Politiche sanzionatorie e sindacato di costituzionalità

Il libro dell anno del diritto 2018 (2018)

Politiche sanzionatorie e sindacato di costituzionalità

Guglielmo Leo

Si individuano tradizionalmente, a proposito del sindacato della Corte costituzionale sulle norme penali, limiti connessi alla riserva assoluta di legge ed alla natura eminentemente politica delle scelte legislative sul diritto criminale. Le “zone franche” stanno però riducendosi. Le maggiori novità riguardano il sindacato sulle previsioni di pena, i cui limiti subiscono la pressione dei giudici comuni a fronte d’un sistema caotico e di un cronico ritardo legislativo nell’adeguamento ai valori affermati nelle Carte dei diritti, secondo un disegno che assicuri un accettabile livello di coerenza interna dell’apparato sanzionatorio.

Il contributo mira ad illustrare le recentissime acquisizioni della giurisprudenza costituzionale in materia, collocandole in un processo evolutivo che sembra destinato a culminare con l’ammissibilità di questioni incentrate, almeno in via primaria, sull’intrinseco difetto di proporzionalità delle risposte sanzionatorie.

La ricognizione

Una delle declinazioni formali del principio di legalità e della riserva di legge in materia penale, assai radicata nella storia della giurisprudenza costituzionale, attiene ai limiti di ammissibilità del sindacato sulle scelte di politica criminale del legislatore. Dalla riserva assoluta di legge (art. 25, secondo comma, Cost.) si fa discendere un limite bidirezionale per gli interventi della Consulta. La mancata incriminazione d’una determinata condotta, quand’anche comporti una lesione di parametri costituzionali, non sarebbe emendabile dalla giurisdizione, cui è preclusa, appunto, l’invasione delle prerogative del legislatore sul piano della normazione. D’altra parte, l’uso del potere discrezionale del Parlamento non può essere oggetto di valutazione nell’ambito del giudizio incidentale di costituzionalità (art. 28 l. 11.3.1953, n. 87). La componente discrezionale, particolarmente elevata nel caso delle politiche criminali1, interviene quindi ad ostacolare anche gli interventi in bonam partem, soprattutto quando si tratti di sindacare l’estensione di fattispecie esistenti o la consistenza del relativo trattamento sanzionatorio. È però ugualmente in atto, da alcuni anni, un fenomeno di progressiva dilatazione del controllo, il cui regista consapevole è la stessa Corte costituzionale2 . Quanto alle zone franche create dalla preclusione di interventi in malam partem, gli interventi della Consulta hanno valorizzato – attraverso l’ingegnosa costruzione relativa alle “norme penali di favore”3 – il principio di uguaglianza formale, o piuttosto l’esistenza di fonti sovranazionali che generano obblighi specifici di protezione4, o infine la riscontrata anomalia del processo normativo culminato con un effetto di depenalizzazione5. Sul versante degli interventi in bonam partem, la giurisprudenza costituzionale ha ben presto enucleato una clausola di salvaguardia, per effetto della quale non si sottraggono a censura le scelte di politica criminale segnate da “manifesta irragionevolezza” (o formule equivalenti)6. La discrezionalità legislativa, però, è una barriera tuttora efficace riguardo a previsioni punitive emendabili mediante una pluralità di soluzioni alternative. Finanche in situazioni conclamate di irragionevolezza (o di violazione dei principi di proporzionalità e di finalizzazione rieducativa della pena), la giurisprudenza costituzionale si è arrestata sulla trincea del divieto d’esercizio d’una propria discrezionalità. Una matura espressione di questo atteggiamento si rinviene nella sentenza 2.2.2007, n. 227. Non basta la constatazione (nella specie riguardante la caotica legislazione in allora vigente a proposito dell’immigrazione irregolare) di un «quadro normativo [che] presenta squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi costituzionali di uguaglianza e di proporzionalità della pena e con la finalità rieducativa della stessa». Occorre sia rinvenuto un parametro normativo che renda “ineluttabile”, attraverso la logica triadica propria del principio di uguaglianza formale, l’individuazione di una previsione sanzionatoria alternativa a quella, in ipotesi non legittima, adottata dal legislatore: «se non si riscontra una sostanziale identità tra le fattispecie prese in considerazione, e si rileva invece, come nel caso in esame, una sproporzione sanzionatoria rispetto a condotte più gravi, un eventuale intervento di riequilibrio di questa Corte non potrebbe in alcun modo rimodulare le sanzioni previste dalla legge, senza sostituire la propria valutazione a quella che spetta al legislatore»8. In chiara evidenza, dunque, la doppia articolazione del problema. La peculiarità di “funzionamento” dei parametri fondamentali (primo fra tutti quello dell’uguaglianza), in una materia ad alto tasso di discrezionalità, condiziona la stessa maturazione del giudizio di illegittimità della scelta legislativa9. Per altro verso, finanche nei casi di conclamata violazione del dettato costituzionale, è necessario rinvenire una “soluzione obbligata”, pena l’inammissibilità dell’intervento censorio. Uno schema siffatto sorregge anche la più recente giurisprudenza della Consulta. Nel definire con sentenza di inammissibilità un giudizio concernente le previsioni sanzionatorie per il narcotraffico, la Corte ha espressamente individuato «un’anomalia sanzionatoria», la quale, però, è risultata «rimediabile con plurime opzioni legislative», così da imporre il «rispetto della priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario»10.

La focalizzazione

Nonostante l’apparente compattezza del muro opposto dalla discrezionalità legislativa al sindacato sulle previsioni punitive, ed in particolare sui valori edittali di pena, si moltiplicano i tentativi dei giudici comuni di forzare le relative prescrizioni. Ed è su questo fronte che si registrano le maggiori novità, ponendolo al centro dell’attenzione in una sede, come quella presente, essenzialmente vocata all’aggiornamento. L’aumento del contenzioso si spiega, almeno in parte, con lo storico ritardo del legislatore nell’opera di complessivo adeguamento del sistema penale all’ordinamento di valori ed interessi scaturito dalla Costituzione repubblicana, ed alla stessa evoluzione dell’economia, dei rapporti familiari, dei costumi sociali, dei bisogni e dei diritti riconosciuti alla persona umana. Interventi di riforma parziali e contingenti hanno generato un diritto penale frammentato (e non semplicemente frammentario), il cui livello di incoerenza è stato moltiplicato dalla ciclica alternanza tra opzioni securitarie e interventi di segno moderatore. Ne risulta un quadro di elevata protezione (o, meglio, di eccessiva penalizzazione) riguardo a valori tipici di uno Stato autoritario e di una società non sviluppata, con conseguenti problemi di plateale anacronismo (e vuoti concomitanti di tutela per diritti emergenti). Assestamenti disorganici sono stati ottenuti, per lungo tempo, allargando i margini della discrezionalità giudiziale e poi, più recentemente, restringendo quegli stessi margini, a protezione dell’effettività di politiche sanzionatorie fondate su valori edittali sempre più esasperati e su meccanismi applicativi sempre più rigorosi. La storia delle aperture della Consulta al sindacato sulla pena non è recente, ma vive di interventi episodici e segnati da una notevole varietà di percorso. Non solo mutano le soluzioni di volta in volta adottate per giungere al risultato manipolatorio (infra). Una chiara evoluzione segna infatti, prima ancora, l’individuazione dei parametri costituzionali di riferimento. Particolarmente significativa, a tale ultimo proposito, è la parabola del principio di proporzionalità, cui la Costituzione non fa esplicito riferimento ed al quale però si riconosce, da tempo, il rango di tratto fondamentale nel disegno che raffigura il “volto costituzionale” dell’illecito penale. La Consulta l’ha ricavato essenzialmente dai principi di uguaglianza e di necessaria finalizzazione rieducativa della pena11. Ed oggi, com’è noto, l’enunciazione formale del principio, di cui all’art. 49 della Carta di Nizza, transita nell’ordinamento nazionale attraverso il cancello dell’art. 117, primo comma, della Costituzione12 . Tuttavia la proporzionalità stenta ad affermarsi come parametro per il sindacato sulle pene13. Altamente discrezionale l’individuazione dei beni giuridici meritevoli della protezione penale14, ed ancor più discrezionale l’individuazione della pena “proporzionata” alla luce delle molte variabili che rilevano accanto all’oggetto ed all’intensità dell’offesa. Il che resta vero, con la conseguente e già vista preclusione, anche quando l’opzione legislativa non appare giustificabile ad onta della più aperta variabilità delle soluzioni costituzionalmente compatibili. Ecco dunque che, per lungo tempo almeno, la proporzionalità si è atteggiata in modo particolare nella dinamica del controllo, restando spesso sommersa come un parametro occulto. Ha cambiato oggetto, divenendo non già il misuratore della congruenza tra la pena e l’offesa o la rimproverabilità tipiche d’una determinata fattispecie, quanto piuttosto il criterio per assicurare proporzione fra il trattamento stabilito dalla norma censurata e quello riservato a situazioni assimilabili. Evolvendo, quindi, quale profilo del principio di uguaglianza nella sua dimensione formale e così recuperando alla Consulta la possibilità di “scegliere senza scegliere”: l’uguale trattamento di situazioni eguali è regola vincolante non solo per il legislatore, ma anche per la stessa Corte costituzionale; se non ostacolato dal divieto di pronunce in malam partem (e dunque dal divieto di determinare un inasprimento della punizione), il precetto deve condurre all’espunzione dal sistema della norma irragionevole. Non stupisce quindi che per lungo tempo le censure fondate sul principio di proporzionalità siano rimaste “assorbite”, in modo più o meno formale, da quelle incentrate sul principio di uguaglianza. Ed il connubio è rimasto stabile anche quando, da parametro “assorbito”, la proporzionalità è divenuta criterio concorrente di affermazione dell’incompatibilità costituzionale delle previsioni sanzionatorie. I segni di evoluzione non mancano, come detto, ma saranno meglio percettibili in esito ad un esame puntuale della giurisprudenza in materia.

Le questioni non accolte

Una ricostruzione pur sommaria della giurisprudenza non può prescindere dal riferimento, pur sintetico, ai casi in cui la pressione dei giudici comuni per una manipolazione delle previsioni edittali rimane inefficace. L’esito negativo dipende, talvolta, dal dissenso della Corte circa il fondamento della comparazione istituita tra la fattispecie censurata ed un’altra, considerata invece utile, dal giudice rimettente, per il ragionamento triadico necessario all’individuazione di una pena più mite. In questi casi, normalmente, l’individuazione di differenze sostanziali tra le situazioni comparate induce la Corte a negare in radice l’irragionevolezza della previsione punitiva, e conduce quindi al rigetto della questione sollevata. È possibile solo qualche esempio. In tema di violenza sessuale, la peculiare intensità dell’offesa connessa all’aggressione contestuale di più persone è parsa giustificare l’assenza d’una fattispecie attenuante per i fatti lievi, prevista invece per l’ipotesi monosoggettiva15. Nella stessa logica si inseriscono provvedimenti più recenti, come quello che ha negato l’irragionevolezza del difforme trattamento, sul piano sanzionatorio, tra ingiuria comune e ingiuria militare, anche sulla base della diversa funzione di tutela assicurata dalle fattispecie poste in comparazione16. Ad un giudizio di infondatezza la Corte è pervenuta anche per una questione concernente l’ipotesi lieve della ricettazione (secondo comma dell’art. 648 c.p.), segnata nel minimo dalla soglia di pena più bassa (quindici giorni) e nel massimo da una sanzione (sei anni di reclusione) incompatibile con l’applicazione della causa di non punibilità relativa ai fatti particolarmente tenui (art. 131 bis c.p.). Nonostante il giudizio critico sulla complessiva ragionevolezza della situazione denunciata (ed il conseguente monito al legislatore), alcune delle comparazioni proposte dal rimettente sono state ritenute infondate, e per il resto è maturata una sostanziale valutazione di inammissibilità dei possibili interventi sui valori edittali della sanzione o sui confini della fattispecie di esenzione dalla pena: «interventi del genere (come anche altri, sollecitati attraverso questioni di legittimità costituzionale che non hanno potuto trovare accoglimento) esulano, per costante giurisprudenza, dai poteri» della Consulta17. Pur con tratti di obiettiva peculiarità, il caso appena citato introduce ad una seconda e fondamentale tipologia delle ipotesi di insuccesso di questioni concernenti il sindacato delle pene: ipotesi nelle quali la Corte rileva la mancanza di un parametro normativo cui rapportare la disposizione censurata, al fine di connettere ad una rima obbligata la previsione sanzionatoria con cui sostituire quella considerata irragionevole. Non è raro – ed anzi accade ormai relativamente spesso (supra) – che i giudici costituzionali giungano ad una critica aperta della legge, sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità, ma anche in casi del genere si determinano pronunce di inammissibilità della questione sollevata. La più nota tra le decisioni recenti è già stata citata in apertura18, ma vi sono manifestazioni dello stesso indirizzo, di analoga importanza, anche nella giurisprudenza degli anni successivi19.

Le questioni accolte: gli automatismi sanzionatori

Presentano comunque speciale interesse, com’è ovvio, i casi nel quali la Corte è intervenuta a razionalizzare discipline sanzionatorie sottoposte al suo giudizio, nel verso “naturale” di una loro mitigazione. Va ricordato anzitutto, nel tentativo di ordinare i vari profili della tendenza in atto, come il legislatore degli ultimi anni abbia inteso aumentare la pressione sanzionatoria per determinate categorie di reati (o persone) incidendo non sui valori edittali delle pene, ma sui margini della discrezionalità giudiziale nella gestione dei meccanismi di computo, ed in particolare delle circostanze del reato. Sono state essenziali, in questo quadro, le scelte concernenti la recidiva, tanto riguardo ai presupposti per la sua applicazione, tanto in rapporto agli effetti indiretti della recidiva stessa. Ebbene, nell’ambito di una più generale bonifica dell’ordinamento dagli “automatismi sanzionatori” (che producono violazioni del principio di uguaglianza, quando non sorretti da presunzioni corrispondenti ad elevatissime percentuali di ricorrenza effettiva del fattore condizionante)20, la Corte è intervenuta più volte a garantire strumenti di ragionevole corrispondenza tra fatto e punizione, eliminando i casi obbligatori di applicazione della recidiva21, ed eliminando altresì, con un processo forse non ancora concluso, molti dei suoi effetti indiretti22.

L’eliminazione radicale delle previsioni sanzionatorie

Se la ripristinata discrezionalità giudiziale può attenuare l’irragionevolezza delle pene sul piano concreto, il rimedio più funzionale al recupero sistemico della compatibilità costituzionale è dato, naturalmente, dall’intervento diretto sulla previsione che stabilisce la qualità o la quantità della sanzione. Anche su questo piano si legittima un tentativo di “sistemazione”. E può notarsi anzitutto come, stabilita l’irragionevolezza d’una determinata previsione sanzionatoria, la Corte reagisca talvolta nella maniera più radicale, e cioè eliminando, su quel presupposto, l’intera fattispecie incriminatrice. È avvenuto soprattutto in epoca risalente, senza particolare attenzione alle implicazioni sistematiche delle singole decisioni, pagando talvolta, in situazioni non particolarmente allarmanti (ad es. riguardo alla disciplina della caccia), il costo della completa depenalizzazione della condotta23. Altre volte si è agito confidando nella “riespansione” di norme incriminatrici a carattere generale, già derogate dalla norma speciale rimossa con la sentenza24. Una logica assimilabile ha caratterizzato, sempre in epoca risalente, la vicenda della cd. “spirale delle condanne”, relativamente al rifiuto della prestazione del servizio militare in epoca nella quale il servizio stesso era obbligatorio. Poiché la pregressa esecuzione di una pena per il reato di renitenza non incideva sulla persistenza dell’obbligo di leva, i soggetti che insistevano nell’atteggiamento di rifiuto – per ragioni religiose, ideologiche o d’altro genere – venivano più volte processati e condannati per un fatto sostanzialmente unitario, ed oltretutto connesso intimamente a libertà fondamentali della persona. Con una serie assai complessa di interventi, la Corte aveva inciso proprio sulla disciplina concernente i presupposti del dovere di prestare il servizio militare dopo un precedente fatto di renitenza, neutralizzando così la norma penale nei casi in cui avrebbe dovuto essere attivata nei confronti di soggetti già condannati25. D’una tecnica radicalmente liquidatoria può parlarsi anche per i rari casi nei quali la Consulta, considerando illegittimo che le pene per classi più o meno ampie di reati fossero aumentate in base a circostanze di contenuto discriminatorio, è pervenuta ad una pronuncia caducatoria dell’intera figura circostanziale. Un caso risalente, in questa prospettiva, è dato dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 635, secondo comma, n. 2, c.p., nel testo in allora vigente, che inaspriva la sanzione per il danneggiamento nel caso fosse commesso da «lavoratori in sciopero»26. Molto nota è una pronuncia più recente, relativa addirittura ad una circostanza comune, cioè quella che, secondo il disposto del n. 11-bis dell’art. 61 c.p., aumentava la pena riguardo a qualunque reato fosse commesso da soggetto in condizione di soggiorno irregolare nel territorio dello Stato27. Per certi versi speculare è la tecnica con la quale, ravvisata l’esigenza costituzionalmente imposta di attenuare la rigidità dei valori edittali minimi per una determinata fattispecie, la Corte, senza intervenire direttamente sulla relativa previsione, ha messo nelle mani dei giudici uno strumento circostanziale prima inesistente. Ciò che naturalmente è avvenuto, nel rispetto del modello triadico di comparazione, con la “clonazione” degli elementi attenuanti stabiliti dal legislatore con riguardo ad una fattispecie analoga. Subito s’impone, a questo proposito, il richiamo alla sentenza con la quale la norma incriminatrice del sequestro di persona a scopo di estorsione è stata dichiarata illegittima nella parte in cui non prevedeva una diminuzione di pena «quando, per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità» (cioè nei casi regolati dal combinato disposto tra l’art. 311 e l’art. 289 bis c.p., relativamente ai sequestri compiuti con finalità di terrorismo o di eversione)28.

La manipolazione dei valori edittali

Tra gli interventi diretti sulla norma sanzionatoria, quello che manipola “soltanto” la sua dimensione quantitativa è, per evidenti ragioni, il più impegnativo, richiedendo una vera e propria sostituzione dei valori in gioco. La Consulta ha sperimentato questo percorso, per la prima volta, con la notissima sentenza sul reato di oltraggio29, oggi depenalizzato ma punito, all’epoca della decisione, con la pena della reclusione da sei mesi a due anni. La severità della norma, e la sua intima connessione ad una concezione autoritaria del rapporto tra i cittadini e lo Stato, risaltava in particolare nel valore minimo della sanzione, che costringeva i giudici comuni, con crescente disagio, ad irrogare pene detentive non trascurabili per fatti talvolta modestissimi. La Corte ha rimosso il vulnus costituzionale eliminando dal testo della norma incriminatrice l’indicazione della pena minima, così chiamando in surrogazione la disposizione generale sulla reclusione, che ne fissa la minor durata in quindici giorni, quando non diversamente stabilito (art. 23 c.p.). La sentenza in questione risulta ancor oggi paradigmatica, e per certi versi assai avanzata. In essa ad esempio si valorizzava la sproporzione tra offesa tipica e pena, e quindi si assegnava diretta rilevanza al principio di proporzionalità, sia pure nei termini allora usuali di corollario della finalizzazione rieducativa, attraverso un penetrante esame della posizione del bene giuridico nel quadro rinnovato dei valori costituzionali, e finanche nel raffronto con la legislazione preunitaria e quella europea. Certo, l’operazione era stata comunque condotta nel solco di una comparazione con il trattamento sanzionatorio dell’ingiuria (anche l’art. 594 c.p. non aveva previsione minima di pena), ed era stata facilitata dalla relativa moderazione complessiva del trattamento risultante dalla manipolazione (reclusione da quindici giorni a due anni). Il cursore tra il minimo ed il massimo della pena, in effetti, s’era fatto notevole, e per la verità superiore in termini percentuali a quello che, in altra occasione, la stessa Corte aveva stimato incompatibile con il principio di legalità30. All’evidenza, una variabilità così elevata era parsa preferibile rispetto alla permanenza nell’ordinamento di una pena davvero irragionevole per un gran numero di fattispecie concrete. E del resto la sentenza aveva messo in esplicito rilievo i numerosi precedenti sul medesimo oggetto, ispirati ad un atteggiamento più prudente e conservativo, ed all’aspettativa, mai soddisfatta, di un intervento del legislatore31. A dimostrazione – tante volte ricevuta – che vi sono situazioni nelle quali l’esigenza di ripristino della legalità costituzionale rende flessibili gli stessi confini di intangibilità dei margini riservati alla discrezionalità del legislatore penale32. Restano da evocare i casi nei quali la Corte si è servita del ragionamento triadico per mutuare uno specifico valore di pena da una fattispecie determinata, chiamata direttamente in comparazione. Un passo fondamentale in questa direzione era stato compiuto con una nota sentenza in materia di violazione dell’obbligo di leva militare33. La legge puniva in modo dissimile una stessa condotta, cioè quella di renitenza, a seconda che fosse motivata sull’obiezione di coscienza (reclusione da due a quattro anni) o fosse motivata diversamente o tenuta senza alcuna giustificazione (reclusione da sei mesi a due anni). La Consulta aveva considerato ingiustificata la disparità di trattamento, ed “imposto” la sanzione edittale più moderata per il reato allora previsto dalla legge sull’obiezione di coscienza, preoccupandosi di mettere in chiara luce la natura “formale” del proprio intervento: «questa Corte (…) non fa che vincolatamente attuare, anche per il fatto di cui al ricordato secondo comma dell’art. 8, la valutazione che il legislatore opera in ordine al disvalore dello stesso (od analogo) fatto di cui all’art. 151 c.p.m.p.». L’applicazione del principio di uguaglianza ha sostenuto anche, in tempi recenti, soluzioni radicali al punto da mutare la natura dell’illecito penale preso in considerazione, e quindi la qualità della pena comminata. È il caso di alcune previsioni poste a tutela del paesaggio, inserite in una disciplina che prevedeva una serie di illeciti contravvenzionali ed un’area di specialità riferita ad alcuni comportamenti ritenuti più gravi, e quindi puniti con la reclusione. La Corte, una volta stabilito che il diverso trattamento riservato ad una parte delle fattispecie delittuose risultava ingiustificato, in base alla ritenuta loro assimilabilità con le figure contravvenzionali corrispondenti, ha dichiarato parzialmente illegittima la norma regolatrice delle ipotesi più gravi, determinandone così la “degradazione” ad illeciti contravvenzionali34. Si è perfino registrato un caso nel quale, mediante una secca sostituzione della previsione sanzionatoria penale censurata con la diversa previsione punitiva della norma assunta quale tertium comparationis, la Corte ha trasformato un illecito penale in violazione amministrativa35. Di mera “sostituzione” dei profili quantitativi della pena si torna a parlare in un provvedimento recente ed assai significativo36, concernente le sanzioni previste per il reato di alterazione di stato mediante false dichiarazioni o certificazioni, punito assai più gravemente (reclusione da cinque a quindici anni) – con una vera e propria sfida al senso comune – del fatto commesso attraverso la sostituzione di un neonato con un altro (reclusione da tre a dieci anni). Non deve trarre in inganno la corrispondenza dell’operazione, in termini procedurali, a quella già altre volte compiuta. La sentenza infatti esprime una variazione potenzialmente decisiva del rapporto tra logica della proporzionalità ex se e logica della comparazione tra “uguali” nel sindacato sulle scelte sanzionatorie del legislatore. Si trattava in sintesi di valutare se – come denunciato dal giudice rimettente – fosse irragionevole il trattamento previsto per l’alterazione di stato commessa mediante falso (secondo comma dell’art. 567 c.p.), «anche in riferimento alle altre fattispecie» concernenti la tutela dello stato di famiglia. La Corte ha ricusato una logica di diretta comparazione con la fattispecie “parallela” della sostituzione di neonati, rifiutando dunque di discutere se non fosse addirittura invertita, nella previsione sanzionatoria, la proporzione tra gravità dei fatti ed entità delle pene. In ciò probabilmente la sua valutazione è stata condizionata da un discutibile precedente, ove una questione per certi versi analoga era stata rigettata postulando la maggior gravità della condotta punita dal secondo comma (in quanto reato complesso comprendente anche il falso)37. Ad ogni modo – ed è quel che conta – la questione è stata risolta «in virtù della manifesta sproporzione della cornice edittale censurata, se considerata alla luce del reale disvalore della condotta punita», cioè sulla base di un diretto raffronto tra gli specifici profili del fatto (offesa tipica e colpevolezza) ed il livello della pena stabilita dal legislatore. In altre parole, una diretta applicazione del principio di proporzionalità ha indotto a «negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni». E ancora, «il principio di proporzionalità esige un’articolazione legale del sistema sanzionatorio che renda possibile l’adeguamento della pena alle effettive responsabilità personali, svolgendo una funzione di giustizia, e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statale, in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale». Una sanzione sproporzionata per eccesso realizza, dunque, una violazione congiunta dell’art. 3, primo comma, e dell’art. 27, terzo comma, Cost. Per riconoscere detta violazione, è stato operato nella specie «prima di tutto, un controllo di proporzionalità sulla cornice edittale stabilita dalla norma censurata, alla luce dei principi costituzionali evocati (artt. 3 e 27 Cost.), non già una verifica sull’asserito diverso trattamento sanzionatorio di condotte simili o identiche, lamentato attraverso la mera identificazione di disposizioni idonee a fungere da tertia comparationis». Come accennato, la novità risiede nella sequenza, essendo evidente che la Corte non ha inteso rinunciare al metodo comparativo per la determinazione della sanzione proporzionata: «anche nel giudizio di “ragionevolezza intrinseca” di un trattamento sanzionatorio penale, incentrato sul principio di proporzionalità, è infatti essenziale l’individuazione di soluzioni già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata». E tuttavia, nella specie almeno, la comparazione non ha condizionato la rilevazione del vizio38, valendo solo, ed a seguito di quella rilevazione, ad individuare (in termini dichiaratamente non stringenti)39 una soluzione alternativa obbligata (rinvenuta, nel caso in questione, riguardo alle più tenui sanzioni previste dal primo comma dell’art. 567 c.p.)40.

I profili problematici

Sembra chiaro, alla luce delle tendenze più recenti, che sarà sempre più difficile per la Consulta, di fronte alle molte situazioni di irragionevole dosimetria delle pene, trincerarsi dietro l’assenza di tertia comparationis cui ancorare, in termini di completa assimilazione, il giudizio sul merito e quello sull’ammissibilità delle questioni sollevate. Nei più recenti sviluppi della giurisprudenza la logica triadica non è venuta meno, ma è cambiata, o sta cambiando, la collocazione del tema lungo il percorso logico del giudice costituzionale. La comparazione con una fattispecie “assimilabile” risale il flusso logico-argomentativo, e si inserisce nel generale giudizio sulla irragionevolezza della scelta discrezionale del legislatore, salvo poi tornare in gioco – ma affrancata dalla puntuale verifica della “coincidenza” fra tratti salienti che sarebbe imposta dal principio di uguaglianza formale – come fattore di ancoraggio della “scelta” di una pena alternativa ad opera della Consulta41. Che non si tratti d’un passo casuale, favorito in misura decisiva dalle peculiarità del caso concreto, si può affermare alla luce di una pronuncia ancor più recente, segnata appunto da richiami molto ampi ed adesivi al dictum del precedente relativo all’alterazione di stato42. Certo, come già accennato (supra, § 1), la Corte si è fermata nuovamente innanzi al muro della discrezionalità legislativa, pur essendo pervenuta ad un giudizio molto severo circa la razionalità del sistema sanzionatorio attualmente vigente per i fatti di narcotraffico (ed in particolare dello iato esistente tra le pene minime per la condotta ordinaria e quelle massime per le ipotesi lievi)43. Non essendosi rinvenuta «una univoca indicazione legislativa già disponibile nel sistema giuridico», l’esito di inammissibilità è apparentemente congruo con la risalente ed ormai nota impostazione. E tuttavia, nella specie, il “non liquet” è dichiaratamente strumentale all’espressione di un monito, definito “pressante”, e dunque all’annuncio di soluzioni diverse nel caso che l’inerzia del legislatore si prolunghi per un tempo apprezzabile: quasi una pronuncia di illegittimità ad efficacia differita. Non altrimenti si può leggere il fatto che, non accontentandosi delle decise espressioni utilizzate per sollecitare una riforma legislativa, la Corte ha voluto richiamare, con notevole dettaglio, casi nei quali la persistente mancanza di nuove leggi ha condotto al ribaltamento di precedenti dichiarazioni di inammissibilità, ed a rotture, più o meno manifeste, del muro della discrezionalità (supra, § 2.4). Come accennato, e senza che la cosa debba stupire in un sistema ove devono essere interrotte non appena possibile situazioni di conclamata e diretta violazione della legalità costituzionale, le stesse dinamiche del vaglio di legittimità risultano variabili.

Note

1 Si tratta di affermazioni tradizionali nella giurisprudenza della Corte costituzionale sul tema: per citare solo i provvedimenti più recenti, C. cost., 12.4.2017, n. 127, e C. cost., 12.10.2017, n. 215.

2 «Nella giurisprudenza costituzionale più recente, gli interventi di questa Corte sulle disposizioni sanzionatorie sono divenuti più frequenti, con una serie di decisioni ispirate a una sempre maggiore garanzia della libertà personale e dei principi costituzionali che delineano “il volto costituzionale del sistema penale”»: C. cost., 13.7.2017, n. 179.

3 Sulle norme penali di favore, trattate con particolare diffusione in C. cost., 23.11.2006, n. 394, v., tra le più recenti, C. cost., 5.11.2015, n. 223.

4 C. cost., 28.1.2010, n. 28.

5 Per un intervento con effetti peggiorativi, legittimato dalla violazione delle norme costituzionali sulla delega legislativa, v. C. cost., 23.1.2014, n. 5, relativa all’abrogazione con provvedimento governativo di una fattispecie incriminatrice non compresa nella delega per la depenalizzazione. A proposito del sindacato su leggi regionali munite di effetti restrittivi circa l’ambito di applicazione di norme penali, v. la sintesi proposta da Napoleoni, V., Riserva di legge e norme regionali in materia penale, in Libro dell’anno del Diritto 2015, Roma, 2015, 121.

6 Per un quadro argomentato, sebbene ormai risalente, v. Corbetta, S., La cornice edittale della pena e il sindacato di legittimità costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 134. Più recentemente, tra gli altri, Manes, V., Scelte sanzionatorie e sindacato di legittimità, in Libro dell’anno del Diritto 2013, Roma, 2013, 104; Epidendio, T., Eguaglianza, offensività, e proporzione della pena, in Libro dell’anno del Diritto 2015, Roma, 2015, 101. Nella più matura riflessione della Corte, la discrezionalità legislativa non è limitata soltanto attraverso i principi di uguaglianza e ragionevolezza, ma per la stessa finalizzazione della pena alla rieducazione del condannato: ad es., C. cost. n. 179/2017. In precedenza, sulla irragionevolezza manifesta come condizione del sindacato, tra le altre, C. cost., 26.11.2004, n. 364; C. cost., 23.7.2005, n. 325; C. cost., 2.2.2007, n. 22; C. cost., 23.7.2010, n. 282. Di recente la Corte ha specificato che il controllo di ragionevolezza (e proporzionalità) della pena si estende al complessivo risultato di punizione dell’agente, e dunque concerne anche le pene proporzionali, quando l’unità di computo fissata dalla legge, in rapporto al numero dei potenziali fattori di moltiplicazione, può condurre a risultati spropositati: a proposito delle pene pecuniarie proporzionali nella repressione del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, v. C. cost., 21.6.2017, n. 142.

7 C. cost. n. 22/2007.

8 In senso analogo, tra le altre, C. cost., 14.2.2013, n. 23; C. cost., 22.11.2013, n. 279.

9 Per decisioni di infondatezza fondate sugli ampi margini della discrezionalità legislativa v., ad es., C. cost. n. 325/2005; C. cost., 30.4.2008, n. 129.

10 C. cost. n. 179/2017.

11 Sulla necessaria finalizzazione rieducativa della pena, quale direttiva costituzionale sottesa al criterio di necessaria proporzione della pena medesima, v. C. cost., 2.7.1990, n. 313. In seguito, ex multis, C. cost., 28.7.1993, n. 343; C. cost., 22.7.1994, n. 341; C. cost., 23.3.2012, n. 68; C. cost., 15.11.2012, n. 251.

12 Si nota in dottrina (ad esempio Viganò, F., Un’importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2017, fasc. 2, 65) come la giurisprudenza europea connetta ormai il principio di proporzione anche al divieto di pene “inumane e degradanti” (cfr., per tutti, C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sent. 9.7.2013, Vinter c. Regno Unito, § 102). Una recente ed approfondita analisi della giurisprudenza costituzionale sul tema in Merlo, A., Considerazioni sul principio di proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale in materia penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 1427.

13 Si è osservato come il principio di proporzionalità si presti ad essere «utilizzato come complemento e in appoggio a qualunque altro principio costituzionale richiamato a parametro del giudizio della Corte» (Cartabia, M., Ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, in AA.VV., Il costituzionalista riluttante, Torino, 2016, 463).

14 Pulitanò, D., La misura delle pene, fra discrezionalità politica e vincoli costituzionali, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2017, fasc. 2, 49.

15 C. cost. n. 325/2005.

16 C. cost. n. 215/2017.

17 C. cost. 17.7.2017, n. 207.

18 C. cost. n. 22/2007.

19 V. anzitutto C. cost., 16.6.2016, n. 148, relativa alla forte discontinuità tra le pene minime previste per i fatti di narcotraffico e quella massima comminata nel caso di ipotesi lievi, ove la Corte si è limitata ad evidenziare la discrezionalità dell’intervento richiesto. Una decisione ripetuta in tempi recentissimi (C. cost. n. 179/2017), ma con tutt’altro atteggiamento, come meglio si vedrà, riguardo alla congruenza della disciplina ed alla sua “intangibilità”.

20 Ex multis, volendo, Leo, G., Automatismi sanzionatori e principi costituzionali, in Libro dell’anno del Diritto 2014, Roma, 2014, 121.

21 C. cost., 23.7.2015, n. 185.

22 Qui rileva soprattutto il quarto comma dell’art. 69 c.p., con il disposto divieto di subvalenza della recidiva, relativamente al co. 5 dell’art. 73 del d.P.R. 9.10.1990, n. 309 (C. cost., 15.12.2012, n. 251), al secondo comma dell’art. 648 c.p. (C. cost., 14.4.2014, n. 105), al terzo comma dell’art. 609 bis c.p. (C. cost., 18.4.2014, n. 105), al co. 7 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990 (C. cost., 7.4.2016, n. 74), al co. 3 dell’art. 219 del R.d. 16.3.1942, n. 267 (C. cost., 17.7.2017, n. 205). Per una pronuncia di analogo senso, concernente un divieto di applicazione delle attenuanti generiche, v. C. cost., 10.6.2011, n. 183.

23 C. cost., 9.7.1974, n. 218 e C. cost., 14.7.1976, n. 176.

24 È il caso della dichiarazione di illegittimità della norma del codice militare che puniva il tentato omicidio del superiore con la stessa pena (l’ergastolo) prevista per l’omicidio consumato: alla base del decisum l’irragionevole equiparazione tra situazioni diverse, con l’esplicito caveat, ad opera della Corte, a proposito della possibile applicazione ai fatti in questione delle norme del codice penale comune (C. cost., 5.5.1979, n. 26). Nella stessa prospettiva può citarsi la sentenza con cui è stata eliminata la norma militare sulla violata consegna, censurata per altro sotto il profilo assorbente del principio di legalità (data l’estrema ampiezza dell’editto: da due a ventisei anni di reclusione), sul presupposto concorrente che ai fatti relativi restassero applicate altre e meno severe previsioni dello stesso codice penale militare (C. cost., 24.6.1992, n. 299).

25 È appena il caso di ribadire che s’era trattato di vicenda molto complessa, tra l’altro riproposta (e superata senza necessità di definizione) in epoca di violazione reiterata dell’obbligo di lasciare il territorio nazionale imposto allo straniero con provvedimento del questore. Sul servizio di leva v. C. cost., 18.7.1989, n. 409; C. cost., 19.12.1991, n. 467; C. cost., 28.7.1993, n. 343; C. cost., 3.12.1993, n. 422; C. cost., 20.2.1997, n. 43; sull’argomento anche C. cost., 22.6.2000, n. 223 e C. cost., ord. 20.11.2000, 513; C. cost., ord. 9.2.2001, n. 35.

26 C. cost., 6.7.1970, n. 119.

27 C. cost., 8.7.2010, n. 249.

28 C. cost. n. 68/2012.

29 C. cost. n. 341/1994.

30 Con la C. cost., 24.6.1992, n. 409, la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 122 del c.p.m.p., che puniva il reato di violata consegna con la pena della reclusione militare da due a ventiquattro anni: «il principio di legalità richiede anche che l’ampiezza del divario tra il minimo ed il massimo della pena non ecceda il margine di elasticità necessario a consentire l’individualizzazione della pena secondo i criteri di cui all’art. 133 e che manifestamente risulti non correlato alla variabilità delle fattispecie concrete e delle tipologie soggettive rapportabili alla fattispecie astratta. Altrimenti la predeterminazione legislativa della misura della pena diverrebbe soltanto apparente ed il potere conferito al giudice si trasformerebbe da potere discrezionale in potere arbitrario». Si è osservato in dottrina come l’eventuale “risultato incostituzionale” di un intervento di manipolazione, sotto il profilo dell’eccessiva ampiezza della forbice edittale, costituisca un ulteriore ostacolo sul percorso per l’ammissibilità del sindacato sulle scelte sanzionatore: da ultimo, Viganò, F., Un’importante pronuncia della Consulta, cit., 66.

31 C. cost., 19.7.1968, n. 109; C. cost., 28.11.1972, n. 165; C. cost., 14.4.1980, n. 51; C. cost., ord. 17.3.1988, n. 323.

32 C. cost., 7.4.2011, n. 113, introduttiva di un «diverso caso di revisione» quale rimedio nazionale per l’esecuzione delle sentenze di condanna deliberate dalla C. eur. dir. uomo.

33 C. cost. n. 409/1989.

34 C. cost., 23.5.2016, n. 56. È stato osservato che, con la sentenza indicata, «la Consulta ‘colpisce’ il precetto ma al precipuo scopo di ‘abbattere’ la sanzione, il che consente di qualificare quella in commento – a tutti gli effetti (processuali ed esecutivi …) – quale dichiarazione d’incostituzionalità di norme riguardanti (anche) il trattamento sanzionatorio» (Natalini, A., La “contravvenzionalizzazione” del delitto paesaggistico: il “sacrificio” del precetto (e del giudicato) in nome della (ir)ragionevolezza sanzionatoria, in www.penalecontemporaneo.it, 11.4.2016.

35 È accaduto in materia di propaganda elettorale: C. cost., 25.7.2001, n. 287.

36 C. cost., 10.11.2016, n. 236, a commento della quale si vedano, tra gli altri, Cottu, E., Giudizio di ragionevolezza e vaglio di proporzionalità della pena: verso un superamento del modello triadico?, in Dir. pen. e processo, 2017, 473; Dolcini, E., Pene edittali, principio di proporzione, funzione rieducativa della pena: la Corte costituzionale ridetermina la pena per l’alterazione di stato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2016, 1956; Insolera, P., Controlli di costituzionalità sulla misura della pena e principio di proporzionalità: qualcosa di nuovo sotto il sole?, in Ind. pen., 2016, 174; Manes, V., Proporzione senza geometrie, in Giur. cost., 2016, 6, 2105; Viganò, F., Un’importante pronuncia della Consulta, cit., 63.

37 C. cost., ord. 23.3.2007, n. 106. È noto il disfavore delle Corti superiori per soluzioni argomentative che, quando non appaia strettamente indispensabile, valgano a confutare in modo diretto e radicale le affermazioni compiute nei propri precedenti provvedimenti. In questo senso, riguardo al caso di specie, il “rispettoso” rilievo di Pulitanò, D., La misura delle pene, cit., 53, il quale osserva pure, nel prosieguo, come l’anacronismo e l’irrazionalità della disciplina dell’alterazione di stato fossero già emersi dalle sentenze manipolative a proposito della pena accessoria della privazione della responsabilità genitoriale (C. cost., 15.2.2012, n. 31 e 16.1.2013, n. 7), determinando un contesto particolarmente favorevole all’intervento censorio sulle pene del secondo comma dell’art. 567 c.p.

38 Insomma: «non più fondante il ruolo del tertium comparationis nelle dinamiche del controllo di proporzionalità», per quanto ancora necessario a fornire «le rime obbligate»; e ancora, la fattispecie in comparazione diviene «mero terminus ad quem e non più starting point del giudizio di proporzionalità» (Manes, V., Proporzione senza geometrie, cit., 2110). Nel linguaggio di altro Autore: «la stazione ermeneutica viene ora collocata a posteriori, rispetto ad una già compiuta diagnosi di illegittimità della pena per difetto di proporzione» (Cottu, E., Giudizio di ragionevolezza, cit., 476).

39 Si è messo in luce come la Corte abbia finito per rimarcare le differenze tra previsione censurata e parametro in comparazione, accontentandosi del fatto che le due fattispecie «non possono considerarsi del tutto disomogenee» (Dolcini, E., Pene edittali, cit., 1964).

40 Si è osservato come la Corte abbia verificato «un rapporto ’interno’ di proporzione, che prescinde dalla ricerca di un tertium comparationis» (Dolcini, E., Pene edittali, cit., 1959).

41 Se ne è dedotto che la Corte avrebbe «ormai definitivamente svincolato la valutazione sulla proporzionalità della pena dalla necessaria individuazione di un tertium comparationis caratterizzato da identico disvalore, e irragionevolmente sottoposto a diverso trattamento sanzionatorio» (Viganò, F., Un’importante pronuncia della Consulta, cit., 65).

42 C. cost. n. 179/2017.

43 La Corte ha notato, esaminando il rapporto fra il primo ed il quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, che «le rilevate differenze tra i due reati non giustificano salti sanzionatori di entità così rilevante come quello attualmente presente nei diversi commi dell’art. 73» e che lo scarto tra le due previsioni «ha raggiunto un’ampiezza tale da determinare un’anomalia sanzionatoria rimediabile con plurime opzioni legislative».

CATEGORIE