanto maggiore quanto più questi sono massicci e vicini alla stella, il metodo (detto 'metodo delle velocità radiali') evidenzia più facilmente pianeti del calibro di Giove, piuttosto che del calibro della Terra. È quanto puntualmente si osserva consultando l'elenco dei più di 100 pianeti scoperti fino a oggi, osservando stelle distanti fino a 100 anni luce dal Sole. La massa di questi pianeti oscilla tra qualche decimo e qualche decina di masse gioviane, ma la loro distanza dalla stella è, nella grande maggioranza dei casi, solo una frazione di unità astronomica: si tratta di pianeti simili a Giove che orbitano intorno al loro sole a una distanza paragonabile a quella tra Mercurio e il Sole. Questo è un risultato importante e non previsto: per stelle simili al Sole ci si sarebbe aspettato di trovare pianeti simili a Giove alla distanza di 4 o 5 unità astronomiche, non ad appena 0,05 unità astronomiche dalla loro stella. Pochi dei sistemi planetari trovati contengono più di un pianeta, ma questo può essere un limite del metodo di ricerca, basato sugli spostamenti di velocità radiali, spostamenti più apprezzabili per pianeti grandi.

Benché siano stati scoperti centinaia di sistemi planetari, non ne è stato ancora trovato uno simile al nostro, e la ricerca di un tale sistema è una sfida che gli astronomi si preparano a raccogliere, proseguendo le ricerche sia con il metodo delle velocità radiali, sia utilizzando altre tecniche, quali l'astrometria di altissima precisione che verrà impiegata anche dalla missione GAIA dell'Agenzia Spaziale Europea, e l'interferometria da terra e dallo spazio. Quest'ultimo metodo permetterà finalmente di vedere i pianeti in orbita intorno a una stella, piuttosto che indovinare la loro presenza come è stato fatto fino a ora.

Altre promettenti strategie di ricerca sono state messe a punto recentemente. Il metodo dei 'transiti' consiste nell'osservare la piccola diminuzione della luminosità di una stella quando il disco, piccolo ma opaco, di un pianeta transita davanti al disco brillante della stella. Non sono ancora stati scoperti pianeti nuovi con questo metodo, ma è stato possibile osservare pianeti già scoperti con il classico metodo spettroscopico. Almeno due successive missioni spaziali saranno dedicate alla ricerca di pianeti extrasolari con il metodo dei transiti: la prima, COROT, sarà una piccola missione scientifica francese, in orbita nel 2006, seguita da Kepler della NASA nel 2007.

Un altro metodo per la ricerca di pianeti sfrutta le grandi basi di dati sulla ricerca di effetti di lente gravitazionale dovuti a casuali allineamenti stellari. Tenendo sotto controllo, ad esempio, il centro della nostra galassia con i suoi miliardi di stelle in continuo moto relativo, è possibile vedere improvvisi aumenti di luminosità dovuti alla concentrazione della luce di una stella da parte della massa di un altro oggetto lungo la precisa linea di vista con la Terra. Il progetto PLANET prevede la costituzione di una rete di telescopi a terra per misurare proprio questo fenomeno, già osservato per allineamenti di masse stellari e potenzialmente presente anche per masse planetarie.

Nel giro di qualche anno, insomma, il numero dei pianeti extrasolari conosciuti dovrebbe diventare di parecchie migliaia. Dalla maggiore statistica disponibile dovrebbe essere possibile ricavare gli esempi più interessanti per somiglianza con la Terra (massa, periodo orbitale, distanza dalla stella centrale di tipo possibilmente solare, ecc.), o quelli più promettenti per successivi studi approfonditi, ad esempio con strumenti ad altissima risoluzione mediante interferometria spaziale di seconda generazione.

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