POLIFEMO

Enciclopedia Italiana (1935)

POLIFEMO (Πολύϕημος, Polyphemus)


Ciclope figlio di Posidone e della ninfa Toosa. Il poeta del IX dell'Odissea, elaborando questa figura, probabilmente già popolare in fiabe e racconti di marinai, le ha dato quei classici aspetti di rozzo e bestiale pastore misantropo, monocolo (non è detto esplicitamente, ma risulta dalla scena dell'accecamento), solo capace d'una certa tenera sollecitudine per il suo gregge, che, dopo avere ucciso e divorato più compagni di Ulisse, è da questo ubbriacato di vino dolce e accecato con un palo arroventato. La storia della successiva fortuna letteraria di P. in Grecia è quella d'un progressivo affinamento di questa potente e grossolana figura d'orco; a poco a poco il P. omerico, attraverso la commedia dorica e attica, il ditirambo e l'idillio siciliano, divenne la irriconoscibile figura dell'XI idillio di Teocrito, giovanottone sentimentale e malinconico, innamorato ingenuamente della ninfa Galatea. Nei poeti latini, come Virgilio e Ovidio, P. riappare nelle gigantesche e fiere proporzioni dell'Odissea (per quanto certo meno selvaggio), come rivale minaccioso del pastore Aci, o cagione di sgomenta fuga ai compagni di Enea sbarcati in Sicilia. La figura di questo massimo tra i Ciclopi, soprattutto in scene dell'episodio omerico, fu prediletta dalla pittura vascolare (vaso di Aristonoo), e, nell'addolcita forma ellenistica, in pitture parietali e rilievi.

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