POLITICA

Enciclopedia Italiana (1935)

POLITICA

Felice Battaglia

. La parola "politica" viene intesa secondo diverse accezioni. In primo luogo come arte di governo (ted. Staatskunst), quindi come scienza del governo (ted. Staatswissenschaft). Da una parte consiste nel promuovere la vita collettiva, il bene del gruppo, quindi la socialità, attraverso l'opera di singoli particolarmente dotati di senso politico (capi, duci, condottieri, uomini di stato, i politici in breve). In questo senso la politica è azione, attinge tutte le manifestazioni dell'attività pratica. Dall'altra la politica è scienza, vale a dire intendimento di quegli aspetti del reale in cui opera il politico, su cui incide la cosiddetta azione politica. Dunque la politica come scienza non esige di promuovere la vita collettiva con l'azione, attraverso una speciale tecnica o arte, ma vuol teorizzare il suo oggetto, intenderlo in leggi, classificarlo, ridurlo nei suoi schemi. Ciò che nell'arte politica è personale, qui diviene oggettivo: oltre il singolo domina la collettività, la società, lo Stato, che è il complesso delle relazioni, l'unità scientifica e concettuale di quel mondo di rapporti in atto che è l'azione politica.

Non sono mancate critiche tanto alla politica intesa come arte quanto alla politica intesa come scienza. Se la politica vuol essere attività ai fini della vita sociale, in quanto tale non è che azione puntuale, corrispettiva alla situazione hic et nunc determinata, e sfugge a ogni formulazione di massime che, ove siano enunciate, possono al più avere valore storico, vale a dire rispecchiare la situazione di fatto che le ha generate, non erigersi a precetti validi per un certo numero di casi. Posto un precetto di arte o di tecnica politica, questo non può avere valore, si dice, per altri oltre a chi l'ha sperimentato proficuo; non potrà mai essere giovevole insegnamento per gli ambiziosi, poiché il reale su cui opera il politico è il più mutevole e a questo deve adattarsi e adattare l'azione sua (Mosca). Non di rado si è contestato che la politica possa essere una scienza; sia in quanto, pur dopo tanti secoli dacché Aristotele ne ha dato la prima ed elettissima trattazione, non si è giunti a un accordo sul suo oggetto; sia ancora, in quanto, ed è un riflesso dell'accennata incertezza, non si sa come definire il rapporto tra la scienza e l'arte politica. Su questi due punti vertono tutti i problemi della disciplina, che in fondo sono uno, il problema della definizione, vale a dire quello del suo oggetto.

Rispondiamo ai dubbî accennati. Pur ammettendo che dalla politica intesa come arte di governo non possa desumersi una vera precettistica, non può contestarsi che l'azione politica possa essere più o meno cosciente, e secondo tale maggiore o minor grado di coscienza promuovere in modo più o meno attivo la vita collettiva, imprimere allo stato una direzione più o meno decisa. Più cosciente degli strumenti e dei fini è l'azione, più preciso è il senso della sua determinatezza economica, migliori saranno i risultati. Ci sembra che l'affinare questo senso prammatico, per quanto non possa risolversi in una pedagogia dommatica, ben merita gli sforzi degli uomini, attraverso un'educazione interiore al soggetto, la cultura storica, la disciplina morale, e via dicendo. La gloria di uomini come Napoleone, Bismarck, Cavour è dovuta a questa soggettiva disciplina che ha abbandonato la coscienza del loro senso politico, che le stesse naturali disposizioni ha migliorato, disciplinato, diretto attraverso una critica continua di sé e del mondo pratico. Né tali politici prescindono dalla scienza della politica, ché l'influsso tra scienza politica e arte politica è reciproco e continuo. Ora la politica scientifica sorge dopo, quasi matura riflessione sull'opera politica; ora la speculazione annuncia e prepara l'opera. Se non vi è grande rivoluzione che non sia stata preparata da un'elaborazione dottrinale (Montesquieu e Rousseau rispetto alla rivoluzione francese), di contro non vi è grande moto storico che non abbia generato trattazioni sistematiche (Aristotele è corrispettivo alla vita ellenica del suo tempo, come Platone, anche quand'è più utopistico, vive l'esperienza aristocratica, contro le degenerazioni del δῆμος ateniese; Locke suggella la rivoluzione inglese del 1688). Può ben dirsi che la stessa scienza politica esercita una coazione sugli uomini politici, i quali giammai si sottraggono del tutto ai principî ideali che quella elabora, alle direttive che quella impone. Certo condizionata storicamente, la scienza a sua volta condiziona l'attività degli uomini politici, in una relazione necessaria di reciprocanza.

Non sono mancati i tentativi per una definitiva sistemazione di tale rapporto, che definisca reciprocamente la scienza politica e la politica come arte. Tale problema, che non era sorto col pensiero antico, che la politica intese quasi unicamente come scienza, si impone oggi in modo particolare, oggi che le conoscenze umane si sono oltremodo estese, e non è possibile sistemare univocamente tutte le esperienze relative anche a un solo oggetto, tanto più grave la cosa quando l'oggetto della politica è assai discusso e suscettivo di trattazione da parte di altre scienze oltre la stessa politica, il diritto pubblico e l'economia politica, che Aristotele ignorava o quasi nella loro autonomia. Quindi il problema dei rapporti tra scienza politica e arte politica si complica con il problema dei rapporti tra scienza politica e diritto pubblico, tra scienza politica ed economia politica.

Una teoria autorevole sui rapporti tra scienza politica e arte politica è quella del Bluntschli, che qui ricordiamo. Secondo il giurista tedesco la politica pratica ha determinati scopi esterni, vuol conseguire un fatto esterno, creare una nuova opera, ampliare lo Stato, e via dicendo. La politica come scienza non mira a nessuno scopo esterno, vuol solo conoscere la verità. Diversi sono altresì i mezzi. Per l'uomo di Stato non è bastevole pensare giustamente, i suoi pensieri vuole mettere in atto, e all'uopo ha bisogno della forza. La scienza politica di questa fa a meno, ha bisogno della logica, non ha necessità di legge o di autorità, paga solo di osservare e pensare rettamente. Se la politica come pratica non si compie senza lotte, la scienza politica esamina invece i suoi oggetti con piena tranquillità. Ove l'uomo politico è incitato dalla necessità del caso particolare, e anche quando ricerca le massime dell'azione è mosso dalla presupposizione della loro idoneità e applicabilità al caso concreto, la scienza politica, che lavora solo per la conoscenza del vero, cerca di coltivare la forma pura dei principî.

Mentre il Bluntschli ha dato alla scienza politica una certa vastità di trattazione, il Treitschke di contro tende a ridurre il suo oggetto oltre i limiti consueti. Tutta la politica è arte. Si muove nel mondo degli avvenimenti storici, si tramuta nell'istante stesso che parliamo, mette subito fuori nuove forme. Qualunque teoria è perciò di necessità insufficiente; per quanto difficile, però, non è del tutto esclusa. Per gli antichi la politica è semplicemente la dottrina dello Stato. Il suo compito, secondo Treitschke, è triplice: deve in primo luogo investigare, partendo dall'osservazione del mondo reale degli Stati, qual'è il concetto fondamentale di Stato, in secondo luogo, rilevare da un punto di vista storico, ciò che nella politica i popoli hanno voluto, prodotto, conseguito, e perché lo hanno conseguito; in terzo luogo, con ciò, pervenire a scoprire alcune leggi storiche e stabilire alcuni imperativi etici. Così intesa la politica è storia applicata; e, appunto perché la storia è il campo della personalità, c'è poco posto per la teoria. La teoria della politica deve essere modesta, se intende raggiungere risultati apprezzabili.

Ciò che gli antichi scrittori di politica considerarono complessivamente, lo Stato, oggi è oggetto non solo di trattazione politica, ma insieme di diritto pubblico e di economia politica. Lasciando quest'ultima, il cui peculiare oggetto sempre meglio si definisce, e ciò che ha comune con la politica è solo una parte, economia nazionale, politica economica e finanziaria, il problema per il diritto è sempre aperto. Grandi sono le divergenze. Per un primo gruppo di dottrine la politica è la teoria della vita dello Stato, delle sue trasformazioni, delle sue modifiche, mentre il diritto è la teoria delle istituzioni dello Stato (Bluntschli, Fröbel, Zöpfl, Escher). L'una può dirsi la dinamica, l'altro la statica dell'ente politico, lo Stato. L'Holtzendorff obietta a tale distinzione, che essa poi non sa come distinguere la politica dalla storia del diritto e dalla storia politica, le quali ambedue mostrano lo Stato in movimento. Né si dimentichi che certi aspetti del diritto si possono considerare non come istituzioni, ma appunto nella guisa del divenire (rapporto processuale, diritto amministrativo).

Secondo un altro gruppo di teorie rappresentato principalmente dal von Mohl la politica è la scienza dei mezzi con cui gli Stati compiono, meglio che loro sia possibile, i loro compiti. In questo senso egli parla di una prudenza di Stato (Staatsklugheit). Aecogliendo l'obiezione del Bluntschli secondo cui questa definizione è troppo ristretta, perché non menziona che i mezzi, dimenticando i fini da raggiungere, il Holtzendorff ne tenta un'integrazione. La politica come scienza ha per oggetto l'impiego giudizioso e l'efficacia dei mezzi di cui lo Stato dispone in realtà per conseguire i suoi compiti, l'adempimento della missione multipla dello Stato, tenendo conto della natura delle cose così come si presentano, lasciando da parte ciò che spetta all'amministrazione della giustizia. Questa concezione, che per il Holtzendorff è la più elevata della politica, in quanto implica l'idea di azione "cosciente" nell'interesse dello Stato e dei compiti suoi, la differenzia non solo dalla storia, chiamata ad occuparsi dello sviluppo progressivo ma "inconscio" dello Stato, bensì soprattutto dal diritto. La scienza giuridica mostra il governo come una volontà collettiva sovrana, cioè suprema e indipendente dalla nazione, la politica lo presenta come una volontà agente, limitata e determinata nelle sue soluzioni dalle circostanze e dai precedenti storici.

Le teorie raggruppate differiscono più nella forma che nel fondo. Anche il Bluntschli ritiene infine che i materiali della scienza politica in tanto si considerano in quanto tendono a realizzare certi oggetti della vita e servono come mezzi idonei all'adempimento degli scopi dello stato. Certo tutte le dottrine sono relative e lasciano margine amplissimo di discussione. Il rapporto tra diritto pubblico e politica, tra costituzione politica e scienza politica, è difficile, poiché il diritto è schematismo e non contiene la vita, che da tutti i lati del sistema trabocca per rifluire alla politica, che è controllo, critica, riforma, progresso, talora rivoluzione. In tal senso la scienza politica s'integra nella politica legislativa o nella filosofia del diritto, in una serie di problemi che non possiamo svolgere, ma soltanto accennare.

Potrebbe sembrare dal rapporto fin qui svolto tra diritto e politica: l'uno statico, l'altra dinamica, l'uno conservativo, l'altra progressiva, che la politica sia esclusivamente deontologia. Invero non è tale, o non è solo tale. Anche la posizione di un dover essere rispetto all'essere, la critica di ciò che è, appare sempre corrispettiva a una situazione determinata che si vuole riformare, modificare, correggere. In questo senso anche la politica "ideale" è reale, perché parte dai bisogni reali, considera le forze storiche, apprezza i mezzi esistenti, tutto valuta ai suoi fini, dinamici e progressivi, nella prassi che è appunto divenire. Accanto a tale politica, ideale e reale in uno, la tradizione della disciplina conosce un'altra specie di politica ideale, che lasciandosi dirigere da mere idee, nonché limitarsi a perfezionare lo stato esistente, realizzando ideali conformi ai tempi, celebra aspetti fantastici di comunità perfette, situazioni irrealizzabili (politica fantastica o utopistica). Come è da respingere una politica del tutto reale che ignori la critica dell'ideale, parimenti è da osservare come l'astratto ideale non fonda gli stati; l'una, brutale ed empirica, l'altra, generalizzante e intellettualistica, attendono di inverarsi in una piena comprensione della storia, che è insieme fatto e idea. Ma evidentemente l'unificazione di tali opposti termini ci porta fuori della scienza, nella filosofia.

Abbiamo cercato di riassumere le dottrine più autorevoli, che rivendicano la legittimità e l'autonomia di una scienza della politica. Certo, pur giustificando queste il rigetto della soluzione negativa, ci lasciano assai dubbiosi sulla natura del suo oggetto, variamente delimitato e definito. Tale oggetto è oltremodo ricco. Per quanto variamente intesa, la politica, rileva il Pollok, tratta una materia sì vasta, che essa dalle origini appare imbarazzata dal peso delle sue ricchezze. Comunque ci sembra che tale variabilità dei suoi termini abbia una profonda ragione che merita attento esame. Se ancora oggi non si è d'accordo sulla definizione di scienza politica e il suo contenuto si amplia e si restringe secondo i punti di vista, ciò dipende dalla sua stessa natura, non di politica in quanto tale, ma di scienza.

Scienza la politica, anzi scienza empirica, in quanto procede innanzi tutto col delimitare con un criterio, che non può non essere aprioristico, un aspetto del reale pratico, col renderlo oggetto a sé, quindi ridurlo a certi tipi e classi, dividendolo attraverso schemi o finzioni concettuali. È questo il procedimento di tutte le scienze, epperò anche della politica scienza empirica, astrattizzante e schematizzante, che il reale rende oggetto, la storia congela, il concreto mortifica nelle sue leggi, e ciò anche quando per sé rivendica il dinamismo, il divenire, che non sono la concreta dialettica del soggetto assoluto, ma dinamismo e divenire nell'oggetto, epperò concetto astratto dell'uno e dell'altro, non attuoso processo. Finzione per la scienza empirica è lo stesso Stato, visto come sovranità, punto ipostatico del potere, non relazione sempre immanente alla vita pratica, forza e consenso in uno; classi la tricotomia aristotelica di forme di governo rette e degenerative; schemi quelli dello Stato misto, della divisione dei poteri dello Stato, e via dicendo; concetti generali, non universali categorie, anzi pseudoconcetti, formule. L'opera della scienza politica è quindi tutta classificatoria, anche quando presume dare norma al reale con le sue leggi (rotazione delle forme politiche, circolazione delle élites, formazione delle classi politiche, oligarchia immanente in ogni democrazia), poiché tali leggi, anche se nascono dall'osservazione, non mirano che a determinare un ordine che il pensiero intende dare al reale ritagliato in oggetto.

Ma, se da questa posizione astratta usciamo e la politica vediamo creazione dello spirito pratico, azione concreta che nella storia nasce e nella storia si svolge, forma assoluta di attività che da ogni altra si distingue, con ciò la politica come scienza si dissolve e siamo nella politica speculativa, la filosofia della politica. Già dissolvere la scienza è filosofia, ma per la politica c'è una problematica più ampia, la sua ideale deduzione. Invero tale deduzione incontra discussioni e critiche infinite. È la politica una categoria, una guisa assoluta dello spirito? Problema che coinvolge quello dell'autonomia della politica, di là dal bene e dal male morale, e che è divenuto centrale solo con Machiavelli. I Greci forse l'intravidero, e certe discussioni sul diritto naturale e il convenzionale l'adombrarono, ma solo il Rinascimento con Machiavelli vide in esso il centro per ogni ulteriore discussione sulla pratica. Anche coloro che negano la politica, surrettiziamente l'ammettono, ed essa opera, si svolge, s'impone, attende chiarimenti, esige il suo posto nella luce dello spirito.

L'idealismo moderno, specie quello italiano, ha il merito di aver affrontato il problema speculativo della politica, posto da Machiavelli. Due sono le soluzioni più coerenti di esso. L'una deriva dalla postulazione di una categoria economica anteriore a quella morale, quindi pre-etica e a-etica. Azione corrispettiva alla situazione di fatto hic et nunc determinata, indirizzata a un fine di utilità, è l'azione politica. "L'azione politica non solo è azione utile, ma questi due concetti sono coestensivi, né si sarà mai in grado di addurre alcun carattere che distingua la prima nell'orbita della seconda". Soluzione, questa, certo importante negativamente, in quanto libera la politica dalla morale, svolgendo dialetticamente l'intuizione machiavellesca, ma che quindi nega la sua autonomia in quella dell'economia, cui sola rivendica la categoricità accanto alla morale, nella sfera dello spirito pratico. Né è possibile, secondo questa dottrina, distinguere le azioni politiche tra le altre pratiche e utilitarie, determinandole come azioni dello Stato, poiché per quelle lo Stato è niente altro che processo di azioni utili di un gruppo di individui, i componenti del gruppo.

L'altra soluzione, ritenendo che le categorie dello spirito secondo la dottrina precedente non siano veramente dedotte, ma infine postulate e che lo spirito non numeri le sue categorie, essendo esso stesso principio categorizzante, vuol trovare alla politica un oggetto che non sia quello della scienza, ma l'oggetto che il soggetto costruisce, pone e risolve, spirito in atto. Negata un'attività economica che non sia coscienza totalitaria dello spirito, l'economia stessa si risolve nell'etica. Al vertice dell'etica sta lo Stato, o meglio l'azione statale, in cui ogni dualità di universale e d'individuale si dissolve.

La politica è la sua prassi, l'azione concreta in quanto, con piena coscienza d'un fine universale, dà legge agli uomini, mediando il loro consenso, rendendosene interprete: forza e consenso, coazione e adesione, lo Stato, storico e ideale, in atto, celebra l'etica e si pone insieme come concreta relazione economica. Soluzione, che, mentre intende superare le aporie della prima, incontra anch'essa critiche e difficoltà, che qui non si possono accennare.

Comunque, avere affrontato il problema è merito dell'idealismo contemporaneo, nelle sue diverse formulazioni. Non mancano tentativi per definirlo nei particolari e costruire una sistematica filosofica della politica. Alcuno ha ritenuto che il motivo fondamentale della realtà politica è il principio di autorità, non inteso ipostaticamente, ma addirittura ritmo della realtà come azione. La filosofia politica non solo deve rendere coscienza della realtà umana in quanto si pone come rapporto di autorità, ma della necessità di tale rapporto. Il dualismo tra sovrano e sudditi, tra individuale e universale, lo Stato, il rapporto tra questo e la Chiesa sono tutti problemi che dànno alla filosofia della politica una sfera vasta di speculazione, tutta dominata dal problema della categoricità della politica, dell'assolutezza dell'azione politica.

Ci sembra in tal modo dimostrata la legittimità di una filosofia della politica. Diverse le soluzioni, diverse le denegazioni, la politica è eterno problema, eterno chiarimento in sede speculativa. Dalla politica come arte è scaturita l'esigenza di una scienza della politica, dalla dissoluzione di questa, rivelatasi astrazione e schematismo, in un bisogno di abbracciare la realtà pratica più da presso, si è dedotta la filosofia della politica. Processo ideale, che ha il suo riscontro nella storia, che ci mostra come la politica, nata in Grecia come arte e tecnica, prudenza della vita (i sette saggi, Solone), divenga con Aristotele scienza, circoli nelle pagine di Machiavelli come problema speculativo, attenda in sede filosofica luce di pensiero. La storia delle dottrine politiche, quindi, non è solo interno chiarimento della categoria politica, rivendicazione della sua autonomia, ma si complica con una serie di problemi che pertengono all'arte e alla scienza. Se difficile è la sistemazione teorica della politica, poiché solo attraverso il pensiero riflesso e maturo l'arte si distingue dalla scienza, la scienza non contamina la filosofia, non meno ardua è la trattazione storica, ove solo coll'enucleare e tener ferma l'esigenza critica e ideale della categoricità della politica si possono illuminare le ulteriori esigenze scientifiche e tecniche. D'altra parte, non bisogna dimenticare che la storia, mentre celebra le idee, alimenta le istituzioni. Sebbene il loro esame spetti al diritto pubblico, le dottrine operano attivamente sul nascimento, sullo svolgersi, sull'estinguersi di esse, epperò queste interessano la stessa politica mediatamente. Anche il chiarimento dei nessi tra dottrine e istituzioni, in quanto mostra come il pensiero si saldi alla vita, le ideologie rifluiscano alla storia, l'arte politica divenga azione concreta, è di pertinenza della nostra disciplina. Con ciò non si esclude, anzi si conferma, la natura della storia della politica come storia di idee, di idee speculative, di idee scientifiche, di tecnica politica, tre distinte storie che poi sono una quando il pensiero le domini, deducendo l'una dall'altra, e tutte e tre accompagni nel processo della grande storia, la storia etico-politica, che ne costituisce il presupposto immanente.

Storia. - Antichità. - I problemi della politica sono eterni, coessenziali alla natura umana, se, come si è detto, la politica segna un ritmo perenne dello spirito. In questo senso delle idee politiche sono corrispettive a ogni assetto della vita sociale. Tuttavia bisogna che questa si svolga e si coordini in permanenti istituzioni, mentre la società tutta si differenzia negli offici e nei poteri, perché quelle si rendano esplicite come principî filosofici, generino un sistema scientifico, divengano praticamente operanti. Il pensiero politico sorge allorquando la civiltà è progredita e si chiarisce attraverso un assai lento sviluppo storico. Forse tra tutte le forme dell'attività spirituale la politica è l'ultima ad acquistare dignità nel mondo della pratica, poiché il suo concettuale chiarimento è in funzione di quello della morale, del diritto, dell'economia. Ora intravista ora perduta, ora asserita ora negata, come categoria distinta, è pervenuta a noi nelle più diverse concezioni. Divisi noi moderni nell'intendimento della sua essenza, gli antichi assai spesso la ignorarono affatto, o se svolsero trattazioni, che noi epigoni consideriamo politiche, le intesero pertinenti ad altre materie.

Il mondo orientale, che pure tanta luce di civiltà diffuse, non conobbe la politica. La teologia, come dominava morale e diritto, non consentì alcuno sviluppo di essa. I libri religiosi coinvolgevano in sé precetti d'ogni genere etici e giuridici, in genere massime di vita sociale. Se s'incontrano precetti politici riflettono non la filosofia o la scienza politica, ma l'arte politica, il pratico comportamento degli uomini.

Nell'antico Egitto abbiamo gl'insegnamenti sull'arte di regnare che il re Merekarîe e il re Amenemḥe'e I rivolsero ai rispettivi figli, i primi più ottimisti, i secondi più pessimisti; ma sembra che, anziché essere stati scritti gli uni intorno al 2200 e gli altri intorno al 1980 a. C., si debbano invece ad autori posteriori, che con l'attribuirli a monarchi più antichi vollero accrescerne l'autorità.

Nessuna elaborazione del genere troviamo nei libri religiosi dell'India, p. es. nei libri di Manu, ma i problemi che interessano la politica, quelli delle caste ereditarie che si vogliono uscite dal corpo di Brahmā, rivelano una visione del tutto teocratica. Concezione che neppure il buddhismo poté in fondo trasformare, pur portando con le sue dottrine ispirate all'uguaglianza religiosa un fiero colpo al regime delle caste. Intorno al sec. III a. C. (?) in India Kāmandaki elaborò nel suo noto trattato politico tutta una materia di scienza di governo, stata oggetto di una intera letteratura anteriore (arthasāstra); ma tanto in questi scritti quanto in quello dello stesso Kāmandaki, importanti per la conoscenza dello Stato indiano, non sembra riscontrabile vigore né originalità alcuna di riflesso pensiero politico.

Elaborazioni di mera arte politica, in funzione di moralità religiosa, apparvero in Cina con Confucio, nel sec. VI a. C., e col suo grande discepolo Mencio. In questo tuttavia traluce una dottrina sull'origine del potere, che vorrebbe conciliare il diritto divino e la sovranità popolare. L'imperatore, a suo dire, non nomina il successore, ma lo presenta all'accettazione del cielo e del popolo. Al popolo, d'altra parte, è riconosciuto il diritto di sbarazzarsi del principe malvagio, come il principe deve eliminare i ministri cattivi. Ma i criterî di giudizio non sono svolti. Comunque il sindacato non può essere che morale, poiché moralistica è tutta la dottrina di Mencio. La critica della tirannide si volge, peraltro, in rapporto alla proprietà, su cui quella grava, e della proprietà coglie l'intimo nesso con l'ordine, che essa assicura. Nessun accenno classista, mentre la giustificazione d'ogni forma di lavoro, intellettuale o materiale che sia, rivela una matura riflessione.

Un ricco fiorilegio di massime politiche si potrebbe raccogliere sfogliando l'Antico Testamento, ma nulla che ci porti fuori dal piano fin qui veduto, se si prescinde dall'esperienza etica e religiosa incomparabilmente superiore, che sottostà alla subordinazione dello Stato al principio teologico e che alimenterà poi anche il pensiero cristiano. Tale subordinazione, propria di tutto il mondo orientale, si continua infatti ancora nel pensiero islamico, dove perciò pure la politica non assume dignità di scienza autonoma se non su quella parte del pensiero speculativo che segue le orme del pensiero greco (aristotelico e soprattutto platonico). Ma l'incomprensione dei problemi relativi si rivela appunto nella teologizzazione e nell'astrattizzazione che i problemi greci subiscono presso tali scrittori musulmani (esempio tipico la rielaborazione in al-Fārābī della Politica platonica). Nonostante parziali osservazioni acute di singoli autori, come il siciliano Ibn Zafar, il cui trattato è pur sempre di valore più precettistico e aneddotico che speculativo, l'unico tentativo originale e profondo di una elaborazione dottrinale autonoma non si ha nel mondo islamico che presso lo storico magrebino Ibn Khaldūn, vissuto nel sec. XIV. Egli pone a centro della considerazione politica la ‛aṣabiyyah o consorteria. Minoranza organizzata, conquista l'impero, ma quindi si ammollisce, viene meno, sostituita da un'altra. L'indagine sull'‛aṣabiyyah ha un aspetto scientifico, ma bisogna pur dire che mentre è felice per spiegare la rapida decadenza degl'imperi arabo-berberi dell'Africa settentrionale, non lo è parimenti per tutte le altre regioni del mondo musulmano. Quello spirito di consorteria, se ha valore per la stretta organizzazione tribale nel suo assurgere a un più vasto impero, non qualifica modernamente la classe politica entro più vaste strutture sociali. In ogni modo ci sembra, questo, il livello scientifico più alto, cui il mondo musulmano, e in genere quello orientale, sia pervenuto.

Solo in Grecia la politica si determina come problema e segna due grandi nomi, Platone e Aristotele: anzi il termine "politica" è per eccellenza greco, corrispettivo alla forma di vita sociale propria degli Elleni, la πόλις, la città-stato, dalla quale essi non escono se non con estrema fatica e parzialmente nei tentativi federali.

Platone ed Aristotele non sono infatti che il prodotto più maturo di una lunga riflessione, che risale a tempi assai antichi. Se in Omero l'aderenza alla monarchia patriarcale non è così consapevole da assumere forma riflessa, già Esiodo presenta quella meditazione sul buon governo (εὐνομία) che resterà tipica per tutto il pensiero greco arcaico, il quale appunto in varie forme (monarchica in Esiodo, aristocratica in Pindaro e in Teognide, militare di tipo spartano in Tirteo) si svolge intorno all'εὐνομία condizionata dalla saviezza dei dirigenti, sicché essa viene a costituire uno degli aspetti della speculazione gnomica. La sofistica spezza questo cerchio col porre in discussione le stesse basi dello Stato, col teorizzare il contrasto fra la "natura" e la "legge" e quindi con l'aprire la vita a tutte le dottrine sui fondamenti dello Stato. Con questo moto di idee, in parte dipendendone in parte intrecciandovisi, va di pari passo (nel sec. V-IV a. C.) la raccolta e la comparazione delle varie costituzioni, che ha un esempio più teorico nella discussione sulla monarchia, l'aristocrazia, la democrazia che Erodoto mette in bocca a tre Persiani, e un esempio più circoscritto a singoli Stati nei libri di Crizia sulla costituzione di Atene, di Sparta e della Tessaglia. Si elaborano così i due tipi d'indagini che si comporranno poi armonicamente in Aristotele, in entrambi i quali, superata la crisi di pensiero rappresentata dalla sofistica, si afferma generalmente come essenziale alla determinazione del valore dello Stato il suo compito educativo (così già in Tucidide): nel che si continua in nuova forma l'antico motivo dell'εὐνομία. Ne è espressione maggiore Platone, ma accanto a lui non va dimenticato Isocrate, le cui teorizzazioni dello Stato come fattore massimo d'incivilimento (di παιδεία, secondo un'espressione a lui molto cara) se non sono profonde come le platoniche, hanno però l'importanza di porre il problema del rapporto tra le singole πόλεις e di tentare di risolverlo con l'attribuzione di una funzione egemonica alla πόλις che abbia παιδεία superiore: un atteggiamento di pensiero che avrà larghissima eco in tutto il mondo antico e sarà ancora trasferito alle condizioni dello Stato romano in età imperiale (per es., in Elio Aristide).

Il nome di Platone, secondo alcuni, è sinonimo di utopia, come lo saranno quelli di Moro e del Campanella, ma, se nell'opera del filosofo c'è una parte certamente di politica fantastica, non manca un aspetto che ben si può dire di politica ideale nel senso su definito. Certo avere considerato la società scissa in tre classi immobili corrispettivamente alle tre facoltà dell'uomo: intelletto (sapienti), coraggio o volontà (guerrieri), senso (artigiani); volere soppresse famiglia e proprietà per assicurare meglio la dedizione allo Stato nella sua unità e armonia; abolire le leggi per un governo di sapienti; dimenticare il diritto per la pedagogia, vagheggiando un affinamento estetico dei cittadini ehe disponga col bello l'animo alla virtù, tutto ciò appartiene all'utopia. Ma, accanto, quanta ricchezza di determinazioni immortali! Il compito pedagogico dell'ente politico, se ripugna a una stretta concezione giuridica dello Stato, s'inquadra mirabilmente nel programma di quanti lo Stato intendono etica realtà. L'indagine di Platone sulla giustizia, che si legge nello Stato più chiaramente, essendo scritta in lettere grandi, laddove nel singolo è scritta in caratteri piccoli, lega l'indagine politica a quella giuridica, pone il problema della legalità intrinseca dell'azione statale, che la scienza mai più dimenticherà.

Il difetto maggiore della dottrina platonica è la mancanza in essa di un vero concetto della libertà. Per quanto talora in alcuni scritti in confronto di altri faccia maggiori concessioni all'individuo, in realtà elide senz'altro il problema dei rapporti dell'individuo con lo Stato. Platone vede lo Stato suprema realtà morale, cui incombe realizzare la felicità universale a mezzo dell'universale virtù (e la giustizia è poi virtù per eccellenza), e in esso risolve ogni valore. L'individuo è nulla fuori dello Stato, il cui potere è omnicomprensivo, illimitato. Non è ammissibile quindi una morale affatto soggettiva che asserisca una dignità della persona in sé, ma la stessa morale è morale civica, rilevante ai fini collettivi. In questo senso la morale si risolve nella politica, diviene politica, ma la politica perde la sua peculiare natura, perché congloba tutti i fini umani, sino a quelli etici più alti. Liberatasi dalla religiosa trascendenza, soggiace a forze pratiche che ne snaturano l'autonomia. Risolve, è vero, la morale, ma finisce per permearsi talmente di essa da divenire morale essa stessa, non individuale e soggettiva, ma cittadina e pubblica.

Questa qualificazione morale della politica permane in Aristotele, al quale è legata la maggiore trattazione della nostra scienza non solo forse nell'evo antico ma in tutti i tempi. Egli segue un metodo affatto diverso da quello del suo maestro Platone. Non lo interessa la politica ideale, bensì cerca costruirne una più aderente alla realtà. Non per nulla prima di accingersi alla sistemazione egli aveva raccolto le costituzioni di ben 360 Stati e le aveva studiate in un'opera, purtroppo in gran parte andata perduta, di cui ci rimangono scarsi frammenti, tra cui notevole quello sulla costituzione d'Atene. Non è mancato chi ha considerato Aristotele il fondatore della politica sperimentale, sebbene invero le sue premesse permangano metafisiche.

Anche per Aristotele lo Stato è il più alto valore sociale, prima degli individui, come il tutto è prima delle parti. Organismo perfetto, congloba in sé tutta la vita, che a esso tende in un naturale processo, che parte dall'uomo definito animale essenzialmente socievole, attraverso la famiglia e il comune. Dello Stato Aristotele instaura una profonda analisi, fissandone definitivamente i problemi: la teoria della sovranità, la divisione dei poteri, la dottrina sulle diverse forme di governo, sulla successione di queste; costituendo, si può dire, il patrimonio non solo della politica propriamente detta, ma altresì delle varie branche del diritto pubblico.

Il distacco da Platone, non tanto nella generale concezione dell'essenza e dei fini dello Stato quanto nelle particolari vedute, è profondo. Le idealità del maestro sono confutate. L'abolizione della famiglia e della proprietà trova in lui un critico sicuro. Lo stesso governo platonico dei saggi gli sembra vago e preferisce quello fondato sulle leggi, ma queste concepisce strettamente legate all'ambiente sociale. Più stabile il governo, nota mirabilmente, se si basa sulle classi medie, che temperino i dissensi tra i due naturali nemici, la nobiltà e il popolo. Nel fatale conflitto tra i grandi e la plebe, i forti e i deboli, i ricchi e i poveri vede la causa delle rivoluzioni. Mentre gli uni vogliono assolutamente l'ineguaglianza, gli altri a ogni costo, anche con la violenza, sostengono l'eguaglianza, donde rivoluzioni dei settatori dell'eguaglianza e reazioni degli avversarî. Ritiene Aristotele, e le sue vedute al riguardo saranno approfondite dal Machiavelli, che per sfuggire a tali torbidi, occorre che ogni governo non abusi del suo principio. Ma che Aristotele non abbia superato la concezione platonica, meglio diremmo in generale greca, che dello Stato fa il più alto valore, e che infine per esso misconosca all'uomo ogni dignità fuor dello Stato stesso lo dimostrano le sue concezioni sulla schiavitù. Non solo spiega l'istituto, ma addirittura cerca di giustificarlo.

La morte di Alessandro Magno, seguita dopo poco da quella del suo grande maestro Aristotele, segna una profonda trasformazione nel piano della visione greca della vita. Il Macedone con il suo tentativo di creare uno Stato universale, culturalmente ellenico, aveva radicalmente turbato la tradizionale concezione greca limitata alla città-stato: aveva anche spezzato sia dal punto di vista pratico, sia da quello ideale il tradizionale orientamento dei Greci verso Atene e verso Sparta come due forme tipiche di vita politica, sebbene naturalmente l'idealizzazione di Atene e forse ancora più di Sparta sia sopravvissuta a lungo nel mondo antico. Se fino allora la morale era rimasta cittadina e pubblica, dal secolo III in poi, ampliandosi l'orizzonte politico, l'uomo cominciò a sentirsi meno astretto alla piccola patria, a divenire cittadino in una sfera più ampia, mentre la morale si celebrava in forme più intime e soggettive. Le nuove scuole dalla stoica all'epicurea, se dicono l'uomo cittadino del mondo, ne assicurano l'etica dignità su fondamenta affatto individualistiche.

La politica in questo periodo ellenistico decadde. Di contro era l'etica a celebrare i suoi maggiori fastigi, annunciando idealmente quella profonda inversione di valori, che è poi inveramento nella coscienza, in cui consiste il cristianesimo nel suo essenziale messaggio. Tuttavia non mancarono interessanti sviluppi politici. Mentre l'utopia fiorisce nelle forme del romanzo con Giambulo ed Evemero, che vagheggiano sogni di comunità perfette in fantastiche isole, lo stoicismo (ricordiamo il trattato politico di Zenone) pone esigenze cosmopolitiche dianzi ignote, l'epicureismo cerca di enucleare motivi utilitarî per farne applicazione alla stessa vita sociale. Notevole, peraltro, in esso osservare i primi accenni di una dottrina, che in seguito avrà ampî sviluppi, quella del contratto sociale. Contro la concezione aristotelica che ritiene lo Stato naturale formazione, per Epicuro lo Stato nasce dall'accordo, come il diritto da un calcolo d'utilità. Una potenziale anarchia quindi minaccia l'ente politico, poiché il patto può essere rotto, quando l'utile che lo ha generato venga meno.

Se Roma, come è noto, subì l'influsso speculativo ellenico, il forte ordinamento dello Stato romano fu oggetto di ammirazione e di studio per i vinti Greci. Così Polibio, nel sec. II a. C., durante la cattività in Italia, poté esaminare le istituzioni romane per quindi trattarne scientificamente. La sua teoria della successione delle forme di governo è rimasta pertanto fondamentale.

La monarchia patriarcale, prima forma di governo, fatalmente degenera in tirannia. Questa suscita la ribellione dell'aristocrazia, donde il governo oligarchico. L'insurrezione del popolo rappresenta il transito alla democrazia, e quindi per interni rivolgimenti si ricade nella tirannia, per ricominciare un nuovo ciclo. Ogni forma di governo, secondo Polibio, ha i suoi fatali germi di corruzione. Solo Roma sembra sottrarsi alla legge storica così delineata. In essa, monarchia, aristocrazia, democrazia si contemperano, rappresentata la prima dai consoli, la seconda dal senato, la terza dai comizî. Attraverso l'equilibrio di opposti elementi la costituzione acquista stabilità e saldezza. È questa la teoria del governo misto, che, germinalmente svolta da Platone e da Aristotele, Polibio consegna ai politici romani, che diversamente l'apprezzeranno. Se Cicerone l'accoglie, dopo aver valutato i vantaggi e gli svantaggi delle differenti forme politiche, Tacito, forse più profondamente, ritiene che i governi misti siano più facili a essere lodati che effettuati, e, ove siano effettuati, non durino. Comunque la teoria supererà i limiti della classicità, e, attraverso il Medioevo, apparirà al Rinascimento luminoso sogno per dare disciplina e assetto al tumultuoso mondo della politica, primo tentativo forse per una giuridica garanzia delle libertà.

Invero questo concetto della libertà, ignoto ai popoli orientali, che si ritenevano liberi quando non erano sottomessi a un altro popolo, non trovò adeguato sviluppo nel pensiero greco, soffocato dall'esigenza totalitaria dello Stato. Solo Aristotele ne ebbe qualche felice intuizione, quando mostrò preferire il regime fondato sulle classi medie, o quando proclamò che i governi debbono stare ai loro principî, o quando ancora scrisse che l'autorità è tanto più durevole quanto meno estesa. La teoria del governo misto ebbe il merito di porre a fuoco il problema della libertà nella sfera della politica. Con riferimento a Roma trovò i suoi migliori sviluppi. Ciò che, d'altra parte, sta a spiegarne la sostanziale giuridicità.

Ma altrettanto interessante fu in Roma lo sviluppo assunto dalla teoria di Panezio, che, su analoghe premesse stoiche, aveva visto in un individuo il tutore dell'equilibrio di uno Stato misto: di qui partirà Cicerone nello svolgere quel concetto di princeps, che già Panezio aveva visto incarnato in Scipione Emiliano; e se alle recenti ricerche pare più dubbia la diretta relazione fra la teoria di Cicerone e la figura del principe, come sarà realizzata da Augusto, non dubbia è l'unità del processo storico, che dalla teoria del governo misto porta al principato. Come poi dal principato porta alla sempre più diretta e rigorosa formulazione dei compiti del monarca, che già netta, per esempio, nel De clementia di Seneca, si svolge attraverso panegirici e trattati dell'età imperiale di pari passo con l'accentuarsi dell'assolutismo statale.

Cristianesimo, Medioevo, Età Moderna. - Se l'esperienza del mondo classico conclude risolvendo la morale nella politica, in fondo moralizzando questa nell'istituto totalitario omnicomprensivo dello Stato, il cristianesimo, del resto in certo modo preceduto dallo stoicismo e dall'epicureismo, è la dissoluzione di quella posizione e della visione della vita che vi si connette. Ricondotta l'etica alla coscienza, sublimata la prassi nell'amore e nella carità, lo Stato resta di fuori, esteriorità che lo spirito ignora; il suo diritto è coazione, forza; la sua azione, che è poi la politica, è svuotata da ogni sublimità, opera cieca della natura e della carne, peccaminoso teatro del male.

Il messaggio cristiano, si è detto molte volte, è tutto morale. All'etica oggettiva e statale dei Greci sostituisce l'etica soggettiva. I principî dell'uguaglianza, della libertà, che deduce dalle premesse pratiche dell'amore e della carità, sono affatto morali. D'altra parte, già nel distinguere una sfera dello spirito, che spetta a Dio, e una della carne, che può soggiacere all'uomo, al diritto, allo Stato, è un porsi contro lo Stato, esorcizzare, bandire, condannare la politica; che è poi un atteggiamento politico.

Il significato speculativo del cristianesimo è dunque la posizione della politica come negatività, non altra dalla morale, ma nella morale. Se non bene, assoluto etico, come per i Greci, male, assoluto immorale, esperienza peccaminosa da superare in una crisi che attraverso la vita religiosa, la grazia, realizzerà il regno di Dio. Posizione altamente critica questa, ci sembra. I Greci ignorarono in fondo il problema della politica, se per essi politica ed etica erano una cosa. Col cristianesimo la politica è, è male da combattere, ma è, con essa bisogna fare i conti per superarla. Il dualismo tra "civitas divina" e "civitas terrena" è appunto il dualismo tra vita etico-religiosa e vita politica. Per i Greci lo Stato è istituto morale, oggetto di considerazione morale, tende alla felicità generale a mezzo della virtù di tutti; ora è male, ma la sua azione non è più morale né religiosa, epperò sorge il problema del suo intendimento.

Certo queste sono posizioni-limite. Nella realtà le cose si pongono altrimenti. La religione, nonché estranearsi alla vita, deve operare nel mondo, sia pure per i fini eterni, ha da fare i conti con lo Stato, svolgere una sua politica. Lo Stato, nonché male assoluto, pura negatività, diviene male relativo, anzi rimedio del peccato. Sorto dal peccato, poiché senza il peccato non sarebbe, è rimedio al peccato, in quanto si subordini alla religione, che, alla sua volta, diviene organizzazione dei fedeli, Chiesa. L'antinomia tra "civitas divina" e "civitas terrena" a poco a poco cessa di essere il contrasto ideale tra la morale soggettiva e interiore e la politica esteriore e coattiva, si trasforma nel conflitto storico tra Stato e Chiesa, tra lo Stato ribelle che non vuole subordinarsi alla Chiesa e la Chiesa che tale subordinazione esige, poiché solo in essa lo Stato può redimersi, lavare l'originale peccato, divenire esso stesso strumento mediato di salvezza. S'inizia una lotta ignota all'antico gentilesimo, la lotta tra Stato e Chiesa. La politica, che abbiamo visto nascere come negatività morale, cessa di essere male assoluto, tende a divenire male relativo, anzi mezzo di azione morale. Appena definitasi autonomamente nel seno della morale, la morale vuole riassorbirla, ma essa si ribella, e il contrasto riempie la storia del Medioevo e dell'età moderna sino a noi.

Il pensiero cristiano si svolge tutto nei termini sopra segnati. In una posizione integrale nega lo Stato, la politica, il diritto; se non li ignora, li combatte. Allo Stato oppone messianicamente il regno di Dio che dovrà dissolverlo. Come l'amore distrugge il precettismo giudaico e lo stesso diritto romano, il Vangelo ignora la politica, che è azione per fini terreni. In una posizione subordinata vuole assorbire lo Stato, la politica, il diritto; moralizzarli, renderli suoi mezzi per un'alta missione. Già S. Paolo tenta una teoria della sovranità, tutto deducendo da Dio e ponendo il primato della teologia e della morale sulla politica. Ma, salvo le rigorose denegazioni di alcuni Padri della Chiesa (e tra i maggiori ricordiamo Lattanzio e S. Ambrogio), presto s'inizia il processo di subordinazione o più ancora di conciliazione che nel Medioevo sembra dominante.

Del resto che la soluzione del problema politico, anche in sede speculativa, non potesse pervenire alla denegazione, ma alla parziale giustificazione dello Stato e della politica, dimostra il fatto che la tradizione classica non si perde del tutto, ma si continua, armonizzandosi con il senso nuovo dei problemi proprio del cristianesimo. S. Agostino stesso è tutt'altro che immune da elementi culturali classici, greci e soprattutto alessandrini, dal platonismo alle correnti più prossime dell'ellenismo. Tipica la sua posizione. Egli parte dalla rigorosa antinomia di mondo celeste e di mondo umano, tra spirito e corpo, tra Chiesa e Stato, tra religione e politica. Approfondisce l'antitesi tra il regno di Dio, vale a dire di coloro che vivono seguendo la legge di Dio e che con Dio regneranno in eterno, e il regno di quanti vivono nel peccato, predestinati all'eterna dannazione: "genus eorum qui secundum Deum vivunt et genus eorum qui secundum hominem vivunt". È il dualismo tra città celeste e città terrena da intendersi in senso complesso, mistico-speculativo e insieme storico. Da quest'ultimo punto di vista adombra l'antitesi tra Stato e Chiesa. Ma appunto in sede storico-politica l'intransigenza di Agostino si tempera. L'organizzazione sociale sarebbe sorta anche se non fosse stato il peccato, soltanto avrebbe avuto un carattere non coercitivo, espressione della legge divina che domina il mondo, diritto naturale primario. Ciò che caratterizza lo stato dopo il peccato, l'azione politica sua, il suo diritto, è la coazione. Al diritto divino (o diritto naturale primario), che avrebbe regolato la vita nell'innocenza, si sostituisce il diritto naturale (o diritto naturale secondario), che la regola nella condizione di peccato.

S. Agostino non è contrario allo Stato in sé. Lo Stato, che realizza l'idea cristiana, non è condannevole. Ciò che egli condanna è lo Stato pagano, che nel tempo rappresenta la "civitas terrena". Gli Stati pagani veramente nascono dal peccato, "magna latrocinia", si fondano nel sangue, sono diabolici. Ma, in generale, lo Stato può purificarsi attraverso la Chiesa, legittimare la sua prassi attraverso la tutela della verità cristiana, subordinando i suoi fini contingenti agli eterni, la politica alla morale e alla religione. Posizione, che domina i secoli di mezzo. Speculativamente, la politica è parzialmente giustificata, ancella dell'etica e della teologia. Non opera diabolica, come comunemente si crede, per S. Agostino e il Medioevo è attività umana, che può acquistare valore moralizzandosi e subordinandosi alla religione.

Che questa sia la posizione medievale lo dimostra la continuità della tradizione classica nel periodo intermedio. È merito dei fratelli Carlyle avere dimostrato come il Medioevo, dai suoi inizî fino ai secoli XI e XII, si svolga in un processo nel quale sono accolti più o meno elementi della filosofia postaristotelica e stoica, in massima acquisiti attraverso i giuristi romani dal secolo II al VI, conosciuti nelle fonti giustinianee e nei Santi Padri. Si comprende quindi come lo stesso teocratismo riceva numerose limitazioni e lo Stato non perda del tutto valore, la politica sia in certo modo suscettiva di redenzione. Compito dello Stato è ritenuto quello di assicurare la giustizia, per quanto poi questa sia intesa cristianamente, giustizia nel cristianesimo, non fuori del cristianesimo. In quanto ai rapporti tra Stato e Chiesa la dottrina non porta a un'assoluta supremazia della Chiesa, ma a un rapporto di coesistenza e di separazione; teoria accolta e proclamata da Gelasio I nel sec. V e con minore determinatezza da S. Gregorio Magno alla fine del sec. VI. Papa Gelasio scrive che è Dio stesso a voler distinto il potere spirituale dal temporale, affinché la concentrazione in uno solo non generi abusi. I vescovi nelle cose della religione sono superiori allo stesso imperatore, l'imperatore superiore ai vescovi nelle laiche.

Ma lo Stato cui si riferisce Gelasio è già fedelis, cristiano. Anche in scrittori, come Incmaro di Reims, che accentuano la superiorità della Chiesa sullo Stato, come l'anima è superiore al corpo, resta fermo il principio gelasiano della separazione dei poteri. La stessa lotta per le investiture, con tutta la fioritura pubblicistica che l'accompagna, non è determinata dall'aspirazione della Chiesa ad assorbire lo Stato, negandolo, ma a rivendicare una propria autonomia di fronte all'Impero, che con le investiture ai vescovi aveva mondanizzato la religione. Le lettere di Gregorio VII a Ermanno di Metz, nonché, come si crede comunemente, ritenere lo stato originato dal demonio, intendono protestare contro le sopraffazioni della nobiltà e la contaminazione tra religione e potere temporale. Il concetto politico è sempre quello di due poteri distinti, il laicale e l'ecclesiastico, il temporale e lo spirituale, entrambi nell'ambito della fede e dei fini cristiani; ove la politica mantiene una sua limitata autonomia di fronte alla religione, per quanto soggiaccia a esigenze morali e confessionali.

Tuttavia accanto alla perdurante dottrina gelasiana si svolge nel sec. IX il principio della teoria della superiorità della Chiesa sullo Stato. Le famose Decretali pseudoisidoriane (v. pseudoisidoriana, collezione) svolgono la tesi della superiorità dell'autorità ecclesiastica su quella temporale, e del vescovo di Roma su tutti i vescovi del mondo. Nel testo delle decretali pseudoisidoriane trova posto la "donazione di Costantino", falsificazione di più antica data, che mentre vuol porre il dominio di fatto del pontefice, confermato da successive donazioni carolingie, su basi giuridiche, venerabili per antichità, pretende svuotare il diritto dell'Impero sull'Urbe, sull'Italia, sull'Occidente, a vantaggio del papa. Nello stesso senso Nicola I papa nel sec. IX proclama la superiorità del potere ecclesiastico su quello laico e invita il clero a negare obbedienza ai tiranni; principio, questo, di un apprezzamento morale, che vuol porre l'attività politica alla mercé della Chiesa. Accenni a un radicale sovvertimento nel piano speculativo che dominò il primo Medioevo. Lo Stato, nonché distinto dalla Chiesa, deve essere assorbito, soggiacere del tutto all'azione sua. Già ristretto a una disciplina esteriore della vita, sempre ai fini ultraterreni, si vede pur questa tolta, che la Chiesa vuole direttamente disciplinata o attraverso lo stesso clero o al più con principi suoi mandatarî, rappresentanti, legati. La consacrazione e l'incoronazione dell'imperatore sono intese come costituzione di un vero rapporto di dipendenza. La coesistenza cessa, sottentra la pretesa a una disciplina univoca della vita politica da parte della Chiesa. La politica non è più ancella, ma addirittura lo stesso con la morale e la religione, tutti mezzi per il fine ecclesiastico. In questo senso alla fine del sec. XII nelle lettere al duca di Carinzia e ai vescovi francesi, papa Innocenzo III formulava chiaramente la tesi della supremazia pontificale anche nella sfera mondana. E la lotta quindi si svolgerà fiera tra i due poteri un po' dovunque. In Inghilterra divampò in quel secolo, nel campo sia dottrinale sia pratico, nell'urto tra re Enrico II e l'arcivescovo Tommaso di Canterbury, accanto al quale è Giovanni di Salisbury, che arrivò a sostenere la legittimità del tirannicidio.

Tale l'estrema posizione che la Chiesa svolgerà nelle sue lotte con lo Stato, ma non la sola, e neppure la più autorevole. Dopo Agostino, S. Tommaso d'Aquino tende a una soluzione del problema, che, mentre assicura alla vita una disciplina univoca sotto l'egida della religione, conceda allo Stato una certa sfera di autonomia. Come già la tradizione ufficiale della Chiesa fino al sec. XI era ispirata alla conciliazione dei poteri, parimenti l'angelico dottore ripugna dagli estremismi, volto a temperare, armonizzare, a mediare le antitesi. Del resto nuovi elementi entrano in giuoco a colorare diversamente il problema, la rinascita aristotelica. Se in Agostino permangono note classiche relative allo Stato, il dualismo tra "civitas coelestis" e "civitas terrena" potenzialmente esautora anche lo Stato cristiano di cui egli pur rivendica l'idealità; in S. Tommaso invece l'aristotelismo esige una considerazione dello Stato come formazione naturale derivante dalla socievolezza umana, la politica come umana attività che con caratteri di mondanità presenta pure una certa autonomia. Il processo storico ne segna le fasi dello sviluppo ulteriore.

Dell'esistenza di tale sfera politica e giuridica nell'Aquinate è indice critico la recognizione della legittimità dello Stato, il quale sarebbe anche senza il peccato. Espressione della natura guidata dalla ragione, attua fini che solo in questa vita si possono raggiungere, il bene comune, la pace, la giustizia. Suoi strumenti le leggi positive. L'azione sua è la politica, certo ancora non immune da contaminazioni etiche e subordinata alla religione, ma pure già degna di considerazione nei termini mondani. Certo la politica non realizza i valori supremi, ma già le si riconosce propria l'organizzazione mondana della vita associata, un significato terreno che ha pure la sua importanza.

La via aperta dall'Aquinate sarà percorsa dal pensiero successivo nell'affannosa ricerca di una soluzione del problema. Contemporaneamente una tendenza nella Chiesa, corrispettiva a una prassi determinata, contrasta la dottrina tradizionale dell'armonia dei poteri e svolge una soluzione marcatamente teocratica. Le teorie della "coordinatio ad unum", della "plenitudo potestatis" pontificia, della subordinazione dell'Impero e degli Stati tutti al Papato appartengono ai secoli XIII e XIV, precisamente alla lotta tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello e a quella più tarda di un ventennio tra Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro. Documenti insigni del partito bonifaciano le tre famose bolle, Clericis laicos del 1296, Ausculta fili del 1301, Unam sanctam del 1302, nella quale ultima è la solenne proclamazione dell'integrale supremazia papale: "omnem humanam creaturam subesse romano Pontifici declaramus". Principio che tendeva a svuotare lo Stato d'ogni diritto proprio, la politica elideva nella religione, ma che veniva affermato quando allo Stato, con lo stesso Aquinate, era stata riconosciuta una propria funzione mondana e la politica già tendeva a scindersi dalla morale e dalla religione. La formula di Bonifacio VIII rinverdiva in senso teocratico quella paolina dell'Epistola ai Romani: "omnis potestas a Deo".

Una serie di scrittori si svolgono nell'ambito del pensiero bonifaciano, che sarà poi di Giovanni XXII: Egidio Romano, Giacomo da Viterbo, Agostino Trionfo, Alessandro da Sant'Elpidio. Maggiore certo il primo, il quale, mentre in una sua prima opera scritta sotto l'influsso dell'Angelico fonda la politica sulla natura stessa dell'uomo e allo Stato dà una missione propria, nel De ecclesiastica potestate nega invece allo Stato ogni dignità morale, qualifica la Chiesa il solo remedium peccati, il solo ente capace di avviare al bene mondano ed eterno l'uomo. La "plenitudo potestatis" papale è intesa in senso spirituale e temporale, giungendosi persino ad affermare la legittimità della proprietà solo sub Ecclesia e per Ecclesiam.

Il pensiero politico curialista cui abbiamo accennato ha in sé elementi che mal si accordano col mutato spirito dei tempi. Tuttavia un acuto scrittore, il Dempf, ha voluto anche in esso vedere alcuni aspetti costitutivi del mondo moderno, scienza, cultura giuridica, modi e concetti d'una economia monetaria, attraverso cui la borghesia determina l'età nuova. Dove è certo dell'esagerazione. Il curialismo ci sembra fuor di chiave con il tono del tempo; l'istituto che difende è tradizionale; i fini, unità cattolica, primato pontificio, subordinazione piena alla Santa Sede, urtano la nuova coscienza, che sostiene con lo Stato sovrano il particolarismo politico e la libera personalità umana, lo Stato e l'individuo, il cui chiarimento spetterà ai secoli successivi.

Del resto la fioritura dottrinale maggiore è tutta fuori del curialismo. In Francia i pubblicisti di Filippo il Bello da Pietro Dubois a Giovanni da Parigi, mentre affiora un principio nuovo che la sovranità deduce dal popolo ("populo faciente et Deo inspirante"), consolidano lo Stato monarchico territoriale, dove il re è pari all'imperatore, "rex est imperator in regno suo", lo Stato che di fronte all'Impero e alla Chiesa rivendica la sua autonomia ("superiorem non recognoscens"). In Italia, mentre, forse in guisa autonoma, nel mezzogiorno monarchico e nei comuni settentrionali e centrali affiorano concetti simili, i giuristi di Bologna e delle altre università ritornano al diritto romano per trovare al potere un fondamento giuridico. L'imperatore romano-germanico è considerato erede dei Cesari; la lex regia de imperio diviene fonte del potere sovrano attraverso una concessio comiziale, intesa nel modo più diverso. Si elaborano i concetti di delega e rappresentanza che diverranno parte integrante del nuovo spirito borghese, in fondo democratico pur nei limiti in cui si può parlare di democrazia nel Medioevo. Di essi sono imbevuti anche gl'imperialisti Manegold di Lautenbach e Lupold di Babenberg. Del resto, nel seno stesso della Chiesa cattolica, i moti ereticali e quello dei fraticelli non aderiscono alle soluzioni curialistiche (notevole in questo senso Guglielmo Occam monaco difensore, accanto a Marsilio, dell'Impero), e, d'altra parte, Durando di S. Porciano svolge la tesi dell'Aquinate. Se questi distingue la funzione sovrana e la persona che l'esercita, e solo la prima considera voluta da Dio, non la persona e i modi attraverso cui quella si pone, Durando spiega come non debba intendersi che l'autorità specifica d'ogni re derivi da Dio, ma solo che, secondo la retta ragione che Dio pose negli uomini, è necessario che una tale autorità sia. Su una base essenzialmente tomistica Giovanni Fortescue, in Inghilterra nel Quattrocento, distinguerà il potere, dominium, in regale e politicum, comprendendo col primo la monarchia assoluta, col secondo, di cui manifestamente è fautore, quella temperata dalle assemblee dei nobili e dei comuni; precursore in ciò dei grandi scrittori costituzionali dei secoli successivi.

Più difficile a definirsi l'opera di Dante. Mentre per mentalità, argomenti, autorità essa appare legata ai secoli di mezzo e la concezione politica sembra chiudere il ciclo delle teorie medievali, d'altra parte, rivendicando l'indipendenza dell'Impero dalla Chiesa, dà al primo autonomia di fini, una certa sua moralità, dignità di valori umani. Se la filosofia della storia, cui aderisce l'Alighieri, è tradizionale (missione divina dell'Impero, legittimità del dominio romano in quanto prepara l'avvento di Cristo), egli ha viva in senso moderno la migliore esperienza aristotelico-tomistica. La sua stessa dottrina dell'Impero è ricca di aspetti originali. L'Impero è un diritto di supremazia, che implica un'autorità suprema di legislazione, amministrazione e giustizia, senza offendere le subordinate autorità autarchiche, regni e città. Queste mantengono la loro sovranità nell'ambito dell'Impero, il quale è più che altro un supremo coordinamento ai fini della pace; dove è una conciliazione tra l'esigenza universalistica unitaria e il particolarismo politico, che già nel Trecento andava svolgendosi.

L'autore che tutti questi movimenti di pensiero conclude è Marsilio da Padova. Imbevuto di aristotelismo averroistico, ricco delle più diverse esperienze nell'agitata vita, asserisce energicamente nel Defensor pacis l'umanità della sovranità, lo Stato formazione del tutto umana, il popolo causa efficiente della legge, l'esecutivo subordinato al legislativo, per quanto poi l'apparente sua democrazia debba intendersi più secondo gli schemi classisti e corporativi che nel senso atomistico e numerico del moderno individualismo sorto dalla rivoluzione francese. Notevole altresì il tentativo di applicare tali schemi alla Chiesa in senso conciliare. L'importanza di Marsilio è veramente grande, se si pensa che con la distinzione da lui svolta tra actus imperati non transeuntes, oggetto della morale e della religione, e actus imperati transeuntes, oggetto del diritto, egli fa inerire a questi la nota della coercibilità che a quelli nega. La Chiesa, dunque, tutrice del magistero etico-religioso, ignora la forza, mentre questa caratterizza l'attività dello Stato giuridico e politico. Ne consegue l'inviolabilità della coscienza, la tolleranza religiosa: sfere sottratte all'azione coercitiva, rivendicata all'autorità dello Stato, ma limitata alla coordinazione esteriore delle azioni. Principî d'una fecondità e modernità impressionanti.

Alcuni hanno voluto rinvenire in Marsilio anche gli schemi del contrattualismo politico, ma egli è troppo aristotelico, troppo vivo ha il senso della naturalità delle formazioni politiche per derivarle unicamente dal consenso e dalla volontà. Del resto il filone contrattualistico, di cui le prime tracce sono, se non nei sofisti, almeno nello stoicismo e nell'epicureismo, non era venuto mai meno nel Medioevo, apparendo persino in imperialisti come Manegold di Lautenbach, e finisce per confluire insieme alla tradizione democratica marsiliana nel movimento conciliare.

L'esigenza bonifaciana della "reductio ad unum" del mondo politico al papa, dell'assoluto primato, dell'onnipotenza romana non poterono non incontrare una reazione nello stesso campo ecclesiastico. I grandi sinodi di Costanza e di Basilea, mentre rappresentano in parte i motivi delle chiese nazionali, quindi delle autonomie locali, combattono le tesi suddette in nome del diritto conciliare, in quanto al concilio è deferita secondo lo ius divinum e lo ius naturae la rappresentanza della cristianità. A Costanza, fra tanti altri, sono G. Gerson (che confutò il monaco Giovanni Petit sostenitore del tirannicidio), Pietro d'Ailly, Teodorico di Niem, Enrico di Langenstein, a Basilea E. S. Piccolomini, Nicolò de Tudeschi, Gregorio di Heimburg, e, grande sopra tutti, Niccolò Cusano. Nella sua De concordantia catholica i principî maggioritario, di rappresentanza, di delegazione, il contratto sociale sono schemi non solo per intendere l'organizzazione ecclesiastica, ma altresì quella imperiale, che egli vuole radicalmente riformata. Tutti gli uomini per natura sono uguali e liberi. Lo Stato non può sorgere che come sottomissione degli uni agli altri, se non consensualmente. Dall'essenza contrattuale dell'ente politico deduce la sovranità del popolo, principio efficiente dello Stato, per quanto in linea di massima lo ricolleghi sempre a Dio come causa ultima.

Potrebbe sembrare che dal punto di vista politico il moto conciliare si conchiuda vanamente. I maggiori suoi rappresentanti finiscono per divenire paladini di Roma. La Chiesa, invece di seguire la prassi parlamentare e democratica, tende a un assolutismo centralistico sempre maggiore. Il suo teorico, Giovanni Torquemada, rinverdisce le antiche dottrine assolutistiche e teocratiche. Invero non è così: l'esperienza conciliare non è perduta; contrattualismo, sovranità popolare, rappresentanza, dalla sfera religiosa passano a quella statuale e alimentano la nuova politica. Il significato precipuo di questa, del resto posto da Marsilio, svolto dal Cusano, per cui il soggetto è riconosciuto principio nell'ordine sociale e politico, oltre che in quello ecclesiastico, non viene dimenticato, anzi, alimentato dalla coscienza del Rinascimento, porterà a vedute nuove sullo Stato.

I più grandi dei conciliari, E. S. Piccolomini e Niccolò da Cusa sono umanisti, epperò il loro pensiero si colora con quegli elementi che sono proprî del Rinascimento. L'uomo si pone al centro della vita morale. La politica è la sua azione concreta ai fini collettivi. Mentre prima la fonte del potere si riconosceva in Dio e solo per gradi discendeva all'uomo; ora, eliso il diritto divino, ogni posizione politica è intesa in senso d'immanenza, non sempre spiritualmente parlando, ma più spesso naturalisticamente e oggettivisticamente. Lo Stato è formazione umana e naturale insieme, da studiarsi dal duplice punto di vista della natura e della ragione. Il soggetto rivendica la sua autonomia; causa efficiente della politica, in essa estrinseca la sua libertà, il suo spirito creativo. Lo Stato gli è dinnanzi, formazione della natura, ma egli lo plasma ai suoi fini di gloria, lo trasforma con la sua virtù, vera opera d'arte.

Sorge dunque un nuovo concetto dell'individuo, non più soggiacente a un'autorità fuori di lui, ma egli stesso principio etico e politico, non più dominato dall'eteronomia, ma per eccellenza autonomo. In alcuni umanisti può sembrare che questo mondo appena conquistato si perda, ché presto la precettistica medievale ritorna, e con essa la subordinazione a leggi eterne, ma invero quella precettistica mira all'esemplare, a formare l'uomo nuovo, e l'uomo nuovo non è più quello di S. Tommaso e di Egidio Romano, che dall'alto riceva le direttive, ma il principe, l'uno, l'eroe, consapevole della sua individualità creativa. Dal Petrarca al Beccadelli, al Platina, all'Alberti, a Diomede Caraffa, a Francesco Patrizi, il re è sublimato nella sfera politica, poiché l'essere suo è già Stato, l'azione sua rappresenta lo Stato, la politica è attività creatrice ai fini statuali. Del resto anche in pura sede di diritto pubblico s'intravvedono concetti più moderni. E. S. Piccolomini nel De ortu et auctoritate imperii Romani analizza per primo gli elementi della nozione di sovranità, intesa come suprema potestas", e quindi sublima il senso dell'autorità statale, feconda intuizione che veramente precorre Bodin.

Col Machiavelli il rinnovamento è completo. L'individualità è riconosciuta creativa della politica. Il singolo con la sua virtù in parte domina la sorte, afferra la fortuna in quello che a lui può soggiacere, crea lo Stato. La politica è in funzione di personalità autonoma. Essa è categoria pratica, aetica e preetica che si moralizza solo nel fine cui mira, lo Stato, il valore supremo. È questo della politica di là dal bene e dal male concetto profondamente speculativo, che, pur non espresso con rigore sistematico, domina tutta l'opera del Machiavelli, il problema che egli ebbe vivo, dinnanzi alle cui conseguenze talora arretra, più spesso s'inorgoglisce della stessa sua scoperta. Il Machiavelli sente l'individuo e conosce lo Stato, intuisce il loro rapporto come attualità della storia. Inutile discutere se egli ci ha dato vitali precetti d'arte politica o una trattazione di scienza politica. Ci ha dato di più col senso dell'autonomia della politica, la sua categoricità. Con ciò il Machiavelli coglie un ritmo originale dello spirito pratico, una guisa eterna dell'operare.

È questo il significato profondo dell'opera di Niccolò Machiavelli, per cui egli è immortale. Passano in seconda linea gli altri problemi; se egli mirasse a dare concretezza al suo ideale con uno stato nazionale italiano, o, piuttosto, in pratica, aspirasse solo a un forte stato nell'Italia centrale, punto di equilibrio nella penisola, forza sufficiente per respingere ogni straniera minaccia. Lo stesso problema dello stato unitario diviene secondario dinnanzi all'universalità della sua intuizione, è problema storico, che nel Rinascimento affiora un po' dovunque. In Francia con Bodin, il teorico della sovranità una e indivisibile, assoluta e perpetua; in Inghilterra con Hobbes, che nelle lotte civili intravede il Leviatano, onnipotente disciplina della vita, cui tutto si subordina, riconosciuto per la prima volta in sé e per sé persona giuridica. Gli altri pensamenti machiavellici, o sono formulazioni astratte, come la teoria dello stato misto, che egli deduce dall'esemplarità classica di Aristotele, Platone, Cicerone, Polibio, Tacito, che del resto aveva una più prossima tradizione attraverso S. Tommaso, Patrizi, Savonarola, e che in Donato Giannotti apparirà ultimo baluardo delle libertà cittadine contro il principato, o mirano a creare pretese leggi scientifiche, come la successione delle forme di governo, in cui segue sempre esempî classici. Il problema che rimarrà è quello dell'autonomia della politica e questo in fine sarà seguito, limitando quindi la trattazione nell'intreccio grandissimo delle dottrine che il mondo moderno ha espresse.

La Riforma protestante in un suo primo aspetto rinnova la vita religiosa in funzione dell'individuo, riconosciuto autonomo nell'ordine della fede. Da tal punto di vista senza la Riforma non s'intende Machiavelli, e viceversa. Di contro la protesta, riconducendo l'attività umana alle determinazioni scritturali e attendendo dall'interpretazione di queste ogni disciplina della vita, non solo morale e religiosa, ma altresì politica, invalida lo ius naturae per lo ius divinum. La gerarchia che, con Tommaso, da Dio scendeva all'uomo attraverso i gradi del diritto divino, del diritto naturale, del diritto umano è infranta. Lo ius divinum invade la sfera dello ius naturae e dello ius humanum, congloba morale e politica. Le conquiste di S. Tommaso, di Marsilio, del Machiavelli si perdono. Lo Stato diviene di nuovo teocratico, istituzione divina. È il pensiero di Calvino. Talora si parla di sovranità popolare, intesa in rapporto alle esigenze teologiche, poiché si mira a porre il popolo sovra i monarchi, per poi assoggettare questi a un controllo, punire, deporre, persino uccidere, ove manchino a certe determinate direttive religiose. Si ammette il tirannicidio, e tiranno è il monarca che non segue la religione del popolo. È la teoria dei cosiddetti monarcomachi, fioriti un po' dappertutto nei secoli XVI e XVII. Ricordiamo Francesco Hotmann, Duplessy Mornai, Buchanan, Althusius, e, in un certo senso, anche il sommo Milton; tutti protestanti. Peraltro le dottrine monarcomache s'insinuarono anche nel cattolicismo, e alcuni scrittori, gesuiti spagnoli, rivendicano pur essi l'autorità del popolo contro il principe, come il Mariana, il Molina, il Suarez, il Bellarmino.

Il problema della fortuna del Machiavelli è quello che più deve interessare in una storia delle dottrine politiche, che voglia essere veramente critica, corrispettiva al chiarimento della stessa categoria politica. L'intuizione machiavellica procede; attraverso denegazioni e confutazioni si svolge e si afferma. Ci limitiamo a fare cenno, nell'enorme mole del materiale, di alcuni autori, in cui la posizione del problema è più che in altri avvertibile. Col suo "particulare" Guicciardini coglie e ribadisce l'economicità della politica, ma nello stesso tempo soffoca gl'ideali attraverso cui il suo grande contemporaneo la purificava. La stessa Controriforma cattolica, nonché opposta alla politica machiavellica, surrettiziamente ne è dominata. Negandola verbalisticamente, poi consiglia con la "ragion di Stato" una prassi assolutamente utilitaria. Da tal punto di vista ricordiamo Zuccolo, Di Castro, Botero, nei quali la crisi della morale tradizionale è più che evidente nel lento contraddittorio formarsi di una politica autonoma. Il Vida, invece, mettendo in rilievo l'origine dello Stato dalla violenza, vede la politica in funzione di forza, e ne rifugge, idealizzando la vita semplice della campagna, come quella presociale. Analogo il problema che tormenta il Campanella, la cui utopia s'inquadra in uno sviluppo che dal Moro attraverso il Rinascimento si protende al sec. XVII. Politico per eccellenza dell'età sua, certo egli conobbe l'amara esperienza del Fiorentino, ma pure aspira a un'universalità di valori pratici che appaiono irrimediabilmente perduti. Epoca, che, come fu detto, non incarna un momento eterno dello spirito, ma consolida istituti storici; non elabora una politica originale, ma trema dinnanzi alla politiea scoperta dal Machiavelli. In Italia ignora persino lo Stato moderno (la politica laica di fra Paolo Sarpi e quella del Paruta non assurgono a conquiste definitive), oscillando tra il microcosmo e il macrocosmo politico, tra gl'ideali classici della città-stato e quelli universalistici imperiali o ecclesiastici. Quando poi, in Italia, il dramma si consuma e le dominazioni straniere dissolvono l'indipendenza, la politica non è più speculazione e neppure scienza, ma satira politica (Boccalini) o piccola pubblicistica per la difesa di questa o di quella potenza, Francia, Spagna, Austria, o al più conati per una sognata ideale indipendenza della patria. Machiavelli è sempre vivo, ma il Machiavelli deteriore, quello della tecnica spicciola; la sua intuizione ha bisogno di attendere il Vico per essere compresa e svolta.

Notevole importanza ha la scuola del diritto naturale nei secoli XVII e XVIII. Nella storia del pensiero politico si svolge contro le dottrine che, risolvendo ogni diritto nel divino, in questo assicurano il potere (diritto divino dei re, che in Inghilterra ha avuto cospicui difensori, in Francia il Bossuet ha sistemato). Ma certo il suo significato maggiore è nella sfera giuridica, dove col Grozio è rivendicata l'umanità del diritto e poi, attraverso Locke, Hobbes, Spinoza, Pufendorf, Thomasius, la sua differenza dalla morale. Può sembrare che essa in molti aspetti poi contamini la politica con la morale, ma invero fonda saldamente più di una dottrina. Il Grozio dal principio che "pacta sunt servanda" deduce la legittimità d'ogni potere politico; il Hobbes col contratto inteso come rinuncia a favore dello Stato piena e totale d'ogni diritto, se di diritto si può parlare nel suo Stato di natura, dove domina la forza, giustifica e assicura l'assolutismo; mentre col contratto, sviluppando Hooker e Sidney, reagendo al Filmer, che considerava i principi della terra come eredi di Adamo, il Locke legittima il potere politico in quanto garantisca e tuteli i cosiddetti diritti naturali; il Pufendorf affronta il diritto divino e afferma la fondamentale socialità della vita giuridica e l'esigenza dello stato assoluto illuminato e riformatore. Ultimo in ordine di tempo il Thomasius, pur distinguendo il diritto dalla morale, fonda una vera e propria sfera di libertà giuridica: la coscienza, il pensiero, la fede, inviolabili di fronte allo Stato; egli perciò conclude la scuola, la quale asserendo l'esistenza di diritti naturali diversi da quelli acquisiti, voleva che essi, inerenti all'uomo prima di divenire socio, fossero conservati nella vita politica, anzi garantiti dallo Stato. Non solo, ma il Thomasius nel suo concetto di decorum o convenienza politica, terza categoria pratica, accanto alla morale (honestum) e al diritto (iustum) adombrava una ancora informe nozione della politica. Del resto in lui sono visibili influssi e ricordanze del Machiavelli, come di machiavellismo sono permeati Hobbes e Spinoza.

Il giusnaturalismo afferma il giusto criterio che l'uomo è principio del diritto e della vita sociale, ma, purtroppo, incorre in un grossolano errore speculativo, dando significato metafisico a ciò che è solo norma ideale. I diritti naturali sono considerati come veri diritti storici, i diritti dello "status naturae" quale condizione reale di vita presociale; il contratto, attraverso cui si esce dallo "status naturae" e si entra nello "status societatis", come un contratto effettivamente stipulato. Mitologia che fu oggetto di facile derisione. D'altra parte si dà significato empirico a ciò che dovrebbe avere valore regolativo. Il processo interno della dottrina tende a superare tale empirismo pseudostorico e a sostituire a esso un'interpretazione metafisica e ideale. Eliminando la confusione tra storia e ideale, si affermano i principî della scuola in senso critico e deontologico, in quanto presiedono non alla genesi dello Stato nel tempo, ma alla sua essenza ideale e al suo assoluto dover essere. Già in Locke è avvertibile la crisi, che appare in pieno col Rousseau e quindi col Kant, dove la purificazione dell'idea è piena.

Ma col Kant la scuola del diritto naturale cessa e siamo nella scuola del diritto razionale, come pure non è più la politica giusnaturalista e comincia quella razionalista.

La scuola del diritto naturale non ha maturato un vero concetto della politica. In fondo è dominata da preoccupazioni moralistiche di una legge eterna e immutabile che valga a dirigere la vita degli uomini. Ma di riflesso opera possentemente sulla politica. L'idea che esistano diritti naturali anteriori allo Stato, la cui conservazione parziale o totale, la cui tutela giustifichi lo Stato e dia senso regolativo al contratto sociale, si traduce praticamente nell'esigenza costituzionale, in un sistema di guarentige positive che di fronte al potere assicuri agl'individui una sfera di liceità e di libertà. Attraverso la miglior pubblicistica inglese, Locke genera il Bill of rights del 1689, in cui si pongono le ragioni del Parlamento di fronte alla Corona; attraverso Locke e Rousseau abbiamo i Bills della rivoluzione americana del 1774 e anni successivi, attraverso Rousseau la Déclaration des droits de l'homme e du citoyen del 1789, che di poi appare nelle varie costituzioni francesi e il cui contenuto è trasfuso in tutte le costituzioni europee del sec. XIX. Sulla formazione di queste costituzioni ha gran peso dunque tutta la miglior tradizione della scuola del diritto naturale.

Il giusnaturalismo politico svolge dal suo seno il razionalismo. La natura cui la scuola fa appello non è la realtà storica e spirituale, ma al di là e sopra la storia, la razionalità che quella intende non è il soggetto che si pone a principio del reale, ma pura ragione, intelletto, facoltà conoscitiva non in atto, ma in obiecto essa stessa. Eterna la natura, costante a sé la ragione, la realtà è concepita schematizzata, inaridita, pura forma. La politica non è che considerazione sub specie aeterni e concettuale di rapporti sociali. Lo Stato non è quello concreto, ma quello conforme alla natura oppure secondo ragione, intesi natura e ragione nel senso suddetto. Senza alcun riscontro nel pensiero dialettico e speculativo né nella fenomenologia empirica, l'intelletto costruisce forme vacue, sistemi perfetti di logica, ma aridi nella loro sublime incapacità di adeguare il reale, e che si vogliono imporre agli uomini come panacea d'ogni male. Politica razionalistica, che talora diviene utopistica. Se il sec. XVIII conosce Voltaire, Diderot, D'Alembert, i primi economisti, conosce altresì Fénelon, Vauban, Saint-Pierre, D'Argenson, Meslier, Morelly, Mably, Brissot de Warville. L'utopia, che in Italia già seppe Campanella e in Inghilterra Moro, alimenta le più diverse esigenze politiche, soprattutto quella socialista. Utopista, a suo modo, con l'esaltazione del regime feudale e la critica dell'onnipotenza regia, è Boulainvilliers. In Francia, prima della rivoluzione, è un vasto filone di socialismo utopistico, che ha pure la sua importanza.

La critica della politica razionalistica è svolta nel sec. XVIII stesso da due grandi scrittori, Montesquieu e Vico. L'influsso del primo è immenso. Il costituzionalismo inglese, ch'egli ebbe agio di studiare, per quanto da lui inteso arbitrariamente, a suo mezzo venne diffuso in Francia; mentre le sue teoriche sulla forma dei governi e sulla divisione dei poteri ebbero un'eco vastissima. Certo anch'egli soggiace all'astrattismo, quando gli accennati schemi politici riguarda quale mezzo di salute politica ovunque, in Franicia come in Inghilterra, ma l'esigenza di un esame fenomenico delle istituzioni di diritto pubblico, della vita sociale dei popoli è in lui nuova e vale a superare l'intellettualismo del secolo. Ingegno analitico, nessuna intuizione, in lui, che svolga il problema che era stato del Machiavelli, quello del concetto di politica. Tale chiarimento invece è di G. B. Vico.

Se il Machiavelli concepì la politica ribelle agli schemi della morale, in funzione d'individualità, di "virtù" nel senso eroico della parola, Vico non esita a parlare della "divinità della forza". L'azione umana, guidata dalla forza, dall'energia, è la politica, momento o guisa dello spirito, che nella storia s'incarna, sospingendola dalle forme rudimentali alle più alte. La politica appare come vero e come certo, idea e fatto, non due ma uno, processualmente. E il rapporto rivela immanente una sublime Provvidenza, in quanto il vero che si congiunge al certo finisce per dominarlo, il regno della forza rivela la morale e la giustizia insieme concretarsi come eticità. Dove la forza è momento necessario del divenire che attende una catarsi nella giustizia. Senza di essa non sorge lo Stato, ma essa svolge il diritto, anzi la giustizia nello Stato. La politica è tale dialettica in atto, il dramma della stessa umanità. Dramma, abbiamo detto, non solo perché, secondo Vico, attua mediandoli il vero e il certo, giustizia e forza, ma in quanto di continuo si crea e si ricrea in alternative di bene e di male, che attendono una sintesi e un superamento.

Con Vico la categoria politica appare ricca di tutte le moderne determinazioni. Tutti gli svolgimenti ulteriori non fanno che enuclearne alcuni aspetti. Lo stesso storicismo propriamente detto è povera cosa in confronto a quello vichiano, da un punto di vista speculativo assai fecondo. In generale, esso è solo reazione al razionalismo e all'astrattismo della filosofia rivoluzionaria, non superamento in nome di un principio più alto. Esso esalta la tradizione storica, si richiama alla vita particolare delle nazioni, e con ciò confuta gli schemi intellettualistici e generalizzanti del giacobinismo (Fichte). Talora giustifica i pregiudizî e i vizî dei singoli popoli, diviene addirittura reazione con De Maistre, De Bonald, A. Müller, Haller, Solaro della Margarita. Indagine costituzionale nel Burke, ha lampi di vera profondità solo con il Cuoco, ma questi è l'eco grande del Vico, rivissuta in un'intuizione dell'idealità del reale precisa e concreta. La critica rivoluzionaria è quindi fatta non tanto da un punto di vista di storia empirica, ma di filosofia dello spirito.

Uno sforzo poderoso di ulteriore approfondimento della politica ci appare quello di Hegel, sintesi dello storicismo e del romanticismo. Siamo nella politica idealistica, che Hegel conclude attraverso Fichte e Schelling. La politica per Hegel non si adagia totalmente nella società civile, dove hanno posto l'attività economica umana, la produzione e lo scambio delle merci, lo stesso diritto e la pubblica amministrazione, la corporazione, ma trabocca per pervenire all'eticità, il cui vertice è lo Stato; dove lo Stato è finalmente pienezza di vita, non è ma diviene, non è fatto ma processo, non statica morale né diritto irreformabile, ma eticità. Alcuni hanno confutato tale veduta, in quanto adeguerebbe l'idea al fenomeno e riconoscerebbe nel fatto l'assoluto, ma ciò è un impoverire Hegel. Il suo Stato è dialettico, attua l'idea in quanto non oblii l'universale di cui è portatore. Né, d'altra parte, opposto all'individuo, ma dell'individuo sublimazione. Il rapporto tra Stato e individuo tende a risolversi nell'unità della comune essenza relazionale. La politica è quindi processo di continua mediazione, attraverso cui l'eticità assurge nel dissolvimento dell'economicità.

Dal seno stesso della politica hegeliana sorge il socialismo scientifico, altro da quello utopistico, il quale dalla Francia prerivoluzionaria attraverso il Babeuf si continua nel secolo successivo, credendo legittimarsi con costruzioni pseudo-sociologiche (Fourier, Owen, Saint-Simon, Basard, Enfantin, Cabet) o contaminandosi con vaghe aspirazioni religiose (Léroux, Boucher). Mentre il Blanc, il Proudhon, il Lassalle cominciano a svolgere la dottrina criticamente; Marx, e con lui Engels, inaugura decisamente il socialismo scientifico, in una critica radicale del socialismo utopistico. Come questo almeno inizialmente è corrispettivo al razionalismo, l'altro è corrispettivo all'idealismo. L'ordine giuridico che Hegel intese come società civile, Marx vede senz'altro come sovrastruttura della economia, e di poi sovrastruttura gli apparvero politica, morale, religione. La politica intese precisamente come lo svolgersi dell'economia nelle sue forme produttive, in quanto a ogni forma di produzione corrisponde una costituzione politica. Finora involta in contrasti di classi, conflitti tra capitale e lavoro, in funzione appunto dei sistemi di produzione della società borghese e industriale, attende una rivoluzione, in cui al capitalismo si sostituisca il proletariato, in una disciplina diretta del processo economico. Lo Stato fu ed è strumento di subordinazione; la politica sfruttamento di uomini per i fini privilegiati di alcuni. Con la catarsi rivoluzionaria, lo Stato non sarà più, la politica diverrà economia in pieno, l'economia dei lavoratori e dei produttori. Non è il caso di svolgere l'influsso enorme della dottrina nel determinare l'azione pratica dei partiti nei secoli XIX e XX. Qui basti dire che la concezione marxistica in quel tempo ricevette cospicua elaborazione scientifica, divenendo concezione deterministica della storia o determinismo economico (in Italia A. Labriola e A. Loria), quindi involgendo una concezione particolare della politica.

Abbiamo seguito alcuni filoni della vasta fioritura delle dottrine politiche nell'età moderna. Molti altri restano fuori del nostro quadro, ma invero essi non elaborano la nozione speculativa e sono o pratici programmi o tentativi di sistemazione scientifica. Anche i maggiori pensatori italiani dell'Ottocento sono dominati dall'idea nazionale, epperò l'opera loro non sempre è serena. Le idee di primato, di missione universale di un Cuoco, di un Balbo, di un Gioberti non sempre si giustificano teoricamente. Lo stesso Mazzini è più un apostolo che un sistematico pensatore, e ciò che in lui è calore e passione, l'afflato sentimentale, talora appare religiosa trascendenza o eticismo che dissolve la pura politica. Del resto il secolo XIX nell'ultima fase e il secolo successivo soggiacciono al positivismo, che la politica alla sua volta elide nella sociologia, con il Comte, lo Spencer, l'Ardigò. Migliori e più concrete le indagini scientifiche di politica che quelle speculative (Tocqueville). Altrove, specialmente ma non solo in Germania, la politica della forza conduce agli assurdi del superuomo (Nietzsche) e alle formulazioni razzistiche (De Gobineau, Gumplowicz, Chamberlain, Langbehn e più recentemente Spengler). Le dottrine, quando non concorrono a simili eccessi, sono eclettiche e non elaborano concetti degni di rilievo. Perché si torni a porre il problema della politica occorre che la critica dissolva positivismo e sociologia, distingua scienza e speculazione, infine che l'idealismo riprenda il sopravvento.

Per l'originale concezione politica fascista, v. fascismo. Per la politica nazionalsocialista, nazionalsocialismo.

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Sul pensiero greco: F. Filomusi Guelfi, La dottrina dello stato nell'antichità greca, Napoli 1873; E. Vanderrest, Essai sur les commencement de la science politique, Parigi 1875; G. Busolt-H. Swoboda, Griechische Staatskunde, Monaco 1920; U. Wilamowitz-Moellendorff, Staat und Gesellschaft der Griechen, 2ª ed., Berlino 1923; G. Perticone, L'eredità del mondo antico nella filosofia politica, Torino 1923; J. L. Myres, The political ideas of the Greeks, New York 1927; M. Pohlenz, Staatsgedanke und Staatslehre d. Griechen, Lipsia 1923; W. Jalger, Paideia, Berlino 1934; A. Falchi, Storia delle dottrine politiche, I: Introduzione. Il pensiero greco, Padova 1933 (il solo edito). Sulle dottrine politiche anteriori a Socrate: A. Beccari, Le origini delle dottrine politiche nella Grecia antica, Torino 1929; id., Le dottrine politiche dei Sofisti e le istituzioni nella Grecia del V secolo, ivi 1930. Su Platone: A. Krohn, Der platonische Staat, Halle 1876; G. Stenzel, Platone educatore, trad. it., Bari 1935; E. Barker, Greek Political Theory, Plato and his Predecessors, Londra 1918. Su Aristotele: B. Jowett, The Politics of aristotle, voll. 2, Oxford 1885; W. Jalger, Aristotele, trad. it., Firenze 1935, nonché l'ampio commento di W. L. Newmann alla Politica, voll. 4, Oxford 1887-1902. Cfr. inoltre F. Ollier, Le mirage spartiate, Parigi 1933; G. Mathieu, Les idées politiques d'Isocrate, ivi 1925; E. R. Goodenough, The political Philosophy of the Hellenistic Kingship, in Yale Classical Studies, I (1928); W. W. Tarn, Hellenistic Civilisation, 2ª ed., Londra 1930; W. Capelle, Griechische Ethik und römischer Imperialismus, in Klio, 1931; J. Kaerst, Studien zur Entwicklung und thereotischen Begründung der Monarchie im Altertum, Monaco 1898.

Sul pensiero romano: F. Abbott, Society and politics in ancient Rome, Londra 1912; P. Bonfante, La morale politica dei Romani, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, VI (1926), p. 182 segg. Su Cicerone: E. Ciaceri, Cicerone e i suoi tempi, voll. 2, Roma 1926-30; id., Il trattato di Cicerone "De repubblica" e le teorie di Polibio sulla costituzione romana, in Rendiconti della R. Acc. dei Lincei, 1918; M. Pohlenz, Antikes Führertum, Lipsia 1934; M. Hammond, The augustan Principate, Cambridge Mass. 1934 (e relativa bibliografia); M. Vogelstein, Kaiseridee, Romidee und das Verhältnis von Staat und Kirche seit Constantin, Breslavia 1930. Si cfr. anche C. Marchesi, Seneca, 2ª ed., Messina 1934; id., Tacito, ivi 1924.

Sul cristianesimo: O. Schilling, Naturrecht und Staat nach der Lehre der alten Kirche, Paderborn 1914; A. Giobbio, Chiesa e Stato nei primi secoli del cristianesimo, Milano 1914; L. Salvatorelli, Lo stato nella coscienza dei martiri cristiani, estr. dalla Rivista di scienza delle religioni, Roma 1916; id., Il pensiero del Cristianesimo antico intorno allo stato, estr. da Bilychnis, ivi 1920; E. Buonaiuti, Il cristianesimo primitivo e la politica imperiale romana, ivi 1913, rist. in Saggi sul cristianesimo primitivo, a cura e con intr. di F. A. Ferrari, Città di Castello 1923: id., Il cristianesimo nell'Africa romana, Bari 1925 (riguardante soprattutto Tertulliano, Cipriano, Agostino); R. Paribeni, Cristianesimo e impero, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, IX (1929), p. 534 segg. Su S. Paolo: F. A. Ferrari, San Paolo e la sua dottrina di vita e d'amore, Milano 1922: L. Tondelli, Il pensiero di S. Paolo, ivi 1928. Sulle correnti patristiche: J. Turmel, Histoire du dogme de la papauté des origines à la fin du IVe siècle, Parigi 1908; F. Ramorino, Tertulliano, Milano 1922; E. Buonaiuti, Tertulliano, ivi 1926; G. Della Rocca, Correnti politiche alla fine del sec. II, estr. dagli Studi in onore di F. Cammeo, Padova 1932; G. Massart, Società e Stato nel cristianesimo primitivo. La concezione di Origene, ivi 1932; O. Schilling, Die Staats- und Soziallehre des heiligen Augustinus, Friburgo in B. 1911; G. Combès, La doctrine politique de S. Augustin, Parigi 1927. Sull'influsso di S. Agostino durevole nei secoli successivi: H. X. Arquillière, L'augustinisme politique, Parigi 1934.

Sul pensiero politico medievale: A. Franck, Réformateurs et publicistes de l'Europe. Moyen âge, Renaissance, Parigi 1864; O. Gierke, Das deutsche Genossenschaftsrecht, III, Berlino 1881, passim (trad. in francese col titolo Les théories politiques du moyen âge, Parigi 1914); R. Poole, Illustrations of the history of mediaeval thought in the departments of theology and ecclesiastical politics, Londra 1884; R. W. Carlyle e A. J. Carlyle, A history of mediaeval political theory in the West, voll. 5 (continua), Edimburgo e Londra 1903-1928; F. J. C. Hearnshaw, The social and political ideas of some great mediaeval thinkers, Londra 1923; B. Jarret, Social theories of the middle ages, Londra 1926; A. Solmi, Stato e Chiesa secondo gli scrittori politici da Carlo Magno al Concordato di Worms (800-1122), Modena 1901; J. Bryce, Il sacro romano impero, trad. it., Milano 1907; C. Curcio, L'eredità romana nel pensiero politico italiano del Medioevo, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, VIII (1928), p. 179 segg.; P. E. Schramm, Kaiser Rom und Renovatio, voll. 2, Berlino 1919; A. Dempf, Sacrum imperium, trad. it., Messina-Milano s. a.; A. Passerin d'Entrèves, La filosofia politica medievale, Torino 1934.

Sul periodo gregoriano: C. Mirbt, Die Publizistik im Mittelalter Gregors VII., Lipsia 1894; A. Fliche, La réforme grégorienne, voll. 2, Lovanio 1924-25; H. X. Arquillière, Grég. VII. Essai sur sa conception du pouvoir pontifical, Parigi 1934.

Su S. Tommaso: O. Schilling, Die Staats- und Soziallehre des hl. Thomas von Aquin, Paderborn 1923; B. Roland Gossellin, La doctrine politique de St. Thomas d'Aquin, Parigi 1928; E. Flori, Il trattato "De regimine principum" e le dottrine politiche di S. Tommaso, Bologna 1928; G. Bo, Il pensiero di S. Tommaso d'Aquino sull'origine della sovranità, estr. da La scuola cattolica, Milano 1930, con ampia bibl.

Sulle lotte tra Stato e Chiesa nei secoli XIII e XIV; S. Riezler, Die literarischen Widersacher der Päpste zur Zeit Ludwig des Baiers, Lipsia 1874; F. Scaduto, Stato e Chiesa negli scritti politici dalla fine della lotta per le investiture sino alla morte di Ludovico il Bavaro (1122-1347), Firenze 1882; R. Scholz, Die Publizistik zur Zeit Philipps des Schönen und Bonifaz VIII., Stoccarda 1903; id., Unbekannte kirchenpolitische Streitschriften aus der Zeit Ludwigs des Bayern, I: Analysen, II: Texten, Roma 1911; B. Landry, L'idée de Chrêtienté chez les Scolastiques du XIIIe siècle, Parigi 1929; U. Mariani, Scrittori politici agostiniani del sec. XIV, Firenze 1927 (riguardante Egidio Romano, Agostino Trionfo, Giacomo da Viterbo, con ampia bibl.); J. Rivière, Le problème de l'Église et de l'État au temps de Philippe le Bel, Lovanio 1926. Sulla formazione degli stati moderni fuori dell'orbita imperiale, sull'elaborazione dei principî maggioritarî e di rappresentanza: F. Ercole, Da Bartolo all'Althusio, Firenze 1932; F. Calasso, Origini italiane della formola "Rex in regno suo est imperator", estr. dalla Rivista di storia del diritto italiano, Roma 1930; F. v. Bezold, Die Lehre von der Volkssouveranität während des Mittelalters, in Historische Zeitschrift, XXXVI (1876), pp. 313-67; E. Crosa, La sovranità popolare dal medioevo alla rivoluzione francese, Torino 1915; G. De Lagarde, La naiss. de l'esprit laïque au déclin du moyen âge, I: Bilan du XIIIe siècle, Saint-Paul-Trois-Châteaux 1934.

Su altri autori: N. Abbagnano, Guglielmo Ockham, Lanciano 1931; A. Passerin d'Entrèves, San Tommaso d'Aquino e la costituzione inglese nell'opera di sir John Fortescue, estr. dagli Atti della R. Acc. d. sc. di Torino, Torino 1927. Su Dante: H. Kelsen, Die Staatslehre in Dante Alighieri, Vienna 1905; A. Solmi, Il pensiero politico di Dante, Firenze 1922; F. Ercole, Il pensiero politico di Dante, voll. 2, Milano 1927-28. Su Marsilio da Padova: E. Ruffini Avondo, Il "Defensor pacis" di Marsilio da Padova, estr. dalla Rivista storica italiana, Messina 1924; F. Battaglia, Marsilio da Padova e la filosofia politica del Medioevo, Firenze 1928; G. De Lagarde, op. cit., II: Marsile da Padoue, Saint-Paul-Trois-Châteaux 1934. Sulla genesi del contrattualismo: F. Arger, Essai sur l'histoire des doctrines du contrat social, Parigi 1906, che peraltro segue lo sviluppo di tutta la dottrina. Sulla politica conciliare: A. Kneer, Die Entstehung der konziliaren Theorie, Roma 1893; K. Hirsch, Die Ausbildung der konziliaren Theorie im XIV. Jahrhundert, Vienna 1903; J. N. Figgis, Studies of political thought from Gerson to Grotius, II: The conciliar movement and the papalist reaction, Cambridge 1907. Su alcuni autori del concilio e le loro vicende: J. B. Schwab, J. Gerson, Würzburg 1858; P. Joachimson, Gregor Heimburg, Bamberga 1891; A. Meusel, Enea Silvio als Publicist., Breslavia 1905; A. Posch, Die "Concordantia catholica" des Nikolaus von Cusa, Paderborn 1930; F. Battaglia, Il pensiero giuridico e politico di Nicolò Cusano, estr. dalla Riv. di st. del dir. ital., Bologna 1935.

Sull'Umanesimo e il Rinascimento: F. Fiorentino, Il risorgimento filosofico nel '400, Napoli 1885; V. Benedetti Brunelli, Il rinnovamento della politica nel pensiero del sec. XV in Italia, Torino 1927; C. Curcio, La politica italiana del '400, Firenze 1932. Su alcune tendenze, e autori: E. Emerton, Humanism and Tyranny, Cambridge 1925; F. v. Bezold, Republik und Monarchie in der italienischen Literatur des 15. Jahrhunderts, in Historische Zeitschrift, LXXXI (1898), pp. 433-68. R. De Mattei, Il pensiero politico di Francesco Petrarca, estr. da Politica, Roma 1928; F. Battaglia, Francesco Patrizi politico senese del Quattrocento, estr. dall'Annuario della R. Università di Siena, Siena 1934. Su Machiavelli: F. Chabod, Del "Principe" di Niccolò Machiavelli, Milano 1926; F. Ercole, La politica di Machiavelli, Roma 1926; G. Mosca, Il "Principe" di Machiavelli, in Saggi di storia della scienza politica, Roma 1927. Sulla teoria del governo misto: F. Battaglia, La dottrina dello stato misto nei politici fiorentini del Rinascimento, estr. dalla Rivista internazionale di filosofia del diritto, Roma 1927.

Sulla formazione dello stato moderno: G. Solari, La formazione storica e ideologica dello Stato moderno, estr. da "L'Erma", Torino 1931; G. Mosca, Lo stato città antico e lo stato rappresentativo moderno, in Saggi cit., p. 85 segg.; C. E. Merriam, History of the theory of sovereignty, New York 1903; J. Mackinnon, A history of modern liberty, Londra-New York 1906. Su Bodin: P. Boudrillart, J. Bodin et son temps. Tableau des théories polit. et des idées économiques au sixième siècle, Parigi 1853; B. Reynolds, Proponents of Limited Monarchy in the Sixteenth Century in France, Francis Hotman and Jean Bodin, New York 1931; A. Garosci, Jean Bodin, Milano 1934. Sulla fortuna di Machiavelli: G. Toffanin, Machiavelli e il Tacitismo, Padova 1921; A. Panella, Gli antimachiavellici, in Il Marzocco, XXXI (1926), nn. 47, 49, 51; XXXII (1927), nn. 3, 6, 8, 10, 11.

Sulla politica della Riforma e della Controriforma: E. Troeltsch, Die Bedeutung des Protestantismus für die Entstehung der modernen Welt, Monaco 1911; R. H. Murray, The political consequences of the Reformation, Londra 1926; G. De Lagarde, Recherches sur l'esprit politique de la Réforme, Parigi 1926; G. Lenz, Die Bedeutung des Protestantismus für den Aufbau einer allgemeinen Staatslehre, Tubinga 1924; F. J. C. Hearnshaw, The social and political ideas of some great thinkers of the renaissance and the reformations, Londra 1925; F. v. Bezold, Stato e società nell'età della Riforma, trad. it., Venezia 1928; E. Gothein, Stato e società nell'età della Controriforma, trad. it., 2ª ed., ivi 1928. Su Lutero, Calvino, i monarcomachi, i gesuiti: J. Binder, Luthers Staatsauffassung, Erfurt 1924; E. Doumergue, Jean Calvin, voll. 7, Losanna 1899-1927; id., Calvin, Le fondateur des libertés modernes, Montauban 1898; R. Treumann, Die Monarchomachen, Lipsia 1895; O. von Gierke, Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien, 3ª ed., Breslavia 1913; A. Cappa Legora, I monarcomachi, Torino 1913; L. Recaséns Siches, La filosofía del Derecho de Francisco Suárez, Madrid 1927; G. Saitta, La scolastica del sec. XVI e la politica dei gesuiti, Torino 1911; G. Salvioli, I politici italiani della controriforma, Palermo 1892. Su Guicciardini: A. Otetea, François Guichardin. Sa vie publique et sa pensée politique, Parigi 1926; P. Treves, Il pensiero politico di Francesco Guicciardini, Firenze 1931. Sulla ragion di stato e i politici italiani del tempo: F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der modernen Geschichte, Monaco e Berlino 1924, 3ª ed., 1929; B. Croce, Zuccolo, in Uomini e cose della vecchia Italia, I, Bari 1927, pp. 183-199; C. Giardina, La vita e le opere di Scipione di Castro, Palermo 1931; M. De Bernardi, Il concetto di "ragion di stato" in Giovanni Botero, estr. dagli Atti della R. Acc. delle sc. di Torino, Torino 1929; F. Chabod, Giovanni Botero, Roma 1934; A. Belloni, T. Boccalini e la politica controriformista, estr. da Nuova rivista storica, Milano 1924. Sul Vida: P. Treves, Un falso precursore del Rousseau, in La cultura, n. s., X (1931), p. 59 segg. Sul Paruta e il Sarpi: A. Zanoni, Paolo Paruta, Livorno 1904; A. Rampolla Gambino, Fra Paolo Sarpi, Palermo 1919; Paolo Sarpi e i suoi tempi, Venezia 1924; A. Luzio, Fra Paolo Sarpi, in Rivista storica italiana, n. s., XLV (1928), p. i segg. Sul Campanella: R. De Mattei, La politica del Campanella, Roma 1928; P. Treves, La filosofia politica di Tommaso Campanella, Bari 1930. Sull'utopia in generale: E. Dermeughen, Thomas Morus et les utopistes de la Renaissance, Parigi 1927. Inoltre: R. De Mattei, Contenuto ed origini dell'idea universalistica nel Seicento, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, IX (1929), p. 44; id., Contenuto ed origini dell'utopia cittadina nel Seicento, ibid., X (1930), p. 391; V. Di Tocco, Ideali d'indipendenza in Italia durante le preponderanze straniere, Messina 1926.

Sull'assolutismo: C. Morandi, La politica nell'età dell'assolutismo, Pavia 1930. Sui problemi della politica religiosa nello stesso periodo: A. C. Jemolo, Stato e Chiesa negli scrittori italiani del Sei e del Settecento, Torino 1914. Sullo sviluppo del pensiero teocratico: A. Falchi, Le moderne dottrine teocratiche, Torino 1908, che partendo dalle dottrine del Seicento conduce la sua trattazione al sec. XIX.

Sulla politica del Sei e del Settecento in generale e sulla scuola del diritto naturale: G. De Montemayor, Storia del diritto naturale, Palermo 1910-11; H. F. W. Hinrichs, Geschichte der Rechts- und Staatsprinzipien seit der Reformation bis auf die Gegenwart,Lipsia 1849-52; A. Franck, Réformateurs et publicistes de l'Europe. Dix-septième siècle, Parigi 1881; G. Solari, La scuola del diritto naturale nelle dottrine etico-giuridiche dei secoli XVII e XVIII, Torino 1904; The social and political ideas of some great thinkers of the sixteenth and seventeenth centuries, a cura di F. J. C. Hearnshaw, Londra 1926; C. Kaltenborn, Die Vorläufer des Hugo Grotius, Lipsia 1848; A. Falchi, Carattere ed intento del De iure belli ac pacis di Grozio, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, V (1925), p. 562; G. Solari, Il "jus circa sacra" nell'età e nella dottrina di Grozio, in Studi in onore di G. Del Vecchio, II, Modena 1931, p. 369 segg.; E. Wolf, Grotius, Pufendorf, Thomasius, Tubinga 1927; A. Levi, La filosofia di Tommaso Hobbes, Milano 1929; V. Beonio Brocchieri, Studi sulla filosofia politica di Hobbes, Torino 1927; Z. Lubienski, Die Grundlagen des ethisch-politischen Systems von Hobbe, Monaco 1932; J. A. C. Fraesr, Locke, Edimburgo e Londra 1809; A. Carlini, La filosofia di Locke, Firenze 1920; P. Rotta, Il Tractatus theologico-politicus dello Spinoza, Milano 1923; G. Solari, La politica religiosa di Spinoza e la sua dottrina del jus sacrum, in Rivista di filosofia, XXI (1930), p. 306 segg.; A. Ravà, Spinoza e Machiavelli, in Studi in onore di G. Del Vecchio, II, Modena 1931, p. 299 segg.; Christian Thomasius. Leben und Lebenswerke. Abhandlungen und Aufsätze, a cura di Max Fleischmann, Halle 1931; F. Battaglia, La "vera politica" in Cristiano Thomasius. Un contributo alla storia della fortuna di Machiavelli, estr. dalla Rivista internazionale di filosofia del diritto, Roma 1934; id., Cristiano Thomasio filosofo e giurista, Siena 1934-35. Sul pensiero politico inglese in particolare: J. N. Figgis, The divine right of Kings, 2ª ed., Cambridge 1922; id., Political thought in the sexteenth century, in Cambridge modern history, III, cap. 22°; J. W. Allen, A history of political thought in the XVI century, Londra 1928; A. Passderin d'Entrèves, La teoria del diritto e della politica in Inghilterra all'inizio dell'età moderna, Torino 1928; id., Riccardo Hooker, ivi 1932; G. P. Gooch, Political Thought in England from Bacon to Halifax, Londra 1914; V. Beozio Brocchieri, Diritto naturale e società civile nella filosofia politica di G. Milton, estr. dagli Annali di scienza politica, Pavia 1927; H. J. Laski, Political thought in England from Locke to Bentham, Londra 1920. Sul Bossuet: C. De Courten, Bossuet e il suo "Discours sur l'histoire universelle", Milano 1927. Sul contrattualismo e Rousseau: G. Del Vecchio, Su la teoria del contratto sociale, Bologna 1906: id., Sui caratteri fondamentali della filosofia politica del Rousseau, Genova 1914. Sul Kant e il pensiero politico dei suoi grandi epigoni: V. Basch, Les doctrines politiques des philosophes de l'Allemagne, Parigi 1927. Sulle dichiarazioni dei diritti: G. Jellinek, Die Erklärung der Menschen- und Bürgerrechte, Lipsia 1895; G. Del Vecchio, La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino nella rivoluzione francese, Genova 1903; Le carte dei diritti, a cura di F. Battaglia, Firenze 1934.

Sulla politica del Settecento, sul razionalismo, e sul socialismo utopistico: A. Frank, Réformateurs et publicistes de l'Europe, Dix-huitième siècle, Parigi 1893; The social and political ideas of some great thinkers of the age of reason, a cura di F. J. C. Hearnshaw, Londra 1930; A. Gerbi, La politica del Settecento, Bari 1928; id., La politica del romanticismo. Le origini, Bari 1932; A. Barni, Histoire des idées morales et politiques en France au dix-huitième siècle, voll. 2, Parigi 1865-1867; H. Sée, Les idées politiques en France au XVIIIe siècle, ivi 1920; A. Espinas, La philosophie sociale au XVIIIe siècle et la révolution, ivi 1898; A. Lichtenberger, Le socialisme au XVIII siècle. Étude sur les idées socialistes dans les écrivains français du XVIIIe siècle avant la Révolution, ivi 1895; Su Voltaire: A. Labriola, Voltaire, Napoli 1926.

Su Montesquieu e Vico: A. Sorel, Montesquieu, Parigi 1896; É. Faguet, La politique comparée de Montesquieu, Rousseau et Voltaire, Parigi 1902; J. Dedieu, Montesquieu, Parigi 1913; B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Bari 1911, Per il II centenario della "Scienza nuova" di G. B. Vico, 2ª ed., Roma 1925.

Sulla filosofia della restaurazione, lo storicismo politico, Hegel, il romanticismo: C. A. Thilo, Die theologisirende Rechts- und Staatslehre, Lipsia 1861; The social and political ideas of some representative thinkers of the age of reaction and reconstruction, a cura di F. J. C. Hearnshaw, Londra 1932; H. Michel, L'idée de l'État. Essai critique sur l'histoire des théories sociales et politiques en France depuis la Révolution, 3ª ed., Parigi 1898; E. Faguet, Politiques et moralistes du dix-neuvième siècle, voll. 3, Parigi 1891-1900; A. Falchi, Le moderne dottrine teocratiche, cit.; F. Meinecke, Cosmopolitismo e stato nazionale, trad. it., voll. 2, Perugia 1930; M. Einaudi, Edmondo Burke e l'indirizzo storico nelle scienze politiche, Torino 1930; A. Cobban, Edmund Burke and the revolt, against the eighteenth century. A study of the Political and social Thinking of Burke, Coleridge, Wardsworth and Southey, Londra 1924; F. Battaglia, L'opera di Vincenzo Cuoco, Firenze 1925; A. Passerin d'Entrèves, Il fondamento della filosofia giuridica di Hegel, Torino 1924; G. Maggiore, Hegel. La vita, il pensiero filosofico, critica e bibliografia, Milano 1924: P. Gentile, Storicismo e conservatorismo nella filosofia del diritto di Hegel, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, VII (1927), p. 151 segg.; A. Joussain, Romanticisme et politique, Parigi 1924; C. Schmitt, Politische Romantik, Monaco 1925; C. Brinton, The political ideas of the English Romanticists, Londra 1926; J. Baxa, Einführung in die romantische Staatswissenschaft, 2ª ed., Jena 1931.

Sul socialismo dell'Ottocento e il marxismo: A. Labriola, In memoria del manifesto dei comunisti, 3ª ed., Roma 1902; id., Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, 2ª ed., Roma 1902; E. Fournière, Les théories socialistes au XIXe siècle de Babeuf à Proudhon, Parigi 1904; C. Barbagallo, Il materialismo storico, Milano 1916; R. Mondolfo, Sulle orme di Marx, voll. 2, 2ª ed., Bologna 1924; B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, 3ª ed., Bari 1918; G. Gentile, La filosofia di Marx, Pisa 1899; F. Olgiati, Carlo Marx, Milano 1918; E. Di Carlo, Per la interpretazione e la critica di alcune dottrine del Marx e dell'Engels, Palermo 1915: id., Ferdinando Lassalle, ivi 1910; E. Durkheim, Le socialisme, Parigi 1928; H.-M. Sherman Chang, The marxian Theory of the State, Filadelfia 1931.

Sul pensiero politico dell'Ottocento in genere, su quello italiano in specie: G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Bari 1925; I. Petrone, La filosofia politica contemporanea, Roma 1904; R. Mondolfo, La filosofia politica in Italia nel sec. XIX, Padova 1924; A. Anzilotti, Movimenti e contrasti per l'unità d'Italia, Bari 1930; A. M. Ghisalberti, Gli albori del Risorgimento italiano, Roma 1931; A. Ferrari, La preparazione intellettuale del Risorgimento italiano, Milano 1923; F. Landogna, Saggio sul cattolicismo liberale, Livorno 1926; E. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari 1912; N. Vaccadeo, Tradizioni morali e disciplina storica, Bari 1929: G. Gentile, I profeti del Risorgimento italiano, Firenze 1923; A. Anzilotti, Gioberti, Firenze 1922; A. Levi, La filosofia politica di G. Mazzini, Bologna 1917; L. Salvatorelli, Il pensiero politico in Italia dal 1700 al 1870, Torino 1935. Per una visione del Risorgimento nei suoi presupposti ideali: A. Oriani, La lotta politica in Italia. Origini della lotta attuale, voll. 3, Firenze 1917.

Per le più recenti dottrine rinviamo alla sintesi di H. Heller, Die politischen Ideenkreise der Gegenwart, Breslavia 1926; E. Barker, Political Thought in England from Herbert Spencer to the present day, Londra 1915; A history of political theories. Recent times, a cura di C. E. Merriam e H. L. Barnes, New York 1928. Per alcuni autori più recenti su A. de Tocqueville v. la prefaz. di G. Candeloro a A. de Tocqueville, La democrazia in America, trad. it., Bologna 1932, voll. 3; V. Beonio Brocchieri, Federico Nietzsche, Roma 1926; id., Studi sulla filosofia politica di Julius Langbehn, estr. dagli Annali di scienze politiche, Pavia 1928; id., Osvaldo Spengler, Milano 1928.