POLITICA INTERNAZIONALE

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Politica internazionale

Mario Del Pero

La crisi dell'egemonia statunitense

Durante gli anni Novanta del 20° sec. il sistema internazionale fu attraversato da pulsioni e processi ambivalenti. L'ottimismo seguito alla caduta dell'Unione Sovietica e alla fine della guerra fredda si rivelò infondato. L'ordine unipolare a leadership statunitense mostrò una capacità limitata di produrre stabilità ed equilibrio. Una serie di conflitti almeno in parte nuovi alimentarono focolai di tensione difficilmente controllabili e colpirono, nel caso della Iugoslavia, la stessa Europa. L'impetuosa crescita economica degli Stati Uniti e della Cina, trainata dalle nuove tecnologie, non si estese al resto del mondo: Europa e, soprattutto, Giappone crebbero a tassi più ridotti; il gap di ricchezza tra i Paesi più ricchi e quelli più poveri s'intensificò ulteriormente; alcune drammatiche crisi finanziarie (in Messico nel 1994, in Asia nel 1997 e in Russia nel 1998) evidenziarono l'estrema fragilità di un modello globale e interdipendente di sviluppo economico, commerciale e finanziario; la contestazione della globalizzazione si fece più intensa, diffusa e radicale.

Al contempo, però, si avviarono processi e modelli nuovi di gestione della politica mondiale, che parvero prefigurare un'evoluzione positiva del sistema internazionale: il tema dei diritti umani assunse una centralità senza precedenti, obbligando tutti i soggetti del sistema - statuali e non - a confrontarsi con esso; alcune crisi, come quella iugoslava, conobbero una soluzione, per quanto parziale e fragile; processi di democratizzazione attraversarono molte regioni e Paesi; l'abbandono di visioni dogmatiche e rigide dello sviluppo sembrarono preludere a un approccio più pragmatico e flessibile. Il decennio si concluse con il ritorno di un ottimismo moderato che rilanciava, sia pure in forma più cauta, gli slogan e le parole d'ordine del nuovo assetto mondiale con le quali si erano aperti gli anni Novanta. L'intervento in Kosovo, in particolare, fu giustificato e difeso dai suoi promotori come l'inizio di un'era nuova, fondata sul primato degli Stati Uniti, ma anche sulla sua natura in larga misura consensuale.

Questo ottimismo si basava su alcune condizioni fondamentali. In primo luogo, la disponibilità dell'unica grande potenza rimasta, gli Stati Uniti, a collaborare con gli altri soggetti del sistema, utilizzando pratiche e canali multilaterali e operando il più possibile per il tramite delle grandi organizzazioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite. In secondo luogo, l'assenza di forme di contestazione e minaccia radicale all'ordine internazionale per il modo in cui questo era andato definendosi nel dopo guerra fredda. Terzo e ultimo, la disponibilità degli altri Stati - grandi e piccoli - a rispettare lo squilibrio strutturale di potenza esistente nel sistema, evitando di sfidare la leadership statunitense e accontentandosi al massimo di condizionare le forme del suo esercizio.

In modo strettamente interrelato, nei primi anni del 21° sec. queste tre condizioni progressivamente vennero meno. Insediatasi nel gennaio del 2001, l'amministrazione repubblicana di G.W. Bush espresse subito la sua indisponibilità a operare secondo logiche multilaterali. L'unilateralismo statunitense dei primi mesi del 2001 si concretizzò in una serie di decisioni dall'alta rilevanza simbolica: la decisione di Bush di non presentare al Senato, per la necessaria ratifica, il trattato che istituiva il Tribunale penale internazionale dell'Aia; l'abbandono statunitense del Protocollo di Kyoto sull'ambiente; la rinuncia al Trattato sui sistemi antimissili balistici (ABMT, Anti Ballistic Missile Treaty) del 1972 che limitava la possibilità di creare un sistema missilistico di difesa; il rifiuto di rendere attuativo il trattato relativo al controllo internazionale della produzione di armi chimiche e batteriologiche. Queste decisioni statunitensi irritarono gli alleati di Washington, determinarono un primo peggioramento delle relazioni transatlantiche e concorsero a inasprire il clima internazionale.

La svolta fu però rappresentata dagli attacchi terroristici al Pentagono e alle Twin Towers dell'11 settembre 2001. Gli attentati dell'11 settembre acuirono la svolta unilateralista della politica estera statunitense e ridussero la forza politica di chi, dentro l'amministrazione, aveva cercato fino ad allora di contenerla e moderarla. Ciò non fu immediatamente chiaro. In un primo momento parve che la crisi apertasi l'11 settembre potesse cementare la coesione tra Stati Uniti ed Europa e conferire una nuova missione alla comunità internazionale e alle Nazioni Unite in particolare. Il dramma dell'11 settembre suscitò un'ondata di solidarietà nei confronti degli Stati Uniti in gran parte del mondo. L'Alleanza atlantica invocò per la prima volta l'articolo 5 del trattato che l'aveva istituita, secondo il quale un attacco contro uno dei Paesi dell'Alleanza è un attacco contro tutti i suoi membri. Cina e Russia, i due grandi rivali potenziali degli Stati Uniti, espressero la loro disponibilità alla collaborazione. Sotto la supervisione dell'ONU, sembrò costituirsi una grande coalizione internazionale, capace di sostenere e affiancare gli Stati Uniti nella loro campagna globale contro la sfida terroristica. Molti commentatori vi scorsero un ritorno a quelle logiche che all'inizio degli anni Novanta avevano indotto a preconizzare l'avvento di un nuovo ordine mondiale, fondato sul primato del diritto internazionale e del multilateralismo.

Questa lettura si rivelò ben presto infondata. Il capitale di consenso di cui disponevano gli Stati Uniti subì una rapida erosione. La decisione d'intervenire militarmente in Afghānistān per abbattere il regime dei Tālibān, che aveva dato ospitalità a U. ibn Lādin e che ospitava sul suo territorio i campi di addestramento di al-Qā̔ida, fu largamente condivisa. L'operazione ebbe inizio il 7 ottobre 2001 e portò alla caduta del regime tālibān. La legittimità di tale operazione fu rafforzata da una serie di risoluzioni approvate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che sostennero la formazione di un nuovo governo in Afghānistān e istituirono una forza multinazionale (ISAF, International Security Assistance Force) responsabile per il mantenimento della sicurezza e dell'ordine in Afghānistān. Negli anni successivi il mandato dell'ISAF fu progressivamente esteso e la NATO ne assunse il comando. In Afghānistān cominciarono però a manifestarsi tensioni e divisioni tra gli Stati Uniti e i loro alleati. Il segretario della Difesa degli Stati Uniti, D. Rumsfeld, espresse perplessità sull'utilità di un'azione multilaterale: i vantaggi politici che ne sarebbero derivati, sostenne Rumsfeld, non compensavano i tanti vincoli operativi che tale collaborazione avrebbe imposto all'azione militare statunitense. Da parte europea si criticarono sia le modalità con le quali gli Stati Uniti conducevano la guerra sia, e ancor più, la retorica che l'accompagnava. Una retorica, questa, che avrebbe conosciuto un salto di qualità nel corso del 2002, quando il presidente Bush denunciò l'esistenza di un 'asse del male' - composto da Irān, ̔Irāq e Corea del Nord - che minacciava la stabilità globale e ambiva a dotarsi di armi di distruzione di massa, e quando fu enunciata la nuova dottrina di sicurezza nazionale degli Stati Uniti (The national security strategy of the United States): il manifesto, quest'ultima, di un aggressivo unilateralismo che irritò e preoccupò molti, in Europa e nel resto del mondo.

Le difficoltà manifestatesi in Afghānistān esprimevano, a monte, una diversa visione di come rispondere alla minaccia del terrorismo. Per l'amministrazione Bush quella contro il terrorismo era una guerra destinata a concludersi con una vittoria assoluta e definitiva. In quest'ottica, l'intervento in Afghānistān doveva costituire solo la prima tappa di un'azione globale finalizzata a sradicare la minaccia terroristica attraverso la progressiva eliminazione delle sue basi, dei suoi supporti logistici, delle sue strutture e dei suoi uomini. Per l'Europa, invece, l'intervento in Afghānistān aveva una funzione ben più limitata: serviva per catturare o eliminare Ibn Lādin, rimuovere le cellule e i campi di addestramento di al-Qā̔ida e abbattere l'unico regime che li aveva sostenuti. Raggiunto questo compito, la campagna contro il terrorismo avrebbe dovuto assumere la forma più limitata e tradizionale di un'operazione d'intelligence e di polizia che, data la sua natura globale, imponeva forme di collaborazione multilaterali senza precedenti.

Questa diversità di vedute s'inasprì nel corso del 2002-03, quando l'attenzione degli Stati Uniti si spostò verso il teatro iracheno. Bush e i suoi consiglieri ritennero giunto il momento di rovesciare il regime di Ṣ. Ḥusayn attraverso un'operazione militare. Le motivazioni formali che giustificavano, secondo gli Stati Uniti, questa iniziativa erano due: l'asserita volontà dell'Irāq di dotarsi di armi di distruzione di massa e la sua violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, che gli imponevano di smantellare i propri arsenali e di collaborare con gli ispettori inviati in ̔Irāq dall'ONU. Vi era però una ragione più generale che si legava alla strategia statunitense e alla campagna contro il terrorismo: la convinzione che fosse necessario catalizzare una profonda trasformazione politica e culturale del Medio Oriente, promovendone la modernizzazione e democratizzazione in modo da renderlo più permeabile a valori e modelli occidentali. Solo così, sostenevano Bush e i suoi consiglieri, sarebbe stato possibile intaccare alla radice le cause profonde del radicalismo islamico che alimentavano il terrorismo. Nelle visioni più radicali proposte da alcuni intellettuali conservatori statunitensi, all'intervento militare in ̔Irāq sarebbero dovute addirittura seguire operazioni analoghe in Irān e in Siria.

Il 2002 e i primi mesi del 2003 furono segnati dal dibattito sul possibile intervento in ̔Irāq e da un crescendo di tensioni tra gli Stati Uniti e una parte importante dell'Europa, in particolare il suo asse storico franco-tedesco. Russia e Cina mantennero una posizione più defilata, pur manifestando il loro disagio per l'unilateralismo statunitense, mentre altre regioni, in particolare l'America Latina, furono attraversate da pulsioni antistatunitensi sempre più forti. Al fianco degli Stati Uniti si schierarono alcuni importanti Paesi europei - come la Spagna di J.M. Aznar e l'Italia di S. Berlusconi - l'Australia e, soprattutto, il tradizionale alleato britannico. Fu proprio T. Blair, enfatizzando l'imperativo etico dell'intervento e collegando esplicitamente l'Irāq-2003 al Kosovo-1999, a cercare di coagulare un maggiore consenso attorno a una guerra che risultava invisa a una parte maggioritaria dell'opinione pubblica internazionale.

Gli Stati Uniti decisero inizialmente di delegare la gestione della crisi alle Nazioni Unite, in risposta alle pressioni britanniche e nella consapevolezza che solo le Nazioni Unite stesse avrebbero potuto legittimare un intervento militare. Nel novembre del 2002, il Consiglio di sicurezza approvò all'unanimità la risoluzione 1441 che imponeva all'Irāq di accettare nuove ispezioni. La risoluzione rappresentò però solo un compromesso, capace di posticipare l'intervento, ma non di fermarlo. Pochi mesi più tardi, Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna presentarono una nuova risoluzione in cui si chiedeva un'esplicita autorizzazione all'uso della forza. A dispetto delle pressioni statunitensi, la risoluzione non ebbe però il sostegno necessario nel Consiglio per essere approvata e fu quindi ritirata.

La sconfitta politica degli Stati Uniti - isolati e abbandonati anche da alcuni alleati storici - fu evidente. Nondimeno, il 19 marzo 2003 gli USA - appoggiati da Gran Bretagna e Australia - iniziarono le operazioni militari in ̔Irāq. In poche settimane, le truppe statunitensi raggiunsero Baghdād e il regime di Ḥusayn fu abbattuto. La transizione si rivelò però assai diversa da quella auspicata e prevista a Washington. L'esercito statunitense si trovò ben presto a fare i conti con l'azione di guerriglia promossa da milizie islamiche radicali e da gruppi legati al vecchio regime. Allo scontro con gli Stati Uniti e le forze accusate di aver occupato illegalmente l'Irāq si accompagnò un conflitto interno tra sunniti e sciiti che assunse sempre più le forme di una drammatica guerra civile. I costi umani del conflitto furono immensi: alla fine del 2006, le vittime statunitensi del conflitto erano più di tremila, quelle alleate circa 250, mentre risultava impossibile qualsiasi calcolo attendibile dei caduti iracheni, il cui numero oscillava nelle diverse stime tra i 50 e i 500.000.

Le conseguenze della guerra in ̔Irāq

In alcuni momenti parve che i progetti statunitensi potessero almeno in parte realizzarsi. Nel gennaio e nel dicembre 2005 le elezioni per l'Assemblea nazionale irachena e per il Parlamento si svolsero regolarmente e registrarono tassi altissimi di partecipazione elettorale. Il tasso di violenza non scese però mai sotto una certa soglia, e la capacità di controllo del territorio da parte delle forze statunitensi e di quelle fedeli al nuovo governo iracheno rimase assai circoscritta. I piani statunitensi per la trasformazione del Medio Oriente furono rapidamente riposti e l'obiettivo primario degli Stati Uniti divenne quello di giungere a una qualche stabilizzazione della regione, più che di provocarne una radicale trasformazione. Il mancato ritrovamento delle presunte armi non convenzionali di Ḥusayn, e dei laboratori in cui esse sarebbero state costruite, gettò ulteriore discredito sull'amministrazione.

I riverberi della guerra irachena sono stati molteplici. Il loro comune denominatore è la diffusa ostilità nei confronti degli Stati Uniti e il conseguente indebolimento della natura consensuale e cooperativa dell'egemonia statunitense. Il teatro maggiormente investito dagli effetti della guerra in ̔Irāq è stato ovviamente il Medio Oriente, dove essa ha interagito con altre dinamiche preesistenti e, più di tutto, con l'annoso e mai risolto conflitto arabo-israelo-palestinese. Il maggior beneficiario della guerra si è rivelato l'Irān sciita, che ha visto notevolmente estesa la sua influenza geopolitica nella regione per la caduta di un regime ostile come quello di Ḥusayn e la conseguente possibilità d'influenzare in modo rilevante la situazione politica in ̔Irāq. Dopo otto anni di governo del moderato S.M. H̱ātamī, le elezioni del 2005 hanno portato alla presidenza il sindaco ultraconservatore di Teheran, M. Ahmadinejad, la cui retorica roboante e antiisraeliana ha suscitato critiche aspre in tutto il mondo. Accusato di sostenere e finanziare movimenti terroristici, l'Irān si è posto al centro delle attenzioni della comunità internazionale a causa del suo programma nucleare che, secondo le accuse, non si limiterebbe ai soli scopi civili, ma ambirebbe a dotare il Paese di armi atomiche. Dopo lunghi negoziati, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato nel dicembre 2006 una risoluzione con cui ha imposto moderate sanzioni commerciali e finanziarie all'Irān qualora esso non sospenda il suo programma nucleare.

La guerra in ̔Irāq ha stimolato la generale radicalizzazione del quadro politico mediorientale che ha contraddistinto i primi anni del 21° secolo. Tra le giustificazioni statunitensi dell'intervento vi era stata anche la considerazione che esso avrebbe facilitato la risoluzione dell'intrattabile questione palestinese. Solo rimuovendo le minacce esterne alla sicurezza d'Israele, si argomentava, sarebbe stato possibile riavviare un credibile processo di pace che avrebbe portato alla nascita di uno Stato palestinese. I fatti sono andati ben diversamente. Le tensioni si sono intensificate e la disponibilità al dialogo si è ridotta progressivamente, da parte sia israeliana sia palestinese. Il governo presieduto da A. Sharon (cui è succeduto nel marzo 2006 E. Olmert) ha promosso il ritiro da Gaza, ma lo ha fatto in modo unilaterale e non negoziato, evitando di considerarlo parte di un più generale processo di pace. Parallelamente, il governo israeliano ha intensificato i raid nella striscia di Gaza e ha proceduto alla costruzione di una barriera protettiva di più di 600 km all'altezza del confine con la Cisgiordania, con lo scopo di proteggere Israele dagli attacchi suicidi dei militanti palestinesi; questa decisione è stata severamente censurata da molti organismi internazionali e dichiarata illegale dalla Corte internazionale di giustizia dell'Aia. A sua volta la capacità amministrativa dell'Autorità nazionale palestinese si è rivelata molto debole e le azioni terroristiche contro la popolazione civile israeliana sono cresciute. La morte, nel novembre 2004, del leader storico, Y. ̔Arafāt ha fatto esplodere conflitti interni al mondo palestinese rimasti a lungo latenti. La contestazione della leadership palestinese ha facilitato l'ascesa del movimento islamico di Ḥamās, che non riconosce il diritto all'esistenza dello Stato d'Israele. Ḥamās sorprendentemente ha vinto le elezioni parlamentari del gennaio 2006 e ha assunto il controllo del governo nel marzo dello stesso anno. L'incapacità di giungere a una qualche forma di collaborazione tra Ḥamās e il principale partito palestinese, al-Fatāḥ, e l'ostilità degli interlocutori internazionali nei confronti del governo guidato da Ḥamās hanno contribuito a provocare una crisi alla quale il presidente palestinese Abū Māzin ha risposto nel dicembre 2006 indicendo elezioni anticipate. La crisi palestinese si è intrecciata strettamente con quella apertasi nell'estate 2006 in Libano, dove il rapimento di alcuni soldati israeliani da parte del movimento sciita radicale di Ḥezbollāh, sostenuto da Irān e Siria, aveva suscitato una durissima reazione israeliana, culminata in un'offensiva militare e in una serie di bombardamenti diretti anche sulla capitale, Beirut. La guerra è terminata con la decisione d'inviare un contingente multinazionale nel Sud del Paese, incaricato, assieme all'esercito libanese, di garantire il cessate il fuoco e di prevenire ulteriori attacchi di Ḥezbollāh a Israele. Il Libano è tornato quindi al centro di una spirale di violenza e potenziale instabilità dopo un periodo di relativa calma, seguito alla lunga guerra civile che aveva devastato il Paese.

Il Medio Oriente, regione strategicamente vitale per le risorse naturali di cui esso dispone, rimane un'area assai instabile. La guerra in ̔Irāq e l'insuccesso dei piani statunitensi ha finito per esacerbare questa instabilità e per alimentare in molti Paesi dell'area posizioni fortemente antiamericane e antioccidentali.

L'America Latina e il rifiuto del Washington consensus

L'indebolimento dell'egemonia statunitense si è evidenziato però anche in altri teatri, dove il primato degli Stati Uniti è stato contestato con modalità e forme impensabili solo pochi anni fa. È questo il caso dell'America Latina, dove l'unilateralismo statunitense ha costituito solo uno dei fattori che hanno contribuito ad alimentare l'astio nei confronti degli Stati Uniti e, quindi, a facilitare l'ascesa di governi dichiaratamente ostili a Washington. Particolarmente influenti sono stati la contestazione e il progressivo rigetto della filosofia economica liberista che aveva dominato il discorso politico nella regione durante l'ultimo decennio del Novecento. Il cosiddetto Washington consensus degli anni Novanta costituiva un modello di sviluppo economico basato sulla disciplina fiscale, la privatizzazione di vasti settori dell'economia, la liberalizzazione commerciale, l'apertura agli investimenti stranieri e la riduzione delle imposte sul reddito e sulla produzione. A suo modo il Washington consensus - applicato peraltro in modo niente affatto lineare e uniforme - era espressione dell'ottimismo del dopo guerra fredda e di una visione, dogmatica e deterministica, del corso della storia. Le difficoltà economiche di fine anni Novanta hanno incrinato la fiducia in tale modello e reso meno sopportabili i sacrifici che esso imponeva. Sono state però alcune drammatiche crisi a stimolare una critica più radicale e un rigetto più ampio della filosofia liberista sostenuta dagli Stati Uniti. Particolarmente rilevante è stato il caso dell'Argentina, colpita da una pesante recessione che ha raggiunto il suo picco nel 2002 e ha portato a una drastica svalutazione del peso. Combinandosi con l'ostilità verso l'unilateralismo di Bush, il rigetto del Washington consensus ha catalizzato il ritorno di un populismo, variamente declinato in termini politici, ma accomunato dal forte astio nei confronti degli Stati Uniti. A guidare, almeno a livello simbolico e d'immagine, il fronte ostile agli Stati Uniti sono stati soprattutto il leader cubano F. Castro e il presidente venezuelano, H. Chávez. Eletto presidente nel 1998, Chávez ha sfruttato le risorse petrolifere del Paese e la crescita, apparsa a lungo inarrestabile, del prezzo del petrolio, per dare corso a un ambizioso progetto di politica estera basato sulla denuncia dell'imperialismo statunitense e la necessità di resistervi. Utilizzando il petrolio come arma diplomatica, Chávez ha cercato sia di promuovere un'azione regionale finalizzata a ridurre l'influenza degli Stati Uniti in America Latina sia di stabilire relazioni con i Paesi terzi (incluso lo stesso Irān di Ahmadinejad). I risultati sono stati ambivalenti e il radicalismo di Chávez ha finito per trovare poche sponde in America Latina, dove alcuni importanti leader come L.I. da Silva, detto Lula, in Brasile e N. Kirchner in Argentina, pur critici nei confronti del Washington consensus, hanno assunto una posizione più moderata. Gli Stati Uniti continuano peraltro a rappresentare il maggiore partner commerciale dei Paesi latino-americani, incluso lo stesso Venezuela, del cui petrolio gli Stati Uniti sono il principale acquirente. Il periodo 2000-2006 ha visto però il graduale abbandono dei progetti libero-scambisti per l'America Latina, concepiti e sostenuti dagli Stati Uniti. È questo il caso dell'Área de Libre Comercio de las Américas (ALCA), un'area di libero scambio delle Americhe che avrebbe dovuto portare al graduale abbattimento delle barriere commerciali nell'emisfero occidentale. Il progetto era stato appoggiato dagli Stati Uniti, che concepivano l'ALCA come un'estensione dell'area di libero scambio nordamericana (North American Free Trade Agreement, NAFTA) istituita nel 1994 da Stati Uniti, Canada e Messico. Esso è stato però vieppiù contestato da molti Paesi dell'America Latina, in particolare in occasione del vertice di Mar del Plata, in Argentina, tenutosi nel gennaio 2005; sembra molto difficile che si possa giungere a un accordo.

L'Africa

Europa, Medio Oriente e America Latina sono i teatri nei quali, in forme e modi ovviamente diversi, si è manifestata con più evidenza la crisi di leadership e di egemonia degli Stati Uniti. Parzialmente diverso è il caso dell'Africa dove permangono problemi strutturali drammatici. Il dato più significativo degli inizi del 21° sec. è rappresentato dallo sforzo di affrontarli entro una cornice regionale e multilaterale. Di particolare rilevanza è il programma di sviluppo e lotta alla povertà attivato dall'Unione africana, creata dagli Stati africani nel marzo 2001 per sostituire l'Organizzazione dell'unità africana. Il programma - che va sotto il nome di NEPAD (New Partnership for Africa's Development) - è sostenuto dal G8 e dall'Unione Europea. Esso rappresenta uno dei maggiori sforzi compiuti per promuovere in forma cooperativa e regionale un'azione in grado d'inserire pienamente l'Africa entro i processi di trasformazione economica globale, ponendo le premesse per il superamento della sua storica marginalità. L'ambizioso programma NEPAD venne lanciato in concomitanza con la soluzione di alcune crisi, che da tempo laceravano importanti Stati africani: la Sierra Leone e la Liberia, dove l'intervento della comunità internazionale e delle Nazioni Unite permise di porre termine a lunghe guerre civili, dai costi incalcolabili; soprattutto l'Angola, dove sempre nel 2002 si giunse al superamento di uno dei più drammatici lasciti della guerra fredda, una guerra civile che si calcola abbia causato più di mezzo milione di vittime. Nel continente africano permangono peraltro numerosi i teatri di crisi e i conflitti. La situazione nella Repubblica democratica del Congo rimane assai instabile, anche se le elezioni dell'ottobre 2006 sembrano aver consolidato la posizione del presidente L.-D. Kabila. La crisi in Darfur, regione occidentale del Sudan, ha provocato una vera e propria emergenza umanitaria e ha indotto il Consiglio di sicurezza dell'ONU ad approvare nell'agosto 2006 una nuova risoluzione per potenziare la forza di pace operante nel Paese. Nel corso del 2006 il Corno d'Africa è tornato al centro delle attenzioni internazionali in conseguenza dell'ascesa al potere di movimenti islamici radicali nella parte centro-meridionale della Somalia; nel dicembre dello stesso anno, l'intervento dell'esercito etiope, sostenuto dagli Stati Uniti, ha riportato temporaneamente la Somalia sotto il controllo di un governo di transizione insediatosi nel 2004, ma incapace di esercitare un effettivo controllo sul Paese, in particolare nell'area della capitale Mogadiscio.

Il ruolo di Unione Europea, Russia, Cina

L'ultima manifestazione della riduzione dell'egemonia globale degli Stati Uniti nel periodo 2000-2006 è rappresentata dalla progressiva ascesa di soggetti capaci non tanto di sfidare quanto di bilanciare, e in taluni casi integrare, il primato statunitense. In modi diversi, l'Unione Europea, la Russia e, soprattutto, la Cina, hanno assunto questo ruolo.

L'adozione dell'euro ha dato vita a una moneta capace di operare da valuta di riserva aggiuntiva al dollaro; le difficoltà dell'Unione Europea e l'insuccesso del processo di ratifica del trattato costituzionale (bocciato per via referendaria in Olanda e Francia) non possono occultare il fatto che la nuova Europa a 27 Paesi rappresenta per dimensioni e potenzialità un soggetto unico nella storia recente.

La Russia ha cercato anch'essa di riaffermare il suo ruolo nel contesto internazionale, dopo la crisi politica ed economica degli anni Novanta. Unico Paese in grado di competere con gli Stati Uniti in termini tradizionali di potenza, grazie al suo imponente arsenale nucleare, la Russia sembra aver ritrovato una stabilità sotto la guida energica, e secondo molti autoritaria, di V. Putin presidente dal 2000. Sfruttando gli alti prezzi delle risorse energetiche - petrolio e gas naturale - di cui il Paese è ricco, la Russia ha beneficiato di un periodo d'ininterrotta e significativa crescita economica. Non sono mancati momenti di tensione con gli Stati Uniti, in particolare nei mesi che precedettero l'intervento anglostatunitense in ̔Irāq e durante la discussione sul programma nucleare iraniano. Putin è però riuscito a evitare che deflagrassero, riportando il sistema internazionale a una nuova guerra fredda.

Il Paese che sembra aver esteso maggiormente la propria influenza globale è sicuramente la Cina. In termini militari, la Cina rimane una potenza di rango inferiore rispetto agli Stati Uniti e alla Russia: pur potenziato, il suo arsenale nucleare è assai più limitato di quello statunitense e il gap non sembra in alcun modo colmabile. Nondimeno, numerosi altri indicatori segnalano un forte rafforzamento del Paese. Il suo sviluppo economico è il dato più evidente e incontestabile. A partire dai primi anni del 21° sec. il tasso di crescita del PIL cinese è oscillato tra l'8 e il 10%. L'aumento delle esportazioni cinesi è stato a sua volta imponente: quelle dirette verso gli Stati Uniti sono più che raddoppiate tra il 2002 e il 2006. Sfruttando la sua bilancia commerciale favorevole, la Cina dispone di ingenti riserve di valuta straniera che ha utilizzato per finanziare il crescente indebitamento, sia pubblico sia privato, degli Stati Uniti. Soprattutto, la Cina ha promosso un'aggressiva politica di investimenti all'estero, offrendo capitali e know-how tecnologico in cambio delle materie prime indispensabili allo scopo di alimentare l'impetuosa crescita economica del Paese. A dimostrazione della nuova proiezione globale degli interessi cinesi, basti citare l'attivismo diplomatico e commerciale della Cina sia in America Latina sia in Africa. Tra il 2001 e il 2005, due presidenti (Jiang Zemin e Hu Jintao) e un vicepresidente (Zeng Qinghong) cinesi si sono recati in visita ufficiale in vari Paesi dell'America Latina, stipulando importanti accordi commerciali con alcuni di essi (su tutti Brasile, Cile e Argentina). Le importazioni cinesi dall'America Latina sono cresciute del 600% nel quinquennio 1999-2004; le esportazioni sono aumentate di quasi quattro volte nello stesso periodo. Dall'America Latina la Cina importa materie prime indispensabili per alimentare il suo boom economico, quali petrolio, rame, ferro e altre risorse minerarie. In cambio, la Cina vi esporta beni a contenuto tecnologico alto o medio (computer, apparecchi elettrici, macchinari); soprattutto Pechino può offrire all'America Latina i capitali necessari allo sviluppo economico della regione e al potenziamento della sua rete infrastrutturale. Si tratta degli stessi capitali, uniti all'indispensabile know-how tecnologico, che la Cina utilizza in modo crescente in Africa. Un caso emblematico, anche se non unico, è quello dell'Angola, la cui ricostruzione del dopo guerra civile venne promossa anche con l'aiuto, finanziario e tecnologico, offerto dalla Cina. Nel 2004 Cina e Angola hanno ratificato una serie di accordi in virtù dei quali la Cina si è impegnata a fornire capitali e competenze in cambio di un maggiore accesso alle materie prime di cui dispone il Paese africano. L'attivismo cinese in Africa non si è fermato però solo all'Angola, il principale partner economico della Cina nel continente, ma si è esteso anche ad altri importanti Paesi, dalla Nigeria allo Zambia alla stessa Repubblica democratica del Congo.

L'attivismo cinese è stato letto in modo ambivalente nel resto del mondo e in particolare negli Stati Uniti. Secondo alcuni esperti, esso rappresenterebbe una sfida dichiarata al primato americano e sarebbe espressione di una logica competitiva e antagonistica destinata a inasprire le relazioni tra la Cina e gli Stati Uniti. Altri commentatori vi scorgono invece la prova della natura sempre più interdipendente del sistema internazionale, che legherebbe gli interessi delle principali potenze e imporrebbe forme nuove e più intense, sopranazionali e interstatuali, di collaborazione. A sostegno di questa tesi si cita il complesso rapporto finanziario e commerciale venutosi a instaurare dai primi anni del 21° sec. tra Cina e Stati Uniti, con la prima che ospita le sempre più numerose imprese statunitensi che hanno deciso di delocalizzare la propria produzione per sfruttare il basso costo della manodopera cinese, e con i secondi che accolgono una parte importante e crescente delle esportazioni cinesi e trovano nel governo cinese il principale acquirente dei propri titoli di stato. Per ulteriori approfondimenti si rimanda alle voci dei singoli Stati.

bibliografia

J.G. Ikenberry, America unrivaled: the future of the balance of power, Ithaca 2002 (trad. it. Bologna 2004); M. Kaldor, Global civil society: an answer to war, Cambridge-Malden 2003 (trad. it. L'altra potenza. La società civile: diritti umani, democrazia, globalizzazione, Milano 2004); Le crisi transatlantiche: continuità e trasformazioni, a cura di M. Del Pero, F. Romero, Roma 2007.

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