GIAMBICA, POESIA

Enciclopedia Italiana (1932)

GIAMBICA, POESIA

Gino Funaioli

. Gli antichi, a cominciare da Aristotele, la definirono per poesia dell'invettiva o del vituperio personale (ψόγος), dell'ira (rabies), della maldicenza (maledicum carmen, criminosi iambi), dell'insulto; onde le etimologie, da ἰάπτειν, latinamente iacere, iaculari, o da ἰὸν βάζειν "dir saette, dir veleno", e simili, di cui la prima ha ottenuto larga adesione anche nel mondo moderno. Aristotele nella Poetica e Proclo in un brano che sostanzialmente deriva da Aristotele, giudicano questo genere prodotto inferiore; perché esso è espressione, secondo lui, d'intemperanza, suscitatore anziché purificatore dell'eccesso delle passioni, lontano quindi dal servire all'ideale suo della catarsi; e poi perché l'opera d'arte nel criterio valutativo di Aristotele non è effusione di sentimenti individuali, sì azione e rappresentazione di personaggi, dove l'io di chi canta o scrive deve per quanto è possibile scomparire. Siffatta è appunto la caratteristica saliente e generale della poesia ellenica a cui la teoria aristotelica si adegua. Di tipo alquanto diverso è il giambo: più affettivo, più soggettivo, o, a seconda dei tempi e dei temperamenti, meno impersonale. Esso non è una creazione della polis greca propriamente detta; ha i suoi principî tra le popolazioni ioniche dell'Asia Minore, che di mezzo alle lotte interne, premendo da vicino i barbari, sentirono ben presto corrosa la propria compattezza civile e sociale, onde all'idea della polis cominciò a far violenza l'individuo: nasce dalle feste sguaiate e rumorose di Demetra e di Dioniso, fra i lazzi e i motteggi della gente del contado; e una etimologia del grammatico Diomede (p. 477,3 del Keil) ricollega ἴαμβπος con ϑρίαμβος (canto festivo di Dioniso), e perciò con διϑύραμβος, ἴϑυμβος (inno e danza bacchica), tutte voci che non hanno trovato una spiegazione accettabile nel greco e che paiono derivare dal di fuori, presumibilmente dall'Asia. Al flauto, o clarinetto, allude più volte Archiloco quale strumento musicale per il suo giambo, e il verso veramente fatto per il canto avrà ben avuto l'accompagnamento dei toni lunghi d'uno strumento a fiato; il che ci riporta di nuovo all'Asia. Plutarco (De mus., 28) e Ateneo (XIV, 636 B) sulla fede, pare, entrambi di Aristosseno, sanno di giambi cantati e di recitati; Ateneo parla della ἰαμβύκη, specie di cetra a tre corde, per i primi, e del κλεψίαμβος, forse strumento che accompagnava in sordina, per gli altri (v. Polluce, IV, 59).

Poesia, dunque, la giambica, di origine asiatica e plebea - divinità rurali sono Demetra e Dioniso -; e di umile stirpe è nell'antico Inno di Demetra il favoleggiato personaggio eponimo del giambo, l'ancella del re eleusino Celeo, Iambe, consolatrice coi suoi scherzi salaci di Demetra, ospitata da Celeo mentre dolorosa andava in cerca della figlia perduta. Così i caratteri sostanziali della forma letteraria sono evidenti; e ci fu chi escogitò un altro eponimo in Iambus, figlio di Marte, un eroe che amava le pugne e vibrava il dardo fra le grida, detto ἀπὸ τοῦ ἰέναι καὶ βοᾶν; con che siamo sempre nel concetto dell'aggressività, della dicacità, dell'irruenza mordace, dell'accentuato spirito personale e popolare. Il celere e concitato verso giambico, vicinissimo per sua costituzione al conversare ordinario, era quanto mai conveniente a esprimere codesta aderenza alle vive passioni di tutti i giorni; ma se tale è la sua essenza più nativa, ciò non vuol dire che costì esso si esaurisca o che escluda combinazioni con altri ritmi, particolarmente i trocaici; e con iambus s'indica in genere dagli antichi non già la forma giambica, il piede, sì il genere poetico dell'invettiva da cui non s'esclude nemmeno la prosa.

Forma giambica comparisce già col Margite, una parodia dello stupido attribuita a Omero fino ad Aristotele, a Zenone lo Stoico, a Callimaco, prodotto di un poeta colofonio del sec. VIII a. C., dove l'azione si svolgeva in esametri dattilici mescolati a trimetri giambici. Aristotele (Poetica, IV, 1448b) vede nel Margite un esempio di poesia faceta, ben distinta dalla ἰδέα ἰαμβική, di riso garbato, di scherzo ingenuo, senza punte personali, di quella maniera insomma che poi drammatizzata doveva sboccare nella commedia ed essere condizione sua. D'Archiloco e degli antichi giambografi non si fa nome nella Poetica: si ricordano anonimamente per essere condannati, in quanto "poetavano intorno a persone vere e proprie", fuori dell'universale, diversi in ciò dai commediografi né soltanto, sembra nel concetto aristotelico, dai cosiddetti nuovi: ché già in Cratete, più vecchio di Aristofane, si nota nella Poetica l'allontanarsi dagli spiriti giambici verso finzioni "mitiche" (v. il commento di A. Rostagni alla Poetica, V, 1449 b, IX, 1451 b). All'infuori della forma giambica, proprio l'ingiuria e l'insolenza, anche più grossolana, sono già armi di battaglia degli eroi omerici; ma là non il poeta parla, sì fa parlare. Parla invece il poeta stesso in Esiodo, ammonendo il fratello Perse, con tratti di satira acre, che si avvia a essere individuale.

"Inventore" nella letteratura e cioè vero creatore o perfezionatore della schietta poesia giambica è Archiloco (v.), uno ionico di Paro fiorito nella prima metà del sec. VII. Spiriti d'immediata realtà e di veemenza personale introdusse egli nei suoi canti - precursori in ciò non saranno mancati - elevando ad arte perfetta, ad arte universale, checché possa aver pensato Aristotele, le pungenti e crude improvvisazioni popolaresche della beffa e dello scherno, abituali ai misteri di Demetra e di Dioniso fra le genti ioniche dell'Asia e delle isole adiacenti. Quello che attraverso i secoli fu ammirato in lui finché si conobbe, è il fuoco, la virile e virulenta possanza della sua passione. Anima irrequieta e randagia, vissuto fra lotte e aspre difficoltà, fra sogni e amare delusioni, Archiloco è portato a narrare sé stesso in contrapposto alla crudele realtà, a cantare l'offesa che gli viene dal mondo. L'odio fatto persona, il fremito della fiera umana alita nel frammento di Strasburgo, ormai riconosciuto per archilocheo, contro un amico fedifrago. Le onde sballottano un naufrago, fra i Traci inospitali, nudo in selvaggio lido, a notte profonda; è tutto gelo il misero, e l'alghe lo tengono impigliato, incapace d'un movimento, con la bocca giù a fior d'acqua, presso l'orlo di spiaggia scoscesa: unico segno di vita il battere dei denti; e la terribile visione finisce in un grido: "così voglio vederlo, lui che mi offese rompendo la fede e che un giorno mi amò". Si capisce da questi versi come nascesse la leggenda di Licambe e Neobule, ridotti a morire disperati sotto i colpi implacabili del poeta. A loro si riferiscono i versi più sanguinosi che ci sian restati; a Neobule però, anche i più teneri: giacché Archiloco conosce tutte le corde dell'anima, dallo scoppio elementare dell'ira sino agli affetti del più molle abbandono. Rispondente a questa varietà di toni è la ricchezza in lui dei metri: versi giambici, trocaici, dattilici in molteplici combinazioni, per lo più in strofe epodiche; dovunque, sangue e nerbo.

Con Simonide di Amorgo, nativo di Samo, continua la velenosità del giambo, la quale ci è attestata contro un Orodecide: ciò che rimane di lui ha però suono più mite, e affatto impersonale è la satira contro le donne, dove l'elemento favolistico, già usato per lo scherno da Archiloco, ha largo sviluppo. Dall'arte di Archiloco siamo lontani. Solone ateniese si vale del giambo a fini civici. Invettiva letteraria contro Omero ed Esiodo si cita di Senofane Colofonio (Diog. Laerz., IX, 18); né il morso del giambo ignora Anacreonte di Teo. Ma dopo Archiloco e Simonide, il classico dei giambografi è, nel canone alessandrino, Ipponatte di Efeso (metà del sec. VI a. C.). Esule dalla patria e povero, egli si vale dei suoi sarcasmi per vivere; inveisce contro la lussuosa dissolutezza ionica, contro tipi di vita, ma anche contro individui determinati, come lo scultore Bupalo: acer hostis Bupalo, lo chiama Orazio. Sentire e dire plebeo è la sua forza; il suo stile, crudamente realistico: la metrica, svariatissima; fra l'altro, caratteristico per lui il trimetro giambico scazonte o coliambo, dal fare trascurato e strascicante con lo spondeo al quinto piede, un verso che o egli per primo o Ananio, suo contemporaneo, tolse dalle infime forme popolari dei beffardi canti del culto. Ananio è per noi poco più che un nome. Poi l'anima giambica ricompare nella Commedia attica antica (sec. V), con finalità però sostanzialmente diverse: che l'idea civica costì sta sopra alla individuale, e c'è poi, sempre ivi stesso, già fin da Cratete, la tendenza a procedere dalla realtà particolare verso la "favola", una tendenza che prenderà il sopravvento nella Commedia media fino a dominare quasi assoluta nella Nuova. Significativo è che Ermippo, ai tempi di Pericle, scrive giambi e commedie insieme. Col sec. IV e III non sparisce del tutto l'aggressività personale; specialmente l'epigramma la conosce, quel componimento che meglio rappresenta il gusto ellenistico; e a brevità epigrammatica si foggiano ora anche i giambi. Ma in genere il cachinno si attenua in semplice parodia, conforme al dogma dell'estetica aristotelica: codesto spirito permea la commedia greco-italica di Rintone, la satira filosofica cinica di Cercida, di Bione, di Telete, di Fenice, di Menippo, di Meleagro, il mimo, il meliambo, il mimiambo, il giambo letterario e moraleggiante di Callimaco, la favola, e continua fin nella tarda poesia didattica, come in Gregorio Nazianzeno.

In Roma il libero e rude motteggio è a casa sua fin da principio, è nel carattere etnico: Italum acetum! Canti festivi di nozze, di raccolte, di trionfi, di cui l'anima era l'ingiuria, alternis inconditi versus... licentia iactati, sono fra i più significativi di che si abbia memoria nel periodo antichissimo; e tutta una serie di nomignoli rimasti come nomi proprî rivela la medesima tendenza. Nevio, il poeta plebeo, diede subito sfogo nella letteratura romana alla contumelia personale contro illustri personaggi sulla scena, il che gli costò il carcere; onde, per le condizioni politiche, in terreno spirituale quanto mai favorevole, non poté allora librarsi a volo l'affilato strale giambico: proseguì a vivere nelle vecchie consuetudini, tra il popolo. In arte riaffiorò nel variopinto conversare della satira enniana, ma spuntato e contenuto: arma dello scherzo, anziché dell'acredine, non altrimenti che poi sarà nei Didascalica di Accio e più nella satura menippea di Varrone. Fra gli urti delle lotte civili, nel circolo aristocratico di Scipione l'Emiliano, rinasce il giambo o lo spirito giambico antico con Lucilio, a morder vizî e persone, con mire politiche, sociali e letterarie. E di lì a poco coi neoterici, imperversando la rivoluzione, diventerà sbrigliato e senza ritegni nei trimetri giambici, negli scazonti già prima innovati da Nevio, negli endecasillabi faleci: veemenza, ingiuria, oscenità; spiriti archilochei e ipponattei; antica anima italica, acerbamente ripullulante dal fondo tra il disfrenarsi dell'individualismo: cuori che scoprono sé stessi, tra le agitazioni dell'amore e dell'odio, come non mai avanti, in forme molteplici che molto risentono delle alessandrine. Catullo qui è al primo posto: e accanto gli stanno Calvo, Cinna, Bibaculo, Varrone Atacino. Contemporaneamente Catone l'Uticense si scaglia contro Metello Scipione, rapitore a lui della fidanzata, e Metello lo ricambia. Gneo Mazio crea il mimiambo. Orazio ridà al giambo la ricca varietà di forme metriche, che con Archiloco aveva: questo vanto gli spetta. Temperamento fine e sottile, fatto per l'ironia senza amarezze, per il sorriso più che per il riso, egli non ignora però l'irruenza mordente o la trafittura, e nemmen la parola senza veli fino all'oscenità. È una natura sentimentale e lirica. I suoi giambi vanno paralleli alla satira e sono un avviamento alla lirica, entrambi prodotti del sentimento; hanno della satira e della lirica gli spiriti. L'elemento giambico sopravviverà agli epodi, anche nelle satire a essi posteriori e nelle odi; ma affetti diversissimi, puri affetti lirici, molli o forti, obliosi o ansiosi, sono espressi negli epodi. Tono, se non flagello giambico c'è più o meno nei giambi del Catalepton, di discussa paternità virgiliana. L'ultima vera fioritura dei minaces iambi è nel senario, nello scazonte, nell'epodo dell'epigrammatico Marziale. Per il resto, il giambo vive nella favola, nella satira filosofica, nel mimo, nella gnomica, nell'epigramma anche sepolcrale, in altre forme, sino ai tardi tempi, a Roma e in Grecia, con spiriti diversissimi: l'invettiva archilochea è rara.

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