PREFABBRICAZIONE

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1994)

PREFABBRICAZIONE

Enrico Mandolesi

(App. III, II, p. 474; IV, III, p. 49)

Prefabbricare significa realizzare parti funzionali di un'opera edilizia prima e al di fuori della ''fabbrica'', intesa come momento e luogo della materializzazione vera e propria di un organismo edilizio o di un'opera infrastrutturale; in effetti la fabbrica è l'opera edilizia stessa nel suo concretizzarsi. La p. incide, nei modi e nei tempi, sull'attività costruttiva che si svolge nella fabbrica: questa non è più sede esclusiva della realizzazione degli elementi costruttivi, i quali anziché essere fatti lì per lì nella loro sede definitiva, cioè in opera, vengono costruiti in ambiti esterni. In tal senso soluzione radicale è realizzare i componenti al di fuori del cantiere, cioè in stabilimenti distribuiti sul territorio: si ha così la p. fuori opera (fig. 1, A, B). D'altra parte l'ambito può essere esterno alla fabbrica ma interno al cantiere, che in questo caso comprende aree per prefabbricare componenti: si ha così la p. a piè d'opera (fig. 1, C, D). Infine sussiste la possibilità, apparentemente paradossale, di operare all'interno della stessa fabbrica, cioè nell'ambito dell'area coperta dall'edificio: si hanno così la p. a piè di fabbrica (fig. 1, E, F), che consiste nella realizzazione a terra, all'interno del perimetro di base del fabbricato, di componenti da collocare in quota per sollevamento (modalità tipica, per es., dei procedimenti lifting) e la p. al piano (fig. 1, G, H), cioè la realizzazione di componenti in quota e in prossimità della sede di posa (per es. pannelli-facciata prefabbricati sui vari solai).

Il ricorso alla p. dà la possibilità di ridurre oneri o complessità propri del costruire in sito: il pezzo prefabbricato può avere come attributo intrinseco l'eliminare una o più lavorazioni in opera, e può quindi essere tanto più conveniente quanto più elevato è il suo grado di semplificazione (GS), espresso dal numero e/o dal tipo di lavorazioni assorbite. D'altra parte il prefabbricare non costituisce sempre un'alternativa alla realizzazione in opera di un manufatto, ma può risultare scelta obbligata per due motivi: a) l'elemento non è realizzabile in altro modo per le caratteristiche dei materiali che s'intendono o si possono impiegare e si ha così la p. intrinseca al pezzo (per es., mentre la colonna in pietra è realizzabile tanto in opera con rocchi sovrapposti quanto prefabbricata monopezzo e così pure un pilastro in cemento armato può essere gettato in opera o prefabbricato, invece una colonna in ghisa, modellabile soltanto a caldo, non può che essere prefabbricata, come pure un ritto ricavato da un tronco d'albero); b) l'opera da costruire comporta obbligatoriamente il ricorso alla p. per ragioni d'impiego e/o di destinazione d'uso e si ha così la p. intrinseca all'intera opera; è il caso delle ''unità spostabili'', da smontare e riedificare (per es., per il passato, le tende mongole e, attualmente, le unità abitative scomponibili, gli involucri pneumatici e i ponti militari Bailey), oppure da trasportare intere e complete (per es. cellule spaziali, mobile-home e ponti militari semoventi). Sintetizzando, le ragioni d'essere della p. sono due: rappresentare soluzione alternativa alla costruzione in opera; costituire soluzione obbligata in conseguenza dei materiali utilizzabili oppure del tipo d'impiego dell'opera edilizia.

In ambedue i casi s'individua un procedimento basato su operazioni di montaggio di componenti, tra loro integrabili, limitati in tipo e numero; perciò si tende da un lato all'unificazione e dall'altro al sovradimensionamento dei pezzi (compatibilmente con le tecnologie di produzione, la trasportabilità e la maneggevolezza); ciò è riscontrabile per es. nei sistemi di p. a grandi pannelli in cemento armato, con cui si eliminano onerose lavorazioni ''umide'' tipiche delle costruzioni murarie (dalla preparazione delle malte all'assemblaggio di numerosissimi piccoli pezzi preformati, i mattoni); è altresì riscontrabile nella tendenza a sostituire nelle costruzioni metalliche l'assemblaggio in opera di pilastri e travi con telai (mono o pluripiano) premontati a piè d'opera.

Qualunque sia il motivo del ricorso alla p., il pezzo prefabbricato dev'essere dell'opera da costruire parte sostanziale e compiuta con specifiche caratteristiche morfologiche (in funzione del ruolo che ha ai fini della definizione dello spazio architettonico, della statica e del comfort) e con precise correlazioni con altre parti prefabbricate o da realizzare in opera; s'identifica perciò con un elemento costruttivo funzionale (v. edilizia, App. IV, i, p. 630) proprio di una determinata opera edilizia, sia questa un unicum o un'entità ripetibile. In sostanza il pezzo prefabbricato è un componente formalmente e costruttivamente strutturato in funzione di un'opera specifica, organismo edilizio od opera infrastrutturale che sia; in ciò si distingue dai pezzi ''preformati'' o ''preassemblati'', i quali come elementi costruttivi base (v. edilizia, App. IV, i, p. 630) hanno, rispetto a esso, valenze elementari, non costituendo parte strutturata e completa dell'opera, nonché ruolo subalterno quando concorrono a conformarlo. Il componente prefabbricato infatti può essere realizzato sia come composito di elementi preformati e/o preassemblati (per es. un pannello-facciata in conci laterizi o una finestra) sia come monopezzo ottenuto per asportazione o per modellatura (per es. rispettivamente una colonna in pietra o in ghisa). Il pezzo prefabbricato tende alla completezza tanto che il componente ideale è quello che in opera non richiede lavorazione alcuna ma solo operazioni di montaggio; tuttavia nella realtà produttiva si hanno differenti condizioni di completezza, per cui si possono individuare, con riferimento al grado di semplificazione (GS) sopra definito, più categorie di componenti prefabbricati.

La prima categoria è rappresentata dagli elementi prefabbricati al rustico, cioè il pezzo è prodotto al grezzo provvedendo in opera alle finiture (per es. un pannello-solaio o di facciata da intonacare in opera, una trave d'acciaio reticolare senza trattamento anticorrosione, un serramento da verniciare in opera). La seconda categoria è quella degli elementi prefabbricati semifiniti, cioè comprensivi di alcune finiture (per es. un pannello-solaio o di facciata preintonacato da completare in opera con la tinteggiatura, una trave d'acciaio reticolare con trattamento di zincatura ma da verniciare in opera, un serramento preverniciato); in questa categoria rientrano gli elementi parzialmente prefabbricati specifici delle opere in cemento armato, che richiedono getti di completamento in opera (il primo esempio è del 1902, quando l'inglese E. L. Ransome brevettò un sistema per solai comprendente una trave prefabbricata con armatura sporgente, per consentire il collegamento con la soletta gettata in opera; sistemi simili, come quello ''a predalles'', oggi sono di uso corrente). La terza categoria è quella degli elementi prefabbricati al finito, cioè completamente rifiniti e soggetti in opera al semplice montaggio (per es. un pannello-facciata completo di rivestimento esterno e di strato di finitura all'interno, una trave reticolare in acciaio preverniciata, un serramento preverniciato completo di vetri e di soglia). La quarta categoria è costituita dagli elementi prefabbricati attrezzati o attrezzabili, cioè da componenti in grado di comprendere canalizzazioni e punti di utilizzazione di uno o più impianti, che possono essere incorporati nella fase di p. (''componente attrezzato'': per es. una trancia di soletta comprensiva di serpentine per il riscaldamento) oppure inseribili in opera entro apposite sedi ispezionabili (''componente attrezzabile'': per es. un pannello con cavità verticale, dotata di sportelli, per consentire la posa e la sostituzione di tubature).

In rapporto agli elementi di fabbrica e all'opera edilizia nel suo insieme, il pezzo prefabbricato può costituire: una o più parti di un elemento di fabbrica (per es., per le chiusure verticali il pannello-facciata e il serramento forniti separatamente o già assemblati, per gli elementi di comunicazione verticale la rampa della scala dotata o non di parapetto), che è il caso più diffuso per la maggiore praticabilità rispetto agli altri che seguono; l'intero elemento di fabbrica (per es. un involucro gonfiabile, un'intera copertura a traliccio spaziale premontata a piè di fabbrica, una cellula spaziale); parti di più elementi di fabbrica, i cosiddetti prefabbricati ''tridimensionali'' (per es. gli elementi integrati in cemento armato come pannelli portanti+ soletta, pilastri+soletta, soletta+parapetto); l'intera opera edilizia, in genere di piccole dimensioni (per es. mobile-home, organismi monocellulari, ponti semoventi).

Definite le caratteristiche generali del pezzo prefabbricato occorre considerare che nella pratica costruttiva la p. può essere d'impiego totale o parziale.

La p. è totale quando l'opera è interamente formata da pezzi prefabbricati; si possono avere due modalità operative: montare in opera i componenti, e allora in questo caso permane la ''fabbrica'' come momento realizzativo; montare in stabilimento i componenti, e in questo caso scompare la ''fabbrica'' tradizionalmente intesa, dando così luogo a un'unica elementare operazione di collocazione in sito dell'opera (in generale di modeste dimensioni; per es. mobile-home) prodotta e trasportata sul posto completa. In ambedue le modalità la p. coinvolge in modo complessivo l'opera sotto il profilo sia progettuale che esecutivo: diviene matrice di un sistema progettuale in cui l'oggetto è considerato preventivamente disaggregato in parti, ma suscettibile di riaggregazione. In quest'ottica la progettazione dev'essere basata su precisi criteri di coordinamento integrale che assicurino ai componenti prefabbricati la combinabilità a livello dimensionale, l'effettiva accoppiabilità per intrinseci attributi morfologici e ben definite capacità prestazionali a livello d'insieme per quanto riguarda gli aspetti formali, statici e di comfort.

La p. è parziale quando l'opera è soltanto in parte formata da elementi prefabbricati, i quali possono risultare pezzi ''isolati'' incorporati nell'ambito delle prevalenti parti realizzate in opera (per es. architravi e colonne in costruzioni murarie; porte e finestre inserite in muri costruiti in opera) oppure costituire insiemi coordinati, al limite un intero elemento di fabbrica: per es. chiusure verticali di tamponamento prefabbricate del tipo a pannelli in calcestruzzo o del tipo curtain-wall applicate in costruzioni a scheletro portante realizzato in opera; trance di solaio in costruzioni murarie tradizionali; edifici con scheletro portante in elementi prefabbricati e le altre parti realizzate in opera; impalcati prefabbricati per ponti e viadotti sostenuti da piloni in cemento armato gettati in opera. Nel primo caso la p. incide marginalmente sulle procedure progettuali, sul sistema costruttivo e sull'organizzazione dell'impresa, che sostanzialmente restano caratterizzati dalla realizzazione in opera. Nel secondo caso vi è un coinvolgimento incisivo, anche se non equivalente a quello che comporta un ricorso totale alla p.; a livello cantieristico si ha il cosiddetto sistema misto (compresenza di p. e di lavorazioni in opera) che richiede, specie sul piano tecnico-economico, un coordinamento progettuale ed esecutivo abbastanza complesso per contemperare le esigenze delle due modalità operative.

Il ricorrere alla p. totale o parziale, nelle varie modalità sopra enunciate, è in diretto rapporto al contesto economico-produttivo in cui si opera e alle caratteristiche intrinseche dell'opera da realizzare.

Ponendo in relazione il prefabbricare con i modi e i mezzi per attuarlo si hanno tre modelli di produzione ormai codificati nel tempo: p. artigianale; p. ''artigianale'' industrializzata; p. industriale; e in questa successione verranno esaminati, con i debiti richiami storici per meglio comprendere l'evoluzione che ha subito la pratica del prefabbricare nel passare dalla sfera puramente artigianale del passato a quella del tutto industrializzata di oggi.

Prefabbricazione artigianale. - La costruzione in opera e la p. sono sempre coesistite e si può senz'altro affermare che nascono nel momento stesso in cui l'uomo ha dovuto realizzare opere a scopo abitativo. In effetti sin dalla preistoria si delineano i caratteri propri delle lavorazioni in opera e fuori opera in relazione a particolari condizioni contestuali per il reperimento dei materiali e al modo di vita delle comunità primitive, nomadi o stanziali.

Il criterio di prefabbricare parti di una costruzione, sia a piè d'opera sia fuori opera, risale a tempi remoti, in quanto il ''costruttore'' sin dai primordi ha sempre cercato di razionalizzare il lavoro predisponendo, nei limiti del possibile, pezzi funzionalmente compiuti suscettibili di un semplice montaggio. Tant'è vero che si può parlare di p. primordiale, che trova testimonianza nelle modalità costruttive dei dolmen (formati dalla semplice sovrapposizione e giustapposizione di elementi lapidei rozzamente lavorati a piè d'opera) o di altre costruzioni più complesse, come quella di Stonehenge (formata da una successione continua di triliti disposti in cerchio; fig. 2). Ulteriore testimonianza si ha nelle antiche abitazioni delle popolazioni nomadi, come la tenda beduina o la capanna yurta (fig. 3): la necessità di poter trasferire il luogo di residenza implica la smontabilità e la rimontabilità dell'entità abitativa, donde l'esigenza di realizzare pezzi fuori opera suscettibili di un facile montaggio ''a secco'' (elementi lignei di sostegno collegabili mediante legatura e chiusure in teli o pelli). In questi esempi primordiali, pur nella concezione costruttiva spontanea e intuitiva, si può riscontrare in nuce l'obiettivo, proprio dei nostri giorni, di individuare un sistema di p. che investa l'intero organismo edilizio; in essi sono altresì rintracciabili le radici di motivazioni fondamentali per ricorrere alla p.: la rapidità esecutiva in cantiere per le opere fisse e permanenti; la flessibilità costruttiva per le opere che devono risultare trasferibili da un luogo all'altro.

La scomposizione in parti, caratterizzate a scala di organismo, è propria dell'architettura egizia (fig. 4, A). Nella costruzione dei templi egizi si è avuto un massiccio ricorso alla p. predisponendo fuori opera o a piè d'opera grandi pezzi monolitici, come le colonne granitiche monopezzo, le lastre di copertura e i mastodontici architravi; il sistema costruttivo era basato su operazioni di montaggio di elementi lapidei di notevole peso: criterio del tutto analogo a quello attualmente adottato nella p. ''pesante'' in grandi elementi in cemento armato (spontaneo il parallelo tra un architrave di una sala ipostila e una trave di grande luce in cemento armato, oppure tra una lastra lapidea di copertura e una piastra in cemento armato).

Nel tempio greco il ricorso alla p. è una costante, tanto da caratterizzarne parti sostanziali (fig. 4, B, C, D). La concezione architettonica greca impostata secondo criteri modulari e di proporzionamento armonico ben si sposava all'identificazione di componenti litoidi ripetibili da realizzare a piè d'opera e anche fuori opera (colonne monolitiche, rocchi per colonne composite, capitelli, architravi, cimase, cornici, ecc.). L'edificio è visto, a imitazione della natura, come un organismo le cui ''membra'' sono segni qualificanti autonomi; da qui la caratteristica del tempio greco che può essere ''letto'' in modo organico nelle sue parti costituenti sotto il profilo sia formale che costruttivo: parti che sono elementi scultorei monolitici prodotti a piè d'opera dallo scalpellino-artista (in questo senso è emblematico l'Eretteo nell'Acropoli di Atene con le cariatidi sorreggenti gli elementi della trabeazione). L'organismo edilizio greco nasce dall'aggregazione di un insieme di elementi prefabbricati autonomi ma tra loro correlati sia formalmente sia costruttivamente. Si può senz'altro affermare che nel periodo greco viene codificata la p. artigianale.

Se per gli Egiziani e i Greci la costruzione delle grandi opere era fondamentalmente basata sulla p., per i Romani fu più congeniale la fabbricazione in opera, anche se venne praticato un parziale ricorso alla prefabbricazione. I Romani nella costruzione di grandi coperture adottarono anziché il principio del trilite, che ha implicita la p. dell'architrave e dei ritti, il principio dell'arco, che ha invece implicita la realizzazione in opera mediante elementi base di piccole dimensioni (conci di pietra o mattoni laterizi) oppure mediante getti di calcestruzzo ordinario (ambedue lavorazioni ''umide'', del tutto opposte a quelle fondate sul montaggio ''a secco''). Le ossature murarie voltate venivano create sul posto dal magister, che faceva loro acquisire forma e resistenza mano a mano che avveniva l'elevazione. Il ricorso alla p. era coerentemente circoscritto a quelle strutture architettoniche che facevano specifico riferimento agli stilemi greci. Sotto questo profilo è emblematico il Pantheon, di cui la rotonda, basata sulla firmitas vitruviana, è voltata in opera per concrezione, mentre il grecheggiante pronao è un composito di elementi prefabbricati.

Sostanzialmente i Romani codificarono il procedimento misto (costruzione in opera + p. artigianale), che ha caratterizzato gli organismi con ossatura muraria fino ai nostri giorni. In effetti nei periodi successivi a quello romano, per quanto attiene alle costruzioni murarie, sia in pietra che in laterizio, diviene predominante, per un insieme di fattori economici e produttivi, il ricorrere a procedimenti in opera, che caratterizzano così il cantiere oggi definito ''tradizionale'' e le relative lavorazioni in fabbrica; la p. è circoscritta alla realizzazione di architravi, colonne monolitiche ed elementi di coronamento, nonché di serramenti e incavallature. Si può dire che fino al 19° secolo il cantiere rimane nella sua impostazione di base simile a quello del periodo romano.

Per quanto concerne l'impiego di elementi in pietra prefabbricati è del tutto singolare e per certi aspetti significativo quanto si praticava nel periodo paleocristiano: in mancanza di un apparato produttivo ed economico in grado di fornire pezzi di particolare resistenza e conformazione, venivano recuperati colonne e capitelli da edifici di epoca romana per sorreggere i muri interni delle navate. L'architettura di questo periodo è stata perciò detta ''frammentaria'', e si può aggiungere che si è in presenza di una p. ''per trovanti''. Questo paradossale tipo di p., che in pratica annulla i tempi per la produzione fuori opera degli elementi costruttivi, dà in anticipo risposta positiva all'attuale interrogativo posto dalla p. industrializzata a ciclo aperto, e cioè se un componente creato formalmente al di fuori o prima del momento progettuale dell'opera in cui dovrà essere inserito possa poi risultare parte architettonicamente organica e integrata. Oggi, come allora, l'integrazione sotto il profilo del linguaggio del componente formalmente autonomo è conseguente al livello di cultura architettonica in cui operano rispettivamente il designer del pezzo e il progettista dell'organismo.

Altre considerazioni e ulteriori riscontri sulle radici della p. artigianale sono possibili prendendo in esame alcuni aspetti delle costruzioni in legno (fig. 5). In effetti il costruire in legno sottende il ricorso alla p. nel momento stesso in cui viene segato l'albero: si ricavano elementi lineari snelli impiegabili soltanto per assemblaggio, i quali, data la capacità di resistenza flessionale e a taglio, consentono di determinare un'ossatura stabile spaziale, lo scheletro portante. Questo elemento di fabbrica nasce proprio con l'uso del legname: i componenti in legno (ritti, traversi e controventi) vengono conformati fuori poi assemblati in opera mediante collegamenti ''a secco'' meccanici. Già nelle capanne delle popolazioni primitive è facilmente rilevabile l'intendimento d'individuare un sistema costruttivo basato su pezzi coordinati non solo per l'ossatura portante, ma anche per le coperture e le tamponature: in nuce l'attuale p. industriale definita ''leggera'', date le qualità intrinseche dei materiali impiegati.

Al di là di queste considerazioni generali si possono fare richiami particolari a momenti del passato che testimoniano come il ricorso alla p. nelle costruzioni in legno sia stato sistematico e basato su metodologie e modalità riconducibili a quelle attuali. Significativo sotto il profilo delle modalità è, per es., il sistema costruttivo applicato tra l'11° e il 14° secolo in Norvegia per realizzare piccole chiese del tipo stav-kirke (fig. 6). Il sistema si basava su una progettazione che prevedeva vari insiemi di elementi costruttivi unificati e dimensionalmente coordinati, riguardanti le fondazioni, le pareti portanti e le incavallature del tetto, suscettibili di essere montati secondo una serie razionalmente programmata di operazioni semplici. In particolare si aveva: la p. a terra (in prossimità delle travi di fondazione) delle intelaiature verticali interne e la successiva collocazione per semplice rotazione verso l'alto; il sollevamento e montaggio dei cavalletti ''a forbice'' prefabbricati. I criteri progettuali e l'organizzazione cantieristica di questo sistema medievale, ovviamente del tutto artigianale, non si differenziano concettualmente dagli attuali sistemi tilt-up di p. destinata alla realizzazione di case di abitazione unifamiliari isolate: sarebbe sufficiente introdurre la macchina e la serialità, per definire una stav-kirke un prodotto da ''scatola di montaggio'' per l'autocostruzione.

Un significativo esempio sotto il profilo metodologico e normativo è rintracciabile in Giappone, dove criteri di normalizzazione e unificazione a livello nazionale sono anticipati di secoli rispetto al mondo occidentale. Dopo l'incendio di Tokyo del 1657 furono stabiliti dei principi tassativi di normalizzazione e unificazione sia per tipi di abitazione che per componenti edilizi; in questo modo si rese più rapida ed economica l'opera di ricostruzione. Da secoli ormai le abitazioni giapponesi si basano su tali principi che regolano morfologicamente e dimensionalmente gli ambienti e gli elementi di fabbrica. Elemento fondamentale per il coordinamento dimensionale in pianta dell'abitazione è il tatami, cioè la stuoia formata con l'intreccio di giunchi e paglia di riso, che in più elementi accostati costituisce il pavimento dell'ambiente. Il tatami ha dimensioni unificate in lunghezza e larghezza tali da determinare un vano utile con pianta quadrangolare (in una gamma diversificata di dimensioni standard) compatibile con gli interassi e lo spessore degli elementi dello scheletro portante in legno. Altri elementi unificati sono il pannello-facciata (shoji) e il divisorio scorrevole (fusuma). In effetti la costruzione lignea giapponese è stata codificata tramite un sistema di p. artigianale basato su un coordinamento dimensionale modulare; niente di più attuale, tanto che nella p. industriale giapponese tecnologicamente avanzata degli anni Ottanta ancora si fa riferimento alla modulazione del tatami (fig. 7).

La p. artigianale, sia in materiali litoidi che in legno, produce il pezzo unico o pezzi ripetuti per un'opera specifica; attraverso i secoli, fino alla metà del 1700, a mano a mano che il settore produttivo esterno al cantiere può, con il perfezionarsi dei mezzi e delle tecniche (pur sempre nell'ambito del lavoro manuale), fornire pezzi finiti realizzati a bottega si accresce la gamma degli elementi prefabbricati. Si ha così la produzione artigianale, oltre che degli elementi lapidei, anche dei serramenti, delle opere in ferro battuto, delle capriate e delle intelaiature lignee da assemblare a piè d'opera e poi porre in opera per sollevamento. Questo tipo di produzione permarrà anche con l'avvento della meccanizzazione e dei nuovi materiali, come la ghisa e l'acciaio prima, il cemento armato e le materie plastiche poi, ma non si baserà più sul lavoro manuale (salvo casi del tutto particolari, per es. in paesi in via di sviluppo o nelle comunità tuttora allo stato primitivo), in quanto subentra il processo di meccanizzazione per entrare nella sfera dell'industrializzazione. In conclusione è senz'altro possibile affermare che la p. artigianale va intesa come modalità costruttiva finalizzata a realizzare fuori opera o a piè d'opera componenti per un organismo edilizio costituente un unicum e basata sul lavoro manuale dell'artigiano-artista, che garantisce al medesimo tempo la validità formale e le qualità prestazionali.

Prefabbricazione ''artigianale'' industrializzata. - Nel 19° secolo, in cui la macchina e la relativa meccanizzazione modificano dalle basi il mondo della produzione, che da artigianale diviene industriale per la totalità dei principali manufatti, per quanto riguarda il settore edilizio (salvo casi del tutto particolari che esamineremo in seguito) la struttura produttiva mantiene come obiettivo principale quello di soddisfare la domanda espressa da un'edificazione imperniata su opere singole, sia grandi che piccole: la p. inizia a industrializzarsi nei mezzi.

Un primo esempio d'integrazione della p. artigianale con procedimenti industrializzati è rappresentato, già dai primi decenni del 1800, dalle costruzioni realizzate con il sistema a ballon-frame, basato su pezzi in legno unificati prodotti a macchina, da collegare con chiodi stampati in serie ed effettuando la p. a piè d'opera (in prossimità di ciascun lato del perimetro della fabbrica) delle intelaiature da porre in opera con il sistema tilt-up (fig. 8).

Con lo sviluppo della produzione industriale della ghisa, prima in Inghilterra poi in altri paesi, vengono prefabbricati in officina artigianalmente (per colata in stampi) architravi, costoloni di volte e colonne per specifici edifici (in genere improntati allo stile gotico e rinascimentale, alterandone le proporzioni, peraltro acquisendo una propria validità formale). A questo proposito si ricordano tre esempi emblematici: in Inghilterra la Filanda Stanley Mill (1813) e la chiesa di San Giorgio a Liverpool di J. Cragg e T. Rickman (1812-14); in Francia la biblioteca Sainte Geneviève di Labrouste, a Parigi (1843-50). Successivamente, tra la fine del 19° secolo e i primi anni del 20°, la produzione siderurgica di profilati standard in ferro consente la realizzazione in officina di membrature portanti di coperture e dello scheletro portante: si hanno così, sempre per opere specifiche, le costruzioni metalliche di grandi coperture da porre su ossature murarie tradizionali (per es. a Londra la copertura dell'Albert Hall, 1871, e la galleria della Central Station, 1874; ad Amsterdam la Borsa di Berlage, 1898-1903; a Lione il mattatoio de la Mouche di T. Garnier, 1909-13) e gli scheletri per edifici multipiani, di cui il grattacielo rappresenta l'esempio emblematico della sfida dell'industrialismo alla struttura della società artigianale e contadina.

Si può dire che lo scheletro portante in ferro è stato il primo elemento di fabbrica i cui ''pezzi'' vengono prefabbricati in officina industrializzata per poi essere trasportati e montati in opera, in base a un progetto che tiene conto di due nuovi momenti della fase realizzativa: quello in officina, industrializzato (vengono introdotte per la prima volta nell'edilizia, per il pezzo, la misura di progetto, la misura nominale e quella effettiva) e quello in cantiere, rinnovato ma sostanzialmente tradizionale. La carpenteria metallica sia per gli edifici che per le opere infrastrutturali diviene sinonimo d'industrializzazione dell'edilizia, di cui sono il portabandiera gli Stati Uniti e trampolino di lancio le grandi e spettacolari Esposizioni Universali.

Tuttavia ancora non si può parlare di p. industriale, in quanto manca la serialità a livello di opera edilizia, anche se seriale è la produzione dei profilati metallici che costituiscono gli elementi base preformati da lavorare nell'officina. In ogni modo si comincia a intravedere la possibilità di trasferire molte lavorazioni al di fuori del cantiere, evitando le inclemenze stagionali e gli oneri delle lavorazioni ''umide'' in opera proprie delle costruzioni murarie. Nella maggioranza dei casi le costruzioni sono di tipo misto: scheletro in ferro, solai in ferro ed elementi laterizi, tamponature e tramezzi murari; il tutto viene così riportato nell'ambito del cantiere tradizionale. In ogni modo vi sono esempi precorritori per giungere a un'industrializzazione che coinvolge in modo pieno l'edilizia dal progetto al cantiere.

In quest'ottica va ricordata l'opera più significativa di J. Paxton: il noto Palazzo di Cristallo (fig. 9) per l'Esposizione di Londra (1851), che rappresenta uno dei primi esempi di p. totale di un organismo edilizio basata su una specifica metodologia di progettazione e di organizzazione esecutiva, tanto da essere considerata un'anticipazione dei criteri informatori oggi consolidati. Paxton, mettendo a frutto le positive esperienze nel realizzare serre con componenti prefabbricati in ghisa e ferro unitamente alle nuove lastre in vetro rinforzato di produzione industriale, imposta il progetto dell'imponente opera (92.000 m2 coperti) su criteri modulari, con la conseguente definizione di elementi costruttivi tra loro combinabili dimensionalmente e accoppiabili per semplice montaggio ''a secco''. L'edificio è stato progettato secondo un reticolo modulare di pianta avente una maglia quadrata con lato di 8 piedi (2,43 m), valore che Paxton ha determinato tenendo in considerazione al tempo stesso le dimensioni produttivamente accettabili degli elementi costruttivi e le esigenze funzionali per l'articolazione degli spazi espositivi e di servizio; è anticipato così uno dei criteri base della progettazione che oggi si persegue nell'ambito dell'edilizia industrializzata. In pratica vengono coinvolti nel processo d'industrializzazione tutti i principali componenti dell'opera: le colonne in ghisa cave (tutte dello stesso diametro; è lo spessore della parete a variare in funzione dei carichi); le travi a traliccio in ferro dolce; i nodi meccanici in ghisa (base e capitello della colonna); i tiranti in ferro dolce; le travi in legno armate con tondino; i tralicci arcuati in legno; le pareti esterne in ghisa e vetro. Paxton inoltre studia preventivamente con criteri innovativi l'organizzazione del cantiere: determina fasi operative ben scandite nel tempo da svolgere razionalmente in coordinamento tra loro senza interferenze; adotta e idea sistemi di sollevamento e di posa in opera, del tutto originali, per conseguire la massima facilità e rapidità nel lavoro di montaggio (sistematizzazione del tiro in alto mediante cavalli; ideazione del carrello, su binari in quota, per la posa dei vetri dei lucernai). Tutto ciò gli ha consentito di erigere lo scheletro portante in soli quattro mesi (dal 26 settembre 1850 al 30 gennaio 1851); considerato che in questo stesso periodo venivano approntati in officina gli elementi di completamento, per ultimare l'edificio furono necessari soltanto altri tre mesi (31 aprile 1851). Paxton impiega elementi in ferro e in ghisa già entrati nell'uso corrente nelle opere ferroviarie, in quelle stradali e nelle costruzioni navali, cioè usa i prodotti tipici dell'industria ''sinceramente'', non ricorrendo a camuffamenti stilistici, senza peraltro rinunziare alla propria creatività sotto il profilo architettonico e alla sperimentazione tecnologica: si può dire che per la prima volta si raggiunge un corretto rapporto tra architettura e industria. Infatti Paxton instaura una stretta collaborazione con la ditta Fox, Henderson & Company per la progettazione e la produzione industriale delle colonne in ghisa; anche in questo caso intuisce che al pari della collaborazione tradizionale con l'artigiano ormai era indispensabile quella con il settore produttivo industriale, in modo da comprenderne la struttura operativa, ma al tempo stesso indirizzarne la produzione in termini di validità architettonica.

Se Paxton con questa sua opera ha rappresentato un punto di riferimento essenziale, soprattutto nel 20° secolo inoltrato, sotto il profilo metodologico-progettuale per l'edilizia industrializzata, altrettanto significativo nel 19° secolo è stato l'apporto di altri personaggi che hanno contribuito con effetto immediato e di continuità al rinnovamento sul piano sia della pratica costruttiva che del linguaggio architettonico. Gli ''ingegneri'' della seconda metà del 1800 sono stati i protagonisti del rinnovamento tecnico incidendo in modo sostanziale sull'evoluzione dei procedimenti costruttivi (basta ricordare il carattere innovativo insito negli scheletri indipendenti in acciaio e cemento armato e alcune figure emergenti come A. G. Eiffel, A. C. Bell, J. Monier, Lambot, F. Coignet, F. Hennebique e i fratelli A. e G. Perret); al tempo stesso architetti come J. Bogardus, W. Le Baron Jenney, J. W. Root, D. H. Burnham, L. H. Sullivan, D. Adler hanno prodotto opere significative sotto il profilo del rapporto tra rinnovamento architettonico e progresso tecnologico.

Volendo riepilogare, nel 19° secolo si è posta in essere la modalità costruttiva che si può definire p. ''artigianale'' industrializzata, nella quale permane l'obiettivo della p. artigianale di produrre componenti ad hoc per un'opera, sia di piccola che di grande dimensione, che costituisce un unicum, ma vengono impiegati modi e mezzi di produzione conseguenti al processo di meccanizzazione e avviene, appunto, l'integrazione con l'industrializzazione.

Questo tipo di p., che ha preceduto la ''p. industriale'', si è sviluppato diffusamente nel 20° secolo ed è tuttora valido, tanto da essere di uso corrente e da costituire modalità operativa, progettuale e costruttiva, per ritrovare nel processo industriale la ''cultura'' propria della sfera artigianale e per effettuare sperimentazioni d'avanguardia; nella maggioranza dei casi si è in presenza di p. parziale, in pratica si hanno procedimenti costruttivi misti; in effetti si ricorre alla p. in parallelo e in modo integrato con lo sviluppo dell'industrializzazione del cantiere, tanto che si può affermare che all'introduzione e allo sviluppo della p. ''artigianale'' industrializzata corrisponde necessariamente il passaggio a una fabbricazione meccanizzata (ciò vale, come si vedrà, anche per la p. industriale). Nella costruzione di un'opera che costituisce un unicum il ricorso alla p. su basi industrializzate è essenzialmente finalizzato alla razionalizzazione secondo processi innovativi dell'organizzazione cantieristica, facendo leva sulla crescente introduzione nel cantiere di attrezzature meccanizzate, sempre più perfezionate, sia per le lavorazioni a piè d'opera e in opera, sia per le operazioni di sollevamento e posa.

Facendo riferimento al cemento armato, che implica lavorazioni ''umide'', si può rilevare che l'introduzione delle macchine per l'impasto (fino a costituire vere e proprie centrali di betonaggio) unitamente alla possibilità di utilizzare casseforme unificate (prima in legno e poi metalliche), e l'impiego di gru capaci di sollevare e porre agevolmente in opera manufatti sempre più grandi e pesanti, hanno condotto a un processo di razionalizzazione del cantiere tradizionale, in quanto con la p. a piè d'opera si evitano le lente e onerose operazioni di getto in quota.

Esemplificativi per lo sviluppo di questo processo cantieristico innovativo per le opere in cemento armato sono: le originali modalità costruttive e cantieristiche che P. L. Nervi ha adottato nel realizzare le sue opere più significative, come il Salone di Torino (1948), il Palazzo e il Palazzetto dello Sport di Roma, che hanno grandi coperture in elementi di ''ferro-cemento'' realizzati a piè d'opera, il viadotto e lo stadio al quartiere Flaminio di Roma (1960), nei quali gli elementi d'impalcato sono stati prefabbricati in cantiere; i sistemi brevettati negli anni Cinquanta a pannelli portanti, sia in calcestruzzo armato che laterocementizi, prefabbricati a piè d'opera in casseforme unificate (per es. i sistemi francesi Cauvet, Borets e Costamagna, che sono stati un'anticipazione della p. industriale in stabilimento a grandi pannelli); la costruzione di grandi stabilimenti, Olivetti a Crema, Marcianise e Scarmagnano (tempo medio di montaggio 500 m2/giorno) con p. degli elementi dello scheletro portante e delle coperture con attrezzature meccanizzate e casseforme metalliche standard in grado di essere smontate e trasferite; il parcheggio sotterraneo al Galoppatoio di Villa Borghese a Roma (progetto L. Moretti, 1972) con lastre nervate di solaio (13,30 × 13,30 m2) prefabbricate a piè d'opera in officina (fig. 10), con getto in casseforme standard dotate d'impianto di maturazione a vapore, e poi disposte mediante carroponte su di un ''carrellone'' mosso su binari con cui si provvede alla collocazione; infine lo stadio di Bari (1990), singolare opera di R. Piano, con sezioni di travi principali e gradoni autoportanti prefabbricati, che dimostra come questo criterio operativo sia ancora oggi valido. Sempre per le opere in cemento armato è esemplificativo per quanto concerne la p. al piano il padiglione di Arte mineraria della facoltà di Ingegneria di Cagliari (progetto E. Mandolesi, 1963), i cui pannelli di facciata in cemento armato sono stati gettati in casseforme predisposte sui solai e poi, a presa avvenuta, sollevati e posti in opera mediante arganello carrellato.

Per superare gli oneri relativi alla p. in cemento armato a piè d'opera di elementi sia portanti (in genere pilastri e travi) che portati (in genere pannelli di facciata) si fa anche ricorso alla p. fuori opera, rivolgendosi a ditte esterne che realizzano i pezzi, ad hoc, in stabilimento; queste ditte hanno normalmente una produzione industriale di serie ma fanno su ordinazione componenti fuori serie; tale pratica è ormai corrente e diffusa: basterà richiamare un esempio emblematico, il laboratorio per Ricerche mediche dell'università di Pennsylvania (fig. 11) progettato da L. I. Kahn (1957-61), che ha le torri-studio realizzate ciascuna con 8 pilastri prefabbricati in cemento armato, con sezione ad H, sorreggenti un grigliato (11 × 11 m2) di travature principali (precompresse) e secondarie (in cemento armato normale) prefabbricate e assimilabili a delle Vierendeel, con sovrastante impalcato di preformati in cemento armato, su cui effettuare un getto di completamento. È da sottolineare che oggi in alcuni casi si adottano contemporaneamente la costruzione in opera, la p. a piè d'opera e la p. fuori opera, come nel caso dei grandi edifici a corte del quartiere Valmelaina a Roma (Sistema Impresa G. Marrucci, 1979), in cui si hanno i pilastri gettati in opera, le predalles con incorporate le armature delle travi in spessore (con getto di completamento in opera) e le rampe-scale prefabbricate in cantiere, i pannelli-facciata in cemento armato realizzati in stabilimento.

Nell'ambito della p. ''artigianale'' industrializzata rientrano a pieno titolo i procedimenti lifting, che uniscono i vantaggi di un elevato grado di meccanizzazione del cantiere con la p. a piè di fabbrica (all'interno del perimetro del fabbricato) di grandi coperture piane o a volta per edifici monopiano, di pacchetti impilati di solai o di grandi travi a cassone per edifici multipiano, dando luogo ai procedimenti slab-lifting (fig. 12), oppure di interi piani comprensivi di arredi, dando luogo ai procedimenti story-lifting; in ambedue i casi, per il sollevamento e la collocazione in quota si sfruttano gli elementi portanti in elevazione (nuclei o pilastri in cemento armato gettati in opera; pilastri prefabbricati in cemento armato o in acciaio; telai multipiano preassemblati a piè d'opera), muniti in sommità di martinetti o argani idraulici o elettromeccanici; soltanto per coperture di organismi monopiano vengono talvolta impiegate incastellature provvisorie.

Embrionalmente il principio del procedimento lifting per collocare coperture di edifici monopiano è rintracciabile nelle modalità costruttive previste per la casa Dymaxion di B. Füller nel 1945, ma sotto questo profilo significative sono due opere di altrettanti maestri dell'architettura contemporanea: la Neue National Galerie di Berlino progettata da L. Mies van der Rohe nel 1968, la cui copertura in grigliato di acciaio è stata preassemblata interamente a terra e sollevata mediante martinetti idraulici predisposti su incastellature provvisorie, per consentire la posa su otto piedritti isolati; il padiglione realizzato da K. Tange all'Expo '70 di Osaka (fig. 13), che ha una copertura a traliccio spaziale in acciaio (circa 31.000 m2) montata a terra e poi sollevata alla quota di 38 m facendola scorrere lungo 6 ritti di posizionamento. Da ricordare per le soluzioni tecniche anche: gli hangars affiancati dell'aeroporto di Marignane (Francia) con coperture a volta (420 t e 6000 m2 ciascuna) sollevate a piccole tratte con 16 martinetti idraulici di 300 t e 2 di 100 t fino a 19 m e disposte su pilastri costituiti da parti prefabbricate sovrapponibili (a mano a mano che avviene il sollevamento); la cupola sottile in cemento armato (diametro 90 m) dell'auditorium Warner ad Anderson (Indiana), sollevata mediante 40 martinetti idraulici (portata di 35 t), facendo scorrere l'anello irrigidente di bordo lungo i ritti perimetrali (prefabbricati in acciaio); la copertura a grigliato in acciaio della dining hall dell'Air Force Academy (Colorado) del peso di 1150 t sollevate lungo ritti in acciaio dotati in sommità di martinetti idraulici.

Per quanto concerne i procedimenti che prevedono la p. per impilaggio dei solai da sollevare lungo i pilastri dello scheletro portante sono significativi: il sistema statunitense lift-slab con pilastri e solai in cemento armato, di cui si ricordano il complesso di abitazioni di Hackney (Londra) e il palazzo per uffici a Birmingham realizzati negli anni Settanta; il procedimento francese Porte des Lilas per realizzare edifici di 10 piani, in cui si prevedono solette in cemento armato ''impilate'' e telai in acciaio preassemblati sul posto e innestati su basi cernierate per consentirne il sollevamento con il sistema tilt-up; il procedimento italiano Feal-Varlonga, basato sulla realizzazione a terra per impilaggio delle orditure in acciaio delle solette, sull'impiego di pilastri prefabbricati in acciaio e sul getto in opera delle solette, dopo collocazione al piano delle orditure metalliche. Un esempio di particolare interesse per l'applicazione del procedimento slab-lifting è il grande complesso per uffici U.N. City a Vienna, costituito da corpi di fabbrica curvilinei formati da tre pacchetti di piani, ciascuno sorretto da pilastri impostati su di una grande trave a cassone in cemento armato precompresso; le tre travi, prefabbricate a terra, vengono sollevate in quota (rispettivamente a 32 m; 51,45 m; 70,90 m) mediante tiranti e martinetti idraulici e quindi collegate ai nuclei portanti in cemento armato. Per gli story-lifting, di applicazione più limitata, si ricorda l'edificio di oltre 20 piani contenente 240 appartamenti per le Missioni russe presso l'ONU a New York (progetto Skidmore Owings & Merril) realizzato con il sistema brevettato della International Environmental Dynamics (anni Settanta), prefabbricando a terra (in 3 giorni) il volume di un intero piano (53 × 20 m2, peso 390 t) e sollevandolo poi con martinetti idraulici lungo i due nuclei centrali in cemento armato contenenti scale, ascensori e servizi.

Se i sistemi lifting sono testimonianza dell'alto grado d'industrializzazione raggiunto oggi nel cantiere unitamente alla p. a piè di fabbrica, risultando così significativi sul piano puramente tecnico-costruttivo, particolarmente importante è sottolineare come nell'ambito delle costruzioni metalliche la p. ''artigianale'' industrializzata abbia rappresentato al tempo stesso innovazione costruttivo-cantieristica e mezzo per qualificate sperimentazioni architettoniche. Per realizzare organismi con ossatura metallica è implicita la p. dei pezzi in officine specializzate in lavori di carpenteria, e in questa sede si è verificato il massimo progresso tecnologico: le lavorazioni si sono meccanizzate sino all'automazione potendo così soddisfare le più svariate caratteristiche morfologiche di componenti ad hoc. Inoltre è da rilevare come l'evoluzione della tecnica del preassemblaggio, specie in cantiere, abbia consentito di montare elementi di sempre maggiori dimensioni, tanto per grandi coperture quanto per scheletri portanti. A tal proposito si ricordano (oltre alle coperture metalliche già segnalate per i sistemi lifting): la cupola dell'auditorium di Nashville (progetto M. Holman, 1961) formata da tralicci meridiani a spicchio in unico pezzo, dall'imposta alla chiave; i grandi tralicci delle coperture negli stadi di Genova, Milano e Roma (1990); i telai pluripiano e gli orditi metallici dei solai preassemblati a piè d'opera, negli edifici del quartiere CECA-Italsider di Piombino (progetto Gruppo Gorio-Grisotti-Mandolesi-Petrignani, 1966).

Cosa più importante da rilevare è che nell'ambito delle costruzioni metalliche si è sviluppata la tendenza architettonica denominata high-tech, che, tra l'altro, ha trovato proprio nella p. ''artigianale'' industrializzata una modalità tecnica congeniale alla sua ragion d'essere. L'architettura high-tech tende a superare l'appiattimento dei valori architettonici conseguente al dilagare dell'anonimo componente standard industrializzato, frutto, più che di un qualificato industrial design, di mere esigenze di produzione e di convenienza economica; l'architetto, ormai consapevole dei limiti propri della civiltà industriale che tutto fa in nome della tecnologia e dell'economicità dei suoi processi, vuole riappropriarsi dell'atto ''creativo'' in senso globale attraverso la sublimazione formale e la manipolazione diretta della componente tecnologica. In pratica si opera analogamente a quanto fece nell'Ottocento Paxton per il Palazzo di Cristallo (v. sopra), per sperimentazioni architettoniche che si avvalgono delle tecniche più sofisticate o d'avanguardia, ma sotto il controllo progettuale dell'architetto, che interagisce in modo diretto e responsabile con l'industria. Sembrerebbe attuato quel rapporto integrato tra arte e industria, auspicato dai maestri del razionalismo e in particolare dalla scuola del Bauhaus. Volendo fare dei paralleli, gli architetti high-tech agiscono come gli stilisti dell'alta moda, che oltre a creare nuovi modelli dell'abito, s'inseriscono nella produzione industriale per creare nuovi tessuti, proprio per realizzare quei modelli, prima come prodotti unici e poi come prodotti del prêt-à-porter; o anche si può dire che l'high-tech sta alla p. seriale corrente come il prodotto della Ferrari, che è una ditta artigianale industrializzata, sta alla produzione in grande serie della Fiat. In sostanza, pur operando a livello industriale, si tende a mantenere la sfera progettuale propria del lavoro artigianale, e in questo s'individua il valore culturale, già enunciato, che la p. ''artigianale'' industrializzata può assumere.

In questo senso si è dimostrata particolarmente congeniale la tecnica del ''meccano'' implicita nelle costruzioni metalliche, che consente la realizzazione di organismi unici attraverso la creazione di una virtuale ''scatola di montaggio'' contenente pezzi costruttivamente e formalmente sofisticati; come dire che il Centre Pompidou a Parigi (progetto R. Piano e R. Rogers, 1972-77) costituisce il Partenone di oggi. Particolarmente rappresentativa anche la sede della Hong Kong and Shanghai Banking Corporation a Hong Kong di N. Foster (1985; fig. 14). Occorre ricordare che si sono avute opere altrettanto significative dell'architettura high-tech pur senza l'ossatura portante in acciaio, come il poderoso complesso della sede dei Lloyd's a Londra di Rogers (1986) o l'elegante Padiglione itinerante IBM (progetto Piano, 1982) con ossatura in elementi curvati prefabbricati in faggio lamellare uniti a elementi piramidali stampati in policarbonato mediante sofisticati giunti in alluminio (fig. 15).

Occorre altresì segnalare che opere inquadrabili in altre tendenze architettoniche parallele, come il neorazionalismo tecnologico e il decostruttivismo, o antitetiche, come il post-modern, a quelle dell'high-tech, hanno trovato nella p. ''artigianale'' industrializzata un'appropriata tecnica realizzativa. A titolo esemplificativo si menzionano: la Torre Nagakin di Tokyo (progetto N. Kurokawa, 1971; fig. 16), che trova la sua definizione formale da un insieme di cellule spaziali (moduli prefabbricati in officina) appese a un nucleo portante e di servizio centrale in cemento armato gettato in opera; la biblioteca dell'università di Eichstatt (progetto G. Benisch, 1988), come esempio emblematico dell'architettura decostruttivista; il quartiere Les colonnes a Parigi (272 alloggi, 1984), noto per le valutazioni contrastanti suscitate, progettato dall'architetto R. Bofill facendo provocatori ed estesi riferimenti agli archetipi dell'architettura classica, da lui considerati culturalmente qualificanti.

Come si è detto in precedenza, la p. ''artigianale'' industrializzata ha avuto un ruolo più significativo rispetto alla p. industriale di serie sia per i risultati estetici conseguiti sia per le esperienze innovative sotto il profilo tecnico e tecnologico, non soltanto a livello di organismo, ma anche a livello di elementi costruttivi. Sotto questo profilo va sottolineato che l'evoluzione avvenuta nella p. ad hoc di elementi costruttivi dei più svariati elementi di fabbrica ha indirettamente ma decisamente influenzato la produzione industriale di serie.

A titolo esemplificativo nel campo dell'alluminio, opere anticipatrici delle attuali produzioni di uso corrente sono: il rivestimento esterno in lamiere sagomate nella villa a San Ferdinando Valley (California, 1936, progetto R. Neutra); i serramenti e i parapetti in estrusi di lega di anticorodal del palazzo della Montecatini a Milano (progetto G. Ponti, 1938); i pannelli in lega Alsi, anticipatori degli attuali curtain walls, realizzati per il Rockefeller Center di New York (1931-39, progetto R. Hood, W. K. Harrison, A. Reinhard); i pannelli di facciata nervati a ''stella'' della sede della Republic National Bank a Dallas (1955); la copertura del lucernario in profilati estrusi e mensole ottenute in stampi del Brunel Center a Swindon (Londra, anni Settanta).

Sempre a livello di elementi costruttivi, occorre fare un ultimo richiamo alla produzione delle membrature in legno lamellare e a quella dei pannelli-facciata portati, in quanto sono ambedue testimonianza di come ormai sia usuale il ricorso alla p. in stabilimento per realizzare componenti su progetto dell'architetto dell'edificio.

In particolare per quanto riguarda la p. dei pannelli-facciata portati si passa dalle semplici ''scorze'' piane in cemento armato da tinteggiare a quelli a faccia vista con i più svariati trattamenti superficiali, da quelli di complessa fattura, sia in calcestruzzo che metallici, a quelli estremamente sofisticati sul piano tecnologico; al riguardo si segnalano: le tamponature in pannelli di cemento granigliato tridimensionali della Rinascente di piazza Fiume a Roma, di F. Albini (1961); i pannelli in cemento armato placcati con lastre di granito nel nuovo Municipio di Tokyo di K. Tange (1989); i pannelli con intelaiature metalliche prerivestite in stabilimento con lastre lapidee del grattacielo Torre nord di San Benigno a Genova, di Skidmore Owings & Merril (1987); i pannelli speciali dell'Institut du Monde Arabe di Parigi (1988), attrezzati con diaframmi comandati da cellule fotoelettriche per il controllo dell'immissione luminosa.

In conclusione la p. ''artiginale'' industrializzata deve la sua particolare diffusione a tre fattori fondamentali che superano i limiti propri della p. industriale sia a ''ciclo chiuso'' sia a ''ciclo aperto'': flessibilità progettuale, in quanto lascia ampie libertà creative fino al dettaglio; flessibilità cantieristica, in quanto integrabile con i vari procedimenti costruttivi in opera; flessibilità produttiva, in quanto il progresso tecnologico nelle lavorazioni in stabilimento consente di soddisfare ampiamente la committenza, potendo l'industria produrre su richiesta componenti di forma e prestazioni differenziate. Tutto ciò sarà tanto più valido quanto più si diffonderà in un prossimo futuro l'uso dei robot nell'edilizia per le lavorazioni sia in stabilimento che in cantiere.

Prefabbricazione industriale. - In Inghilterra iniziò nel 1830 una produzione iterata di prefabbricati in ghisa (colonne stilizzate standard, mensole per balconi, scale, ringhiere, parapetti, e anche lampioni a gas e altri arredi urbani) immessi in commercio come elementi finiti da acquistare ''a catalogo''. Sempre nel 19° secolo furono prefabbricate ossature complete in ghisa da spedire via mare alle colonie, come fece la ditta Cragg a Liverpool per chiese in stile gotico e altri iron-masters della ''Costa di ghisa''. Vanno anche ricordati produzioni e brevetti per realizzare iterativamente edifici di modeste dimensioni interamente prefabbricati: le case standard del 1849 per i cercatori d'oro della California; i padiglioni in ferro e ghisa del 1851; i brevetti di Paxton del 1858 per serre; il brevetto del 1861 di D. H. Shillings (USA) per una casa in pannelli di legno; gli alberghi diurni standard del 1883, prodotti in Germania in lamiera zincata; l'ospedale militare da campo in legno e tela, del 1886, prodotto dalla Building Systems Development Inc. (USA; fig. 17). Questi in breve i prodromi del processo industriale che in nome della produzione seriale investirà direttamente il progetto e quindi la concezione stessa dell'opera architettonica. Tutto ciò ha ritrovato riscontro e pieno sviluppo nel 20° secolo.

Premesso che negli USA la p. in serie di case di abitazione a uno o due piani era già embrionalmente praticata negli anni Venti, negli anni Trenta, soprattutto in Europa, la p. su basi industriali non aveva ancora preso piede, anche se non mancavano iniziative concrete e interventi interessanti con carattere sperimentale. Sono da ricordare: il brevetto del 1912 di J. E. Conzelmann per un sistema costruttivo in cemento armato a travi e pilastri; le manifestazioni del Deutscher Werkbund; le realizzazioni nel 1923 di M. Lods ed E. Beaudoin nella Città della Muette a Drancy; la casa Dimaxyon e il brevetto di Füller per un blocco bagno nel 1937; la casa prefabbricata norvegese del 1938 progettata da E. Gront; le ideazioni e le esperienze di J. Prouvé in Francia; il procedimento general panels ideato da W. Gropius e K. Wachsmann, ormai alle soglie degli anni Quaranta (fig. 18).

D'altra parte i protagonisti del movimento razionalista hanno posto su basi sistematiche, in termini di architettura e urbanistica, l'approccio alla produzione industriale sia a livello teorico che progettuale: Le Corbusier con la definizione di machine à habiter e il progetto della maison domino (1917); Mies van der Rohe con le sue costruzioni in acciaio basate su un reticolo di pianta modulare; Gropius con l'impostazione data al Bauhaus e con i progetti di case prefabbricate (per es. l'abitazione da montare ''a secco'' nel quartiere sperimentale Weissenhof, esposizione Wohnung del Deutscher Werkbund, 1927). Successivamente Füller e Wachsmann tendono a configurare un inquadramento tecnologicamente puntuale dell'industrializzazione edilizia; a questo va ad aggiungersi quanto scritto, sotto il profilo storico-critico, da S. Giedion sul rapporto tra industrializzazione e architettura.

Gropius nel 1924 scrisse: "per l'economia di una nazione è di importanza capitale rendere più accessibile e più economica la produzione edilizia"; Le Corbusier ha detto: "il problema dei nostri giorni è la casa di abitazione; la grande industria deve interessarsi e inserirsi nell'edilizia... occorre produrre in serie gli elementi delle abitazioni...". Si può senz'altro affermare che s'intuirono i problemi di fondo che l'avvento dell'industrialismo poneva all'architettura e che si gettarono le basi ideologiche per affrontarli, ma non fu previsto − cosa d'altra parte impossibile − in quali massicce proporzioni e con quale rapidità si sarebbe manifestata la domanda di abitazioni negli anni Cinquanta e perciò quanto sarebbe stato difficile trovare soluzioni organiche.

In Europa negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale dapprima le necessità della ricostruzione edilizia nei vari settori produttivi e nel settore della residenza, poi il dover soddisfare alla crescente domanda del bene edilizio conseguente al fenomeno dell'inurbamento e all'intenso sviluppo degli insediamenti industriali, hanno richiesto una risposta massiccia, immediata e continua in termini realizzativi tanto al settore privato quanto a quello pubblico. In particolare la committenza pubblica ha cercato di farvi fronte ponendo in atto programmi edilizi di vaste proporzioni riguardanti i vari settori (residenziale, scolastico, sanitario, ecc.); l'imprenditoria del settore edilizio ha avviato una profonda ristrutturazione del suo apparato produttivo, rivolgendosi vieppiù ai mezzi offerti dal processo d'industrializzazione in atto, considerata anche la costante diminuzione della manodopera edile dovuta al crescente assorbimento delle forze di lavoro da parte dell'industria manifatturiera. A questo punto si sono verificate le condizioni socioeconomiche per cui il settore della produzione esterna al cantiere (le industrie manifatturiere di oggetti edilizi intermedi) ha deciso di porre sul mercato, senza dover correre particolari rischi data la quantità della domanda, elementi prefabbricati in stabilimento (fuori opera) come ''pezzi già pronti'' per opere in fieri attendendo il compratore, come avveniva ormai per un qualsiasi elemento preformato di commercializzazione corrente.

Si è così passati da una p. ad hoc per una specifica e singola opera, come si è detto per la p. ''artigianale'' industrializzata, a una vera e propria p. industriale, in quanto la produzione meccanizzata e programmata è basata sulla ''serie''. Questo tipo di produzione implica necessariamente il coinvolgimento diretto del momento progettuale dell'organismo architettonico, poiché questo è visto come entità concepibile, tutta o in parte, impiegando componenti standard aventi a priori proprie caratteristiche prestazionali, morfologiche ed estetiche. In pratica si dà luogo alla cosiddetta edilizia industrializzata, che è nel bene e nel male ''creatura tecnologica'' del nostro secolo.

Con la p. industriale ci si è posti come massimo obiettivo quello d'immettere nel mercato interi organismi edilizi di tipo standard con la caratteristica della serialità icastica o analogica (v. edilizia, App. IV, i, p. 631) attraverso la p. totale dando luogo alla produzione industriale di opere complete, che presenta particolari condizionamenti per una diffusa commercializzazione; d'altra parte, data la possibilità di una maggiore penetrazione commerciale nell'ambito dei procedimenti costruttivi ''misti'' (cioè con p. parziale), ci si è posti l'obiettivo, concettualmente ridotto ma non per questo meno valido sul piano pratico, di fornire componenti seriali d'impiego flessibile sotto il profilo sia costruttivo che formale, dando luogo alla produzione industriale dei componenti. Questi diversi modelli produttivi si trattano separatamente ma si sono sviluppati con un processo evolutivo abbastanza complesso e intrecciato, in relazione soprattutto a come si è inteso rispondere con l'edilizia industrializzata alle varie e spesso contrastanti istanze a livello socio-economico e culturale.

Produzione industriale di opere complete. - In questo caso il ciclo produttivo di p. integra i vari elementi di fabbrica ed è finalizzato alla realizzazione di un tipo o di una gamma di tipi edilizi, da fornire ''chiavi in mano'', cioè completi e funzionanti; in base a tali finalità si potrà avere il ciclo chiuso o il ciclo aperto (v. edilizia, App. IV, i, p. 632). La produzione può essere espressione diretta e autonoma del settore industriale, ed è definita ''a catalogo'', oppure essere indotta da iniziative esterne al settore, ed è detta ''per programmi''.

La produzione a catalogo è basata su criteri commerciali del tutto analoghi a quelli dell'industria automobilistica: il committente può scegliere, con eventuali optionals, tra una gamma di tipi standard offerti dalla ditta produttrice. Questa modalità commerciale e produttiva, che trova le sue radici, come già evidenziato, nel 19° secolo, è rivolta a soddisfare una domanda con specifiche connotazioni dovute a precisi contesti socioeconomici o a particolari destinazioni d'uso.

La produzione a catalogo più praticata è quella delle case unifamiliari a uno o due piani per insediamenti a carattere stanziale realizzabili con elementi a pannelli componibili; si può dire che è nata negli USA come evoluzione del procedimento in legno a platform frame, producendo in stabilimento tutti i componenti come entità piane da montare sul posto (fig. 19). La caratteristica di questa produzione è quella di essere strettamente legata a una tipologia del tutto tradizionale sotto il profilo costruttivo, funzionale e formale (la tipica casa acquistata a rate dalla piccola e media borghesia statunitense); in seguito costituisce modello per analoghi tipi edilizi a pannelli con intelaiatura metallica. Tanto i sistemi in legno che quelli in metallo (acciaio prima, e alluminio poi) si diffondono anche in Europa laddove rappresentano evoluzione di modelli tradizionali; proprio per questa ragione sono tuttora commercialmente validi negli USA e nei paesi del Nord Europa. In Italia, dove per tradizione si è legati alla ''solidità muraria'', i sistemi ''leggeri'' sopraddetti non sono bene accetti (salvo casi particolari, per es. case per vacanze), perciò si è tentato, con una produzione in pannelli ''pesanti'' in cemento armato, di vincere tale pregiudizio, ma con scarso successo commerciale. Tutti i sistemi citati, a prescindere dal materiale, sono basati sulla produzione ''a ciclo chiuso'', offrendo tuttavia un minimo di varietà planovolumetrica, in numero di ambienti e in finiture.

Anche se meno praticata, è di un certo interesse la produzione a catalogo di case unifamiliari, derivata da quella precedentemente descritta, prefabbricando in stabilimento cellule spaziali, cioè moduli tridimensionali abitabili pronti all'uso, da trasportare completi nella località richiesta; per piccole unità si ha un'unica cellula, altrimenti si hanno più cellule aggregabili. Questo tipo di produzione, che nelle forme più progredite si basa sulla catena di montaggio, ha dato luogo alla pedissequa riproduzione di case tradizionali, ma anche a sperimentazioni frutto di un buon industrial design (per es. quelle condotte da Kurokawa) e a soluzioni costruttivamente innovative (per es. le unità ''telescopiche''). Pure in questo caso sono privilegiati i materiali ''leggeri'', specie per la trasportabilità. La produzione a cellule spaziali, che notevolmente limita le scelte dell'utente, è nata negli USA, dove è tuttora praticata, e di recente si è diffusa anche in Giappone.

Una delle produzioni a catalogo che ha suscitato un certo interesse, specie negli anni Settanta, è quella relativa a case unifamiliari, a un piano, per insediamenti a carattere temporaneo, con la quale ci si è posti l'obiettivo di risolvere con l'edilizia industrializzata il problema della mobilità insediativa. Si ha così la mobile-home, come prodotto di serie mutuato dall'industria automobilistica, che trova le sue origini nella roulotte, se trainabile, e nel camper, se semovente, usati principalmente per turismo. La mobile-home trainabile nasce e si diffonde dagli anni Cinquanta negli USA, per soddisfare l'esigenza di mobilità della struttura occupazionale statunitense e per far fronte agli alti costi e alla carenza di case stanziali. Dalle prime produzioni ispirate alla classica roulotte si hanno moduli trainabili di dimensioni sempre maggiori in larghezza (dagli iniziali 2,40 m, ingombro max stradale, ai 3 m nel 1955, poi ai 3,60 m, ancora il più diffuso, quindi ai 4,20 m nel 1967, sino ai 4,80 m nel 1969) e in lunghezza (fino a circa 20 m). Ovviamente, dato l'ingombro e il peso, la mobilità si riduce agli spostamenti soltanto relativi a cambiamento del luogo di residenza. Per avere un'idea dello sviluppo commerciale basta ricordare che negli anni Cinquanta le unità prodotte furono circa 100.000 e che nel 1973 raggiunsero le 600.000 (contro 1.800.000 di abitazioni tradizionali); negli anni Settanta una delle maggiori fabbriche aveva 1500 operai, e una fabbrica di soli 60 addetti produceva 4 mobile-homes al giorno. La costante e tuttora rilevante diffusione di questo modo di abitare negli USA s'imputa a più fattori: il minor costo rispetto alle abitazioni stanziali, ma soprattutto i bassi oneri fiscali dovuti alla mobilità (del tutto apparente, se il mantenimento degli assi anche privi di ruote basta per avere la classificazione di rimorchio), le abitudini nomadi di parte degli Statunitensi che accettano una casa funzionalmente ''costretta'' e di modesta durata (10÷20 anni). Un fatto singolare si verifica verso la fine degli anni Settanta, quando in Europa l'industria automobilistica intravede nelle mobile-homes la possibilità di aprire un nuovo settore, tale da costituire ''volano'' produttivo, prospettando la risoluzione della crisi degli alloggi con l'immissione nel mercato di moduli abitabili prodotti con le tecnologie proprie della costruzione delle auto; questa idea, del tutto utopica, fu anche sostenuta da urbanisti ed esperti sociali che, per risolvere i problemi della metropoli, puntavano sulla mobilità abitativa conseguente a una modificazione strutturale delle fonti e delle sedi di lavoro. Per il lancio della mobile-home sono stati coinvolti i designers più qualificati e raffinati del momento; così ha fatto la Fiat invitando per la progettazione di prototipi architetti come A. Rosselli (fig. 20) o M. Zanuso. Questa iniziativa è fortunatamente rientrata non solo per gli alti costi di produzione, ma soprattutto per il rifiuto del pubblico di considerare la casa mero prodotto spersonalizzato, consumistico (come l'automobile), dequalificante il significato umano dell'abitare, tanto da imprimere alla struttura urbana una ''provvisorietà permanente''. Si può quindi concludere che attualmente la produzione della mobile-home è tuttora praticata correntemente negli USA, mentre in Europa non ha preso piede; tuttavia le ricerche sperimentali compiute hanno contribuito, attraverso i prototipi migliori, a raffinare il design delle attrezzature interne e degli arredi per l'edilizia industrializzata in genere e inoltre hanno costituito valido supporto per la progettazione di unità mobili di pronto intervento in caso di terremoti o altre calamità naturali e di moduli viaggianti, in qualità di attrezzature pubbliche complementari e decentrate (per es. per la sanità).

Altre produzioni a catalogo, commercialmente circoscritte in quanto legate a particolari destinazioni d'uso, sono: unità spostabili per alloggi provvisori e di servizio per cantieri o altre attività prodotte in serie secondo il modello del container da cui, purtroppo, non si discostano nell'aspetto formale; edifici agricoli e industriali di piccole dimensioni (stalle, tettoie, magazzini, ecc.) prefabbricati in cemento armato (per es. in Italia i prodotti della Peruzzi Prefabbricati) o in acciaio; moduli balneari smontabili o spostabili in legno o in cemento armato (cabine, gruppi sanitari, chalets); chioschi per bar, giornalai, fiorai; involucri rimovibili a carattere provvisorio sia del tipo pressostatico in teli di plastica (per spazi sportivi, depositi), sia del tipo a volte tese a telone (per spazi fieristici, tettoie protettive), di cui sono note quelle ideate da F. Otto e ormai di produzione standard (in ambedue i casi la produzione è iniziata negli anni Cinquanta).

La produzione per programmi è conseguente a piani d'intervento promossi da enti pubblici (per es. per i settori dell'edilizia residenziale, scolastica od ospedaliera) oppure predisposti da particolari entità private (per es. grandi industrie per la realizzazione sia di stabilimenti che di residenze, oppure grandi consorzi di imprese edilizie).

Testimonianza, lontana nel tempo, di questo modello operativo può essere rintracciata nel 12° secolo in Cina (fig. 21). Sotto la dinastia Sung Settentrionale venne fatta redigere dalle autorità una guida per le costruzioni lignee (Ying-tsao fa-shi) relativa a edifici pubblici, con la quale erano fissate caratteristiche standard dei principali elementi architettonici (colonne, traversi e speciali sistemi di mensole), per controllare anche i costi di costruzione; in pratica veniva individuata una tipologia comprendente più classi di edifici (per es. la prima comprendeva edifici da 9 a 11 intercolumni, la seconda da 6 a 8) e si ricorreva a un sistema di coordinamento dimensionale basato sulla proporzionalità di ''unità'' (ts'ai), ciascuna divisa in 15 o 21 ''parti'' (feu); le colonne avevano un diametro di 3 ''unità'' negli edifici di prima classe e 2 in quelli minori; le proporzioni di un elemento costruttivo rimanevano inalterate per tutte le classi di edifici pur variando le dimensioni, passando dalla classe maggiore a quella inferiore. In sostanza si davano regole per produrre elementi preformati e prefabbricati in funzione di un preciso piano d'intervento riferito a una precisa tipologia edilizia.

Altra testimonianza, ma più vicina nel tempo, è rintracciabile nel 19° secolo, quando le compagnie ferroviarie programmavano stazioni (con i relativi manufatti) di tipo standard, suddividendole per classi a seconda dell'importanza (venivano escluse le stazioni delle grandi città che non potevano essere unificate soprattutto per ragioni d'immagine); ciò ha condotto a produrre elementi prefabbricati standard, soprattutto in ghisa e in ferro ma anche in cemento armato, secondo un prontuario definito da ciascuna compagnia.

Al di là di questi riferimenti del passato, la produzione di opere complete prefabbricate per programmi si ha, nel vero senso del termine, soltanto nel 20° secolo a partire dagli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, quando per rispondere a una domanda pressante e rilevante di alloggi, si predispongono massicci e concentrati interventi di edilizia residenziale. Sotto questo profilo è particolarmente interessante quanto è avvenuto nel periodo tra gli anni Cinquanta e Settanta in Europa con l'avvento della produzione di sistemi prefabbricati in cemento armato da parte di industrie create ad hoc. Questo tipo d'industria si sviluppa in Francia negli anni Cinquanta in conseguenza di due fattori determinanti: la messa in atto di vasti programmi articolati in grandi complessi residenziali per migliaia di appartamenti da parte di enti, come l'H. L. M. Logecos e altri, che accentravano le iniziative nel settore edilizio; la particolare esperienza francese nel campo delle costruzioni in cemento armato, che ha condotto a sostituire i setti murari tradizionali di elevato spessore con snelli elementi in calcestruzzo facilmente realizzabili mediante casseforme standard. Tutto ciò ha dato luogo a procedimenti costruttivi coperti da brevetto, come il Balancy, il Camus e il Coignet, che rientrano a pieno titolo nella p. industriale; questi sistemi consentono la p. in stabilimento di componenti suscettibili in cantiere di semplici operazioni di montaggio e di connessione ''umida''; sono stati i protagonisti del periodo definito dei grandes ensembles, in cui si è codificata la p. pesante basata sul ''ciclo chiuso''.

I procedimenti industrializzati in cemento armato nati in questo periodo si basano sulla scomposizione di un edificio d'abitazione tipo (da 3 a 16 piani) in un insieme di elementi prefabbricati ''piani'': i pannelli verticali per le pareti portanti e i pannelli orizzontali per i solai; perciò sono stati definiti sistemi a grandi pannelli (fig. 22, A, B, C). I pannelli-parete portanti, di altezza pari all'interpiano, sono di due tipi: pareti di facciata (spessore 20÷25 cm) formate in genere da due strati resistenti in calcestruzzo armato con interposto strato isolante, rifinite sulla superficie esterna anche con rivestimenti applicati in officina e su quella interna con fratazzatura meccanica pronta per la tinteggiatura, e comprensive di serramenti; pareti di spina e trasversali (spessore intorno ai 15 cm) costituite da un solo strato di calcestruzzo armato, rifinite su ambedue le facce con fratazzatura meccanica pronta per la tinteggiatura, comprensive di controtelai delle porte, e contenenti le canalizzazioni portacavi dell'impianto elettrico e le scatole relative (in opera avviene il solo infilaggio dei cavi e la posa dei frutti). I pannelli-solaio, di dimensioni pari a uno o due vani, sono realizzati in soletta (piena o alleggerita) in cemento armato (con rete elettrosaldata); all'intradosso sono rifiniti con fratazzatura meccanica (pronta per la tinteggiatura); all'estradosso sono predisposti per ricevere in opera pavimentazioni in materiali resilienti oppure sono già rivestiti in officina con tesserine o piastrelle; hanno spessore intorno ai 25 cm, in rapporto alla luce (in genere non superiore ai 6 m).

Oltre ai sopra citati componenti, sono prefabbricati, sempre in cemento armato: le rampe delle scale (al finito e spesso comprensive di parapetto); le tramezzature (in genere in calcestruzzo leggero e pronte per la tinteggiatura); le pareti attrezzate (dotate di rivestimento in mosaico o piastrelle ceramiche) per contenere, sulla verticale, le canalizzazioni principali degli impianti e, sull'orizzontale, le schemature dell'impianto idrico-sanitario per bagni e cucine; infine gli elementi per balconi e per coronamenti.

Il montaggio di tutti gli elementi viene effettuato mediante gru (portata 40÷80 t) che provvede al sollevamento e al posizionamento per sovrapposizione e giustapposizione; elementi provvisori di puntellamento (per es. aste telescopiche per le pareti) consentono la predisposizione dove necessario di elementi di tenuta nei giunti e la realizzazione di questi mediante getto in opera di malta cementizia (cordoli verticali e orizzontali: giunti ''bagnati''). In sostanza nel cantiere si realizzano soltanto le fondazioni e alcune opere di completamento e finitura (come le impermeabilizzazioni, le pavimentazioni e le tinteggiature), mentre tutte le altre operazioni sono relative soltanto al montaggio dei pezzi prefabbricati.

L'operazione progettuale identifica nelle case plurifamiliari in linea e anche in quelle a torre (ma in minor grado) la tipologia edilizia che maggiormente si confà al sistema costruttivo, che in ultima analisi ricalca l'impianto tipico dell'ossatura muraria tradizionale, tanto da poter avere una maglia chiusa corrispondente al perimetro di ciascun vano o al massimo di due (luce max di circa 6 m) e da dover far corrispondere sulla verticale le aperture di finestre e porte: in pratica una maglia molto fitta dovuta a limitazioni dimensionali e di peso dei pannelli, a esigenze di produzione e trasporto, nonché a esigenze di sollevamento e manovrabilità in cantiere. Inoltre il voler evitare al massimo il ricorso alle classiche tramezzature e tamponature, per pure esigenze economico-costruttive, ha condotto a scartare la soluzione dello scheletro indipendente, emblematico delle opere in cemento armato, a tutto discapito della flessibilità distributivo-funzionale degli alloggi e anche, come si è in seguito rilevato, della flessibilità costruttiva.

Per quanto riguarda il tipo e il taglio degli alloggi si è fatto riferimento a quanto era stato codificato nel periodo razionalista nella ricerca sull'existential minimum, in specie gli studi di A. Klein, senza peraltro alcun approccio critico che ne evidenziasse pregi e difetti, ma limitandosi a riscontrare le possibilità di una conveniente collocazione dei setti prefabbricati trasversali e di spina. In pratica si è concepito l'edificio come un ''castello di carte'' (in effetti il procedimento a pannelli è del tutto simile a questo e con analoghi problemi di stabilità: resistenza dell'insieme alle azioni orizzontali; problema dei giunti; snellezza degli elementi costituenti) ripetendo icasticamente un medesimo alloggio scomposto tout court in pannelli nel numero più limitato possibile (per l'alloggio medio, di circa 60 m2, dai 15 ai 18 pannelli); non è necessario un coordinamento modulare in quanto si definiscono le caratteristiche dimensionali dei componenti di volta in volta in base al tipo edilizio da riprodurre.

Con i sistemi di p. in cemento armato si sono diffusi sul territorio gli stabilimenti di p., che rappresentano, per la prima volta nella storia, complessi industriali destinati alla produzione di interi edifici, in analogia alle industrie meccaniche (per es. produttrici di auto), con la differenza che il montaggio avviene in cantiere e quindi è necessario localizzare lo stabilimento in modo che il trasporto dei pezzi non incida negativamente sui costi; pertanto si determina il ''raggio d'influenza'' dell'impianto sul territorio servito (fig. 23), cioè si definisce la distanza massima compatibile con la quantità degli elementi prodotti giornalmente, con il peso e l'ingombro dei pezzi, con le condizioni della rete stradale, in rapporto ai tempi economicamente ammissibili per un regolare approvvigionamento (in genere 50÷60 km).

Lo stabilimento viene impostato secondo un preciso ciclo di produzione, che si articola in più sub-cicli riferiti ai vari momenti operativi e ai tipi di elementi da produrre, e consta di tre settori fondamentali (oltre ai servizi per il personale e agli uffici direzionali e amministrativi): 1) il settore delle produzioni e allestimenti complementari, che comprende la centrale di betonaggio (il calcestruzzo è inviato mediante benne o piccoli semoventi), la centrale per la produzione del vapore o dell'acqua calda per l'accelerazione della stagionatura, le officine annesse per la preparazione delle armature metalliche, delle schemature impiantistiche, dei serramenti, ecc.; 2) il settore vero e proprio di p., costituito dai capannoni di confezionamento dove si realizzano (in casseforme orizzontali fisse, basculanti o scorrevoli su carrelli ovvero in casseforme verticali fisse) i vari pezzi e si effettuano operazioni di controllo sulla qualità del prodotto; 3) il settore di stoccaggio, rappresentato da un ampio piazzale dove sono trasportati, in genere mediante carro-ponte, i pezzi pronti per l'invio al cantiere.

In particolare, le modalità di esecuzione dei principali componenti sono: i pannelli-parete di facciata al finito (compresi serramenti) vengono eseguiti in casseforme orizzontali, in genere basculanti per effettuare il disarmo nella posizione di esercizio (per es. nel sistema Balancy & Schuhl − fig. 24 − si hanno le seguenti fasi: posa degli eventuali serramenti da incorporare; posa del rivestimento esterno sul fondo del cassero; getto del primo strato di calcestruzzo; posa dell'armatura e dei ganci per il sollevamento; posa dello strato isolante; getto del secondo strato di calcestruzzo previa posa di armature complementari; getto dello strato di intonaco interno e finitura con fratazzatura meccanica); i pannelli-parete di spina e trasversali possono essere indifferentemente prodotti in casseforme orizzontali o verticali in batteria (con circolazione del vapore e dell'acqua calda per la stagionatura); i pannelli-solaio in genere sono realizzati in casseforme orizzontali fisse (con stagionatura artificiale mediante cappe o teli) e talvolta in batteria, ma vengono anche utilizzate casseforme disposte su carrelli che si spostano nelle varie postazioni operative, in analogia con la ''catena di montaggio'' di altre industrie, senza spostamenti del personale addetto (metodo impiegato per es. dalla danese Larsen & Nielsen).

I sistemi francesi e il sistema Larsen & Nielsen (fig. 25), tutti coperti da brevetto, sono stati per lungo tempo all'avanguardia in Europa, in particolare in Gran Bretagna e Germania, operando direttamente o attraverso licenziatari; parallelamente nell'URSS e nei paesi dell'Est si è avuto un intenso sviluppo di sistemi analoghi sempre a partire dagli anni Cinquanta. In Italia soltanto negli anni Sessanta furono introdotti sistemi di p. industriale, nella maggioranza dei casi utilizzando, su licenza, brevetti stranieri (in particolare francesi); questo ritardo rispetto ad altri paesi fu dovuto principalmente al fatto che nel periodo della ricostruzione si operò attraverso l'iniziativa privata, si fece affidamento sulle piccole e medie imprese e si ebbe elevata disponibilità di mano d'opera (i sistemi costruttivi tradizionali in opera si rivelavano convenienti); anche enti come l'INA-casa e gli Istituti delle Case Popolari privilegiarono, nonostante l'entità dei programmi, fino agli anni Settanta, salvo casi particolari, i metodi realizzativi tradizionali (ovviamente razionalizzati). In sostanza i sistemi ''a grandi pannelli'' si sono diffusi in tutta Europa per cercare di risolvere il pressante problema della carenza di alloggi avendo constatato, sotto il profilo della produttività in cantiere, che con questo tipo di p. è possibile ridurre sino al 75% il tempo necessario per la costruzione di un complesso di alloggi con sistemi tradizionali in opera. Tuttavia ben presto è risultato evidente che il complesso apparato industriale imperniato su tali sistemi di p., per poter avere e mantenere una vitalità economico-produttiva, richiede il verificarsi di una ben precisa condizione contestuale: un'elevata e costante domanda di edifici dello stesso tipo da vendere ''chiavi in mano''.

Quest'esigenza è riscontrabile da quanto verificato in studi economici degli anni Sessanta: per una p. a piè d'opera la soglia minima di convenienza era rappresentata da lotti da costruire di almeno 200 alloggi e dalla garanzia di una ripetizione di appalti similari da due a cinque volte; per una p. parte in opera e parte in stabilimento il numero minimo di ripetizioni per ogni appalto era di 500 alloggi composti con pannelli uguali, con consegna entro due anni dall'impianto del cantiere; per una p. tutta in stabilimento era possibile l'ammortamento dell'intero impianto con una produzione di 2500 alloggi, ipotizzando l'impiego delle attrezzature per una produzione annuale compresa tra i 1000 e i 4000 vani. Altra conferma dell'esigenza, da parte delle industrie di p., di avere commesse quantitativamente elevate sono stati gli appalti di circa 5000 alloggi indetti nei primi anni Sessanta dall'INA-casa per incentivare anche in Italia la p. con sistemi in cemento armato (sul modello francese e utilizzandone i brevetti) presso stabilimenti capaci di produrre 1000 alloggi l'anno. Nel periodo 1950-62 furono costruiti in Francia con il solo sistema Cauvet circa 9000 alloggi in edifici da 4 a 16 piani. La società Larsen & Nielsen, che negli anni Sessanta produceva correntemente 20 appartamenti alla settimana, in base alle prospettive offerte dall'incremento dei grandi interventi edilizi per la residenza si propose di raggiungere le 35 unità entro il 1962.

Da quanto detto è facile comprendere che questo modello di produzione impone per ragioni intrinseche (o per forza di cose) un ferreo vincolo (alla lunga insostenibile): la programmazione degli interventi, in particolare quella degli enti pubblici, deve prevedere commesse di entità tali da mantenere vitali le aziende produttrici, riferendole sempre ai tipi edilizi a queste congeniali. Si producono così delle distorsioni sotto diversi profili: favorire, dati i notevoli costi d'impianto e di gestione, le grandi imprese rispetto alle medie e piccole; condurre alla cristallizzazione dei tipi edilizi a tutto discapito di una risposta adeguata al continuo evolversi delle esigenze abitative da parte di una società vieppiù caratterizzata dal benessere; contrastare, anche se indirettamente, la produzione di componenti industrializzati plurivalenti (impiegabili in più tipologie edilizie) e quindi impedire una maggiore apertura del mercato. In effetti la p. industriale a grandi pannelli entra in crisi quando diminuisce in modo sostenuto la domanda di nuovi alloggi a mano a mano che si verifica il calo demografico (sino alla crescita zero in molti paesi industrializzati) o quando diviene massiccio, in alcuni stati, l'impiego di manodopera a basso costo fornita dagli immigrati dai paesi del Terzo Mondo. Al tempo stesso ci si rende conto che la fetta più grande dell'edilizia è rappresentata dai piccoli e medi interventi (per gli alloggi oltre il 70%), non soltanto nelle grandi città, ma soprattutto nei numerosi e vitali centri minori, e che inoltre in molti casi i programmi pubblici prevedono opere disseminate sul territorio (per es. scuole) e che a far fronte a queste esigenze sono le medie e le piccole imprese con sistemi costruttivi tradizionali (negli anni Sessanta la p. in cemento armato in nessun paese superava il 20% degli alloggi costruiti annualmente). Soprattutto si constata che i grandi interventi edilizi, sostegno basilare dei sistemi in cemento armato, sono concentrati soltanto nei grandi centri urbani, di cui peraltro si tende a ostacolare la crescita incondizionata. Inoltre si rileva che il puntare essenzialmente sulla quantità e l'agire spinti dall'urgenza comportava, nella grande maggioranza dei casi, la perdita di qualsiasi valido attributo sul piano funzionale ed estetico, dando luogo alla ''città-dormitorio'', sinonimo di squallore e d'invivibilità. Certamente questo risultato non è imputabile al sistema costruttivo, bensì alla sensibilità e alla cultura di produttori e progettisti; in effetti bisogna riconoscere che la p. industriale in cemento armato a livello tecnologico ha dato sostanziali contributi.

Il periodo di massima diffusione della p. a grandi pannelli si è avuto negli anni Sessanta-Settanta in tutti i paesi d'Europa, tanto da far credere che tale sistema rappresentasse in assoluto la p. industriale; passava inosservato che nello stesso periodo, e anche prima, era praticata la produzione seriale per costruire, in legno e in acciaio, abitazioni unifamiliari isolate o a schiera e altri tipi di edifici a uno o due piani sia negli USA che nei paesi del Nord Europa. In sostanza questo tipo di produzione rappresentava un'alternativa alla p. in cemento armato, detta ''pesante'', e perciò è stata denominata ''leggera''.

La p. leggera (fig. 26), che ha la sua importanza non solo sul piano tecnologico ma anche per essere stata la culla della p. ''a ciclo aperto'', inizia nell'ambito della produzione ''a catalogo'' e soltanto negli anni Cinquanta-Sessanta si orienta verso metodi operativi e modalità produttive più flessibili, stimolata anche in questo caso dalla richiesta derivante dalla programmazione di grandi interventi sul territorio. Questo fu possibile in alcuni paesi per specifiche condizioni contestuali relative sia al tipo e alla formulazione della domanda sia alla struttura produttiva. La domanda, anche se elevata, si esprimeva essenzialmente sotto forma di interventi diffusi sul territorio e spesso di modesta entità; i tipi edilizi prevalenti per la residenza erano tradizionalmente le case unifamiliari a schiera; così pure quelli relativi all'edilizia scolastica non superavano i due piani. Gli enti pubblici preposti alla programmazione e al coordinamento degli interventi non cercavano di risolvere il problema della carenza di alloggi e servizi in termini puramente quantitativi e di costi, ma si sforzavano di dare un indirizzo che tenesse conto delle esigenze a livello urbanistico-edilizio, coinvolgendo appunto il settore della ''p. leggera'' che presentava una struttura particolarmente adatta alla situazione contestuale della domanda. In effetti la struttura produttiva riguardante la ''p. leggera'' era finalizzata alla realizzazione di edifici a limitato numero di piani, in particolare destinati alla residenza, per soddisfare richieste che coinvolgevano in modo più diretto l'utente, quindi doveva necessariamente puntare su prodotti diversificati e di qualità. Proprio per questo, nella generalità dei casi, la produzione di edifici prefabbricati era imperniata su di una ditta che prendeva l'iniziativa di studiare, progettare, produrre e lanciare sul mercato un sistema costruttivo e che realizzava normalmente l'ossatura portante e le chiusure orizzontali, e su altre ditte consociate (o semplicemente collegate) interessate anch'esse al sistema, perché produttrici dei componenti degli altri elementi di fabbrica (chiusure verticali, tramezzature, ecc.). Pertanto era spontanea e implicita un'azione di coordinamento per rendere tra loro compatibili e intercambiabili i prodotti delle ditte interessate; in pratica si sono così poste le basi per la p. ''a ciclo aperto''.

Sotto questo profilo, è significativo l'indirizzo assunto in Gran Bretagna negli anni Settanta da parte degli organi di governo, sia nazionali che locali, e del settore produttivo per l'edilizia industrializzata: si cercò d'individuare un processo, a livello sia programmatico che realizzativo, consapevole delle esigenze dell'utenza e rispondente alle esigenze economiche e tecnologiche delle imprese costruttrici, mirando così al tempo stesso alla qualità del prodotto, al contenimento dei costi e alla riduzione dei tempi di costruzione. Nel perseguire questi obiettivi si sono delineati alcuni degli aspetti essenziali del ''ciclo aperto'': è stato fissato un modulo misura per il coordinamento dimensionale (dapprima di 4 pollici, circa 10 cm, poi di 10 cm con l'introduzione del sistema metrico decimale); sono stati introdotti nella progettazione reticoli preferenziali basati su scelte multimodulari semplici (per es. il Sistema 5M; fig. 27) o composte (per es. il sistema Oxford per l'edilizia sanitaria e il sistema A75 Metric, basati su di un reticolo ''scozzese''; fig. 28); è stato adottato il criterio di produrre ossature portanti suscettibili di utilizzazione per soluzioni architettoniche diverse al fine di avere una flessibilità d'uso negli spazi abitativi e di consentire una sufficiente libertà nelle scelte progettuali; è stata resa compatibile con diverse ossature portanti e differenti tipologie edilizie un'ampia gamma di componenti dei vari elementi di fabbrica prodotti da differenti ditte, purché basati sui medesimi criteri di coordinamento dimensionale modulare. L'aspetto più importante della produzione britannica è che, pur variando il reticolo modulare di progetto da sistema a sistema (rispettando però il Modulo base internazionale M = 10 cm), si ebbe un collegamento non solo tra le ditte produttrici, ma anche a livello delle imprese appaltanti, dei progettisti e degli enti locali di committenza. Il fine era non soltanto conseguire la massima produttività, ma aderire sul piano distributivo-funzionale e formale alle aspettative dell'utenza facendo costante riferimento, per es. per le abitazioni, alle tipologie tradizionalmente più gradite (come le case a schiera); in questo si manifesta la tendenza a un costante rinnovamento sul piano costruttivo e formale sia dei componenti che dei tipi edilizi, specie in confronto alla p. ''pesante'' in cemento armato.

Per quanto riguarda l'edilizia scolastica, in Gran Bretagna gli organi di governo nazionali e locali sono stati promotori di metodi e strumenti per la programmazione e la realizzazione ''guidate'' dando luogo alla formazione di consorzi locali. In effetti sin dalle prime esperienze nel campo della p. scolastica si constatò che per sostenere un programma di produzione industriale di componenti standard occorreva creare nuove e più vaste condizioni di mercato. In particolare la Nottinghamshire Education Authority decise di studiare un sistema costruttivo adatto alle condizioni specifiche del territorio della contea: si trattava cioè d'individuare un sistema che permettesse l'adozione di strutture leggere e articolate in modo tale da poter essere adattate facilmente alle varie situazioni morfologiche. Il costo di questi studi e la necessità di poter offrire ai prodotti industrializzati un mercato più vasto di quello prevedibile per le necessità interne suggerirono l'idea di un consorzio tra enti locali di territori confinanti. Nacque così, nel 1955, il CLASP (Consortium of Local Authorities Special Programme), composto inizialmente da sette membri, poi da diciassette tra autorità locali, ministeri, università, e al quale partecipa l'Architectural Division of Brockhouse Steel Structures, autorizzata a studiare sistemi costruttivi utilizzabili anche da privati. Nel 1957 fu inaugurata a Mansfield la prima delle 448 scuole CLASP realizzate in dieci anni. A questo primo consorzio, dato il successo ottenuto non soltanto in patria ma anche all'estero (il sistema CLASP è stato utilizzato in più paesi, compresa l'Italia), ne sono seguiti molti altri come lo SCOLA (Second Consortium of Local Authorities, 1961), il SEAC (South-Eastern Architects Collaboration, 1963), il CMB dell'Hertfordshire (Consortium for Method Building, 1963), il CLAW (Consortium of Local Authorities in Wales, 1963), l'ONWARD (Organization of North Western Authorities for Rationalized Design, 1965) e il MACE (Metropolitan Architectural Consortium for Education per l'area di Londra, 1966). Nel 1967 l'area comprendente il Galles e l'Inghilterra di pertinenza del ministero della Pubblica Istruzione era quasi del tutto coperta da questo tipo di consorzi. La conferma della tendenza verso il ''ciclo aperto'' è evidente nel constatare che in Gran Bretagna si è avuta una produzione integrata tra prefabbricatori di differenti componenti e in diversi materiali per realizzare organismi edilizi standard ma diversificati per tipi, per caratteristiche planovolumetriche, nonché per materiali e finiture (per es. i pannelli prefabbricati in laterizio della London Brick Co. Ltd. sono stati usati nei sistemi Trusteel, e le lastre in cemento armato per solai della ditta Baldwin nel sistema Thermagard Mark iii).

Contrariamente alla ''p. pesante'' in cemento armato che implicava una concentrazione a livello tanto programmatico che produttivo, le modalità operative britanniche presentavano un'organizzazione più articolata tale da consentire, pur in presenza di programmi che richiedevano opere complete ''chiavi in mano'', l'inserimento nel processo d'industrializzazione delle piccole e medie imprese di p. distinte per tipo di componente prodotto, nonché delle piccole e medie imprese costruttrici; inoltre consentivano la realizzazione di interventi anche di limitata consistenza oppure grandi ma diffusi nel territorio e soprattutto una maggiore diversificazione tipologica e formale di edifici, potendo anche utilizzare componenti del medesimo tipo. Si ricordano a questo proposito: per le abitazioni i sistemi Mark i, Mark ii e 3M della Trusteel, il sistema 5M del ministero degli Alloggi e degli affari locali; per le scuole i sistemi CLASP e Thermagard Mark iii.

Altra occasione per il superamento della p. a ''ciclo chiuso'' si è avuta con la produzione seriale ''chiavi in mano'' di edifici a sviluppo orizzontale per l'industria. In Europa, specie in Italia, i provvedimenti da parte degli organi pubblici, statali e regionali, per incentivare con agevolazioni di carattere economico lo sviluppo delle zone industriali ha indotto la produzione di capannoni standard tali da rispondere alla domanda in modo articolato e differenziato, cioè con sistemi ''aperti'' di prefabbricazione. In questo modo le industrie di prefabbricati hanno potuto soddisfare non solo grandi commesse da parte di una singola grande industria, ma soprattutto commesse di modesta entità che hanno consentito l'inserimento delle piccole e medie imprese appaltatrici, conseguendo così un'ampia diffusione sul territorio. In effetti la possibilità di classificare un'ampia gamma di situazioni ricorrenti nella domanda espressa dagli utilizzatori ha permesso di porre sul mercato componenti in grado di consentire molteplici soluzioni non soltanto planimetriche, ma anche volumetriche e di facciata. Lo scheletro portante con la sua ''trama'' determina il reticolo modulare dell'insieme su cui fondare il coordinamento degli elementi di copertura e di chiusura verticale; elementi che debbono in genere avere caratteristiche mutevoli per meglio soddisfare le esigenze sia funzionali che formali del committente.

Questo ha condotto a sistemi prefabbricati che prevedono soluzioni in alternativa, sia per le coperture sia per le chiusure esterne, tanto per la forma quanto per le finiture, utilizzando tecniche e materiali diversi (lo scheletro è l'''attaccapanni'' su cui disporre gli altri componenti). Tutto ciò si è manifestato non solo nell'ambito delle costruzioni metalliche, tradizionalmente orientate in tal modo, ma anche nell'ambito delle costruzioni in cemento armato, a partire dagli anni Cinquanta. Questi sistemi costruttivi a scheletro indipendente hanno promosso nell'ambito della p. in cemento armato la produzione degli scheletri portanti prefabbricati multipiano da impiegare per la realizzazione di opere complete sia per la residenza che per altre destinazioni d'uso, riacquistando così la flessibilità distributivo-funzionale che si era perduta con l'utilizzo dei sistemi a grandi pannelli (fig. 22, D, E, F). Si cita a questo riguardo la produzione della ditta inglese Gardiner con il sistema Thermagard Mark iv, che prevede per edifici fino a 10 piani uno scheletro portante con componenti standard in cemento armato (i pilastri) e in acciaio (le travi) uniti tra loro con un elemento unificato di raccordo in acciaio.

Al di là dell'adozione del ''ciclo chiuso'' o del ''ciclo aperto'' con sistemi di p. leggera o pesante, la produzione per programmi finalizzata alla fornitura di edifici completi ''chiavi in mano'' ha investito tutti i settori dell'edilizia e si è manifestata in tutti i paesi.

Per quanto riguarda l'edilizia scolastica, oltre a quanto già detto per la Gran Bretagna, si può ricordare il programma sperimentale promosso negli anni Sessanta nello stato della California per realizzare scuole con elevata flessibilità distributivo-funzionale e costruttiva con procedimenti industrializzati di serie (fig. 29); lo studio è stato sviluppato secondo le norme del SCSD (School Construction System Development) in associazione con il gruppo EFL (Educational Facilities Laboratories) e finanziato dalla Fondazione Ford; alla costruzione di un prototipo, da parte dell'Inland Steel Products Co., sono seguite molte altre realizzazioni fino al 1966; il sistema costruttivo, che rientra nella p. leggera, prevedeva, su un impianto modulare, uno scheletro portante in acciaio e solai (attrezzabili in modo distributivamente flessibile con gli impianti) di grande luce, fino a 33 m (con impalcato in lamiera e travi reticolari in acciaio); le partizioni interne erano di tipo spostabile e le chiusure di facciata potevano essere scelte entro una gamma di elementi standard. In Italia si può citare il programma sperimentale promosso negli anni Sessanta dal Centro Studi Edilizia Scolastica del ministero della Pubblica Istruzione, diretto da C. Cicconcelli, per l'impiego della p. industriale per le scuole attraverso bandi di concorso destinati esclusivamente alle industrie in grado di fornire organismi completi ''chiavi in mano''; a tal fine venivano date precise direttive sulle caratteristiche tipologiche dell'intero complesso e dei vari ambienti, sul coordinamento dimensionale, sulle capacità di prestazione a livello sia generale che di singoli componenti, senza differenziazioni tra procedimenti a ciclo ''chiuso'' o ''aperto''; scelta fondamentale è stata l'imporre (salvo che per piccole scuole monopiano a due o tre aule) l'impiego dello scheletro portante per rendere più flessibile l'utilizzazione e la caratterizzazione dello spazio interno; questo ha condotto a un'evoluzione nella p. delle ossature portanti sia in cemento armato che in acciaio, con decisa influenza anche sull'edilizia residenziale, che aveva così un'alternativa all'imperante p. in cemento armato a grandi pannelli. Oltre a questi programmi si devono ricordare: lo studio metaprogettuale indetto dalla Regione Lazio nel 1979 come guida sia per i progettisti che per i produttori di componenti prefabbricati e svolto dall'Istituto di Architettura, edilizia e tecnica urbanistica della facoltà di Ingegneria di Roma; il programma, ambizioso sia per la quantità di edifici (1.000.000 di m2 per scuole di vario ordine e grado) sia per l'estensione del territorio interessato (con caratteristiche geografiche e climatiche quanto mai disparate), promosso dal ministero della Pubblica Istruzione iraniano nel 1977 attraverso un concorso internazionale, con il quale si richiedeva a imprese o a consorzi di imprese di prospettare per l'attuazione del fabbisogno quinquennale l'intero apparato produttivo (tipi e localizzazione degli stabilimenti di p.), i vari tipi edilizi, le capacità di prestazione dei componenti, uno o più procedimenti industrializzati, i tempi e i costi di costruzione (si ebbe una notevole partecipazione di imprese, consorziate o non, di vari paesi europei e anche asiatici; le offerte furono presentate, ma i successivi eventi politici ne arrestarono l'attuazione).

Per quanto riguarda l'edilizia per l'agricoltura, com'è avvenuto per le zone industriali, la produzione di edifici completi, in particolare a carattere strumentale (stalle, magazzini, silos, ecc.), è stata incentivata in modo diretto da programmi di attuazione o sperimentali indetti da enti pubblici o governativi, e in modo indiretto dalle agevolazioni economiche da parte di organismi statali o regionali; si ricordano per le loro caratteristiche esemplari: il programma attuato in Olanda per la creazione dei polders (prosciugando lo Zuider Zee) che ha previsto l'impiego della p. in cemento armato (elementi portanti lineari e pannelli piani di chiusura) per realizzare un notevole numero di fabbricati con un limitato numero di tipi, differenziati in classi per numero di capi e per volume utile (anche se il costo fu maggiore delle costruzioni tradizionali, la convenienza economica si ebbe nella rapidità di esecuzione che comportò un anticipo di uno o due annate agrarie, cioè, nella produzione di reddito); le ricerche sperimentali e la produzione di sistemi prefabbricati nella Germania occidentale (per es. il complesso aziendale MEC presentato a un concorso internazionale dall'industria tedesca di p. in cemento armato) e in Gran Bretagna (per es. il sistema Morley). Se nei paesi dell'Est, l'URSS per prima, il ricorso alla p. industriale fu intenso, data l'estensione delle aziende a carattere cooperativo o collettivo con elevato numero di capi, in Italia fu estremamente ridotto se si pensa che i 9 Enti di riforma fondiaria hanno costruito dalla loro istituzione al 1963 circa 165 borghi e 44.000 case coloniche sparse, e di queste solo 2150 furono realizzate con prefabbricati in cemento armato, peraltro con esito poco soddisfacente, dall'Ente di riforma per la Puglia e Lucania; soltanto in seguito nelle zone agricole in via di sviluppo oggetto di incentivazioni da parte dello stato e di appositi istituti (come la Cassa del Mezzogiorno) si ebbe una certa diffusione di produzioni specifiche per il settore agricolo (per es. quella in cemento armato della S.p.A. Prefabbricati Peruzzi).

Per quanto riguarda l'edilizia ospedaliera è significativo il sistema inglese Oxford, che è testimonianza dell'indotto conseguente a programmi governativi; con questo sistema si tende attraverso un coordinamento dimensionale modulare basato sul reticolo scozzese (con ''fasce'' da 2M e reticolo di campo in 6M × 6M) e l'identificazione di componenti plurivalenti, a soddisfare una domanda differenziata per tipi e per caratteri plano-volumetrici riguardante l'edilizia ospedaliera; in Italia è stato adottato dalla INSO per realizzare un ospedale a Roma-Ostia Lido.

Per quanto riguarda l'edilizia residenziale, oltre alle iniziative degli enti pubblici preposti all'edilizia e a quelle sviluppate in parallelo dalle imprese di p. edili (già richiamate), si può segnalare, a proposito di iniziative prese da entità private, lo studio programmatico promosso dall'ITALSIDER nel 1960; per coordinare gli interventi edilizi nelle varie sedi di stabilimento della società, per circa 12.000 alloggi; lo studio affidato al gruppo CPA (Consulenti Progettisti Associati) era improntato ai criteri della progettazione integrale e si basava su due elementi fondamentali: l'indagine sociale (volta a soddisfare le esigenze e le aspettative dei dipendenti) e le ricerche nell'ambito progettuale e costruttivo (funzionalità degli alloggi, varietà di tipi edilizi, scelta dei sistemi costruttivi, unificazione e standardizzazione degli elementi di fabbrica, definizione dei costi). In particolare si prevedeva negli sviluppi del programma edilizio il graduale passaggio dai sistemi costruttivi tradizionali a quelli industrializzati basati sul ''ciclo aperto''; in sostanza, attraverso un'impostazione metaprogettuale e l'adozione di un coordinamento dimensionale modulare, si potevano realizzare con componenti costruttivi standard svariate articolazioni plano-volumetriche di più tipologie di edilizia residenziale (in linea, a corte, a torre, a redents, ecc.) e circa 70 tipi di alloggio (fig. 30). Inoltre, sempre per l'edilizia residenziale, è da ricordare quanto ha sviluppato in Italia sotto forma di studi e progetti di ricerca applicata la Tecnocasa (promossa dall'IMI).

Nell'ambito della produzione di opere complete per programmi si è anche inserita, specie per edifici pluripiano sia residenziali che per altre destinazioni d'uso, la p. a cellule spaziali accatastabili o portate, che doveva rappresentare un'alternativa ai sistemi ''piani'' e ''piano-lineari'' a tutto vantaggio della rapidità nella costruzione, in quanto si riducevano al massimo le operazioni di montaggio fornendo moduli tridimensionali al finito.

Questo procedimento, pur presentando indiscutibili pregi, tuttavia non ha avuto particolare diffusione dati gli oneri sia a livello di produzione in stabilimento sia a livello cantieristico per quanto concerne il trasporto e le movimentazioni per la posa. In ogni modo vi sono stati esempi significativi, in particolare negli anni Sessanta e Settanta, a cominciare da quello più emblematico rappresentato dal nucleo residenziale realizzato con 354 ''moduli oggetto'' all'Expo '67 di Montreal, per poi richiamare il sistema finlandese AUSA a cellule accatastabili in cemento armato per edifici di abitazione fino a 6 piani (montaggio di 45 appartamenti in 2 giorni) e il sistema Variel, che produce edifici ''chiavi in mano'' con diversa destinazione d'uso (case d'abitazione, scuole, ospedali, ecc.) e con possibilità di consentire più soluzioni plano-volumetriche, tanto da essere classificabile anche nelle produzioni ''a catalogo''.

Da quanto sopra risulta evidente come la ''produzione per programmi'' di opere complete abbia perso la sua validità sul piano sociale ed economico non appena è venuta a mancare la sua ragion d'essere, cioè soddisfare una domanda pressante del bene edilizio in quantità molto elevata e possibilmente concentrata nel tempo e/o nella localizzazione. In effetti si è passati dalla massiccia e impellente richiesta dovuta alla ricostruzione post-bellica a quella conseguente alla formazione delle grandi aree metropolitane e infine all'adeguamento generalizzato dell'edilizia d'interesse pubblico e collettivo, dopo di che gli organi pubblici, in particolare, non hanno più avuto la necessità di programmare o sollecitare grandi interventi, ma soltanto di rispondere a una domanda stabilizzata su valori costanti. Ragion per cui al la rarefazione dei programmi nazionali o regionali ha corrisposto la crisi delle industrie di p. di opere complete. Oggi si ricorre alla produzione di opere complete prefabbricate soltanto per interventi mirati e consistenti che attraverso precise forme di assegnazione dei lavori (per es. concessione o appalto concorso) possano garantire alla committenza il controllo della qualità ai vari livelli e al tempo stesso un congruo ricavo alle imprese costruttrici.

Volendo concludere sulla p. industriale ''per programmi'' si può rilevare come la sua messa in crisi sia derivata anche dal fatto che sotto il profilo del risultato in termini prettamente architettonici, o più semplicemente a livello di validità estetica, ha dato luogo a esiti modesti, specie se si paragonano a quelli conseguiti nell'ambito della p. ''artigianale'' industrializzata. In effetti si può senz'altro affermare che quanto realizzato con la p. industriale ''per programmi'' ha mostrato i suoi grandi limiti sul piano estetico quando ha costituito, per pura convenienza economico-produttiva, ''invariante formale'' non tenendo conto alcuno dell'integrazione organica con il contesto, urbano o naturale che sia, in cui s'inseriva (in questo senso sono emblematici i piccoli edifici postali standard inseriti in modo indiscriminato in tanti comuni d'Italia). Ciò non toglie che in determinati casi l'essere un'invariante formale non possa essere coerente con l'obiettivo da raggiungere, cioè il prodotto standard costituisce segno qualificante nel contesto proprio per la ripetizione della sua immagine frutto di un qualificato design (per es. autogrill e distributori di benzina lungo un tracciato autostradale).

È necessario infine sottolineare che il ricorso alla p. ''per programmi'' è condizione necessaria per far fronte al pronto intervento, prima, e alla ricostruzione, poi, in caso di calamità naturali (per es. terremoti); si citano, per es.: l'appalto concorso per la ricostruzione indetto dalla Regione Friuli Venezia Giulia nel 1976, in cui furono presentati anche sistemi costruttivi a cellule prefabbricate in cemento armato accatastabili; le unità di pronto intervento prodotte dall'Edilpro su progetto di P. L. Spadolini per il ministero della Protezione civile nei primi anni Ottanta, a seguito del terremoto dell'Irpinia.

Produzione industriale di componenti. - In questo caso il ciclo produttivo è finalizzato alla realizzazione di componenti prefabbricati plurivalenti, non legati a priori a specifici organismi edilizi (sia unici che ripetibili), ma dotati di una versatilità tale da non essere soggetti alla conoscenza puntuale dell'organismo in cui se ne prevede l'impiego e quindi suscettibili di una maggiore possibilità di penetrazione e diffusione nel mercato edilizio. Tale obiettivo, che ha le sue radici nei primi decenni del 19° secolo con la citata produzione a catalogo di elementi in ghisa, ha rappresentato una costante nelle finalità commerciali dei produttori di elementi costruttivi intermedi. In effetti la produzione industriale di componenti, che si sviluppa e si diffonde nel 20° secolo, è conseguente alla produzione su basi seriali degli elementi preformati (segati standard in legno, profilati metallici, blocchi laterizi, ecc.), che l'ha preceduta di decenni, e ne rappresenta l'evoluzione tecnologica, passando da una realizzazione di pezzi elementari a quella di pezzi complessi (per es. dalla produzione di profilati standard per serramenti a quella dei serramenti stessi, dalla produzione separata di travetti e pignatte, alle trance di solaio latero-cementizie, ecc.). Tutto ciò si è manifestato utilizzando vecchi e nuovi materiali per prefabbricare elementi sia del tutto tradizionali che innovativi.

La produzione del componente versatile, che si diffonde sempre più a partire dagli anni Cinquanta, implica lo studio preventivo delle richieste del mercato, facendo riferimento in particolare alle caratteristiche, sia dimensionali che costruttive, ricorrenti nell'ambito delle tipologie edilizie in cui se ne prevede l'impiego; al tempo stesso richiede l'individuazione delle tecnologie più rispondenti in rapporto ai materiali e ai mezzi impiegati. In pratica le ditte di p. si specializzano nella produzione di un tipo o di una categoria di componenti da immettere sul mercato come fornitura a catalogo da impiegare sia nei sistemi costruttivi tradizionali in opera sia in quelli basati sulla p. parziale (al limite, totale); a seconda del tipo e del livello d'integrazione con il sistema costruttivo dell'opera in cui possono essere utilizzati gli elementi prefabbricati, si possono avere: la produzione di componenti isolati e la produzione di componenti coordinati.

La produzione di componenti isolati sta a significare l'immissione sul mercato di elementi prefabbricati di serie da impiegare come pezzi singoli nell'ambito dei sistemi costruttivi in opera e comunque di quelli che non sono fondati sulla p. totale (coordinata a livello dell'intera fabbrica); in pratica non si prevede alcun coordinamento dimensionale ai fini dell'integrazione con gli altri elementi costruttivi dell'organismo edilizio in cui i componenti standard debbono essere inseriti, in quanto questi vengono impiegati in modo del tutto tradizionale, cioè le compatibilità dimensionali e di aggregazione vengono risolte nel progetto ad hoc dell'opera da realizzare, oppure direttamente nella fase di costruzione in opera secondo criteri artigianali.

La produzione di componenti isolati poggia su tre modelli operativi:

a) prefabbricare in serie componenti che tradizionalmente sono prefabbricati in modo artigianale; si producono ormai secondo una gamma di tipi standard: serramenti (finestre − fig. 31 −, normali o monoblocco, lucernari-finestra, portoncini e porte; queste ultime, oltre che per destinazioni correnti, vengono prodotte anche per destinazioni speciali, come le porte per garage e antincendio); incavallature in legno (per es. le capriate leggere con luci da 8 m a 20 m realizzate con il sistema Gaggenheil su banco mobile, fino a 250 capriate in 8 ore, o fisso, fino a 350 in 8 ore); scale lignee, metalliche o in cemento armato (per es. scale a chiocciola, antincendio e retrattili per botole); gradini isolati autoportanti (in cemento armato o ferro); ringhiere e parapetti componibili per balconi e rampe di scale (prevalentemente in materiali metallici); architravi e velette in cemento armato al rustico; copertine con gocciolatoio e soglie in marmo;

b) trasformare in componenti prefabbricati elementi costruttivi tradizionalmente realizzati in opera con impasti, come gli intonaci e i manti impermeabili bituminosi; si hanno così gli ''intonaci prefabbricati'' in lastre di cartongesso da incollare su pareti al rustico e i ''manti prefabbricati'' stratificati in officina e forniti in rotoli, costituiti da guaine plasto-bituminose, autoprotette o non, da applicare mediante riscaldamento alla fiamma;

c) creare nuovi componenti con nuovi materiali (in particolare quelli realizzati con materie plastiche): per es. pannelli isolanti, piccoli lucernari a cupola o a piramide (diffusi dagli anni Cinquanta), vasche per piccole piscine.

Un richiamo a parte merita l'ormai rilevante ricorso, nell'ambito impiantistico, alla p. a catalogo di componenti ''isolati''. Ciò è riscontrabile nelle produzioni ormai correnti e consolidate: per quanto riguarda l'impianto di riscaldamento e condizionamento si producono a catalogo per es. caminetti standard in calcestruzzo, elementi radianti (in materiali vari, dalla ghisa all'alluminio), condizionatori e termoconvettori, ecc.; per l'impianto di smaltimento dei rifiuti, si producono fosse settiche standard in cemento armato e altri manufatti accessori, come i pozzetti; per lo smaltimento delle acque meteoriche, canali di gronda e discendenti in plastica e anche in rame; per l'impianto idrico sanitario il mercato offre ''blocchi di schemature preassemblati'' (come il noto blocco Togni, brevettato nel 1946), apparecchi isolati standard (dalla fine dell'Ottocento fino a oggi), ''blocchi funzionali'', costituiti dall'integrazione di più apparecchi sanitari comprensivi di canalizzazioni e rubinetterie (per es. la produzione Ariston in Italia) e ''blocchi ambiente bagno'', cioè vere e proprie cellule spaziali attrezzate al finito (per es. per il tipo ''pellicolare'' le produzioni in Italia della ICS, designer A. Rosselli, e della Feal Sud; per il tipo ''a setti'' in calcestruzzo, la produzione in Italia della ISAC e in Germania della Schälerbau). Per meglio comprendere l'innovazione conseguente al processo d'industrializzazione a livello impiantistico basterà infine menzionare il passaggio dal lavatoio in cemento retinato o in fire-clay alla lavatrice meccanizzata e programmabile, e così pure il passaggio dal lavandino con scolapiatti, sempre di serie, alla macchina lavastoviglie.

In conclusione si può affermare che la produzione di componenti ''isolati'' ha tuttora una notevole importanza nel mercato in quanto soddisfa le esigenze soprattutto delle piccole e medie imprese ed è in grado comunque di fornire pezzi prefabbricati con elevata flessibilità d'impiego, sia nei sistemi costruttivi tradizionali e misti sia in tipi di edifici diversi per destinazione d'uso e dimensione. Tale importanza verrà mantenuta, specie per determinati componenti per i quali si prevede l'impiego di macchine ''intelligenti'' in grado di permettere una produzione in serie analogica per forniture su commessa e, quindi, senza necessità di stoccaggio in attesa di vendita; questo già si sta in parte verificando nella produzione di serramenti standard. L'aspetto positivo è soprattutto nel fatto che con questo tipo di produzione si può recuperare, seppur con modalità diverse, quella sfera culturale propria dell'artigianato classico ormai in via di estinzione, con effetti pari a quello della p. ''artigianale'' industrializzata, di cui si è detto.

La produzione di componenti coordinati sta a significare immettere sul mercato insiemi di elementi prefabbricati finalizzati alla realizzazione, con operazioni di semplice montaggio, di una parte o di un intero elemento di fabbrica (scheletro portante, chiusure verticali, chiusure orizzontali, ecc.). Con questo tipo di produzione il settore della p. industriale si è posto l'obiettivo di un inserimento determinante nel cantiere edile promuovendo i sistemi costruttivi ''misti'', cioè basati parzialmente sulla p. dell'organismo edilizio. Tutto ciò ha implicato, alla base del ciclo produttivo, la definizione di criteri per determinare da un lato l'integrazione tra i componenti dell'insieme progettato e dall'altro attribuire a questo una flessibilità tale da poter soddisfare le diverse situazioni dimensionali, morfologiche, funzionali e costruttive che può presentare l'ipotetico organismo edilizio in cui se ne prevede l'impiego. Questo risultato è tanto più soddisfacente quanto più ampia è la gamma tipologica di edifici in cui può avvenire l'inserimento. In pratica si tende alla p. ''a ciclo aperto''. Il criterio di rendere ampie le capacità d'integrazione a livello dimensionale del componente e dell'insieme da esso formato ha orientato la produzione industriale verso l'adozione di un coordinamento, che non può che essere su basi modulari, considerato l'attributo iterativo che debbono possedere gli elementi prefabbricati.

Dapprima questa esigenza è stata soddisfatta con criteri di modulazione ''interni'', adottati dalle varie ditte produttrici, ma ben presto ci si è avveduti che è indispensabile pervenire a criteri comuni, ''esterni'', per una reale apertura del mercato. Si è pervenuti pertanto a un necessario coordinamento dimensionale modulare su base internazionale (v. edilizia, App. IV, i, p. 632), che è stato codificato nel 1956 dall'Agenzia europea per la produttività (organo dell'OECE). A questo proposito P. N. Maggi, noto teorico dell'edilizia industrializzata, definisce (in Ciclo di conferenze sui problemi dell'industrializzazione edilizia, 1967) il coordinamento dimensionale modulare come "metodo per il dimensionamento degli elementi che, tramite un sistema articolato di misure, basato su un'unità universale, il modulo, permette una correlazione programmata tra gli elementi stessi e di questi con l'intero organismo edilizio e consente l'attuarsi dell'interscambio dei componenti l'opera edilizia". Il coordinamento modulare investe necessariamente i tre momenti caratteristici dell'opera edilizia industrializzata: la progettazione, la produzione e il montaggio. Con il modulo base, sempre secondo Maggi, si concilia la scelta tra la funzione proporzionatrice che deve svolgere (legata a considerazioni di carattere progettuale) e la funzione dimensionatrice per la produzione industriale di componenti (legata a considerazioni complesse di carattere tecnico e tecnologico).

Per quanto riguarda le altre capacità d'integrazione con l'organismo edilizio, l'insieme di componenti coordinati deve possedere specifiche capacità prestazionali tali da rispondere al ruolo e alla collocazione nell'ambito dell'apparecchiatura costruttiva, alle esigenze abitative a seconda della categoria edilizia in cui dev'essere applicato (residenziale, scolastica, sanitaria, ecc.), al comportamento nell'uso in base alle esigenze dello spazio che concorre a costruire. In ogni modo il singolo componente deve nel caso più generale possedere capacità di prestazione riferite alla sicurezza statica, all'isolamento termico e acustico, all'impermeabilità, al comportamento sotto l'azione dei fluidi e della luce, alla durata, al comportamento al fuoco, all'integrabilità con gli impianti, alla sicurezza sul lavoro, ecc.

L'insieme coordinato di componenti modulari viene definito attraverso un approccio metaprogettuale che ne considera le potenzialità di collocazione in più tipi edilizi di una stessa categoria (per es. partizioni interne spostabili per uffici) o in più categorie di edifici (per es. solai a trance utilizzabili nelle tipologie residenziali, scolastiche e sanitarie). Al conseguimento di tali potenzialità dovrebbe corrispondere la possibilità da parte del progettista (dello specifico organismo edilizio), di scegliere tra gli insiemi di componenti coordinati disponibili sul mercato quelli più congeniali alle proprie finalità, ovviamente impostando la progettazione secondo il coordinamento dimensionale modulare per la collocazione dei componenti. Tutto ciò indica evidentemente che la tendenza di questa modalità produttiva è verso il ''ciclo aperto'' in senso assoluto (cioè ogni insieme coordinato dovrebbe risultare applicabile in tutti i tipi edilizi); ma è altrettanto evidente come quest'obiettivo sia irraggiungibile, poiché il componente, per quanto ''neutro'' possa essere, presuppone sempre un legame con una configurazione, con un procedimento costruttivo, con una funzione.

La p. di ''componenti coordinati'', sviluppatasi a partire dagli anni Sessanta, ha investito dapprima i vari elementi di fabbrica indipendentemente l'uno dall'altro e poi, a seguito di un'operazione di coordinamento generale, più elementi di fabbrica tra loro integrati attraverso una produzione di un'unica ditta o di più ditte tra loro correlate. Tutto ciò ha condotto a ipotizzare che con un coordinamento dimensionale modulare, diffuso e praticato in modo sistematico, si potesse raggiungere una ''p. aperta'' in senso globale, tale da consentire la massima libertà produttiva e progettuale; obiettivo utopico che tuttavia ha avuto una validità a livello ideologico per contrapporsi all'appiattimento culturale conseguente a una supremazia della philosophy implicita nell'industrializzazione ''a ciclo chiuso''. In effetti la produzione di insiemi coordinati è quella che ha maggiormente inciso sullo sviluppo e l'innovazione nell'ambito dell'edilizia industrializzata, tanto a livello di ricerca e sperimentazione quanto a livello realizzativo e normativo.

Negli anni Sessanta-Settanta fu intenso il dibattito culturale e furono numerosi gli studi teorici e applicati, molteplici le ricerche progettuali a carattere sperimentale e le iniziative per avviare produzioni di componenti specifici, frequenti le attività promozionali di enti pubblici e privati. Per quanto riguarda l'Italia basterà ricordare: il Corso di cultura e di aggiornamento in industrializzazione edilizia e prefabbricazione organizzato dall'istituto di Architettura della facoltà di Ingegneria di Bari (1963-64); il Ciclo di conferenze sui problemi dell'industrializzazione edilizia tenuto presso la facoltà di Ingegneria di Cagliari (1967) con la partecipazione oltre che di esperti del settore anche di storici dell'architettura e dell'arte come M. Manieri Elia e G. C. Argan; il Progetto Finalizzato Edilizia promosso dal CNR (1968-72) e diretto da Maggi; gli studi e l'incisiva attività di sistematizzatore di G. Ciribini svolta in qualità sia di docente universitario che di direttore del CRAPER (Centro per la Ricerca Applicata ai Problemi dell'Edilizia Residenziale) e dell'AIRE (Associazione Italiana di Ricerca per l'Edilizia); gli studi di E. Frateili nell'ambito della progettazione integrale e di P. L. Spadolini e G. Dorfles sull'industrial design; le iniziative prese dall'AIP (Associazione Italiana Prefabbricazione per l'edilizia industrializzata); le progettazioni del gruppo Oliveri e Ass. con il sistema presentato ai concorsi CECA e per il distretto Sud di Bratislava; le ricerche sull'edilizia ''a ciclo aperto'' promosse per sistemi di componenti in laterizio dal Sinpre S.p.A. e per sistemi di componenti in acciaio dall'Italedil effettuate dal gruppo M. Grisotti, E. Mandolesi, G. Tardella.

Attualmente la produzione per componenti coordinati, abbandonato qualsiasi obiettivo totalizzante, è profondamente inserita nel processo edilizio, costituisce elemento fondamentale per i sistemi costruttivi misti e può inserirsi in una certa misura anche nella p. ''artigianale'' industrializzata, quanto più la sua produzione può avvenire in serie analogica, su commessa, come già detto per la produzione di componenti isolati. I tipi di insiemi di componenti coordinati d'impiego corrente e prodotti nel rispetto più o meno puntuale del coordinamento dimensionale su basi internazionali sono:

a) per lo scheletro portante (in cemento armato o in acciaio): i sistemi monopiano (per es. per edifici industriali), in genere integrati con la parte resistente delle chiusure orizzontali (per es. la produzione ISOCELL su progetto di A. Mangiarotti; fig. 32) e anche con le chiusure verticali (per es. la produzione SACIE); i sistemi pluripiano (per edifici residenziali e anche ad altre destinazioni d'uso) in genere in cemento armato e di solito integrati con la parte resistente delle chiusure orizzontali (da citare il sistema ideato da W. Döring nel 1967 e il sistema italiano Structurapid; fig. 33); non mancano esempi di scheletro portante in alluminio (per es. lo svedese System Byg A. A. Kirkerey);

b) per le chiusure orizzontali: i sistemi a trance di solette alleggerite in cemento armato o latero-cementizie (per es. in Italia la produzione RDB), ad assito in gasbeton (per es. la produzione tedesca Hebel), a tegoloni in cemento armato; i sistemi per coperture a pannelli sandwich in lamiera e polistirene o poliuretano espanso, a ordito di aste componibili preassemblate a piè di fabbrica (per es. il sistema Mero); i sistemi per controsoffitti in materiali leggeri attrezzabili agli impianti che possono essere integrati con sistemi di partizioni interne spostabili; i sistemi per sovraimpalcati attrezzabili con gli impianti;

c) per le chiusure verticali portate: i sistemi a pannelli ''pesanti'' (in calcestruzzo o latero-cementizi) o ''leggeri'' (in materiali metallici, lignei, plastici) comprensivi o non di serramenti; i sistemi di facciata continua (curtain wall; fig. 34), del tipo opaco, trasparente o ''tutto-vetro'';

d) per le partizioni interne: i sistemi di tramezzature spostabili o mobili per uffici, in genere comprensive di porte e attrezzabili agli impianti (i primi per i quali si è adottato un coordinamento dimensionale modulare ai fini del migliore inserimento nell'edilizia sia vecchia che nuova); i sistemi di pareti attrezzate per arredo, che rappresentano l'anello di congiunzione tra la produzione industriale di elementi costruttivi tradizionalmente intesi per le costruzioni e la produzione seriale di mobili.

A conclusione dell'esame dei tre modelli di produzione tipici del prefabbricare è senz'altro possibile affermare che la p. artigianale in senso tradizionale è ormai superata, anche se permane in alcuni particolari contesti operativi, mentre la p. industriale e la p. ''artigianale'' industrializzata costituiscono riferimento sostanziale, anche se si riscontra che sia quest'ultima sia la p. industriale di componenti (isolati e coordinati) prevalgono sulla p. industriale di opere complete. Questo si verifica per il ricorso preferenziale ai sistemi misti, cioè sistemi in cui sono compresenti lavorazioni in opera o a piè d'opera (ormai organizzate e programmate con criteri industriali) e montaggio di pezzi prefabbricati in stabilimento. Questa modalità operativa risulta più flessibile sotto tutti i punti di vista (architettonico, costruttivo ed economico) ed è anche conseguente all'avvento delle macchine ''intelligenti'' che consentono produzioni su commessa; tutto ciò svincola la p. industriale di componenti da una coordinazione modulare totalizzante e dalle invarianti morfologiche, avvicinandola così alla produzione di pezzi ad hoc tipica della p. ''artigianale'' industrializzata. In pratica si manifesta sempre più l'integrazione tra i vari modi di prefabbricare e tra questi e le lavorazioni in opera: si agisce a livello industrializzato tanto in stabilimento quanto in cantiere. Quest'integrazione sarà esaltata in un imminente futuro, quando sarà pratica corrente l'impiego del robot nel settore edilizio; già si hanno i primi segnali: la realizzazione robotizzata in Giappone di pannelli facciata in stabilimento; il robot programmato della Schimizu per spruzzare materiale isolante; il robot programmato della Kajima per la posa delle armature del cemento armato; il robot ''intelligente'' Terregator (USA), veicolo a 6 ruote per movimentazioni all'aperto. Infine è del 1994 la notizia che i Giapponesi hanno sperimentato la costruzione di un edificio costituito da componenti prefabbricati in officina e poi montati in opera con un robot: le macchine dell'ultima generazione s'inseriranno pariteticamente nel cantiere ex tradizionale e nello stabilimento industriale. Ciò rende di fatto superata la distinzione sia tra industrializzazione ''a ciclo chiuso'' e ''a ciclo aperto'' sia tra p. industrializzata in stabilimento e industrializzazione del cantiere.

Una volta considerati i modelli produttivi specifici del prefabbricare è importante rilevare come la p. industrializzata abbia influito sulla struttura del processo edilizio tanto a livello di procedure progettuali e di controllo quanto a livello di conduzione imprenditoriale. Per quanto concerne la progettazione, l'avvento del componente prefabbricato a livello industriale, conformato e configurato non soltanto a monte dell'esecuzione dell'opera da realizzare ma addirittura prima della concezione dell'opera in cui dev'essere inserito, ha condotto sul piano operativo a una diversa articolazione e controllo delle procedure progettuali e sul piano concettuale a valutarne l'impatto in termini di concezione architettonica. Sul piano procedurale, quindi a livello di obiettivi puramente strumentali e operativi, è ormai codificato, per il componente, un iter progettuale specifico nell'ambito della produzione industriale per esigenze di carattere tecnologico e ai fini della fattibilità costruttiva; iter che comunque dev'essere ricondotto nell'imprescindibile processo di sintesi insito nella progettazione dell'organismo edilizio intesa in termini di architettura. Il sussistere di momenti temporalmente e spazialmente diversificati tra progettazione del componente e progettazione dell'organismo edilizio, è una dicotomia apparente soltanto se l'azione-progetto rimane integra nella sua continuità concettuale. I due momenti vanno intesi come parte integrante di un procedimento a feed-back.

Un processo progettuale unitario dovrebbe essere obiettivo implicito in ogni produzione industriale di opere complete ''a catalogo'' o ''per programmi'' (in sostanza nell'ambito della produzione ''a ciclo chiuso'') poiché la p. totale di uno specifico organismo edilizio è caratterizzata dalla concezione contestuale dei componenti prefabbricati che sono la ragion d'essere della sua fattibilità; in questo caso la conduzione della progettazione avviene nell'ambito della ditta produttrice e quindi in una sfera prettamente industriale.

Nell'ambito della p. ''artigianale'' industrializzata, in genere applicata ai sistemi costruttivi misti, l'unitarietà del processo progettuale può essere conseguibile dato che la p. del componente avviene ad hoc in base al progetto dell'opera da realizzare e le esigenze per la fattibilità costruttiva del componente possono essere soddisfatte attraverso un lavoro di équipe tra l'architetto dell'opera e il tecnologo dell'impresa produttrice dei pezzi; in questo caso la responsabilità della conduzione del processo progettuale è dello studio di architettura tradizionalmente inteso; in tal senso aveva operato, come si è detto, Paxton nel 1851 per il Palazzo di Cristallo e oggi operano architetti come Piano, Foster, Rogers in contatto diretto con la produzione industriale, spesso con l'apporto di engineering consulting (come per es. il Gruppo Ove & Arup).

In caso di produzione industriale di componenti isolati o coordinati è indiscutibile che il componente è concepito a monte della progettazione dell'organismo in cui dev'essere inserito. Quindi il recupero della continuità del processo progettuale non può che essere ottenuto affidandolo alla sensibilità culturale e artistica di due figure, il designer del componente e il progettista dell'opera, anche se operano in momenti distinti: il primo deve porsi nell'ambito di un approccio metaprogettuale inserito nelle istanze e nelle tendenze architettoniche del momento; il secondo dev'essere culturalmente consapevole di poter effettuare libere e valide scelte estetiche pur utilizzando elementi con valenze formali già acquisite, nell'ambito di un approccio progettuale globale. Per fare un esempio del tutto elementare, come si può progettare una bella stanza da bagno utilizzando apparecchi ideati autonomamente da un buon designer, per es. Ponti, così si può operare utilizzando curtain walls prodotti in serie, per es. progettati da Piano.

Si può pertanto rilevare, da quanto sopra esposto, che l'azienda produttrice di prefabbricati deve, per tutti i casi suddetti, prevedere nell'ambito della propria organizzazione un apposito apparato tecnico che affronti la progettazione del componente secondo i criteri dell'industrial design e deve essere in grado di mettere a punto prototipi su cui effettuare le prove delle capacità prestazionali, prima d'iniziare la produzione sia ad hoc che in serie. Gli studi di architettura, da parte loro, debbono operare secondo i criteri della progettazione integrale, consapevoli oltre che degli aspetti strettamente architettonici anche del processo tecnologico e delle istanze socio-economiche.

Quanto poi all'impatto che la p. industrializzata ha prodotto in termini di architettura, si è constatato che si sono avuti esiti positivi quando non è stata considerata un mezzo per dare una risposta puramente quantitativa alla domanda sempre più pressante del bene edilizio, sulla base di interessi prettamente economico-produttivi e di una visione esclusivamente tecnologica; perciò oggi vi è una rinnovata convinzione che garanzia della qualità dei risultati architettonici e urbanistici si può avere soltanto attraverso la rivalutazione, nell'ambito del processo edilizio, del progetto come momento creativo di sintesi architettonica senza farlo scadere a semplice strumento operativo al pari di quelli prettamente tecnologici, procedurali e normativi.

Il controllo della qualità intrinseca del componente industrializzato ha costituito e costituisce tuttora uno degli aspetti più rilevanti nell'ambito del processo edilizio, poiché i procedimenti costruttivi basati sull'impiego di componenti industrializzati di serie hanno spostato l'acquisizione delle capacità di prestazione all'''esterno'' del cantiere.

Gli elementi costruttivi realizzati in cantiere acquistano le capacità di prestazione in opera grazie al lavoro a regola d'arte delle maestranze, sotto la guida e con la responsabilità del direttore di cantiere e del direttore dei lavori; il collaudatore ne verifica la qualità in corso d'opera o a costruzione ultimata. Il pezzo prefabbricato in stabilimento, invece, acquisisce le capacità di prestazione al di fuori del cantiere e, nel caso di prodotto seriale standard, le acquisisce addirittura prima del concepimento del progetto delle opere in cui dev'essere inserito; tali capacità quindi debbono essere verificate nell'ambito della produzione in stabilimento. In pratica le ditte produttrici si debbono assumere precise responsabilità nei confronti dell'impresa di costruzione utilizzatrice e, di conseguenza, si determina un diverso grado di responsabilizzazione del direttore di cantiere e del direttore dei lavori, fermi restando i tradizionali controlli in opera da parte del collaudatore. Inoltre si è constatato che non è sufficiente la verifica della qualità intrinseca del componente, ma è necessaria anche quella dell'insieme che il componente stesso concorre a formare (è il caso dei componenti coordinati finalizzati alla realizzazione di parte o di un intero elemento di fabbrica). In pratica si può dire che il controllo della qualità dev'essere effettuato alle varie scale: di sub-componente, di componente e di entità realizzata in cantiere.

Quando si è diffuso l'impiego di elementi prefabbricati prodotti industrialmente in stabilimento, in un primo momento non si è dato luogo a un reale controllo preventivo delle capacità di prestazione e si è dovuto, quindi, constatare che sovente nella fase cantieristica, se non addirittura in fase di esercizio, si riscontravano gravi carenze funzionali imputabili non alle lavorazioni in cantiere bensì alla mancanza di un efficace autocontrollo preventivo da parte delle ditte produttrici e talvolta all'impiego di nuovi materiali non sufficientemente sperimentati e alla crescente complessità nella conformazione dei componenti stessi. È stato pertanto necessario l'intervento normatore degli organi statali e regionali preposti all'edilizia. È ormai consolidata procedura degli enti preposti all'edilizia (per es. in Italia l'UNI con la Commissione edilizia presieduta da G. Turchini) emanare norme riguardanti il controllo della qualità del componente nel momento della produzione in stabilimento, nella fase di utilizzazione in cantiere e in esercizio (ivi compresa la manutenzione); in particolare vengono predisposte norme specifiche anche per tipo di produzione e/o di componente, nonché per tipologie edilizie (residenze, scuole, ecc.).

Oggi mettere in commercio un componente che abbia qualifica di ''materiale'' con possibilità d'impiego in uno o più procedimenti costruttivi e in una o più tipologie edilizie comporta, da parte dell'industria costruttrice, fornire una documentazione che certifichi la qualità del prodotto: per rendere note all'utilizzatore le capacità e le caratteristiche di prestazione e le modalità d'impiego si predispone e diffonde per ciascun tipo di componente, sia questo ''isolato'' o ''coordinato'', una scheda tecnica con tutti i dati per dimostrarne le qualità di comportamento in esercizio e di durata, le modalità di trasporto, di stoccaggio, di posa in opera e di manutenzione, ecc.; per maggiormente garantire la qualità del prodotto l'industria produttrice richiede agli organi competenti il certificato d'idoneità (agrément technique, rilasciato in Francia dal CSTB e in Italia dall'ICITE/CNR), come certificazione ufficiale dell'avvenuto controllo preliminare sulle capacità di prestazione e d'impiego che possiede il componente o l'insieme coordinato di componenti.

A livello di conduzione della realizzazione delle opere, la p. ha comportato modificazioni tanto più sostanziali quanto più è elevato il grado d'inserimento dell'imprenditoria industriale nella gestione del cantiere.

A questo proposito gli scenari operativo-gestionali oggi ricorrenti sono:

a) la p. è praticata in proprio, generalmente in cantiere, dall'impresa costruttrice, che ne assume direttamente l'onere organizzativo e produttivo, nonché la piena responsabilità della qualità; si tratta di uno scenario operativo elementare a livello gestionale, tipico dell'attività artigianale del passato ma riscontrabile anche oggi, dato che l'impresa tradizionale si è trasformata organizzando il cantiere sul modello industriale; ovviamente l'impresa deve disporre di impianti e attrezzature di p., con l'onere di specifici investimenti; attualmente la p. in proprio si esplica per realizzare opere in cemento armato e nell'ambito di sistemi misti (il cui antesignano è stato P.L. Nervi);

b) la p. è praticata da un'imprenditoria esterna; il costruttore gestisce direttamente la realizzazione dell'opera ma è semplice utilizzatore dei pezzi prefabbricati forniti in cantiere in quanto materiali di cui provvederà al montaggio sotto la propria responsabilità; attualmente è uno degli scenari più ricorrenti dato che la p. di una crescente quantità di componenti edilizi avviene fuori opera in stabilimenti industriali; in questo caso l'appaltatore dell'opera deve avere garanzia, da parte della ditta prefabbricatrice, della qualità del prodotto, pur rimanendo responsabile della qualità dell'intera opera; tutto ciò avveniva anche in passato, per es. per i serramenti e per le incavallature lignee o in ferro, oggi è esteso ai più vari elementi costruttivi, per es. trance di solaio, travi in cemento armato, pannelli-facciata, blocchi-ambiente bagno, ecc.;

c) la p. e il montaggio sono praticati da un'imprenditoria esterna, la quale è responsabile nei confronti dell'appaltatore: si perviene al subappalto della parte prefabbricata dell'opera; in questo caso l'impresa appaltatrice si affranca dalla conduzione diretta delle parti prefabbricate, restando responsabile della qualità dell'opera nel suo insieme, col vantaggio di snellirsi sul piano tecnico-organizzativo e di evitare investimenti in impianti e attrezzature; in caso di p. a piè d'opera deve comunque garantire la disponibilità di aree per una razionale localizzazione delle attrezzature (eventualmente dell'officina foranea) e dei mezzi per la movimentazione; questo scenario, che è una variante o meglio un'evoluzione del precedente, è oggi ricorrente in quanto le industrie sono ormai in grado di offrire la fornitura e il montaggio di interi elementi di fabbrica (dallo scheletro portante ai pannelli-parete portanti, dai solai alle grandi coperture metalliche, dai pannelli facciata al curtain wall, dalle tramezzature alle scale); in particolare per le opere in cemento armato l'industria è in grado di offrire la p. sia fuori opera che in cantiere;

d) l'appalto è assunto da un'industria di p., produttrice di sistemi coordinati di elementi di fabbrica o addirittura di una specifica tipologia edilizia (per es. scuole), che prende in toto la conduzione del cantiere e la responsabilità dell'opera, dando in subappalto a una o più ditte i manufatti da realizzare in opera, nonché le opere di completamento e impiantistiche; in questo scenario è l'imprenditoria industriale a gestire l'intera operazione realizzativa, mentre la tradizionale impresa costruttrice diviene fornitrice d'opera con ruolo subordinato. Il processo attuativo classico in tal modo si ribalta con inversione dei ruoli: il settore della produzione dei materiali (il tradizionale ''fornitore'') diviene primo attore, mentre l'impresa edile (il tradizionale ''costruttore'') diviene nel migliore dei casi attore comprimario, perdendo comunque la gestione della fabbrica. Tutto ciò sposta l'ottica imprenditoriale: mentre il costruttore tradizionale vede raggiunti al tempo stesso convenienza economica e soddisfazione professionale nell'individuazione del progetto e del procedimento costruttivo più congruente con le aspettative della committenza, invece l'industria di prefabbricati inevitabilmente è portata a privilegiare la commercializzazione dei propri prodotti rispetto alle esigenze specifiche della committenza e a un appropriato inserimento dell'opera nel contesto ambientale. Questo scenario è specifico di interventi ''chiavi in mano'' relativi a programmi edilizi di una certa entità, in genere promossi dalla committenza pubblica;

e) gestione paritetica dell'appalto tra impresa costruttrice tradizionale e imprenditoria industriale, attraverso la costituzione di un consorzio o altre forme associative temporanee; questo scenario, che annulla o almeno attenua notevolmente la distorsione di obiettivi di cui si è precedentemente detto, si riscontra principalmente quando l'appalto riguarda la realizzazione di grandi opere pubbliche o private, anche se non mancano esempi relativi a opere di piccola entità, purché di tipo iterato (prassi tipica in Gran Bretagna intorno agli anni Sessanta, in cui ditte produttrici dello scheletro in acciaio si associavano con altre imprese che provvedevano alle opere di completamento);

f) l'industria di p. produce in serie e pone sul mercato unità abitabili pronte all'uso (cellule spaziali, mobile-homes, ecc.), da trasportare dallo stabilimento al luogo d'insediamento (permanente o temporaneo) o addirittura semoventi; questo scenario rappresenta l'''espropriazione'' da parte dell'industria del processo attuativo dell'opera edilizia, facendo scomparire di fatto la ''fabbrica'' come momento e luogo del costruire, nonché la figura tradizionale del costruttore; è tipico dell'industrializzazione più spinta mutuata dall'industria automobilistica, ma oggi è circoscritto alla produzione di unità d'impiego particolare (per es. residenze temporanee per vacanze o unità di pronto intervento in caso di calamità naturali).

L'esemplificazione, non esaustiva, dei possibili scenari in cui interviene la p. conferma quanto detto in precedenza sull'avvenuto mutamento del modello di gestione del processo edificatorio: dalla pura convenienza a livello di conduzione del cantiere della classica impresa costruttrice si passa a quella dettata dalle leggi di mercato proprie della produzione manifatturiera industriale. Pertanto non è detto che il ricorso alla p. possa risultare sempre meno costoso della realizzazione in opera e garantire comunque la qualità. Ciò dipenderà dallo scenario in cui si opera, se il prodotto edilizio è finalizzato al soddisfacimento delle aspettative della committenza più che al semplice profitto industriale. Esempio di un risultato qualificato per la committenza è rappresentato dallo scenario difficilmente oggi riproducibile in cui operava Nervi: il sistema progetto-esecuzione-conduzione era imperniato sulla p. artigianale a piè d'opera, come razionalizzazione del cantiere tradizionale, ed era gestito, in modo globale e sintetico, da un attore unico che ottimizzava in modo paritetico le convenienze ai vari livelli.

In ultima analisi, ciò che si spera di ottenere con la p., sia artigianale che industriale, è una realizzazione che, rispetto a quella in opera, sia più rapida, di pari qualità, e possibilmente di costo pari se non inferiore. A questo proposito ricorrere alla p. che prevede il trasferimento della realizzazione dei pezzi in stabilimento non significa implicitamente diminuzione dei costi, ma può essere scelta obbligata per un migliore sfruttamento delle macchine, per consentire un lavoro più agevole alle maestranze, per ovviare alla mancanza di manodopera, per convenienza puramente economica della produzione o dell'impresa costruttrice, nonché per attributi intrinseci del luogo e/o dell'edificio da realizzare: al committente in definitiva può risultare anche di prezzo più elevato rispetto alla costruzione in opera.

Prefabbricazione e industrializzazione nelle opere infrastrutturali. - I ponti che furono realizzati in Inghilterra con elementi in ghisa verso la fine del 1700, come il ponte sul Severn a Coalbrookdale e quello sul Wear a Sunderland, costituiscono con i loro ''pezzi'' prodotti in officina il primo segnale del prossimo avvento dell'industrializzazione. Nel 1800 la costruzione dei ponti in ferro codificò i momenti specifici di una p. su basi industriali, ponendosi l'obiettivo di ridurre il numero dei pezzi compatibilmente con il peso e con l'ingombro, nonché di definire precise modalità di montaggio. S'individuano così i tre tipi di montaggio, ormai classici: con ponte di servizio, per varo, a sbalzo.

Il ponte Britannia (fig. 35), realizzato nel 1850 sullo stretto di Menai in Gran Bretagna, con quattro campate da 126 m e due da 70 m, è il primo esempio di ponte ''a cassone'' transitabile, costituito da elementi in lamiera di ferro dolce (prodotta per la costruzione di navi) con giunzioni chiodate (da quel momento si afferma e si diffonde il sistema della chiodatura). Furono previste officine presso il cantiere, e vennero usati per il trasporto e il sollevamento delle campate tubolari (peso di 1285 t) pontoni e martinetti idraulici. Nel 1826 T. Telford costruì i primi due ponti in ferro del tipo ''sospeso'' con catene costituite da elementi rigidi incernierati (bielle); salvo le spalle e le pile in muratura, tutto il resto era prefabbricato in officina per poi essere montato meccanicamente in opera. Sempre nel 1800 venne introdotto per i ponti sospesi il sistema dei cavi metallici ''filati'' sul posto: anziché usare il sistema europeo a funi metalliche preventivamente attorcigliate, J. A. Robling usò il nuovo sistema nel costruire il ponte Grand Trunk sul Niagara (1855). Il grandioso ponte costruito nel 1889 sul Firth of Forth in Scozia (lungo 2,5 km; luci di 521 m formate da una travatura di 107 m appoggiata su due mensole di 207 m ciascuna, sostenute da piloni; procedimento di montaggio realizzato ''a sbalzo''), oltre a impiegare un nuovo materiale, l'acciaio, costituisce esempio di un imponente apparato produttivo imperniato sulla p. e sull'industrializzazione del cantiere. Le lavorazioni dei pezzi furono eseguite in grandi officine localizzate a South Queensferry, che occupavano con gli annessi un'area di circa 20 ha. La dotazione in mezzi era eccezionale per l'epoca: quattordici chiatte a vapore, lance e imbarcazioni, ventidue gru a vapore, dodici gru idrauliche, trentotto azionate a mano, ventotto motori singoli e doppi per macchine da officina, per lavori idraulici, per comprimere l'aria, per l'illuminazione elettrica, per il pompaggio, ecc.; forni a gas per il riscaldamento delle lamiere, una pressa idraulica di 2000 t per la piegatura, trapani multipli, ribaditrici idrauliche, ecc.

Sulla realizzazione di ponti e gallerie nel 19° secolo incisero da un lato i progressi tecnologici della siderurgia (si passò dalla ghisa al ferro dolce e poi all'acciaio), dall'altro la disponibilità di nuove fonti di energia unitamente alla ideazione di nuove macchine. Per gran parte del secolo la principale fonte di energia fu il vapore con il quale si poterono azionare macchine motrici, gru Goliath, gru scozzesi, scavatrici, elevatori e argani, nonché trapani, limatrici, perforatrici pneumatiche, sonde idrauliche, macchine idrauliche (pompe, caricatori, battipali, presse, ribaditrici portatili per chiodatura). Alla fine del secolo comparvero i primi motori elettrici.

Nel 1900 elementi chiodati in acciaio, per es. travi di 111 m, vennero prefabbricati in Gran Bretagna e spediti a Kotri per realizzare un ponte sull'Indo; in effetti in quel periodo era prassi normale che membrature chiodate venissero predisposte in Europa occidentale o negli USA per essere trasportate nei paesi sottosviluppati. L'avvento della saldatura nei ponti si ebbe negli anni Venti e consentì notevoli risparmi sia di materiale sia di tempo. L'altra novità fu l'introduzione negli anni Quaranta dell'unione mediante bulloni ad alta resistenza lavoranti per attrito. Nel 1956 si realizzò il primo ponte ''incollato'', cioè per le cui unioni si fece ricorso a colla poliestere indurita a freddo.

Oggi ponti e viadotti in acciaio sono espressione corrente delle possibilità offerte dalla p. sia in stabilimento che in officina foranea, sempre accompagnata da un'elevata meccanizzazione del cantiere per le operazioni di trasporto e montaggio. Questo vale per tutti i procedimenti costruttivi che prevedono sia l'impiego totale dell'acciaio, sia l'integrazione di questo con il cemento armato. A tale proposito si fa rilevare che nella generalità dei casi vengono realizzati in cemento armato i piloni a sostegno delle membrature metalliche, mentre l'integrazione vera e propria si ha quando si adotta la soletta gettata in opera compartecipante con le travature prefabbricate in acciaio (v. anche ponte, in questa Appendice).

I ponti e i viadotti stradali e ferroviari si caratterizzano morfologicamente e costruttivamente secondo le modalità con cui sono interconnessi l'insieme costituente l'impalcato e gli elementi di sostegno.

Tali modalità possono essere così schematizzate:

a) travature appoggiate o continue su piloni, conformate a traliccio, piene o a cassone, con via di passaggio superiore o inferiore e talvolta ambedue; esempi recenti sono: il ponte ferroviario sulla Drava (Austria), con travata continua a sezione scatolare interamente metallica (5 campate: 78+87+96+87+78 m; peso 3,6 t/m); il ponte ferroviario a doppio binario sul braccio sud dell'Elba ad Amburgo (1976), con travatura reticolare a ''T'' rovescio con via inferiore (3 campate: 107,4+125,6+107,4 m);

b) travature strallate, cioè impalcati come i precedenti ma sorretti da tiranti inclinati a loro volta sostenuti da appositi piloni; si menzionano i due ponti per traffico stradale e ferroviario realizzati nel 1971-76 sui due rami del Rio Paraná, Argentina (3 campate: 110+330+110 m);

c) travature sospese con tiranti verticali a cavi portanti, sostenuti da alti piloni e ancorati a terra con blocchi di calcestruzzo; ne è esempio il ponte Giovanni da Verrazzano a New York (1964), con luce di 1298 m;

d) travature sorrette da archi, a via superiore o inferiore; da citare i sistemi Langer e Nielsen, ambedue basati sull'accoppiamento di due incavallature sorreggenti la via di transito, ciascuna formata da un arco sottile generalmente parabolico e da una trave sufficientemente rigida collegati da tiranti, con la differenza che il primo sistema presenta gli archi a giacitura verticale e il secondo invece li ha a giacitura inclinata con tessitura triangolata dei tiranti in modo da avere un funzionamento delle incavallature come travi reticolari paraboliche; il sistema Nielsen ha caratteristiche di maggior leggerezza, tanto che per luci non elevate in Giappone sono state trasportate con chiatte intere campate prefabbricate.

Ai fini di una p. standard le società ferroviarie e quelle autostradali individuano soluzioni tipo delle travature in rapporto alle luci e al funzionamento statico; per es. le Ferrovie dello Stato italiane in caso di impalcati a travi semplicemente appoggiate prevedono travi gemelle per luci di 20 m, travi a parete piena a via superiore o inferiore per luci di 40 m, travi reticolari a maglie triangolari per luci di 30÷120 m.

Occorre anche ricordare, in quanto frutto di un elevato grado di p. industriale, la produzione di ponti interamente in acciaio suscettibili di rapido montaggio e smontaggio, quindi di rapido spostamento, che si ebbe in Gran Bretagna a partire dagli anni Trenta con il sistema Cllender-Hamilton predisposto per la costruzione della Rowanduz Road nel Kurdistan (i componenti erano fatti serialmente in fabbriche inglesi specializzate in tralicci metallici per linee elettriche, e venivano poi inviati sul posto). Ma il sistema più famoso è quello Bailey, sempre inglese, messo a punto durante la seconda guerra mondiale e universalmente adottato dagli alleati per la sua flessibilità di impiego: con l'unità base, costituita da un'intelaiatura di elementi in acciaio saldati sollevabile da sei uomini, si possono fare rapidamente travi a traliccio che assemblate formano ponti diversi in lunghezza, altezza e larghezza (nei mesi precedenti lo sbarco in Normandia ne furono prodotte 696.544 unità).

Se nel 19° secolo i ponti metallici sono stati la principale testimonianza dell'affermarsi dell'industrializzazione nelle opere infrastrutturali, nel 20° secolo li affiancano massicciamente le opere in cemento armato. In effetti, come lo sviluppo delle ferrovie nel 1800 ha comportato il ricorso alla p. e al tempo stesso alla meccanizzazione del cantiere per realizzare ponti impiegando il ferro e macchine con motore a vapore, così lo sviluppo della rete viaria automobilistica, in particolare autostradale, nel 20° secolo ha prodotto un massiccio impiego della p. accompagnato da una meccanizzazione sempre più spinta del cantiere, utilizzando per ponti e viadotti non soltanto l'acciaio ma anche e soprattutto il cemento armato, le cui tecniche si perfezionano proprio in questo periodo (basti pensare alla precompressione).

La prima nazione a porsi il problema dell'adeguamento della rete autostradale è stata la Germania, che già nel 1929 diede inizio alla costruzione dell'autostrada Düsseldorf-Bonn e negli anni Trenta realizzò 4000 km di autostrade. Soltanto nel dopoguerra, negli anni Cinquanta, gli altri paesi europei incominciarono ad attuare importanti programmi di opere autostradali. Fattore determinante per l'attuazione di tali programmi fu il notevole progresso tecnologico avvenuto tra gli anni Trenta e Cinquanta nel campo delle macchine per i movimenti di terra e delle macchine per realizzare le pavimentazioni stradali (la macchina Barber-Green Finisher per stendere il manto superficiale fu ideata negli USA nel 1937) e, negli anni successivi, quello nel campo della p. in cemento armato e dell'industrializzazione dei getti.

Per quanto riguarda le opere in cemento armato si ricorda che il primo ponte in questo materiale, che aveva luce modesta (16 m), si fa risalire al 1875; mentre il primo di un certo rilievo si ritiene sia quello di Chatellerault ad arco di 52 m di luce, realizzato nel 1898 su progetto di F. Hennebique; la precompressione dei ponti fu sperimentata e messa in pratica nel 1907 in Francia sulle due metà di un arco di 30 m, ma divenne pratica corrente soltanto negli anni Trenta; uno dei primi ponti in cemento armato precompresso per le ferrovie, costruito con elementi d'impalcato prefabbricati in Gran Bretagna per la London Midland and Scottish Railway, era a 4 campate da 9 m; nel 1949 E. Freyssinet realizzò un ponte sulla Marna di 74 m di luce in elementi di calcestruzzo prefabbricati effettuando la messa in tensione in opera.

Esaminando la produzione degli ultimi decenni di opere infrastrutturali in cemento armato, in particolare i viadotti, si può avere un'idea dell'evoluzione che hanno subito nel cantiere i sistemi di p. e le apparecchiature meccanizzate, nonché constatare che nella quasi totalità dei casi il connubio tra p. e meccanizzazione cantieristica è una costante inderogabile. Si constata anche che vengono indifferentemente utilizzate, a seconda delle convenienze tecnico-economiche, la p. parziale, quella totale e l'industrializzazione dei getti in opera; in ogni caso le dimensioni e il peso dei pezzi prefabbricati o dei casseri da impiegare, nonché particolari condizioni del contesto in cui si opera, implicano apparecchiature di trasporto (orizzontale e verticale) e di sostegno provvisorio altamente meccanizzate, spesso progettate e realizzate ad hoc. Per quanto riguarda la p., soluzione prevalente è l'uso di un'officina foranea nei pressi dell'opera da realizzare, a causa della grandezza e del peso dei pezzi, per cui è impossibile o non conveniente il trasporto autostradale. La p. in stabilimento si applica per ponti, cavalcavia e viadotti con campate di luce non elevata (max 25 m, compatibilmente con le norme del trasporto su strada), specificatamente per le travi d'impalcato e gli elementi di bordo-parapetto.

Il viadotto è un'opera infrastrutturale che, sia perché è basato sulla ripetizione di una medesima campata sia perché spesso dev'essere più volte riprodotto lungo un medesimo tracciato viario, ha attributi iterativi tali da rendere estremamente conveniente il ricorso tanto alla p. quanto all'industrializzazione dei getti impiegando casseri unificati. La p. parziale è volta essenzialmente alla realizzazione dell'impalcato del viadotto, costruendo in opera gli elementi di sostegno (pile, ritti, cavalletti, ecc.) e di norma le fondazioni (anche se non mancano esempi di p. in sito, come nel caso dell'imponente viadotto sulla laguna di Maracaibo in Venezuela, progettato da R. Morandi).

La p. dell'impalcato viene realizzata secondo tre modalità preferenziali (fig. 36), qui richiamate in ordine di decrescente difficoltà, in rapporto all'ingombro e al peso dei pezzi da montare:

a) a cassone precompresso, pari a un'intera campata, prefabbricato in officina foranea mediante cassero esterno fisso e controcassero esterno sfilabile (il tutto dotato d'impianto di maturazione a vapore), sollevato mediante martinetti idraulici per il trasferimento su un grande carrello scorrevole su rotaie spostato da un potente trattore e posto in opera mediante un complesso carro ponte autovarante; queste attrezzature sono necessarie dato il notevole peso delle trance in cemento armato; esempio significativo di questo sistema è il viadotto Montallese (Chiusi-Chianciano) sulla direttissima ferroviaria Roma-Firenze, per complessive 102 campate di 25 m, in totale circa 2,5 km;

b) a ''conci'', campata formata da più sezioni cave, prefabbricata in officina foranea disposta in genere su di un terrapieno presso una spalla del viadotto; un carro di varo su binari trasporta i ''conci'' sul luogo di posa, che avviene ''a sbalzo'' mediante speciali apparecchi di sollevamento; un primo esempio è il ponte-viadotto Mount Henry sul fiume Canning a Perth, in Australia, a travata continua su 10 appoggi (9 campate) di 688 m; ciascun concio (peso 110 t, larghezza 24,40 m, lunghezza 2,55, altezza 3,60), prefabbricato in officina foranea mediante complesse casseforme meccanizzate dotate di dispositivo per la maturazione a vapore (disarmo la mattina successiva al getto), viene posto in opera tramite una speciale impalcatura strallata (composta di 3 travi reticolari di 80 m) funzionante anche come gru per effettuare la traslazione, rotazione e posizionamento dei pezzi; una volta posizionati i ''conci'' di una campata, viene effettuata la precompressione; per il getto in opera delle pile s'impiega un'unica cassaforma metallica e per il completamento dell'impalcato una cassaforma scorrevole lungo il bordo; altro esempio è il viadotto di Somplago a Cavazzo Carnico (Udine), formato da 20 campate di travi appoggiate (lunghezza totale 1240 m), costituite da ''conci'' (del peso max di 75 t e tra loro solidarizzati da uno strato di resina epossidica) e precompresse per post-tensione;

c) a travi precompresse, prefabbricate in officina foranea o in stabilimento (in caso di luci non elevate e di opere da costruire vicine al luogo di produzione); le travi (in genere di forma a ''T'' con ala larga) posizionate con un carro di varo vengono affiancate creando l'impalcato (la solidarietà tra le travi è ottenuta con getto di completamento in opera); esempio di questo sistema è il complesso di viadotti per uno sviluppo di circa 3,6 km sulla strada a scorrimento veloce della Valle di Sangro da Ateleta alla stazione di Gamberale: l'officina foranea di circa 600 m2, dislocata all'inizio del lotto assegnato all'impresa, era dotata di attrezzature automatiche per la produzione di una trave al giorno (cassaforma a fondo autoportante con una fiancata semiribaltabile e l'altra a ribaltamento totale con sistema di manovra a comandi idraulici centralizzati) con impianto di maturazione a vapore centralizzato e zona per la tesatura in un'unica fase.

La p. totale (salvo getti di completamento in opera o l'esecuzione di opere in fondazione) viene applicata o nel caso di grandissime opere che giustificano, anche per particolari situazioni contestuali, la realizzazione non di una semplice officina foranea ma di un vero e proprio cantiere di p. in considerazione del numero dei pezzi da produrre, oppure nel caso di viadotti di modesta entità ricorrendo alla produzione industriale di stabilimento.

Per il primo caso un esempio è il viadotto sul mare per il collegamento tra Arabia Saudita e Baḥrein nel Golfo Arabico (1980) formato da una successione di ponti e di rilevati per una lunghezza rispettivamente di 12,5 km e di 11 km. Le campate standard sono di 50 m; solo il ponte n. 3 è di 3 campate con luci di 80+150+80 m. Sono stati prefabbricati: i ''conci'' alti 6 m assemblati fuori opera a formare i pali-pila di altezza 20÷35 m e peso max di 300 t; le travi a cassone del peso di 1250 t (poste in opera con una particolare imbarcazione dotata di una gru con portata max di 1400 t); i cassoni di fondazione; le spalle; i pulvini di sommità delle pile; i ''conci'' per le campate del ponte n. 3 (trasportati via acqua e sollevati con pontoni mobili e poi assemblati in opera per incollaggio mediante resine epossidiche e quindi assoggettati alla post-tensione). Il cantiere di p. si sviluppava su un'area di circa 800 × 300 m2, servita da una banchina portuale di 60 m, da una centrale di betonaggio della capacità di 100 m3 all'ora e da un impianto di dissalazione da 1250 m3 al giorno. Gli elementi prefabbricati venivano spostati in orizzontale per mezzo di una gru a portale (montata su un telaio mobile lungo 80 m) con altezza utile di 20 m, portata di 1400 t e da questa collocati sulle chiatte di servizio Ibis. Tutte le apparecchiature e le imbarcazioni sono state predisposte e costruite nei Paesi Bassi.

Per il secondo caso, cioè di p. totale ricorrendo alla produzione industriale di stabilimento, un esempio è il viadotto di 400 m (campate di 25 m) per la nuova strada di accesso alla miniera di Petralia Soprana (Palermo, 1982; fig. 37), i cui elementi prefabbricati sono: le travi precompresse dell'impalcato (pretensione), le pile e le spalle, ambedue formate da conci associati mediante precompressione verticale (post tensione).

Per quanto concerne l'industrializzazione dei getti, premesso che è in genere presente per la realizzazione di pile e spalle nelle opere in cui soltanto l'impalcato è prefabbricato (p. parziale), è d'impiego corrente per costruire l'intera opera infrastrutturale: le pile vengono gettate mediante casseri ''rampanti'', l'impalcato mediante casseri sostenuti da centine mobili autovaranti. L'industrializzazione dei getti è soluzione preferenziale per la costruzione di viadotti basati sullo schema statico della sequenza di telai zoppi, che mal si presta a una p. anche parziale.

Esempi di elevata meccanizzazione sono: il viadotto a Lagos (Nigeria) realizzato nel periodo 1976-80 (lunghezza 2922 m, con campata standard di 45 m e campate di ''navigazione'' di 60÷54 m; lunghezza rampe di accesso 4000 m circa) impiegando per il getto dell'impalcato un complesso e gigantesco sistema di centine mobili autovaranti a struttura portante superiore rispetto al piano dell'impalcato per le rampe, e a struttura portante inferiore per il viadotto vero e proprio (grazie a un'accurata organizzazione del cantiere è stato possibile effettuare più volte il ciclo completo di getti degli impalcati in soli 4 giorni); i viadotti Pontebba e Pietratagliata sulla strada statale n. 13 (1977-81; lunghezza totale 3 km circa; campate 80 di luce 28÷38 m), per i quali è stata impiegata una centina mobile, a struttura portante superiore, dotata di copertura e di chiusure laterali a costituire un'''officina mobile protetta'' dato il rigore del clima (ogni operazione era meccanizzata; ritmo di avanzamento 480 m2 alla settimana, pari a una campata).

Per i viadotti basati su di una sequenza di campate appoggiate si può adottare anche con l'industrializzazione dei getti il procedimento a ''conci'' (per es.: nel viadotto Savio sulla statale n. 3 bis Tiberina, 1981, si sono impiegate casseforme spostabili, dotate d'impianto di stagionatura a vapore, sostenute da un travone a traliccio mobile di 116 m, del peso di 500 t; nei viadotti Cerchiara, Costa Colle e Castello sull'autostrada A24, di 1721 m, si è fatto uso di un sistema a centina mobile formato da un travone scatolare, sottostante il piano dell'impalcato, dotato di attrezzature per la stagionatura a vapore e per la tesatura dell'armatura di precompressione).

Un breve richiamo è da fare alla costruzione delle gallerie, con l'avvento delle scavatrici a scudo rotante (inventate in Gran Bretagna da E. Bridge nel 1958), a conferma dell'elevata meccanizzazione raggiunta nel cantiere anche per questo tipo di opere (si citano per es. gli attuali lavori per il traforo della galleria sotto la Manica per il collegamento tra la Gran Bretagna e il continente); tuttavia si fa anche ricorso alla p., come testimoniato per es. dall'impiego di tubi prefabbricati in acciaio e calcestruzzo per realizzare gallerie sommerse, disponendoli in trincee scavate nel letto di un fiume.

È anche da ricordare per le opere idrauliche l'impiego di sistemi lift-stab per la realizzazione di serbatoi sopraelevati, come quelli costruiti a Landskrona, Svezia, e a Douvrin, Francia.

A completamento del quadro dell'industrializzazione per opere infrastrutturali non si può non menzionare quanto si è progettato e prodotto nell'ambito dell'edilizia nel mare. Significative a questo proposito sono le modalità costruttive delle grandi piattaforme petrolifere, delle piattaforme o isole ''galleggianti'' da utilizzare per porti, aeroporti e per destinazioni d'uso speciale (per es. alberghi sul mare, esposizioni e parchi marini). Caratteristica di queste opere è di essere costruite sulla terraferma, in un cantiere altamente meccanizzato che impiega anche le tecniche della p. sia in cemento armato che in acciaio, per poi essere trasportate via mare, per galleggiamento, mediante rimochiatori sul luogo di esercizio, dove vengono in parte sommerse per zavorramento sino a raggiungere il fondale (installazioni fisse) oppure soltanto ancorate con attrezzature speciali (installazioni galleggianti; v. anche offshore, opere, in questa Appendice).

Opere di questi tipi, a seconda della mole e delle tecniche costruttive, possono essere interamente realizzate sulla terraferma (salvo alcune sovrastrutture di completamento) oppure risultare formate da una o più parti galleggianti realizzate sulla terraferma e da parti da montare una volta che quelle galleggianti sono state dislocate in mare.

Per dare un'idea del livello tecnologico raggiunto in questo campo, si possono citare alcuni esempi significativi. La piattaforma petrolifera fissa di Dunlin nel Mare del Nord, capace di 1,4 milioni di barili, è formata da un enorme cassone di fondazione a celle in cemento armato precompresso (ingombro di pianta 104 × 104 m2; altezza 32 m) sorreggente 4 grandi piloni cavi troncoconici sempre in cemento armato precompresso (diametro di base 22,65 m, di sommità 6,20 m; altezza 114 m), sui quali è stata montata una piattaforma in acciaio destinata ad accogliere alloggi, uffici, attrezzature e gli elicotteri di servizio. La costruzione delle parti in cemento armato precompresso è stata realizzata in un bacino presso Rotterdam; l'insieme è stato quindi trasportato per galleggiamento nei pressi della costa scozzese a Hunterston, dove è stato sottoposto a varie prove e completato con la piattaforma metallica; a montaggio ultimato è stato effettuato il rimorchio, sino al giacimento di Dunlin e qui, una volta operata l'immersione fino a raggiungere il fondale a 151 m, si è provveduto all'ancoraggio sulla roccia. L'isola-serbatoio in cemento armato precompresso di Ekofisk nel Mare del Nord (fig. 38) ha un diametro di circa 100 m e capacità di 160.000 t; la costruzione è iniziata sulla terraferma in un bacino all'asciutto; successivamente l'insieme, capace di galleggiare, è stato rimorchiato nel fiordo di Stavanger dove sono state montate le sovrastrutture e dislocati i macchinari; 4 rimorchiatori hanno poi localizzato l'opera, di cui si è provocata l'immersione progressiva, sino a raggiungere il fondale a circa 70 m, riempiendo i serbatori di acqua e zavorrando con sabbia. Nei progetti elaborati dall'Eurocéan-Gruppo Isole Galleggianti nel 1975 per realizzare porti, aeroporti e altre opere sul mare si prospettavano procedimenti costruttivi per piattaforme galleggianti ''a fondo piatto'' o ''semisommerse'', in calcestruzzo leggero precompresso o in acciaio o miste in calcestruzzo-acciaio, da realizzare sulla terraferma per settori rimorchiabili sul posto e poi provvedere all'assemblaggio. Da menzionare, infine Aquapolis (fig. 39), organismo galleggiante e semisommergibile progettato da K. Kikutake e realizzato per l'Esposizione Internazionale del Mare tenuta a Okinawa nel 1975: l'ossatura portante è in acciaio e la piattaforma poggia su 12 piloni principali (diametro 7,5 m; divisi in scomparti zavorrabili) e su 4 secondari (diametro 3 m) sorretti da 4 galleggianti a cassone lineare; l'ancoraggio e l'ormeggio, automatico, è assicurato da verricelli salpa-ancora e da 16 catene. L'opera è al tempo stesso infrastrutturale e abitativa, infatti comprende spazi residenziali, amministrativi e di esposizione, oltre a costituire terminal per i collegamenti con la terraferma mediante elicottero; la piattaforma è a più livelli, il ponte superiore misura 80 × 80 m2. Aquapolis pesa a pieno carico 28.000 t e ha un'altezza di 32 m. Vedi tav. f.t.

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