POLIBIO

Enciclopedia Italiana (1935)

POLIBIO (Πολύβιος, Polybius)

Gaetano De Sanctis.

Storico greco, nacque di ragguardevole famiglia in Megalopoli, città arcadica allora appartenente alla Lega achea. Il padre Licorta fu più volte stratego della Lega. La data della nascita di P. non è sicura. Sappiamo che nel 181-80 a. C. fu designato a far parte d'una ambasciata in Egitto senza avere ancora l'età legale; doveva dunque essere tra i 20 e i 30 anni, ciò che riporta la sua nascita al 210-200. Quel che riferisce egli stesso intorno a un discorso cui assisté giovanetto tra Filopemene e Arcone (187-6) induce a ritenere il 203 come terminus post quem non, ma è anche probabile che da questa data non ci si debba discostare più di uno o due anni. La questione che parrebbe di poco conto è in realtà di non lieve importanza, come risulterà poi, per la composizione delle Storie e per la temperie storica della loro ultima elaborazione. P. ebbe- educazione liberale e la sua stessa opera rende testimonianza d'una cultura abbastanza larga in materia di poesia, di storia e di filosofia. Figlio di uno dei personaggi dirigenti della Lega, il quale era alla sua volta amico del maggiore uomo politico acheo Filopemene, P. si occupò largamente di politica e d'arte militare acquistando in quest'ultima una speciale competenza tecnica. Per la tendenza pratica del suo spirito egli rassomiglia a un altro storico, Senofonte, del quale peraltro gli manca totalmente la χάρις attica. Circa ventenne, ai funerali di Filopemene (183) ebbe l'onorifico incarico di portare l'urna in cui ne erano racchiuse le ceneri: dopo la sua designazione ad ambasciatore in Egitto non rivestì cariche pubbliche fino al 169-8 nel quale anno ebbe l'ipparchia, la seconda magistratura della Lega achea mentre era stratego Arcone. Ciò che, tenuto conto dell'importanza della famiglia e dell'altezza del suo ingegno, fa ritenere che egli non potesse avere oltrepassato di molto l'età legale di 30 anni. Erano tempi assai difficili per la Lega achea allora alleata dei Romani e in apparenza nel suo massimo fiore. Si combatteva la III guerra macedonica, quella che condusse alla distruzione del regno di Macedonia, ed era chiaro a tutti che la piena vittoria romana su Perseo avrebbe segnato la fine dell'indipendenza greca. Ma d'altra parte tutte le vicende precedenti mostravano il pericolo del dichiararsi contro Roma, tanto più che di tale dichiarazione avrebbero profittato, come attestava l'esempio dell'Etolia, i malcontenti del vigente ordine sociale, proletarî o debitori, che le classi possidenti, spalleggiate dai Romani, erano fino allora riuscite a tenere a segno. Licorta e P. appartenevano al partito patriottico moderato che avversava il prepotere dei Romani, ma non voleva irritarli o insospettirli e preferiva assistere temporeggiando allo svolgersi della guerra. Si evitava così il pericolo d'un conflitto aperto con Roma, non quello che il predominio romano si facesse sempre più pieno e saldo dopo la vittoria su Perseo, inevitabile se il re era abbandonato alle sue forze. E poiché era chiaro che gli Achei non avrebbero rinunziato senza guerra alla propria indipendenza, con questa politica si procrastinava la guerra loro per l'indipendenza ad un periodo in cui, soli a combatterla, non avrebbero avuto la benché minima speranza di vittoria. Comunque, P. fu inviato al console Q. Marcio Filippo che stava ancora in Tessaglia preparandosi a forzare i passi che conducono in Macedonia. Di questa ambasceria parla egli stesso con evidenti reticenze e, pare, non senza alterazioni della verità. Dice che doveva offrire al console soccorsi achei, anzi l'invio della leva in massa degli Achei per appoggiare i Romani. Ma si guardò bene dal fare tale offerta finché il console era in Tessaglia; la fece soltanto quando con una manovra ardita e pericolosissima fu penetrato nella Pieria e Perseo preso dal panico ripiegò a furia dalle posizioni che occupava per operare assai più addietro il concentramento delle proprie forze; ed è ben naturale che il console a cui fu fatta l'offerta la rifiutasse. In seguito, avendo il comandante romano Ap. Claudio Centone, che operava in Epiro, chiesto ausiliarî achei, P. riuscì a impedire che gli s'inviassero e se ne giustifica nelle Storie dicendo d'aver ricevuto a tale riguardo istruzioni segrete dal console Marcio Filippo. Ma queste potrebbero anche essere inventate dallo storico per velare più tardi il suo poco zelo d'allora nell'aiutare i Romani, quando Filippo era morto e non era più in grado di smentirlo. Invece egli appoggiò una richiesta di aiuti fatta dai due Tolomei VI eVII, che allora, riconciliatisi, erano minacciati in Alessandria da Antioco Epifane. Ma tale aiuto, che poteva preludere a relazioni più intime tra l'Egitto e l'Acaia e quindi assicurare all'Acaia un appoggio contro Roma, fu respinto dal partito filoromano. L'anno seguente, il 22 giugno 168, la guerra macedonica fu chiusa dai Romani con la decisiva vittoria di Pidna. Il partito filoromano ebbe dappertutto il sopravvento e con l'appoggio dei Romani prese a perseguitare gli avversarî. Callicrate, che n'era il capo in Acaia, recatosi con l'ambasceria gratulatoria al console Emilio Paolo in Macedonia, denunziando i nemici di Roma, ne fece redigere una lista di oltre mille che dovevano essere puniti del loro atteggiamento politico. Prove di trame ordite da essi con Perseo non si erano trovate, e tuttavia due legati romani mandati all'assemblea federale degli Achei chiesero la condanna di quanti avevano parteggiato contro Roma, riservandosi di dire i nomi dopo che la condanna fosse stata pronunziata. Tale pretesa trovò opposizione, ma si finì col deliberare che tutti i sospetti fossero inviati per giustificarsi in Italia. Così più di mille Achei furono deportati in Italia dove nessuno poi pensò a fare loro il processo che sarebbe stato destituito di qualsiasi base giuridica e dove essi rimasero a confino per lunghi anni, quale nell'una, quale nell'altra città italica (167). Licorta morì probabilmente prima di quella deportazione. P. fu tra i deportati, ma, grazie a L. Emilio Paolo che egli aveva conosciuto probabilmente in occasione della sua visita a Megalopoli, ottenne di rimanere in Roma sotto la sorveglianza del pretore urbano. Qui egli visse in dimestichezza con la cerchia di Emilio e degli Scipioni, e particolarmente coi due figli di Emilio, Q. Fabio Massimo Emiliano e P. Cornelio Scipione Emiliano, con l'ultimo dei quali si strinse in particolarissima amicizia, facendosene, in un certo senso, maestro. Il soggiorno in Roma e il contatto coi maggiorenti romani modificarono a poco a poco le sue idee politiche. Bandito dalla patria perché sospettato d'avversione a Roma, invece di sentir moltiplicare in sé l'odio ai Romani, come avvenne agli altri fuorusciti achei, egli, studiando dappresso le istituzioni dei Romani e le forze di cui essi disponevano, riconobbe il valore di quelle istituzioni e l'immensità di quelle forze e però l'ineluttabilità del predominio romano nel mondo. E riuscito a porsi da un punto di vista superiore a quello del nazionalismo acheo, valutò l'importanza che la costituzione di questo impero, il quale abbracciava ormai quasi tutto il mondo conosciuto, aveva nella storia dell'umanità, e i vantaggi che potevano derivarne.

Fu dunque il primo P. tra quegli stranieri che sentirono il fascino irresistibile di Roma, ma ebbe a trovarsi in una posizione ben più tragica che la maggior parte dei suoi successori, in quanto subendo tale fascino egli deviò dalla linea che gli avevano segnato Filopemene e il padre Licorta e scrisse appunto per consigliare ai suoi cittadini d'abbandonare quella linea, cioè di rassegnarsi al fatale dominio di Roma. Queste disposizioni d'animo, note ben presto ai suoi protettori, gli ottennero favori che non ebbero i suoi compagni di deportazione. Gli fu permesso non solo di muoversi liberamente nel Lazio, ma anche di viaggiare in Italia dove fu ripetutamente a Locri Epizefirî e, grazie ai suoi potenti amici, ottenerne per i Locresi l'esenzione dalle spedizioni navali in Dalmazia e in Spagna. Visitò altresì il tempio di Era Lacinia presso Crotone ed ivi lesse l'iscrizione lasciata da Annibale a ricordo delle sue imprese. Pure a questo periodo, probabilmente sulla fine di esso, spettano i viaggi di P. nella Gallia Cisalpina, nella Francia meridionale, nella Spagna dove visitò Cartagena e il paese dei Lusitani, viaggi i quali gli diedero occasione di traversare le Alpi. Tutte queste regioni o la maggior parte di esse egli percorse con Scipione Emiliano quando questi nel 151 accompagnò volontariamente come tribuno militare L. Licinio Lucullo nella Spagna. Se peraltro il passaggio delle Alpi va collocato in tale occasione, esso si deve riferire al ritorno, non all'andata, che fu certo per mare, a fine di giungere rapidamente nelle provincie spagnole. Scipione fu mandato da Lucullo per chiedere al re numida Massinissa l'invio di elefanti da guerra. Probabilmente allora P. ebbe con Massinissa il colloquio che egli stesso riferisce ed è verosimile che insieme con Scipione assistesse poco dopo a una grande battaglia tra Numidi e Cartaginesi. Nel 150 il senato, che era sul punto d'iniziare la terza guerra punica, credette di placare con un atto di clemenza l'irritazione degli Achei e rinviò nel 17° anno del loro esilio quelli che sopravvivevano dei mille relegati. Tra essi P., il quale peraltro, appena giunto in Acaia, fu dal console Manilio (149), che stava sul punto d'imbarcarsi a Lilibeo per l'Africa, invitato ad accompagnarlo nella spedizione, probabilmente per giovarsi dell'esperienza nelle cose africane che P. aveva acquistato nel precedente viaggio. Ma giunto a Corcira, P., da lettere del console ritenendo che la guerra si sarebbe evitata, tornò addietro per poi riprendere la via dell'Africa più tardi, mentre si svolgeva la terza guerra punica. Fu allora nel campo di Scipione Emiliano che, fatto console, assediava Cartagine (147), e assisté alla conquista e alla rovina della città ascoltando in quel momento dalla bocca dell'Emiliano le famose parole presaghe sul destino dei popoli (146). Poco dopo la caduta di Cartagine venne dall'amico mandato con una piccola squadra navale a esplorare le coste settentrionali dell'Africa e, oltre le colonne d'Ercole, quelle occidentali della Mauretania. Mentre egli era così nel campo di Scipione prestando ai Romani la sua opera, scoppiava la guerra tra gli Achei e Roma che terminò con la dissoluzione della Lega achea (v. acaica, guerra). Al suo ritorno in patria P. trovò Corinto distrutta e si adoperò per lenire le sofferenze dei suoi connazionali. Dai vincitori ebbe poi un mandato di fiducia per dare assetto alla Grecia vinta e sembra che nella sua esperienza e nel realismo della sua politica trovasse il modo di soddisfare, per quel che era possibile, tanto i vincitori quanto i vinti. Non è dubbio che tornò più tardi in Italia forse anche per rendere conto al senato romano della propria missione. Non sembra però che accompagnasse Scipione Emiliano nel suo grande viaggio in Oriente, nel quale questi ebbe al suo seguito il filosofo Panezio (140-38). Ma, come scrisse una storia della guerra numantina, così è probabile che fosse nel campo di Scipione quando assediò e distrusse Numanzia (134-3). I suoi ultimi viaggi in Italia e le conversazioni che ebbe con Scipione verso il termine della vita di lui permisero a P. di farsi un'idea delle trasformazioni che erano avvenute in Roma per effetto della conquista. All'amico sopravvisse, perché ne lasciò nelle Storie un elogio che sembra presupporne la morte (129). Chiuse la sua vecchiaia vegeta e laboriosa, morendo per una caduta da cavallo a 82 anni, qualche anno prima del 120 a. C.

P. scrisse un libro, come già si è veduto, intorno alla guerra numantina, certo negli ultimi anni della sua vita. Sua opera giovanile invece fu un libro su Filopemene di carattere panegirico, scritto probabilmente non molto dopo la morte del grande stratego acheo (183), e un libro di tattica forse composto nei primi tempi dell'esilio in Roma. Ma questi libri sono perduti, sebbene dello scritto su Filopemene qualcosa ci sia conservato nella "vita" plutarchea. Conservata invece forse per un quarto è l'opera principale di P., le sue Storie, nelle quali si propose di narrare, secondo avverte egli stesso, come in meno di 53 anni (cioè dal 220-19 al 168-7) i Romani sottoposero al loro predominio il mondo conosciuto. Dà quindi principio alla sua opera col primo anno dell'olimpiade 140 (220-19), ma per la migliore intelligenza dei fatti che narra vi premette una prefazione (προκατασκευή) in due libri diretti soprattutto a illustrare le imprese dei Romani dal primo loro passaggio in Sicilia in poi, cioè dall'ol. 129 all'ol. 139 (264-3-221-20). Così aveva il vantaggio sia d'informare i lettori greci di questo periodo poco conosciuto della storia dell'Occidente, sia di collegare il principio delle sue Storie alla fine delle Storie di Timeo che giungevano appunto al 265-4. Nel primo libro egli narra la prima guerra punica e la guerra dei Cartaginesi coi loro mercenarî; nel II la guerra illirica e l'ultima guerra gallica dei Romani con una digressione intorno alle precedenti guerre galliche e intersecandovi il racconto delle imprese dei Cartaginesi in Spagna; poi, accennato alla necessità di dare anche un'introduzione alle vicende elleniche che narrerà nei libri seguenti, schizza una breve storia della Lega achea e racconta la guerra degli Achei e di Antigono Dosone contro Cleomene II re di Sparta. Come si vede, in questi due libri P., pure basandosi sul computo delle olimpiadi, non segue un rigoroso ordine cronologico; invece nel corpo dell'opera che comincia dal libro III l'ordinamento cronologico dei fatti per olimpiadi è rigorosamente rispettato con alcune eccezioni, p. es., per l'Egitto fino agli ultimi anni della II punica che l'autore giustifica egli stesso ai lettori. Sul principio, per l'ol. 140 P. narra ancora i fatti dei varî teatri per tutta la durata dell'olimpiade, sicché il libro III contiene le vicende di Cartagine e di Roma dalle guerre spagnole alla battaglia di Canne (216), e i libri successivi IV-V contengono le vicende svoltesi nella stessa olimpiade nell'Oriente ellenico, cioè la guerra sociale degli Achei e la cosiddetta quarta guerra di Celesiria fra Antioco III il Grande e Tolomeo IV Filopatore. Ma poi a partire dall'olimpiade 141 la distribuzione dei fatti diviene rigorosamente annalistica, onde un libro può comprendere secondo l'abbondanza della materia uno, due, tre o quattro anni, ma per ciascun anno l'autore espone successivamente le vicende di tutti gli stati, dei quali si occupa. Così, p. es., a partire dall'ol. 141, 1 (216-5) fino all'ol. 143, 4 (205-4) ogni libro dedicato alla storia dei fatti abbraccia due anni olimpici, mentre i libri XIV e XV che narrano le ultime vicende della grande guerra, e cioè essenzialmente la spedizione di Scipione in Africa, abbracciano un anno per ciascuno, rispettivamente l'ol. 144, 1 (204-3) e l'ol. 144, 2 (203-2). In modo analogo egli procede dal libro XVI al XXIX dove narra coi loro precedenti la II guerra macedonica, la guerra siriaca e la III guerra macedonica fino alla catastrofe di Pidna, cioè dall'ol. 144, 3 (202-1) all'ol. 152, 4 (169-8). Ma, come avverte nella prefazione del libro III, del valore di un dominio non si può giudicare che esaminando in quali modi esso si esercitò. Questo programma svolge P. nei quattro libri seguenti XXX-XXXIII dedicati ciascuno a una delle olimpiadi 153-156 (168-7-153-2). E poiché dopo quegli anni in Spagna, in Africa, in Grecia vi fu una ripresa della lotta contro Roma che terminò col pieno consolidamento del dominio romano e in particolare con la distruzione di Cartagine e di Corinto, a questi fatti e alle loro conseguenze, cioè all'assetto dato dai Romani ai paesi vinti P. dedica ancora 5 libri, dal XXXV al XXXIX, abbracciando in essi le due olimpiadi 157 e 158 (152-1-145-4). Quest'accurata e bene equilibrata disposizione dei fatti è resa anche più perspicua dall'inserzione di alcuni libri (VI, XII, XXXIV) che interrompono a tempo opportuno la narrazione fissandone in certo modo i punti d'arresto e riposando il lettore, mentre gli forniscono chiarimenti, sia intorno alle ragioni dei fatti, sia intorno alle intenzioni dell'autore, sia intorno al teatro dove i fatti si svolgono. Così assai acconcia è al libro VI, subito dopo il racconto della battaglia di Canne, l'esposizione delle istituzioni romane e il loro raffronto con quelle dei Cartaginesi e dei Greci, ciò che è diretto a spiegare come i Romani, nonostante le disfatte della Trebbia, del Trasimeno e di Canne, poterono resistere ai Cartaginesi e riportare su di essi una definitiva vittoria. E del pari, nel tempo in cui le sorti della II punica sono virtualmente decise dai successi in Italia e in Spagna, e se ne prepara la chiusa con la spedizione trionfale di Scipione, viene opportuna a riposare il lettore, dopo il racconto di tante battaglie, l'inserzione del libro XII dove, polemizzando con gli storici precedenti e contrapponendo l'opera sua, P. illustra i criterî che lo hanno guidato a chiarire il valore e il significato della storia universale e prammatica, come egli la intende. Quindi, dopo i cinque libri in cui sono esposte le condizioni del mondo mediterraneo sotto il predominio romano, e prima degli altri cinque che narrano l'estrema resistenza contro questo predominio e la catastrofe di Cartagine e della Lega achea, s'inserisce opportunamente il libro XXXIV destinato a illustrare la geografia di quell'impero appunto di cui P. ha raccontato la fondazione e sta per illustrare il consolidamento definitivo. Infine doveva assai facilitare l'uso dell'opera polibiana l'ultimo libro, il XL, che ne conteneva una ricapitolazione insieme con uno specchio cronologico delle vicende narrate.

Disgraziatamente di questa opera non si conservano integri che i primi cinque libri. Per gli altri, prescindendo dai frammenti conservati in varî scrittori antichi, suppliscono in qualche modo gli estratti trasmessi negli Excerpta historica, raccolti nel sec. X a cura dell'imperatore Costantino VII Porfirogenito (v.): una vasta collettanea della quale sono conservati in tutto o in parte sette libri, i due degli Excerpta de legationibus, di cui abbiamo varî manoscritti in biblioteche italiane, francesi e spagnole, tutti provenienti da un unico manoscritto escorialense perduto; gli Excerpta de virtutibus et vitiis, provenienti da un codice di Tours (cod. Turonensis o Peirescianus) e conosciuti anche dal nome del primo editore H. Valois come Excerpta Valesiana; gli Excerpta de sententiis, pubblicati da A. Mai di su un palinsesto vaticano, e perciò chiamati anche Excerpta Vaticaina; gli Excerpta de insidiis, detti pure Excerpta Escorialensia dal codice che li conserva; infine alcuni Excerpta περὶ στρατηγημάτων καὶ πολιορκιῶν, desunti da un codice del Monte Athos ora a Parigi. Inoltre abbiamo una serie di estratti presi dal solo Polibio per i libri I-XVIII, escluso il XVII che già nel sec. X era perduto, i quali probabilmente erano preparati appunto per essere poi distribuiti nelle collettanee di Costantino. Essi sono conservati in un codice urbinate e si citano col nome di Excerpta antiqua. Molto altro a compimento di questi frammenti si può desumere dagli scrittori che hanno usato P. e particolarmente da Livio; ma di ciò a suo luogo.

L'impressione che fece a P. nel suo esilio in Roma la potenza romana, l'ammirazione che suscitarono in lui le istituzioni della grande repubblica, la luce che dall'esame di queste istituzioni e dalle conversazioni coi maggiorenti romani si fece nel suo spirito intorno alle ultime vicende greche nelle quali egli stesso era stato implicato e in generale sulle cause profonde dello stabilirsi del predominio romano sul mondo conosciuto, fero di P. lo storico di tale predominio. La sua fu nello stesso tempo la prima storia universale che mai sia stata scritta; universale, s'intende, nel senso che abbracciava, almeno virtualmente, tutti i paesi conosciuti. Universale in tale senso era stata già la storia di Eforo che P. riconosceva come il suo unico precursore, e anche quella di Anassimene che egli dimenticava. Ma qui vicende di Greci e di barbari, e nella stessa storia greca vicende della madre patria e delle colonie erano giustapposte senza alcun nesso organico; non dunque vera storia universale, ma somma di storie particolari. Nella storia di P. invece il nesso tra le vicende d'Italia, di Spagna, di Sicilia, d'Africa, di Grecia, di Macedonia, d'Asia, di Siria e d'Egitto era dato dalla politica romana che in tutte queste regioni operava con le arti della pace o della guerra, tutte sottoponendole al predominio di Roma, sicché c'era nell'opera un filo conduttore e un'idea dominante. E la sintesi tra il concetto di storia di Roma e di storia universale, mentre dava a quello un valore nuovo, dava a questo una organicità cui non era stato capace fino allora di assurgere. S'intende che la sintesi non sempre riesce perfetta e che qualche cosa ne rimane fuori: talora la concezione polibiana sembra pendere di più verso l'uno dei suoi poli, Roma, talora verso l'altro, il mondo, perdendo di vista la loro unità. Ciò accade, p. es., nei due libri proemiali dove quanto è giustificato il racconto sommario della prima punica e della guerra di Cartagine coi mercenarî a preparazione e chiarimento della seconda punica, altrettanto pare non bene inquadrato e giustificato, se non per fare contrappeso in qualche modo con la narrazione di vicende orientali a quella di vicende occidentali, il diffuso racconto della guerra cleomenica di Arato e di Antigono Dosone; e anche nei libri IV e V non è riuscito all'autore di congiungere le vicende orieritali con quelle della seconda punica, presentandole in modo più netto come prefazione alla storia delle guerre macedoniche e della guerra siriaca dei Romani.

Ma queste erano deficienze quasi inevitabili, scorie rimaste fuori nell'opera di fusione, le quali tanto più fanno risaltare il pregio e la difficoltà di quest'opera. Essa, quale tentativo di una storia universale, è rimasta unica nell'antichità con la sola eccezione forse della storia di Posidonio che, continuando Polibio, ne aveva davanti a sé l'esempio circa il filo conduttore con cui legare la narrazione delle vicende d'Oriente e d'Occidente, dei Greci, dei Romani e dei barbari, legame che al tempo di Posidonio s'era fatto in tanto più stretto in quanto più saldo e più pieno s'era venuto affermando nel mondo mediterraneo il dominio romano. Se poi Posidonio, oltre il nesso reale di questo dominio riuscisse a dare alla sua storia un nesso ideale, considerando secondo la dottrina stoica le vicende umane come vicende di una unica πόλις abbracciante tutti gli uomini e retta dalla provvidenza (πρόνοια) divina, non sappiamo. Certo in Diodoro, che nel proemio della sua Biblioteca storica ha ripreso e fatto suo questo motivo della storiografia stoica, esso è rimasto puramente esteriore ed inoperante, sicché la sua storia ê tornata ad essere quel che era stata la storia universale di Eforo, una somma di storie particolari slegate. Lo stesso sembra si possa dire della grande compilazione pubblicata col nome di Storie da Niccolò Damasceno (v.). E lo sforzo per costruire una storia universale non s'è rinnovato che assai più tardi, con presupposti assai diversi, sul fondamento dell'idea cristiana.

Ciò mostra l'immensa importanza che l'opera di P., sorta nel momento in cui la scienza greca raggiungeva il suo punto culminante, ha nella storia della storiografia. In tutta la storiografia greca la sola opera che stia accanto a quella di P. per altezza di concepimenti e in qualche parte la superi, è la storia di Tucidide. Questa la supera per la prodigiosa lucidità mentale, per il πάϑος profondo, per il senso attico dell'armonia. Ma P. ha su Tucidide il vantaggio della visuale scaltrita dalla ricchezza d'esperienze che lo spirito greco ha acquistato nel campo teoretico e nel pratico, e ha inoltre il vantaggio dell'argomento che è il complesso di vicende più grandioso che presenti la storia antica svoltosi in quel mondo mediterraneo la cui conoscenza, limitatissima al tempo di Tucidide, si era fatta allora piena per effetto della conquista di Alessandro prima e della conquista romana poi. Ciò dà appunto la misura dell'importanza che l'opera di P. ha nel suo contenuto. Osservatore straniero, preparato dai suoi studî e dalla vita politica, egli ha indagato le istituzioni repubblicane di Roma nel momento del loro massimo fiore; le ha descritte ed analizzate tanto più accuratamente in quanto per lui non erano istituzioni patrie e ben note, quali erano, ad es., per Fabio Pittore. Sicché doveva chiarirle a sé e agli altri mediante il raffronto continuo con le istituzioni diverse che a lui erano più familiari; in modo che le sue testimonianze sulle istituzioni romane nel libro VI sono per noi di valore inestimabile e senza di esse ci sarebbe assai difficile renderci ragione di quel fatto capitale nella storia dell'umanità che fu la conquista romana. E si deve concludere col Mommsen che "non può forse indicarsi nessuno scrittore dell'antichità cui dobbiamo tanta e sì seria copia d'insegnamento come lui. I suoi libri sono come il sole in questo campo; dove essi cominciano si leva il velo di nebbia che copre ancora le guerre sannitiche e la guerra di Pirro, e dove essi terminano comincia una nuova oscurità, se è possibile, anche più fastidiosa".

Alla sua opera P. attese con amore, anzi con vera dedizione. Spezzata la sua carriera politica dalla relegazione in Italia, egli trovò nel trasformarsi di politico in storico, come Tucidide, il conforto e il contenuto della sua vita. Come per Tucidide così per lui, la storia non poteva essere che storia contemporanea. Osservando e interrogando, l'uno e l'altro storico si sforzavano di rendersi conto delle vicende di cui erano spettatori ed attori; ricerche archivistiche P. che visse in età erudita non mancò di farle. Ebbe tra mano documenti importanti come i trattati tra Roma e Cartagine o l'iscrizione posta da Annibale nel tempio di Era Lacinia. E li adoperò non semplicemente inserendoli nel racconto, ma discutendoli e commentandoli con quegli avvedimenti che il suo senso critico di scrittore ellenistico gli suggeriva. Fece anche uso di fonti scritte e non è dubbio anzi che sulle fonti scritte sono costruiti in tutto o quasi i cinque libri, quelli conservati, dell'opera sua. Ma una gran parte dell'opera, almeno dalle vicende posteriori alla battaglia di Magnesia, è costruita da lui stesso su ricordi personali, su testimonianze orali e su documenti, e non è dubbio che anche per tutto il periodo precedente, a partire dall'inizio della seconda guerra punica, le fonti scritte sono state corrette e compiute mercé le conversazioni con uomini che avevano assistito ai fatti o che li avevano sentiti narrare dai loro attori; così, per es., in particolare per la storia del primo Africano o per quella dei fatti in cui ebbe parte Filopemene. E perciò, sebbene le fonti scritte siano per il periodo della seconda guerra punica di gran lunga predominanti sulle altre, sarebbe affatto erroneo ridurre, come pure si è tentato di fare, questa parte delle Storie di P. a una meccanica giustapposizione di brani desunti da Fabio Pittore e da fonti grecocartaginesi. Qui egli crede, per mezzo delle testimonianze orali, di potersi in certo modo rendere contemporaneo ai fatti narrati e si sforza quindi di ricostruire elaborando così risolutamente le fonti da fonderle nel crogiuolo della sua intuizione storica. Altra cosa quando i fatti sono lontani e non lo interessano che mediocremente, e a ogni modo egli non può ricostruire per mezzo d'esperienze sue o degli altri l'ambiente in cui si svolsero e non ha su di essi tradizioni che gli diano il senso dell'immediatezza. Questo vale soprattutto per il libro I. Male ci faremmo un'idea del valore di P. come storico dal suo racconto della prima guerra punica. Qui egli aveva davanti a sé due fonti diverse di valore e di età, il romano Fabio Pittore e Filino di Agrigento, ufficiale greco al servizio di Cartagine, posteriore il primo, contemporaneo il secondo ai fatti che narrava. Né sfuggiva al senso critico di P. la parzialità di Fabio per i Romani e quella di Filino per i Cartaginesi e la necessità di correggere l'uno con l'altro. Ma eġli non si risolvette a ricerche approfondite e si appigliò al criterio piuttosto sbrigativo, sebbene non destituito di fondamento, di usare soprattutto Fabio quando si trattava di vere vittorie romane, Filino quando si trattava di vere vittorie cartaginesi. Questo criterio peraltro egli usò in modo troppo meccanico e non riuscì che a sovrapporre estratti presi ora dall'uno ora dall'altro, in parte contradditorî, non avvedendosi neppure di dare due racconti inconciliabili della stessa battaglia di Mile, l'uno di fonte romana, l'altro di fonte cartaginese, che egli prende per racconto di due diverse battaglie.

Ma prescindendo dalle perdonabili imperfezioni del libro I, nuoce, quantunque in misura ristretta, all'attendibilità dell'opera, la sua tendenza. Egli fa professione di veracità, anzi non si sazia di biasimare chi, come Timeo, ha talora tendenziosamente alterato i fatti proclamando che la verità è l'occhio della storia. Ma d'altra parte non nasconde che si propone con le sue Storie di mostrare ai connazionali l'ineluttabilità del dominio romano e d'indurli a rassegnarvisi, e non nasconde neppure la sua caldissima amicizia per Scipione Emiliano e in genere le sue relazioni con la cerchia di Paolo Emilio e degli Scipioni. La tendenza favorevole agli Scipioni trapela ad ogni passo della sua opera, e l'odio verso quegli Achei che hanno condotto la Lega acaica alla guerra con Roma si palesa feroce ed inesorabile, specie contro Critolao e Dieo, sebbene essi per i loro ideali abbiano dato la vita. E sia nel caso delle imprese degli Scipioni sia nel caso dei suoi avversarî achei, non solo la parzialità si manifesta nei giudizî non equi, ma sembra talora che porti anche a una certa alterazione dei dati di fatto o almeno alla propensione ad accreditare versioni dei fatti non corrispondenti alla verità. Lo stesso è da dire dei suoi giudizî intorno agli antichi avversarî degli Achei, gli Etoli, ai maggiori loro uomini politici, a Filippo V di Macedonia, se si trova in contrasto con la politica achea, ai politici macedoni ostili ad Arato, mentre, parlandosi d'Arato o di Filopemene, il tono è di regola apologetico, se non addirittura panegiristico, sia pure che non sfuggano in tutto a P. le deficienze dei due statisti. Ma conviene dire che queste sono nel complesso eccezioni e che P. stesso ci dà il modo di riabilitare le sue vittime, precisamente come Tucidide ci offre gli elementi per un giudizio più equo del suo intorno a Cleone.

La storia di P. si limita rigorosamente ai fatti di politica e di guerra di popoli e di principi con quelle delucidazioni istituzionali e geografiche che egli ritiene necessarie alla loro intelligenza. In tal senso preciso, non in quello più largo in cui adoperiamo la parola noi moderni, egli chiama la sua una storia prammatica. Anche qui segue consapevolmente Tucidide allontanandosi da gran parte della storiografia posteriore e solo dà alla politica interna quel posto che essa, prescindendo dalle rivoluzioni, non ha ancora conquistato nell'opera tucididea. Per il resto di costumi, di curiosità, di caratteristiche personali P. non si occupa di regola se non nei limiti strettissimi del suo interesse per vicende politiche e guerresche. E un aneddoto come quello della vendetta che fece del proprio onore la principessa galatica Chiomara è nelle sue Storie più unico che raro. La sua rinunzia agli effetti drammatici, pur narrando vicende tanto fortunose, è ferma e risoluta. Il suo odio alla retorica in un ambiente letterario saturo di retorica come quello della letteratura ellenistica è pure inesorabile. L'aneddoto piccante che tanto piace agli storici, e particolarmente ai biografi ellenistici e che sul loro esempio non è sdegnato neppure da Plutarco, è da P. consapevolmente respinto. Tutto ciò giova nell'insieme a dare ala sua opera quel carattere di profonda serietà che la contrassegna; se non che esso s'accompagna con una inamenità, con una prosaicità, con una secchezza spirituale che non solo stanca il lettore, ma nuoce alla freschezza e compiutezza dell'intuizione storica. Nemico della retorica, è però P. scrittore d'una verbosità quasi senza limiti, specie quando svolge considerazioni d'un moralismo banale. A ciò si aggiunga la meschina e noiosa vanità con cui esalta a ogni piè sospinto i pregi dell'opera sua e l'acre litigiosità con cui nel libro XII deprime gli altri storici e in particolarmente Timeo. Del quale ben si capisce come gli ripugnasse la bolsa retorica e come non apprezzasse l'erudizione libresca, ma è facile vedere poi quanto nei biasimi particolari vi sia di esagerazione e di malevolenza, manifestandosi anche qui la mancanza di generosità che è una delle caratteristiche di P. Ma quella profonda serietà, della quale i difetti sopra enumerati non rappresentano che le ombre, si palesa soprattutto nell'impegno con cui indaga le cause, pur se questa ricerca ne sia alquanto meccanica e schematica e stacchi un po' troppo tra loro le cause dai fatti astrattizzandole. Tuttavia non c'è dubbio che egli si sforza di penetrare a fondo nell'intelligenza dei nessi causali distinguendo, come fa nel libro III per la seconda guerra punica, le vere cause (ἀιτίαι) dai pretesti (προϕάσεις), dagl'inizî o, secondo forse potremmo meglio tradurre, dalle occasioni (ἀρχαί). È del resto quella di P. una storia puramente umana. Per lui è segno di pigrizia mentale o d'inettitudine l'ascrivere i fatti alla fortuna o alla divinità quando una ricerca più approfondita può chiarire le cause umane o naturali, e al più alla fortuna o alla divinità si attribuiranno quelle vicende di cui sarebbe difficile assegnare le cause precise, come le epidemie o i terremoti. Pure dopo avere fatte esplicitamente tali riserve, lo storico, appunto perché non teme di essere frainteso, non si fa scrupolo di adoperare come espressione di comodo quella che la fortuna cagionò tali o tali altri fatti e sul principio stesso delle Storie dice che la fortuna compì opera mirabile quale mai non s'era vista riducendo il mondo sotto il dominio romano; ma chiarisce egli stesso il significato della frase promettendo d'indicare di quell'avvenimento le ragioni e i modi. Non si possono quindi prendere in senso diverso le espressioni similari sparse qua e là nei suoi libri quando esalta Demetrio di Falero che aveva predetto "con bocca divina" le variazioni di fortuna a cui sarebbe andato soggetto il regno di Macedonia allora nel massimo fiore, o quando sul termine delle Storie augura la stabilità delle sue presenti condizioni felici, pur conoscendo che la fortuna instabile è la nemica dei buoni. Espressioni del resto diverse da queste e più impegnative, come l'uso della parola πρόνοια (provvidenza), egli evita accuratamente. Anzi riguardo alle religioni popolari non esita a manifestare il suo scetticismo, pure dicendo che debbono essere rispettate per la benefica influenza che possono avere sull'animo delle folle, e pure mettendo in luce l'importanza che per i successi dei Romani ha avuto la loro δεισιδαιμονία: termine difficile a tradurre con cui si designa con una venatura di compatimento qualcosa di mezzo tra la pietà e la superstizione. Poste tali premesse, s'intende che ogni forma di misticismo per P. non può essere che un'illusione propria o un modo d'illudere gli altri.

L'opera di P. non è opera di getto. Quando egli stesso nella sua introduzione dichiara di voler scrivere la storia dei 53 anni non interi, in cui il mondo fu ridotto sotto il dominio romano, mostra che si proponeva originariamente di giungere solo dal 220-19 al 168-7, cioè all'ordinamento dato da Emilio Paolo alla Grecia e alla Macedonia dopo la battaglia di Pidna. Nel proemio del libro III invece egli avverte che questo è bensì il suo scopo, ma che per ben valutare gli effetti del predominio di Roma narrerà come si esercitasse negli anni successivi, e poi, quasi fatto un nuovo principio, aggiungerà il racconto delle vicende che condussero al suo definitivo consolidamento, soprattutto la terza guerra punica e la guerra acaica, e il nuovo assetto della Grecia e dell'Africa. In questo stesso luogo del libro III si vede che l'indicazione del nuovo proposito rappresenta un ritocco, vale a dire, come è naturale, P. aveva già steso, in parte almeno, la storia che egli si proponeva di narrare, quando lo svolgersi ulteriore degli avvenimenti lo indusse ad allargare il piano dell'opera sua. Ed egli allora non si limitò ad aggiungere una parte nuova, cioè almeno i libri XXX-XL (il libro XXX, se già lo aveva scritto, dovette essere rifatto con altri intendimenti e contenuto), ma anche elaborò qua e là, tenendo conto delle esperienze ultime, i libri precedenti. Ora queste esperienze modificarono in parte i giudizî di P. intorno a Roma e ai suoi ordinamenti, e perciò il distinguere nell'opera polibiana le tracce delle due stesure non è pura curiosità filologica, ma ha grande importanza per, intendere sia l'evoluzione spirituale di P. sia la diversa temperie storica in cui egli attese all'opera sua. Per tale rispetto ha molto peso lo studio del libro VI. In esso si presentano intorno al valore della costituzione romana e al suo posto tra le costituzioni due vedute antitetiche. Secondo l'una essa è una costituzione mista di monarchia, aristocrazia e democrazia, e però non soggetta alle cause di decadenza cui vanno incontro le costituzioni pure, ha carattere di stabilità e non solo è in grado di resistere alle perturbazioni provenienti dai pericoli esteriori, ma anche al pericolo che portano con sé la pace e la sicurezza. Secondo l'altra essa è soggetta alle stesse vicende cui vanno incontro le altre costituzioni, ed ha avuto il suo massimo fiore nell'età della guerra annibalica, quando predominava per mezzo del senato l'elemento aristocratico, ma corrompendosi l'aristocrazia e ora opprimendo ora lusingando le plebi, si può con sicurezza prevedere che l'ordinamento muterà e che, sotto i bei nomi di libertà e di democrazia, finiranno col prendere il sopravvento le folle e si avrà il peggiore dei governi, l'oclocrazia. Entrambi i giudizî sulla costituzione romana sono inquadrati in una diversa teoria generale delle costituzioni. Presupposto di ambedue le dottrine è che vi sono tre costituzioni semplici buone, la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia, e tre cattive, la tirannide, l'oligarchia e l'oclocrazia. Secondo l'una delle due dottrine ciascuna delle costituzioni buone rischia continuamente di trasformarsi in una corrispondente costituzione cattiva. Tale pericolo è evitato nelle costituzioni miste dove il potere monarchico, quello degli ottimati e quello del popolo, si equilibrano impedendosi scambievolmente di oltrepassare i limiti. Una siffatta costituzione diede a Sparta Licurgo e ad una costituzione mista giunsero a poco a poco, senza consapevole azione di legislatori, i Romani. Simili nella stabilità queste costituzioni possono essere comparate per la loro maggiore o minore efficienza, specie rispetto ai pericoli esterni. Così il legislatore di Sparta bene ha provveduto alla politica interna non all'esterna: e a Cartagine, che pure ha una costituzione mista le istituzioni sociali e militari sono di gran lunga inferiori che a Roma. Ma secondo un'altra teoria, che cozza con la prima, le sei costituzioni formano un ciclo che si rinnova perennemente; si passa del continuo dall'una all'altra senza possibilità d'arresto, e quando si sappia a qual punto è uno stato dell'evoluzione costituzionale, si può prevedere quali saranno le sue vicende costituzionali successive. A questa legge non si sottrae neppure la costituzione romana. Essa era nel suo massimo fiore al tempo della seconda guerra punica predominandovi allora l'aristocrazia, mentre Cartagine declinava prevalendovi il demo. Onde si può prevedere quale sarà, oltrepassata la ἀκμή, l'evoluzione ulteriore degli ordinamenti costituzionali romani. La sola spiegazione di questa non sintesi, ma accozzamento di due teorie contradditorie è che il libro ha avuto due redazioni. La prima rispecchia l'impressione che fecero all'esule acheo gli ordinamenti romani durante la sua relegazione in Italia, la seconda, assai diversa, rispecchia impressioni e giudizî più tardi, ed è probabilmente nel vero E. Meyer ritenendo che si tratti d'impressioni suscitate dalle turbolenze che accompagnarono e seguirono il tribunato di Ti. Gracco. Ciò che può conciliarsi assai bene con la cronologia della vita di P., purché la sua nascita si collochi intorno al 203 e non un decennio prima o quasi. Di tali turbolenze sembra infatti trovarsi un'altra traccia palese in un luogo del libro II in cui si considera la legge agraria di C. Flaminio come il principio della declinazione in peggio del popolo romano. Tale mutato convincimento di P. ha dato luogo a un parziale abbozzo della seconda redazione del libro VI; ma probabilmente questo parziale abbozzo non è stato condotto a termine e l'autore dell'edizione definitiva, che fu postuma perché vi è persino inserito al libro XXXlX un breve necrologio dello stesso P., ha conservato in gran parte il testo della prima redazione, introducendovi solo qua e là le note preparate da P. per l'ultima. E lo stesso si deve dire per le tracce, del resto assai minori, d'una seconda redazione che si trovano nei libri precedenti al VI. Ma se si deve ritenere che i primi sei libri erano stati già pubblicati da P. durante il periodo della sua relegazione in Italia, è incerto però fino a qual punto si estendesse la prima stesura dell'opera e se egli, innanzi di por mano alla seconda redazione, realmente avesse compiuta la prima giusta il proposito originario, giungendo all'assetto dato alla Grecia e alla Macedonia dopo la battaglia di Pidna. È probabile peraltro che almeno 15 libri, cioè quelli contenenti la storia della seconda guerra punica, fossero pubblicati in prima edizione, e nulla impedisce di credere che, se non durante il suo esilio in Italia, almeno dopo il ritorno in Grecia, l'opera fosse compiuta fino al 168-7. Nel qual caso sarebbe da ritenere che si chiudesse con un XXX libro diverso dall'odierno e destinato in massima parte a una ricapitolazione dell'opera analoga a quella cui nell'ultima stesura è dedicato il libro XL. Ad ogni modo non sono pochi i passi dei primi libri, compreso il VI, nei quali Cartagine e la Lega achea sono presupposte ancora come esistenti e tutta in genere quella parte dell'opera appare ispirata al desiderio e alla speranza che le condizioni del Peloponneso, unificato dagli Achei, rimangano inalterate, accettandosi lealmente da questi il predominio romano. Molto si è del resto esagerato, particolarmente da R. Laqueur, circa le tracce delle successive stesure che sarebbero rimaste nell'opera di P., e si è cercato anche di delineare in base ad esse un'evoluzione non solo nei giudizî politici concreti di P., ma anche nelle sue dottrine filosofiche le quali avrebbero subito sempre più l'influsso dello stoicismo e in particolare di Panezio. In realtà se in P. non manca qualche traccia della terminologia filosofica in us0 ai suoi tempi, in massima egli ha schivato qualsiasi posizione impegnativa intorno a teorie filosofiche particolari. La sola eccezione è forse quella del libro VI, ma anche qui le dottrine filosofiche circa le costituzioni gli hanno servito soprattutto per inquadrare teoricamente e precisare le due vedute politiche che egli ha avuto intorno alla costituzione romana. Peripatetica e in particolare ispirata a Dicearco sembra essere la sua dottrina sul pregio e sulla stabilità delle costituzioni miste: stoica e in particolare attinta a Panezio sembra invece la dottrina del corso e ricorso (ἀνακύκλωσις) delle costituzioni che ben si associa con la dottrina stoica dei ricorsi cosmici.

Molto importante, per lo studio degli avvenimenti narrati da P., è farsi un esatto concetto della sua cronologia. Sono a questo proposito assai disparate le opinioni dei moderni. P., come si è detto, dispone i fatti secondo gli anni di ogni olimpiade, ma non ha una norma fissa e rigida nel segnare il limite tra un anno e l'altro. Qualche volta ha trovato registrata nelle sue fonti a suo luogo tra i fatti peloponnesiaci la celebrazione delle feste olimpiche, e allora s'è indotto a far ivi il taglio anche se questo cadeva in medias res. Più sovente, specie mancandogli notizie precise di tal genere e non curandosi egli dei minuti computi cronologici, ha condotto a termine il racconto della campagna iniziata in un dato anno olimpico fino al momento in cui gli eserciti prendevano i quartieri d'inverno. Questa data intorno all'equinozio d'autunno, mentre non si allontanava dal principio dell'anno olimpico, aveva il vantaggio di coincidere con l'entrata in carica del nuovo stratego etolico e, dal 217, del nuovo stratego acheo, cioè con l'inizio dell'anno ufficiale delle due maggiori leghe greche, che alla sua volta poco si discostava dall'inizio dell'anno macedonico. Ragioni ovvie poi di composizione interferivano con queste direttive: così s'intende come il libro III terminasse il racconto delle vicende italiane con la rotta di Canne e il VII la riprendesse con la ribellione di Capua. Sicché la fine dell'anno ol. 140, 4 era alquanto anticipata in confronto con la consuetudine predominante presso P. e viceversa la fine dell'anno Olimpico 177, 2 (203-2) era alquanto protratta, narrando P. non solo la battaglia di Naraggara, ma anche i preliminari della pace con Cartagine. Se il sistema cronologico usato da P. era così adattabile alle esigenze del racconto, si spiega altresì come egli non credesse di renderne ragione, perché appunto non si trattava di un sistema rigido a lui personale.

L'opera di P., rispondendo alle esigenze d'un largo pubblico di lettori greci e romani a cui interessava conoscere la storia ragionata della conquista dell'impero per parte di Roma, ebbe un vasto e durevole successo e si può dire che divenne canonica per il periodo da essa trattato, oscurando tutte le altre opere che ne esponevano in parte le vicende. P. trovò continuatori che peraltro non raggiunsero la sua fama come storici, quali Posidonio e Strabone. Fu poi largamente usato da scrittori romani come Cicerone che ne ebbe molta stima e se ne servì ripetutamente nel De re publica, e come Livio, che ci ricompensa in parte della perdita di tanti libri dell'opera polibiana seguendola e di regola traducendola nella storia delle guerre di Macedonia e di Siria e in genere nella storia delle relazioni tra i Greci e i Romani. Sicché P. non solo è la fonte principale di Livio per i libri XXXI-XLV, ma è pure usato largamente nella terza decade per le vicende siciliane e per la guerra d'Africa, e ha in via diretta o indiretta influito in una misura non bene determinabile anche nel resto del racconto della seconda guerra punica. Inoltre Diodoro, non per la prima e la seconda punica, ma per il periodo successivo, adopera e anzi spesso, secondo la sua consuetudine, trascrive letteralmente P. Di polibiano è poi direttamente o indirettamente parecchio in tutte le vite plutarchee che si riferiscono a quel periodo: Fabio, Marcello, Flaminino, Filopemene, Emilio Paolo. Molto da P., specie per le guerre spagnole e africane, è in Appiano (Iberica e Libica). Altro non poco è disperso in fonti greche e latine.

Codici ed edizioni. - Tutti i nostri codici polibiani, compresi quelli degli excerpta costantiniani e degli excerpta antiqua (v. sopra), derivano da un codice che presentava lacune e corruttele e mancava del libro XVII. Tra i codici che conservano i cinque primi libri, il più antico e nello stesso tempo il più vicino all'archetipo, corretto di su l'archetipo dallo stesso amanuense, è il codice Vaticano greco 124 del sec. XI (A); tutti gli altri codici più recenti di questi cinque libri, prescindendo dal Fiorentino che è una copia del Vaticano, non provengono dal Vaticano e solo indirettamente, cioè mediante una comune fonte intermedia che pare sia stata usata anche dal secondo correttore del Vaticano (A2), risalgono allo stesso archetipo; compreso il codice Urbinate 102 (F) che conserva, oltre agli excerpta dei libri VI-XVII, anche quelli dei cinque primi libri che ci permettono un confronto col resto della tradizione manoscritta. Per gli excerpta costantiniani se ne veda l'edizione di Ph. Boissevain, C. de Boor, Th. Büttner-Wobst, A. C. Roos, Berlino 1903-1910.

Editio princeps dei cinque primi libri di V. Opsopoeus, con la traduzione latina di Nicolò Perotti, Hagenau 1530; edizione completa di J. Casaubon, Parigi 1609, con ottima traduzione latina; eccellente e tuttora utile a consultare l'edizione di J. Schweighäuser in voll. 8, Lipsia 1789-95, con la traduzione del Casaubon, riveduta, commentario e lessico (ristampato questo in Oxford 1822). Le due edizioni che si possono oggi usare sono quella di F. Hultsch, Berlino 1867-71 (2ª ed. dei due primi volumi, Berlino 1888, 892) e quella teubneriana di Th. Büttner-Wobst, Lipsia 1882-1904 (2ª ed. dei 2 primi volumi 1922, 1924). Utile Strachan-Davidson, Selectiom from Polybius, Oxford 1888.

Bibl.: Ampia trattazione con larghissima bibl. in F. Susemihl, Geschichte der griechischen Litteratur in der Alexandrinerzeit, Lipsia 1892, II, p. 80 segg. Intorno all'economia dell'opera di P.: H. Nissen, Die Ökonomie der Geschichte des Polybius, in Rh. Mus., XXVI (1871), p. 241 segg.; H. Steigemann, De Polybii olympiadum ratione et oeconomia, Breslavia 1885. Sulla composizione dell'opera di P.: R. Thommen, Über die Abfassungszeit der Geschichte des Polybius, in Hermes, XX (1885), p. 196 segg.; L. Harstein, Über die Abfassungszeit der Geschichte des Polybius, in Philologus, XLV (1886), p. 715 segg.; O. Cuntz, Polybius und sein Werk, Lipsia 1902; R. Laqueur, Polybius, ivi 1913; K. Svoboda, Die Abfassungszeit des Geschichtwerkes des Polybios, in Philologus, LXXII (1913), p. 465 segg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, i, Torino 1916, p. 200 segg.; M. Holleaux, Polybe et le tremblement de terre de Rhodes, in Revue des études grecques, Parigi 1923, XXXVI.

Sul pensiero di P. e i caratteri dell'opera sua: P. La Roche, Charakteristik des Polybius, Lipsia 1857; W. Markhauser, Der Geschichtschreiber Polybius, Monaco 1858; R. v. Scala, Die Studien des Polybius, Stoccarda 1890; C. Wunderer, Die psychologischen Anschauungen des Historikers Polybios, Erlangen 1905; J. B. Bury, The ancient Greek Historians, Londra 1909, p. 191 segg.; E. Schwarz, Charakterköpfe aus der antiken Literatur, I, Lipsia 1910, p. 78 segg.; E. Täubler, Tyche, ivi 1926, p. 75 segg.; C. Wunderer, Polybios, ivi 1927; E. G. Sihler, Polybius of Megalopolis, in The American Journal of Philology, XLVIII (1927), p. 38 segg.; W. Siegfried, Studien zur geschichtlichen Anschauung des Polybios, Berlino 1928.

Sulla cronologia di P.: G. F. Unger, in Philologus, XXXIII (1874), p. 234 segg. e in Sitzungsber. des münchener Akad., 1879, p. 119 segg.; O. Seipt, De Polybii olympiadum ratione et de bello Punico primo quaestiones chronologicae, Lipsia 1867.

Sulle questioni speciali: Metzung, De Polybii librorum XXX-XXXIII fragmentis ordine collocandis, Marburgo 1871; M. Schmidt, De Polybii geographia, Berlino 1875; C. Wunderer, Polybius-Forschungen, Lipsia 1898-1909; F. Taeger, Die Archäologie des Polybios, Stoccarda 1922. - Sulle fonti di P.: P. Valeton, De Polybii fontibus, Parigi 1879; L. Breska, Untersuchungen über die Quellen des Polybius, Berlino 1880; K. J. Beloch, Polybius' Quellen im dritten Buche, in Hermes, L (1915), p. 357 segg. Per l'uso di P. in Tito Livio, v. soprattutto H. Nissen, Kritische Untersuchungen über die Quellen der IV. und V. Dekade des Livius, Berlino 1863. Sull'iconografia di P.: J. J. Bernoulli, Griechische Ikonographie, II, Monaco 1901, p. 184 segg.

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