Poesia

Enciclopedia Dantesca (1970)

poesia (poesi')

Alfredo Schiaffini

In D. compare solo la forma ‛ poesì ' (per cui cfr. la voce Grecismi): Ma qui la morta poesì resurga (Pg I 7); per l'interpretazione del passo, alquanto controversa (ma che comunque non pone in dubbio il valore essenziale di ‛ poesia '), v. MORIRE.

La concezione della poesia in Dante. - Quando, disserrando l'officina d'arte, l'artis ergasterium, D. si fa a porre i fondamenti della poetica volgare (VE II IV), incomincia ricordando di avere dato più volte il nome di ‛ poeta ' (proprio degli antichi) a coloro che vulgariter versificantur o rimatori in volgare (cfr. Vn XXV 4 dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione, cioè, con le debite preferenze; e 7 con ciò sia cosa che... questi dicitori per rima non siano altro che poete volgari): e a ragion veduta, perché poeti essi sono veramente, si poesim recte consideremus, quae nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita (VE II IV 2). Solo che - seguita D. - i dicitori per rima differiscono dai grandi poeti, cioè dai regolari (a regularibus) - e s'intendono i latini antichi - in quanto i grandi poeti hanno poetato in lingua e arte regolare (sermone et arte regolari poetati sunt), mentre i dicitori per rima hanno poetato a caso (casu). Accade perciò - e viene così postulato il principio dell'imitazione - che, quantum illos proximius imitemur, tantum rectius poetemur (§ 3). Al modello dell'antichità D. si volge pure quando asserisce (VI 7) che ad apprendere l'abito della ‛ suprema constructio ' dopo l'esempio dei grandi poeti volgari, provenzali e italiani, ‛ forse ' gioverebbe molto (fortassis utilissimum foret) avere studiato regulatos... poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum, nec non alios qui usi sunt altissimas prosas, ut Titum Livium, Plinium, Frontinum, Paulum Orosium et multos alios, quos amica sollicitudo nos visitare invitat. E qui, con inclusioni come quella di Frontino, non può non sorprendere l'esclusione di Orazio, Cicerone, Agostino: inclusioni ed esclusioni tuttavia che il Marigo, nel suo commento; ha procurato di giustificare.

Volendo dunque D. intendere a opera di dottrina, ossia comporre una poetica del volgare, dovrà doctrinatas eorum poetrias aemulari (IV 3), modellarsi sulle poetiche di quei poeti dell'antichità, ridotte a forma ed esposizione dottrinale: soprattutto (vedremo) sull'Ars poetica di Orazio, il quale proprio in VE II IV 4 viene definito magister noster.

Il fatto che D. parli, al plurale, di poetiche, prova che egli aveva in mente anche arti poetiche di moderni. Secondo dice il Mengaldo (p. XXXVII), si può postulare la lettura diretta da parte di D. soprattutto di Bene da Firenze, e forse anche di Guido Fava tra i dettatori, oltre naturalmente alle pagine di Brunetto; di Matteo da Vendôme, Goffredo di Vinsauf e Giovanni di Garlandia tra gli autori di poetiche. Del Mengaldo si veda inoltre la p. XXXIX: " è chiaro anche come nel De vulg. eloq. confluiscano largamente, e si direbbe a pari diritto, entrambe le grandi correnti della retorica dei secoli XII-XIII, quella delle artes dictaminis e quella delle poetriae "; " con buona pace degli zelatori dell' ‛ umanesimo ' di Dante come dei riduttori delle letture sue in quest'epoca a pochi ‛ classici per le scuole ' (v. Renucci), l'ambiente in cui si muove la cultura retorica dantesca, e si muove con agio, è soprattutto quello della trattatistica medievale recente, rispetto alla quale costituiranno solo uno sfondo ovvio i grandi classici, la Rhetorica ad Herennium, il De inventione, l'Ars poetica, magari Isidoro ".

E appunto a Orazio, teorico-poeta, D. si richiama subito nell'iniziare la propria trattazione, affermando i due principi, basilari e strettamente congiunti, dell'inventio materiae et electio e dell'elocutio: che, cioè, bisogna adeguare la gravità della materia alle proprie spalle (qui Orazio viene citato espressamente e con le sole parole " Sumite materiam... ", v. 38) e la materia (sempre con Orazio, v. 86 ss., e cfr. il richiamo esplicito a Orazio in Ep XIII 30) bisogna adeguare al vario stile. D'altra parte, è superfluo dire che l'Ars poetica di Orazio fu testo essenziale dall'antichità fino all'Umanesimo, anche se non per ogni secolo in misura identica, e fornì la base a un commento del IX secolo (i famosi Scholia Vindobonensia) e poi alle Artes poeticae dei secoli XII e XIII.

Soprattutto di Orazio è stata la ricerca dello stile medio; e a essa " in gran parte si deve l'enorme peso che egli ha avuto nella tradizione classicistica europea "; è uno stile che, " come evita il sublime, così evita la volgarità e la sciattezza "; insomma " Io stile medio urbano, elegante fu nella poesia latina una creazione oraziana " (A. La Penna, Orazio e l'ideologia del principato, Torino 1963, 173 ss.).

Avvicinandoci ora alla definizione dantesca, che è assolutamente formale, della p., dovremo tradurre: la p. è una finzione (allegorica), ossia fictio, elaborata o strutturata in versi, ossia poita, secondo l'arte retorica e musicale.

Tuttavia, fictio (cfr. sub v.) dai volgarizzatori del trattato di D. è parola riprodotta spesso con " invenzione " (per esempio, da E. Parlanti), " Erfindung " (da F. Dornseiff e J. Balogh), " opera d'immaginazione " (Marigo), " invenzione della fantasia " (F. Di Capua): anche il Marigo a " invenzione " aggiunge in nota, idealisticamente, la chiosa: " cioè creazione fantastica ". Ma fictio, vocabolo foggiato non prima dell'epoca imperiale (forse da Quintiliano?: cfr. Ernout-Meillet), accanto ai significati di " formazione ", " creazione ", " invenzione ", " argomento " (res ficta), " ipotesi ", sviluppò e mantenne a lungo quello di " finzione " (forma ‛ volgare ' di fictio, influenzata da fingo, è finctio).

E qui, anzi che tracciare la storia di fiction francese (cfr. von Wartburg), ficción spagnolo (v. Corominas), fiction inglese, Fiktion tedesco, ecc., pensiamo al concetto medievale della p. come bella finzione che cela una verità; e potrebbe bastare intanto il solo rinvio a un passo di uno dei ‛ founders ' del Medioevo, Isidoro di Siviglia (Etym. VIII VII 10): " Officium autem poetae in eo est ut ea, quae vere gesta sunt, in alias species obliquis figurationibus cum decore aliquo conversa transducat ": e l'‛ obliqua figuratio ', altrove detta anche " ductus subtilis ", o " obliquus ", o " figuratus ", è la rappresentazione allegorica (e si potrebbe rimandare anche alla fonte di Isidoro, che è Lattanzio, I 11). Aggiungiamo le definizioni della poesis nel Petrarca (Seniles XII 2 " Officium eius [scil. poetae] est fingere, id est componere atque ornare, et veritatem rerum, vel mortalium, vel naturalium, vel quarumlibet aliarum artificiosis adumbrare coloribus, et velo amoenae fictionis obnubere, quo dimoto veritas elucescat, eo gratior inventu, quo difficilior sit quaesitu ") e nel Boccaccio (De Genealogia deorum XIV 8 " mera poesis est quicquid sub velamento componitur et exponitur exquisite "). Ma non lasciamo di dire che l'interpretazione allegorica della p. era già ben radicata nella cultura greca e può riportarsi in particolare agli stoici, che dell'allegoria si giovavano con larghezza nello spiegare i poeti, e rivelarono inoltre la funzione ammaestratrice della ποίησις (cfr. A. Rostagni nella sua edizione commentata dell'Ars poetica di Orazio, Torino 1930, pp. LXXX ss. D. si sarà fermato ai versi dell'Ars poetica che parlano del ‛ fingere ' e del ‛ mentiri ' del poeta [vv. 119 e 151], la cui retta interpretazione, però, vedi nel Rostagni). Anzi, com'è stato detto (De Bruyne, Études, II 320-321), " dagli autori classici fino ai grammatici dell'età tarda si prolunga una linea ininterrotta, né è impossibile che per mezzo di essi grammatici gli uomini del Medioevo siano rimasti in contatto con l'allegorismo greco: contatto, però, che, più verosimilmente, sarà stato determinato dai Padri della Chiesa, essi pure usciti dalla scuola dei Retori e ispirati da Origene, e, per il tramite di quest'ultimo, da Filone di Alessandria, il primo forse che abbia applicato l'allegoria alla Sacra Scrittura ".

Sulla necessità poi e cura, costante e minuta in ogni tempo, delle belle parole che ingenerano diletto, leggiamo il Convivio, dove vien detto (II XIII 14) che la retorica (a cui è comparato il cielo di Venere) è soavissima di tutte le altre scienze, perché intende a riuscire piacevole con i bei modi del dire, e dove vien detto (XI 9) che la bellezza della canzone è triplice, grammaticale, retorica e musicale, ma alla retorica spetta, ufficio importantissimo, di curare l'ordine del sermone, cioè quella che gli antichi chiamavano dispositio e riguardava, precisamente, la ‛ composizione '. Si veda in particolare Cassiodoro, che riassume per il Medioevo le definizioni della bene dicendi scientia degli antichi (Cicerone e Quintiliano, oltre che Mario Vittorino e Fortunaziano), bene dicendi scientia tuttavia intesa in significato molto largo, e notiamo dunque (citerò solo Cicerone , De Orat. III VII 27) che " poëtis... est proxima cognatio cum oratoribus ": agli oratori e ai poeti compete di scrivere correttamente e mirare a una certa musicalità della frase. Il grammatico Donato, un'autorità per il Medioevo, poteva affermare: " Invenies in poeta rhetorem summum ", e di Virgilio faceva un modello per i " maestri dell'arte oratoria " (cfr. A. Pézard, D. sous la pluie de feu, Parigi 1950, 233; il Pézard rammenta che Brunetto sottoponeva alle stesse regole di Tullio così una canzone amorosa come una controversia per lettera o un'arringa).

Anche quanto alla musica è da partire dall'alto: da Gorgia di Leontini che, accogliendo pensieri di Empedocle e Pitagora, riteneva la retorica " non tanto razionalità di concetti (il verisimile, il probabile), quanto l'arte dell'allettare con malie di suoni e di ritmi " (G. Funaioli, La retorica antica in Grecia e Roma, in Studi di letteratura antica, I, Bologna 1948, 176). Con un grande balzo, scendiamo a Beda il Venerabile, che ammette, contrapponendoli, i due tipi di versificazione, metrica e ritmica, ma in ogni p. trova sempre l'elemento musicale, la modulatio. Fermiamo inoltre che, circa la musicalità del verso e della frase - compositio seu structura, rythmus et clausula, modulatio, ecc. -, a influenzare i più antichi dictatores intervengono, dopo il sec. VIII, Marciano Capella e, più tardi ancora, Quintiliano. Per D. i componimenti poetici sono cosa per legame musaico armonizzata (I VII 14), sono verba modulationi armonizzata (VE II VIII 6): cioè parole - spiegano Busnelli-Vandelli (Convivio, I, p. 205 n. 3; e cfr. pp. 203 n. 1, e 176 nn. 8 e 11) - " messe insieme tenendo conto di certe ‛ relazioni ' d'ordine musicale necessarie, affinché ad esse possa essere associata una modulatio, ossia una melodia, sia che l'associazione si faccia solo vocalmente col canto (si rammenti il canto di Casella nel II del Purgatorio), sia con anche un accompagnamento istrumentale ". S'intende, però, che, se anche il poeta non compone le sue poesie perché siano musicate o cantate, " deve pur sempre conformarsi a leggi musicali ".

Secondo B. Nardi (Il nome che più dura e più onora, in Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, 313-314), il concetto della p. dopo la Vita Nuova, cioè nel Convivio, si fa " più complesso. I poeti sono in quest'opera gli autores, parola derivata da " uno verbo molto lasciato da l'uso in gramatica, che significa tanto quanto ‛ legare parole ', cioè ‛ auieo '... E in quanto autore viene e discende da questo verbo, si prende solo per li poeti, che con l'arte musaica le loro parole hanno legate " " (e v. dunque Cv IV VI 3-4). " Sì che, per Dante, poetare o dire per rima significa soprattutto armonizzare parole " per legame musaico "... Nel De vulgari eloquentia, opera gemella del Convivio, il concetto di parole " per legame musaico " armonizzate permane quando Dante, per distinguere dai musici i poeti, chiama questi auientes (De vulg. eloq. II I 1), cioè " armonizantes verba " [e il dictamen, in quanto legato per arte musaica, è detto da lui auietum: e cfr. del Nardi la discussione dantesca su autores, in " L'Alighieri " VI (1965) 1, 54-55], e dice la canzone " actio completa dictantis verba modulationi armonizata " (De vulg. eloq. II VIII, 5-6). Ma per quanto strettamente legata alla musica, la poesia è qualcosa di più ", in quanto D. si appropria il grecismo poita registrato da Uguccione: per il quale il " poeta " è " fictor ", è " alta verba loquens ". Ora, questo carattere, che distingue la poesia del parlare comune sciolto dal " legame musaico ", conduce l'autore del De vulgari eloquentia ad affrontare il concetto oraziano della ‛ materia ' che il poeta prende a trattare e quello dello ‛ stile ' ".

Infine, poita: che viene da poire, latinizzamento medievale del greco ποιεῖν, letto poìn: uno dei grecismi immessi nella latinità medievale per la via dei lessici (si veda in proposito il saggio di P. Valesio, Un termine della poetica antica: ποιεῖν. Analisi semantica, nei " Quaderni dell'Istituto di glottologia " di Bologna, V [1960] 97 ss.). Stranamente, però, anche storici dell'estetica e critici come B. Croce, E. De Bruyne, Y. Batard, A. Buck, L. Ronga, restano con altri ancorati a posita di uno solo dei tre codici dell'opera dantesca, il Trivulziano, o al congetturale composita (del Toynbee). In realtà, se posita è del Trivulziano (T), poita (col trattino sulla i) ha il Grenobliano (G) e ha proprio poita il Berlinese (B): e nel contrasto tra T e G, " legati da speciali rapporti ", è decisivo il codice B, indipendente dagli altri due e che " può bastare da solo a bilanciarli " (P. Rajna, Approcci per una nuova edizione del " De vulgari eloquentia ", in " Studi d. " XIV [1930] 10. Cfr. ora, nell'introduzione del Mengaldo, la Nota al testo, pp. CIII ss.). L'amanuense, insomma, che ha introdotto posita non ha capito la ‛ lectio difficilior ' poita. Inoltre è da tenere in gran conto che D. trovava il prezioso ed efficace poire nella sua solita fonte, le Magnae derivationes di Uguccione da Pisa, dove leggeva: " Poio, pois, poivi, poitum, idest fingo, is, unde hic poeta, tae, idest fictor, et proprie carminis alta verba loquens... Item a poeta, poetor, aris carmina et poemata facere vel componere. Item a poio hic poetes, tis quaedam forma vel figura, et haec poesis illud idem, et poesis ipsa ars poetandi vel figmentum. Vel poesis est materia totius carminis, in qua poeta versatur. Vel poesis est opus multorum librorum sed poema, tis quod similiter derivatur a poio est proprie opus unius, licet generaliter pro opere accipiatur poetae " (da L. Bertalot, Poire, Viere, aviere, in " Arch. Romanicum " VIII [1924] 135 ss.). Di più, D. infiorò di poio l'ultimo verso della sua seconda egloga: Callidus interea iuxta latitavit Iollas, / omnia qui didicit, qui retulit omnia nobis: / ille quidem nobis; et nos tibi, Mopse, poymus. E qualche altro poio è venuto a, galla, colto dal Bertalot (art. cit.). Infine, inserendo poita, e si ottiene il cursus planus e si ripete, con bella figura etimologica, la radice di poesis. Argomenti tutti, questi, a sostegno di poire, già messi innanzi dal Marigo (Il testo e il significato della definizione dantesca di " poesis ", in " Atti e Mem. R. Accad. Padova " XL [1924]; e Il testo critico del " De vulgari eloquentia ", in " Giorn. stor. " LXXXVI [1925] 308 ss.).

Non resta dunque che confermare la definizione dantesca della poesis come si è avanzata: finzione allegorica (fictio) elaborata o strutturata in versi (poita), secondo l'arte retorica e musicale. Definizione che, nelle sue linee essenziali (e restando sottintesa l'allegoria), s'identifica - riprendiamo passi già citati - con la canzone: che (VE II VIII 6) nichil aliud esse videtur quam actio completa dictantis verba modulationi armonizata: vale a dire, un'opera compiuta da chi sa ‛ dictare ' le parole secondo le regole della retorica e sa accordarle secondo relazioni di ordine musicale. Dando rilievo alla grammatica - che " è intrata e fondamento di tutte le liberali arti e insegna drittamente parlare e drittamente scrivere, cioè per parole propie sanza barbarismo e sanza sologismo " o solecismo (B. Latini, La Rettorica, a c. di F. Maggini, Firenze 1915, 34; ibid. 1968², 48. Su quanto D. sia debitore a Brunetto, v. G. Nencioni, D. e la retorica, in D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 91 ss. Che D. conoscesse direttamente la Rettorica di Brunetto ha dimostrato D. De Robertis, Nascita della coscienza letteraria italiana, in " L'Approdo letterario " 31 [1965] 19 ss.) - il Convivio ci dirà (II XI 9) esser triplice la bellezza della canzone: sì per construzione, la quale si pertiene a li gramatici, sì per l'ordine del sermone, che si pertiene a li rettorici, sì per lo numero de le sue parti, che si pertiene a li musici.

La fonte greco-latina (specificaido, oraziana) si scorge nitida nella definizione dantesca del poeta: quando cioè si chiarisce, per dirla con l'Ars poetica di Orazio (v. 307), " quid alat formetque poetam ".

Per D. e il Medioevo, in sommo grado dicendi peritus ha da essere il poeta ‛ tragico ', o di stile elevato o illustre, proprio come l'oratore e il poeta dell'antica concezione stoica; ma anche, e innanzi tutto, come sempre l'oratore e il poeta della concezione stoica degli antichi, ha da essere vere sapiens, vir bonus; dichiarerà concisamente l'Ars poetica di Orazio (v. 309): " Scribendi recte sapere est et principium et fons ". Altrimenti detto, come insegna il De vulg. Eloq. (II I 8 e IV 10), il poeta ‛ tragico ' al naturale ingenium deve mandar congiunta l'ars (retorica e musicale) e la scientia o sapienza, che fa tutt'uno con la filosofia morale; e consultiamo ancora Orazio, nell'Ars poetica (vv. 409-410): " ego nec studium sine divite vena, / nec rude quid possit video ingenium ", oltre che nelle Satire (I IV 43-44): " Ingenium cui sit, cui mens divinior atque os / magna sonaturum, des nominis huius [scil. poetae] honorem ". Il poeta alto, insomma, non può appagarsi delle exornationes (VE II I 9-10), non di un insieme, come si esprimeva sempre Orazio (Ars poetica 322), di " versus inopes rerum magnaeque canorae ", né può confidare unicamente nell'ingenium (VE II IV 10) bensì, anche se ars e ingenium sono le qualità tradizionalmente specifiche della p., deve ascendere, precisando, a celebrare le idealità etiche più elevate (II II 8): prodezza di armi, gioia di amore e rettitudine della volontà (armorum probitas, amoris accensio, directio voluntatis). Questi magnalia o contenuti degni di esser trattati nella forma più alta, come viene interpretato, sono le passioni o disposizioni che si accompagnano allo sforzo con cui l'uomo tende a raggiungere le tre massime finalità dell'anima, l'utile, il delectabile, l'honestum, miranti a loro volta, come a obietti nobilissimi, alla salus, alla venus e alla virtus. Il De vulg. Eloq. così ripiglia, approfondendole, le finalità dell'utilitas e dell'honestum, che al genere deliberativo dell'oratoria erano state assegnate dalla retorica antica (cfr. Rhet. Her. III II 3, e Marigo, De vulg. Eloq. p. CXXIV).

Cioè, secondo l'insegnamento oraziano (Ars poetica): " Aut prodesse volunt aut delectare poetae / aut simul et iucunda et idonea dicere vitae " (vv. 333-334); " Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci, / lectorem delectando pariterque monendo " (vv. 343-344); " Non satis est pulchra esse poemata; dulcia sunto / et, quocumque volent, animum auditoris agunto " (vv. 99-100). Teoria dell'arte moralistica, di stile alto, seguita per secoli.

Puntando ora lo sguardo sul Medioevo predantesco, si avvertirà che le condizioni del creare artistico, quali erano state contemplate dal mondo classico, vengono riassunte da Isidoro di Siviglia e ripetute, per esempio, da Ugo di San Vittore. Diceva Isidoro (Etym. II III 2): " Ipsa autem peritia dicendi in tribus rebus consistit: natura, doctrina, usu. Natura ingenio, doctrina scientia, usus adsiduitate. Haec sunt enim quae non solum in oratore, sed in unoquoque homine artifice expectantur, ut aliquid efficiat ". E Ugo di San Vittore: " Tria necessaria studentibus: natura, exercitium, disciplina ". C'era stato anche chi, a proposito della vecchia questione " natura fieret laudabile carmen an arte " (Orazio Ars poetica 408), aveva affermato la tecnica essere tutto: cfr. Mario Vittorino: " Si ars eloquentiae quattuor rebus constat, natura, usu, exercitatione, arte, necessario artis praecepta in eloquentiam dantur. Quae si deest ars, profecto tria illa multum interdum nocere, nunquam prodesse possunt ". Invece, secondo la tesi equilibrata dell'autore degli Scholia Vindobonensia (che era della scuola di Alcuino), " res una sine altera non potest esse, ideo altera poscit opus alterius " (per tutte queste testimonianze, v. De Bruyne, Études, II, 384-385; L'esthétique, pp. 42, 166).

Quanto all'utile congiunto col delectabile, quanto cioè alla necessità che l'arte sia utile e dolce, si tratta, come si è accennato, d'ideali dell'arte antica accolti da tutta la critica medievale, e ben oltre: operano fin che dura la tradizione classicistica europea. Le testimonianze sono innumerevoli, e si potrebbe incominciare di nuovo da Isidoro di Siviglia, per cui la perfezione sta nell'unire il vero ben sentito, la " sententia veritatis ", con la bellezza formale, o " compositio verborum ": ma se poi i due componenti non armonizzano, " non verba sed veritas est amanda ". Rabano Mauro, che muove appunto da Isidoro, ammonirà che è proprio degli spiriti eletti " in verbis verum amare, non verba "; inoltre, " doctor curare debet ut non solum intelligenter verum, etiam libenter et oboedienter audiatur, idque verbis agat ut veritas pateat, placeat, moveat ". Dall'epoca carolingia in poi appare sempre più evidente che la p. si giustifica solo " per il servigio ch'essa rende alla verità ": la p., di fatto, " non solo insegna ut pictura, ma opera sui sentimenti e le passioni ut musica " (De Bruyne, L'esthétique, p. 196; e per le testimonianze citate, cfr. Études, I 106, 233, 235 n. 1).

I principi della sua arte poetica D. li riepiloga quando, a proposito dei magnalia, proclama (in VE II IV 9-11): Caveat ergo quilibet et discernat ea quae dicimus; et quando haec tria pure cantare intendit, vel quae ad ea directe ac pure secuntur, pria Eliconae potatus [cioè, naturalmente fornito di talento poetico], tensis fidibus ad supremum [cioè, preparato nella scienza e nell'arte], secure plectrum tum movere incipiat [cioè, innalzi il suo canto]. Sed cautionem atque discretionem hanc accipere, sicut decet, hoc opus et labor est, quoniam numquam sine strenuitate ingenii et artis assiduitate scientiarumque habitu fieri potest. Et hii sunt quos poeta Aeneidorum sexto [ai vv. 126 ss.] Dei dilectos et ab ardente virtute sublimatos ad aethera deorumque filios vocat, quanquam figurate loquatur. Et ideo confutetur illorum stultitia, qui arte scientiaque immunes, de solo ingenio confidentes, ad summa summe canenda prorumpunt; et a tanta praesumptuositate desistant, et si anseres natura vel desidia sunt, nolint astripetam aquilam imitari.

Poetica, la dantesca, che, sia considerata stretta ancora al Medioevo o tutta pervasa di spiriti umanistici, si continua con efficacia animatrice lungo i secoli della nostra letteratura.

A parlare, dopo molti altri, " de stilo Patrum et de proportione inter theologiam et poetriam ", si fa il Petrarca nella seconda Familiare a Gherardo (X 4 4), che è della fine del 1349: e dà. il nome " poetes " alla forma artificiata, squisita e nuova - sottilmente lavorata, nobile e rara -, per mezzo della quale dové attuarsi l'antico comporre di contenuto religioso (consistente in vocaboli sublimi e sonanti, in stile remoto dal comune, governato da certe leggi di numero e di armonia); e da " poetes " ricava il nome di ‛ poeta ' (" Id [il comporre uno speciale linguaggio rivolto agli dei] sane non vulgari forma sed artificiosa quadam et exquisita et nova fieri oportuit, quae quoniam graeco sermone ‛ poetes ' dicta est, eos quoque qui hac utebantur, poetas dixerunt "). Il passo della Familiare a Gherardo deriva al Petrarca, com'egli medesimo dichiara, dalle Etimologie di Isidoro di Siviglia (VIII VII 1-3), precisamente dal suo codice isidoriano, ora Parigino lat. 7595, in cui si conteneva appunto, e non in esso solo, la lezione " poetes ", sostituitasi all'originario ποιότης. Proprio questa Familiare, il Boccaccio si era copiata a Padova nel 1351 e tenne ben presente quando difese ed esaltò la poesia, nel Trattatello in laude di D., negli ultimi libri del De Genealogia deorum e nelle Esposizioni sopra la Comedia.

Un richiamo esplicito alla lettura petrarchesca compare appunto nelle Esposizioni (ediz. a c. di G. Padoan, Milano 1965, 34-35), dove vien fatto sapere che il modo di parlare in lode e a preghiera degli dei - artificiosamente composto in versi e che celava gli alti misteri della divinità sotto fabuloso velame -, fu ‛ trovato ' dagli antichi Greci e da essi fu " appellato poetés, il cui vocabolo suona il latino ‛ esquisito parlare '; e da questo poetés venne il nome del ‛ poeta ', il qual nulla altra cosa suona che ‛ esquisito parlatore ' ". Nel Trattatello (ediz. Ricci, Milano-Napoli 1965, 613-614) era già stato scritto che le parole da usare, nei primi secoli, davanti alla divinità, dovevano assumere non " volgar forma o usitata, ma... artificiosa e esquisita e nuova " (nel senso che sappiamo): " La quale forma li Greci appellano poetes; laonde nacque che quello che in cotale forma fatto fosse, s'appellasse poesis; e quegli che ciò facessero o cotale modo di parlare usassono, si chiamassero poeti ". Seguita il Trattatello: " Questa adunque fu la prima origine del nome della poesia, e per consequente de' poeti, come che altri n'assegnino altre ragioni, forse buone: ma questa mi piace più ". Per la ripulsa delle " altre ragioni " si vedano le Esposizioni (messe insieme come il Padoan ha chiarito), dove il Boccaccio respinge ciò che " estimaron molti, forse più da invidia che da altro sentimento ammaestrati ", ossia " questo nome poeta venire da uno verbo poio - pois, il quale, secondo che li grammatici vogliono, vuol dire quanto ‛ fingo, fingis ': il qual fingo ha più significazioni, perciò che sta per ‛ comporre ', per ‛ ornare ', per ‛ mentire ' e per altri significati ". E qui, e nei luoghi paralleli, rifiutando l'etimo poio, il Boccaccio, come pare al Billanovich (Petrarca letterato, I, Lo scrittoio del Petrarca, Roma 1947, 124 n.), " alza la voce contro il De volgari eloquentia ", contro, insomma, la sottile figura etimologica poesis-poita, o, invece, rifiuta l'interpretazione tradizionale e aperta di " molti " (alcuni, per giunta, spinti forse da invidia), tra i quali noi conosciamo i " grammatici " Uguccione da Pisa e Giovanni da Genova?

Le dispute sulla natura e sull'etimo di poesis avevano favorito - ha ragione il Billanovich - il maturarsi di un senso nuovo della professione e dell'espressione letteraria: e l'avvento di un nuovo concetto della p., se però già D. non ne era stato l'instauratore.

Per problemi affini al concetto di p., cfr. anche ESTETICA; FICTIO; POETICA.

Bibl. - Oltre alle edizioni commentate del De vulg. Eloq. e del Convivio, sulle dottrine estetiche di D. si veda: C. De Lollis, La fede di D. nell'arte, in " Nuova Antol. " LVI (1921) 208-217; F. Di Capua, Insegnamenti retorici medievali e dottrine estetiche moderne nel ‛ De vulg. Eloq. ' di D., Napoli 1945 (poi in Scritti minori, II, Roma 1959, 252-355); H. Gmelin, D. und die römischen Dichter, in " Deutsches D. Jahrbuch " XXXI-XXXII (1953) 42 ss.; H. Frenzel, Latinità di D. (Riassunto delle teorie dantesche di E.R. Curtius), in " Convivium " XXII (1954) 16-30; P. Renucci, D. disciple et juge du mondo gréco-latin, Parigi 1954; G. Paparelli, Fictio. La definizione dantesca della p., in " Filologia Romanza " VII (1960) 1-83; R. Assunto, Concetto dell'arte e ideali estetici in D., in La critica d'arte nel pensiero medievale, Milano 1961, 259 ss.; E. Auerbach, Studi su D., traduz. ital. di D. Della Terza, ibid. 1963; I. Baldelli, Sulla teoria linguistica di D., in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 705-713; G. Padoan, D. di fronte all'umanesimo letterario, in " Lettere Italiane " XVII (1965) 237-257; R. Weiss, D. e l'umanesimo del suo tempo, ibid. XIX (1967); E. Paratore, Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, passim; E. Pistello Rinaldi, La musicalità di D., ibid. 1968.

Sulle dottrine estetiche dell'antichità e del Medioevo si veda: H. Gmelin, Das Prinzip der Imitatio in den romanischen Literaturen der Renaissance, in " Romanische Forschungen " XLVI (1932). 83 ss.; A. Monteverdi, Orazio nel Medioevo, in " Studi Mediev. " n.s.; IX (1936) 162 ss.; A. Rostagni, Orazio, Roma 1937; L. Sorrento, Orazio e il Medioevo, in Medievalia, Brescia 1943, 111 ss.; E. De Bruyne, Études d'esthétique, 3 voll., Bruges 1946; ID., L'esthétique du Moyen Âge, Lovanio 1947; G. Vinay, Studi sul Mussato, I, Il Mussato e l'estetica medievale, in " Giorn. stor. " CXXXVI (1949) 113-159; A. Buck, Italienische Dichtungslehren, Tubinga 1952; F. Sbordone, Tre poetiche, Aristotele, Orazio, Filodemo, Napoli 1952; A. Ardizzone, IIOIHMA, Ricerche sulla teoria del linguaggio poetico nell'antichità, Bari 1953; E.R. Curtius, Europädische Literatur und lateinisches Mittelalter, Berna 1948; L. Ronga, Sulla musica profana del Trecento italiano, in Arte e gusto nella musica, Milano-Napoli 1956, 1 ss.; G. Bàrberi Squarotti, Le poetiche del Trecento in Italia, in Momenti e problemi di storia dell'estetica, I, Milano 1959, 255 ss.