Prescrizione e decadenza [dir. civ.]

Diritto on line (2015)

Biagio Grasso

Abstract

Viene esaminata la disciplina, la funzione e l’efficacia della prescrizione come modo di estinzione generale dei diritti che si esprimono in chiave di rapporto di relazione, ribadendone il funzionamento ipso iure anche in presenza del principio della irrilevabilità d’ufficio da parte del giudice. Si precisa infine la totale omogeneità funzionale tra prescrizione e decadenza, la quale ultima si distingue dalla prima soltanto per taluni profili della sua disciplina, che segnalano l’esigenza di maggiore certezza che si intende con la stessa realizzare.

La prescrizione come estinzione del rapporto

Una inerzia prolungata nel tempo spegne il diritto soggettivo (art. 2934 c.c.), sempre che venga vittoriosamente proposta l’eccezione di prescrizione da parte del debitore ex art. 2938 c.c. ovvero, mancando tale eccezione, la stessa sia proposta da parte dei terzi interessati ex art. 2939 c.c. Dunque, il diritto estinto per il decorso del tempo può essere legittimamente fatto valere in giudizio e, qualora la relativa eccezione non sia stata proposta nei modi sopra accennati, il giudice non potrà rilevarne di ufficio l’estinzione.

Già queste prime considerazioni giustificano l’affermazione di chi ha sostenuto che nella prescrizione v’è qualcosa di «assolutamente inafferrabile, contraddittorio ed impalpabile» che rende assai ardua la ricostruzione dell’istituto, del suo fondamento, della sua funzione.

Sennonché, la dottrina, specie dal decisivo contributo dell’Auricchio (Auricchio, A. Appunti sulla prescrizione, Napoli, 1971), ha proceduto ad una ricostruzione che oramai può dirsi sufficientemente appagante, in particolar modo con riferimento ai profili essenziali dell’istituto. Appare, così, attualmente consolidata l’idea che la prescrizione sia dettata a tutela di un interesse sostanzialmente privato e che operi all’interno di un rapporto giuridico al fine di realizzare la liberazione del debitore (nelle vicende obbligatorie) o il riacquisto di una situazione di libertà (nei diritti reali limitati), con il decorso dell’inerzia del titolare del diritto per il tempo previsto dalla legge. Con il che si spiega assai più convincentemente di quanto si faccia con altre opzioni teoriche il perché il diritto di proprietà - il quale non si esprime in una relazione intersoggettiva – sia imprescrittibile: in tal caso, infatti, non vi sarebbe un soggetto della relazione che possa avvantaggiarsi dell’estinzione (sul punto, cfr., infra, § 7).

L’aver diffusamente riconosciuto la fondatezza del necessario nesso tra prescrizione e rapporto giuridico non comporta, però, anche la condivisione degli altri nodi della vicenda prescrizionale. È, infatti, ancora vivacemente discusso l’effetto della prescrizione e la sua modalità di funzionamento (ipso iure o ope exceptionis).

Modalità di funzionamento della prescrizione

In che modo, dunque la prescrizione incide sul rapporto giuridico? Secondo un Autore, la prescrizione estinguerebbe il collegamento tra la situazione giuridica attiva e quella passiva, liberando il debitore e preservando il diritto di credito (peraltro destinato ad estinguersi) fino alla vittoriosa proposizione dell’eccezione di prescrizione da parte del soggetto passivo del rapporto ( è questa la posizione espressa da Auricchio A., Appunti sulla prescrizione, cit., 63).

Sennonché una tale soluzione postula la fondatezza dell’idea che ciascun elemento costitutivo del rapporto (diritto-obbligo) possa vivere di vita autonoma, il che è assai arduo da immaginare, sia per chi ritiene che il rapporto consista in una «mera sintesi verbale» tra diritto ed obbligo, di per sé privi di ogni autonomia, sia per chi invece ne predica la loro autonoma individualità strutturale, giacché, anche in questo caso, la necessaria correlazione tra le sue singole strutture portanti comunque non consentirebbe di pensare all’esistenza di una in assenza dell’altra.

Né, a salvare questa impostazione, varrebbe sostenere che il rapporto è capace di sopravvivere (ancorché temporaneamente) alla estinzione di una delle sue strutture portanti, giacché all’esito dell’incontro e della fusione delle stesse, esso diverrebbe una entità antonoma e distinta rispetto alle strutture che lo formano; sì che ben potrebbe aversi la sussistenza di un rapporto giuridico, affievolito o quiescente a seguito della estinzione del diritto soggettivo al quale sopravvive l’obbligo, la cui estinzione (con conseguente estinzione dell’intero rapporto nel frattempo affievolitosi) dipenderà dal verificarsi degli ulteriori eventi rimessi alla disponibilità ed all’attività dello stesso soggetto passivo (con il che si rielabora la tesi dell’Auricchio, invertendo la tempistica degli effetti estintivi da questo sostenuta ed escludendo l’immediata estinzione di quella dimensione ‘relazionale’ ritenuta essenziale a giustificare la temporanea sussistenza del suo elemento passivo, che appunto sopravvive, sia pure in maniera affievolita (per questa soluzione cfr., Travaglino, G., La prescrizione nella sua elaborazione teorica: aspetti morfologici e funzionali, in Batà, A. – Carbone, V. – De Gennaro, M.V. – Travaglino, G., La prescrizione e la decadenza, III ed., 2008, Milano, 31). Del tutto artificioso ed ingiustificato appare, infatti, l’idea che il rapporto trascenda e superi i suoi elementi costitutivi diventando una entità autonoma e diversa da questi, di cui però non si precisano i contorni e il contenuto e di cui si predica la perdurante funzione ‘relazionale’, ancorché ‘allentata’, pur in assenza dei termini necessari alla pensabilità di una qualsiasi relazione, quasi che a questa possa assegnarsi uno statuto ontologico proprio, una forma di sussistenza in sé, platonicamente slegata da ogni rapporto con la realtà fenomenica materiale e preesistente ad essa.

Né meno opinabile appare l’idea che il rapporto, a seguito del decorso del tempo inerte, si sia affievolito o sia diventato quiescente, sia perché questi due attributi non possono essere usati come sinonimi – giacché la quiescenza comporta la sospensione di ogni vitalità del diritto o del rapporto nel quale lo stesso si esprime, il quale perciò è come se fosse congelato, laddove invece l’affievolimento è vicenda che determina un indebolimento del diritto attraverso l’assottigliamento del fascio di poteri e di facoltà che ne rappresenta il contenuto e non la sospensione di ogni loro vitalità; sia perché in tal modo non ci si avvede di riproporre, con termini diversi ma in maniera sostanzialmente analoga, la idea della prescrizione come vicenda estintiva progressiva e la tesi che il protrarsi dell’inerzia per il tempo previsto dalla legge modifichi la struttura del rapporto (tuttora esistente, anche se in quiescenza o affievolito) ponendolo nella condizione di poter essere prescritto a seguito dell’opposizione della relativa eccezione da parte del convenuto nel processo e, dunque, dell’esercizio del diritto alla liberazione che si sarebbe creato in capo al soggetto passivo del rapporto, invece ripudiata da parte della dottrina e dallo stesso autore che propone tale soluzione (v. Travaglino G., La prescrizione nella sua elaborazione teorica: aspetti morfologici e funzionali, cit., 10 ss.) con argomenti che si esamineranno più avanti (v. infra § 5) e che sostanzialmente sono ricavabili dalla disciplina dell’art. 2937, co. 2, c.c.

In realtà, una volta costatato che la sottrazione al giudice del potere di rilevarla di ufficio non confligge con l’affermazione dell’operatività automatica dell’istituto in parola – rappresentando unicamente la volontà del legislatore di rimettere la disponibilità dell’avvenuto effetto estintivo al soggetto passivo del rapporto secondo uno schema che è riscontrabile pure in altre ipotesi, come nel caso dell’art. 307, co. 4, c.p.c., dettato in tema di estinzione del processo per inattività delle parti, secondo il quale l’estinzione «opera di diritto» ma «deve essere eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra sua difesa» (per questo rilievo, cfr. Travaglino, G., La prescrizione nella sua elaborazione teorica: aspetti morfologici e funzionali, cit., 47), in cui l’operatività automatica dell’’effetto estintivo si concilia allo stesso modo con la necessità di rilevazione ope exceptionis, a tutela del principio della disponibilità dell’effetto estintivo già prodottosi ipso iure da parte dell’interessato – e che non può essere accolta la tesi, pure autorevolmente sostenuta, dell’efficacia preclusiva (e non estintiva) della prescrizione, non mi sembra che ci sia spazio per escludere che l’inerzia protratta per il tempo previsto estingua il rapporto (attraverso la liberazione dall’obbligo che incombe sul suo soggetto passivo e, quindi, l’annientamento della intera relazione in cui lo stesso si esprime); non restando, perciò, che da ricostruire razionalmente il sistema alla luce di tale ineludibile risultato.

Segue: efficacia estintiva o preclusiva?

Prima, però, si deve sottoporre a più accurata verifica sia la fondatezza della tesi dell’efficacia estintiva della prescrizione, sia quella del suo funzionamento automatico.

Per quanto riguarda il primo aspetto, si deve, infatti, fare i conti con la costatazione che la prescrizione può essere eccepita dal convenuto anche quando l’attore eserciti un diritto che non è mai sorto, oppure un diritto che è sorto ma che si sia già estinto per successivo adempimento; sì che, non potendosi evidentemente estinguere ciò che non è mai esistito o che si è comunque già estinto, si potrebbe pensare che sia più corretto assegnare alla prescrizione l’effetto di inibire ogni giudizio sulla fondatezza della pretesa fatta valere, piuttosto che quello estintivo (è la posizione espressa da Falzea, A., Efficacia giuridica, in Enc. dir., Milano 1965, 498 ss).

Sennonché, la tesi dell’efficacia ‘preclusiva’ e non estintiva della prescrizione, pure autorevolmente sostenuta, non convince. Ciò in quanto: a) essa appare evidentemente condizionata dalla pretesa di cogliere un rapporto di strumentalità necessaria tra dimensione sostanziale e dimensione processuale della fattispecie, che invece non sempre è individuabile sul piano della morfologia e della funzione dei singoli istituti. È di comune esperienza che le regole proprie del processo attraggono i fatti materiali sul piano del giuridicamente esistente con modalità che spesso determinano uno scarto tra realtà fenomenica e realtà processuale, com’è dimostrato, ad esempio, dalla possibile contemporanea valutazione in termini di efficacia e di inefficacia dello stesso negozio simulato in relazione alla diversa provenienza della prova per presunzione (dalle parti o dai terzi).

Su questo tema si tornerà anche più avanti, quando si esamineranno le posizioni che pretendono di risolvere in chiave procedimentale il fenomeno in parola proprio alla luce delle stesse preoccupazioni che hanno ispirato la tesi dell’efficacia ‘preclusiva’ della prescrizione. Ora conviene precisare che, nel nostro caso, la scelta del legislatore di assegnare la disponibilità dell’effetto estintivo già prodottosi alla parte che se ne avvantaggerebbe e nel cui esclusivo interesse la prescrizione è stata prevista, non può non determinare una discrasia tra situazione sostanziale e situazione processuale – come si è visto niente affatto infrequente nel nostro ordinamento e perciò nemmeno preoccupante – che impone di pensare che quando si propone l’eccezione di prescrizione come questione preliminare, il suo accertamento inibisce ogni ricerca sulla fondatezza sostanziale della pretesa fatta valere, appunto perché si postula l’esistenza, sul piano processuale, del vincolo pregresso, indipendentemente dalla sua sostanziale verità (irrilevante per il diritto, perché ciò che conta è la realtà che appare come processualmente vera alla luce delle regole proprie del processo attraverso le quali il fatto viene conosciuto e ricondotto nel mondo del giuridicamente rilevante). L’accertamento della prescrizione come questione preliminare, dunque, preclude ogni indagine sulla fondatezza nel merito, ma proprio perché ne presuppone processualmente l’esistenza; sì che è a questo rapporto, assunto come vero sulla base delle regole del processo, che si riferirà la sua efficacia estintiva.

b) La fondatezza della tesi qui esaminata è altresì inficiata dalla circostanza che essa tralascia di considerare che la prescrizione non deve necessariamente essere posta come questione preliminare, ben potendo, la relativa eccezione, essere formulata subordinatamente all’accertamento della esistenza del rapporto pregresso (e ciò anche dopo la riforma dell’art. 197 c.p.c., che impone la proposizione dell’eccezione in questione nella prima difesa, ma non necessariamente come questione preliminare), nel qual caso non si vede come possa escludersi la sua efficacia sicuramente estintiva, con la conseguenza di dover implausibilmente assegnare al medesimo fatto due effetti diversi (una volta estintivo, un’altra preclusivo) a seconda che lo stesso debba essere accertato come questione preliminare o no (per queste considerazioni, cfr. Grasso, B., Prescrizione (dir. priv.), in Enc. dir., Milano, 1986, 68 s).

Estinzione del rapporto; rinunzia alla prescrizione

Deve, dunque, confermarsi che la prescrizione estingue il rapporto, come lo stesso appare ed è considerato nella sua dimensione processuale. Tale affermazione va, però, ancora precisata alla luce dell’art. 2940 c.c., che, sulla base della circostanza che l’estinzione conseguente alla prescrizione non coinvolge il substrato materiale delle figure di qualificazione giuridica (diritto-obbligo) in cui si articola il rapporto medesimo – giacché il debito non è stato pagato e il credito non è stato conseguentemente realizzato – prevede che il pagamento del diritto prescritto abbia il medesimo trattamento di quello dell’obbligazione naturale. Da ciò, che l’estinzione riguarda soltanto il profilo formale del rapporto (naturalmente quando questa relazione consiste in un vero e proprio rapporto obbligatorio), che continua a vivere come obbligazione naturale. Dal che può ritenersi che l’estinzione di cui si è detto possa esprimersi anche in chiave di modificazione della rilevanza giuridica del rapporto, che da obbligazione civile degrada a obbligazione naturale.

Né varrebbe replicare sul punto sostenendo che se la prescrizione determinasse una estinzione non potrebbe più spiegarsi la possibilità di soddisfare – e quindi estinguere di nuovo – il debito che evidentemente deve pensarsi sopravviva alla prescrizione. L’estinzione provocata dalla prescrizione, infatti, non coinvolge mai il rapporto nella sua dimensione materiale ma soltanto il suo profilo ‘formale’, non incidendo sulla relazione che ne rappresenta il substrato contenutistico (proprio perché non è stato soddisfatto alcun interesse sostanziale del creditore). Perciò, l’ipotesi disciplinata dall’art. 2940 c.c. non si riferisce allo stesso debito estinto dalla prescrizione ma al (formalmente) diverso debito che residua da quella estinzione come obbligo naturale. Né varrebbe sostenere l’irriducibilità strutturale dell’obbligazione prescritta e del suo pagamento spontaneo al genus dell’obbligazione naturale sulla base della considerazione che l’eventuale domanda giudiziale introdotta dal creditore naturale sarebbe irrimediabilmente destinata ad una dichiarazione preliminare di inammissibilità o improcedibilità da parte del giudice, anche d’ufficio, laddove invece la domanda di adempimento proposta dal titolare di un credito estinto per prescrizione, lungi dal poter essere ritenuta improcedibile o inammissibile pure d’ufficio, è destinata all’accoglimento, in mancanza della proposizione della relativa eccezione (così, Travaglino, G., La prescrizione nella sua elaborazione teorica: aspetti morfologici e funzionali, cit., 71), in quanto ciò deriva dalla circostanza che, nel nostro caso, il legislatore ha rimesso la disponibilità dell’effetto estintivo (o modificativo della rilevanza civile dell’obbligazione) al soggetto passivo del rapporto, ancorché lo stesso si produca automaticamente al momento della maturazione del termine. Sì che, quando il titolare del diritto prescritto lo esercita in giudizio, l’avvenuta modificazione sostanziale è irrilevante per il giudice se non viene acquisita agli atti del processo nell’unico modo voluto dal legislatore, e cioè attraverso il meccanismo della sua proposizione da parte del soggetto interessato all’estinzione medesima. Da ciò, che il rilievo formulato è inconferente.

Altra e diversa questione è quella della determinazione di quando ci si trovi in senso proprio dinanzi ad un pagamento del debito prescritto che consenta l’utilizzazione dell’art. 2940 c.c. Per risolvere tale problema, si deve tener presente che, come è già detto e si dirà meglio più avanti, la prescrizione opera automaticamente ancorché tale rilievo debba esse raccordato con quel principio, espressione della disponibilità dell’effetto estintivo da parte del soggetto passivo del rapporto, della irrilevabilità di ufficio della prescrizione non eccepita, già segnalato. Sì che, si avrà adempimento del debito prescritto o quando la prestazione venga eseguita dopo il passaggio in giudicato dalla sentenza che ha decretato l’estinzione del rapporto per prescrizione – giacché nella specie non può mai individuarsi una rinunzia implicita o tacita alla prescrizione perché il giudicato preclude ogni attività negoziale relativa al rapporto già in contestazione (e pertanto la rinuncia dovrebbe riguardare il giudicato e non la prescrizione) – oppure quando il pagamento venga effettuato dopo il maturarsi del termine prescrizionale e prima del giudicato ma sia inconsapevole di tale avvenuta maturazione del termine, perché in tale caso sarà inconcepibile dedurre dall’atto solutorio la presenza, sia pure implicita o tacita, della volontà di rinunciare all’effetto estintivo già prodottosi.

Negli altri casi, invece, la mancata proposizione dell’eccezione di prescrizione, ovvero l’adempimento consapevole da parte del debitore, potrebbe segnalare l’esistenza di una volontà rinunciativa tacita o implicita che andrebbe ricondotta alla diversa disciplina dell’art 2937 c.c., su cui si tornerà tra breve (§ 5). Deve infine precisarsi che, quando si tratta del pagamento di un debito prescritto, nel senso sopra precisato, quello eseguito dall’incapace sarà ripetibile e, trattandosi di una comune azione di ripetizione, essa sarà, a sua volta, soggetta al termine ordinario di prescrizione dalla data del pagamento; laddove invece quando dal pagamento può ricavarsi la rinuncia tacita alla prescrizione di chi si è detto, il pagamento eseguito dall’incapace sarà ripetibile in quanto si impugni per incapacità legale la rinunzia medesima (implicita nell’eseguito pagamento), con la conseguenza che l’azione sarà soggetta al termine di prescrizione quinquennale con decorrenza dalla data di cessazione dell’incapacità del solvens (artt. 1324 e 1442 c.c.).

Il funzionamento automatico della prescrizione

Altro profilo assai discusso è quello relativo al funzionamento automatico o ope exceptionis del nostro istituto. I fautori di questa seconda opzione sostengono che l’inerzia protrattasi per il tempo previsto dalla legge non determina che la ‘prescrittibilità’ del rapporto, il quale sarà estinto soltanto a seguito della vittoriosa eccezione proposta nel processo dal soggetto passivo dello stesso; ciò in quanto non sarebbe ammissibile concepire la vistosa disarmonia che si creerebbe tra la realtà accertata nel processo e quella sostanziale, qualora l’estinzione, pure risultante dagli atti della causa, per non essere stata eccepita dall’avente diritto, dovesse essere ignorata dal giudice, costretto così a pronunziare la condanna del convenuto emanando una sentenza vistosamente ingiusta (così, Troisi, B., La prescrizione come procedimento, Napoli, 1980; Panza, G., Contributo allo studio della prescrizione, Napoli, 1984).

Sennonché questa preoccupazione non ha alcuna ragione d’essere, giacché la ‘giustizia’ di una sentenza, in uno Stato di diritto, non si misura in funzione della sua coincidenza con la realtà sostanziale da accertare, bensì con la sua corrispondenza con le regole formali attraverso le quali la realtà fenomenica filtra nel processo per precipitare in una ‘verità’ formale, che è l’unica giuridicamente conoscibile.

Del resto questa discrasia tra realtà sostanziale e realtà formalmente accertata come (processualmente) vera, lungi dall’essere inconcepibile è piuttosto inevitabile, e se ne riscontrano ipotesi incontrovertibili come quelle, già poc’anzi richiamate, rappresentate dall’estinzione del processo e dalla disposizione di cui all’art. 307, co. 4, c.p.c., ovvero quella della compensazione, la cui operatività automatica è in re ipsa nonostante la indiscutibile irrilevabilità d’ufficio.

Nel nostro caso, la pretesa disarmonia si giustifica per la scelta di sottrarre al giudice la potestà di rilevare d’ufficio la sussistenza di un effetto estintivo la cui disponibilità si vuole rimettere al soggetto passivo del rapporto.

Del resto, a contestare il funzionamento ope exceptionis della prescrizione estintiva e la sua visione, per così dire, procedimentale, è sufficiente richiamare il contenuto dell’art. 2937 c.c. Se, infatti, la rinuncia alla prescrizione (ai sensi del co. 2) potesse essere esercitata soltanto quando questa si compie e se, per compiersi, la prescrizione avesse bisogno della proposizione della relativa eccezione – come sostenuto ex adverso – si finirebbe col pensare che per rinunciare si debba, illogicamente ed inutilmente, innanzitutto eccepire.

In altri termini: se dal compimento del termine di prescrizione scaturisce soltanto un diritto potestativo di determinare l’estinzione, sì che la rinunzia riguarda tale diritto e non l’effetto estintivo, c’è da chiedersi quale sia la ragione della previsione di un’attività dismissiva resa invero del tutto inutile dal fatto che non è necessario rinunziare alla prescrizione per impedire un risultato ugualmente raggiungibile con il mancato esercizio della facoltà di estinguere (così già Grasso, B., Prescrizione (dir. priv.), cit., 59).

Il titolare del (preteso) diritto potestativo avrebbe la facoltà di estinguere il rapporto proponendo la relativa eccezione, ovvero di non estinguerlo, astenendosi dall’esercitare tale suo potere. Perché allora prevedere un autonomo e distinto potere di rinunziare alla prescrizione?

Invero si potrebbe replicare sostenendo che le stesse difficoltà testè costatate possono presentarsi anche all’interno della tesi del funzionamento automatico della prescrizione. Anche qui, infatti, ci si potrebbe chiedere la ragione della previsione della possibilità di rinunziare quando la irrilevabilità di ufficio della prescrizione rende comunque di fatto inoperante l’estinzione avvenuta, qualora il debitore non la eccepisse.Sennonché, soltanto ipotizzando l’estinzione ipso iure del rapporto, si può pensare ad una autonoma rilevanza della rinunzia rispetto alla mancata proposizione dell’eccezione, appunto perché la mancata proposizione di questa può lasciare desumere, o no, una rinunzia tacita, sì che una cosa è rinunziare all’estinzione, altra omettere un comportamento che non sempre e necessariamente cancella questo effetto. Con la pratica conseguenza che, soltanto adottando la ricostruzione sistematica che parla di funzionamento automatico della prescrizione si può immaginare l’eventualità di un pagamento inconsapevole dell’avvenuta estinzione che, in quanto adempimento di un debito prescritto (e non, come accadrebbe nell’avversa prospettiva, di un debito civile), può essere impugnato per l’incapacità del solvens o per errore e, quindi, anche quando il debitore abbia pagato per difetto di conoscenza della norma di legge (sempre che l’errore dipenda dall’altrui comportamento, nel qual caso verrebbe meno il carattere dellaspontaneità del volere richiesto per il pagamento di tale tipo di obbligo).

Anzi, proprio la previsione di questa eventualità potrebbe dar ragione della scelta legislativa di realizzare l’intento di assegnare la disponibilità dell’effetto estintivo a chi si avvantaggia della prescrizione, non già mediante il suo funzionamento ope exceptionis ma prevedendo la irrilevabilità d’ufficio dell’effetto estintivo comunque già verificatosi, automaticamente, al compimento della prescrizione (da valutare secondo il criterio di cui all’art. 2962 c.c.). Del resto, anche il funzionamento ope exceptionis delle cause di annullabilità del contratto non ha impedito al legislatore di prevedere la possibilità della convalida (anche tacita), appunto per la diversa latitudine della mancata proposizione dell’eccezione rispetto alla positiva dichiarazione rivolta a stabilizzare il contenuto dell’atto negoziale voluto (nel qual caso, però, la differenza tra rinunzia all’annullamento – equiparabile alla convalida – e omesso esercizio della relativa azione si comprende alla luce della circostanza che soltanto nella prima ipotesi è inapplicabile il co. 4 dell’art. 1442 c.c.

Sennonché le conclusioni testé raggiunte potrebbero essere ancora contestate sostenendo che l’art 2937 c.c., anziché, come qui sostenuto, confermare il funzionamento automatico della prescrizione, dimostri piuttosto che la rinuncia sia conciliabile soltanto con il funzionamento ope exceptionis della stessa. Ciò in quanto: a) la ‘rinuncia’ in senso proprio può riguardare soltanto un diritto e non un effetto; b) se, anziché di rinuncia volesse più correttamente discorrersi di ‘rifiuto eliminativo’, bisognerebbe presupporre una modificazione definitiva e stabile nella sfera giuridica dell’interessato in mancanza di una sua dichiarazione contraria (appunto di rifiuto), inconfigurabile nel nostro caso, giacché la modificazione estintiva diventa stabile soltanto quando il soggetto che se ne avvantaggerebbe dichiari di volersi avvalere della prescrizione. Sì che non resterebbe che pensare che l’attività dismissiva abbia come suo oggetto il diritto potestativo a determinare con l’exceptio la estinzione (in tal senso, Minervini, E., La prescrizione ed i ‘terzi’, Napoli, 1994, 93 ss.).

Ma, a parte quanto già si è rilevato circa l’illogicità di un’attività dismissiva di un diritto potestativo il cui mancato esercizio determina la stessa conseguenza che sarebbe perseguibile con l’attività rinunciativa, deve precisarsi che anche se volesse assegnarsi al legislatore un consapevole tecnicismo, non ci si può spingere sino a ritenere che questi abbia usato il termine ‘rinunzia’ nella maniera appropriata e consapevole voluta dalla dottrina, tanto da dedurne che, trattandosi di rinunzia in senso proprio, essa non può che riguardare il diritto potestativo di estinguere e non l’estinzione già avvenuta. Tanto più, si ripete, che questa soluzione incapperebbe nelle incongruenze appena richiamate.

Nulla osta perciò all’idea che ci si sia riferiti ad un’attività dismissiva della liberazione dalla situazione passiva – e che, dunque, tecnicamente, essa sia, piuttosto, un rifiuto – ancorché nella norma si sia usato il termine ‘rinunzia’; né può escludersi pure la configurabilità del rifiuto per le ragioni sopra riferire al punto b), giacché non può dirsi che il mero decorso del tempo inerte non comporti una modificazione definitiva della situazione del soggetto a favore del quale è maturata la prescrizione, «essendo, a tal fine, necessaria la dichiarazione di avvalersi della prescrizione», in quanto tale necessità dipende dall’idea che siffatta dichiarazione sia un coelemento della fattispecie complessa produttiva dell’effetto estintivo e perciò la fondatezza dell’intera proposizione dipende dalla sua verità, il che, però, è proprio ciò che si deve dimostrare (così, Grasso B., Brevi note sul funzionamento automatico della prescrizione, in Dir e giur., 2004, 167).

Nemmeno varrebbe replicare segnalando l’inconcepibile circostanza che, comunque, in mancanza della proposizione dell’eccezione, l’avvenuta estinzione sarebbe irrilevante per il giudice il quale dovrebbe condannare il convenuto, perché ciò non è conseguenza dell’instabilità o della provvisorietà dell’effetto estintivo, bensì della scelta del legislatore di rimettere la disponibilità dell’effetto estintivo automaticamente e definitivamente verificatosi sul piano sostanziale al solo soggetto passivo del rapporto, sì che la estinzione sostanziale è irrilevante per il diritto perché non è transitata nel processo attraverso le regole proprie di questo, e non è perciò conoscibile con rilevanza giuridica dal giudice. Né, infine, può apparire incomprensibile la ‘reviviscenza’ del rapporto estinto per prescrizione nel caso di ‘rinunzia’ o, se si preferisce, di ‘rifiuto’ dell’effetto estintivo già prodottosi (come invece sostiene Troisi, B., La prescrizione come procedimento, cit., 75, nt. 203), allo stesso modo in cui non è incomprensibile la ‘retroattività’ di un effetto, sempre che non si dimentichi che le leggi che regolano il mondo fenomenico reale non sono le stesse che dominano quello virtuale o concettuale del diritto, nel cui ambito ben possono verificarsi ‘resurrezioni’ non più contrarie alle leggi della natura di quanto non lo sia la proiezione nel passato delle conseguenze di un fatto.

L’estinzione riguarda il rapporto e non l’azione

La visione procedimentale della prescrizione non può, dunque, essere accolta. E ancora più infondata è la posizione di chi, in tale prospettiva, si spinge fino a sostenere che la prescrizione estingua non già il diritto (o, meglio, il rapporto), bensì l’azione (così, Panza, G., Contributo allo studio della prescrizione, cit.).

Già appare assai discutibile il pilastro argomentativo sul quale tale costruzione di fonda, rappresentato dall’idea che l’inerzia riguardi non già il mancato esercizio del diritto, bensì il mancato esercizio dell’interesse ad agire per il diritto, giacché l’interesse non è un fenomeno suscettibile di esercizio bensì soltanto di realizzazione o di soddisfacimento. Sì che non pare corretto sostenere che vi sono dei casi in cui il diritto non è ancora nato e tuttavia la prescrizione può già decorrere perché sussiste la possibilità di far valere l’interesse al diritto, in quanto se esiste la possibilità di realizzare l’interesse deve esistere anche il potere attraverso il cui esercizio quell’interesse viene soddisfatto.

Ancora più specificamente, alla tesi della prescrittibilità dell’azione (e non del diritto) può replicarsi che: i) la prescrittibilità delle azioni costitutive – le quali sono attribuite della legge come potere autonomo – non è sufficiente a dimostrare che la prescrizione estingue l’azione, perché qui il diritto è pura azione e, dunque, «non c’è niente che sia il diritto prima e al fuori della sua realizzazione giurisdizionale», in quanto se il diritto è pura azione, affermare che la prescrizione estingue l’azione equivale ad affermare che estingue il diritto. Né la validità dello spunto potrebbe essere recuperata riferendolo alle azioni di accertamento – le quali sarebbero prescrittibili, pur non essendo configurabile un rapporto con il diritto, quando vi sia un nesso con l’interesse alla conservazione ed alla realizzazione della pretesa – in quanto la più moderna dottrina ‘sostanzialista’ ha già chiarito che pure l’esercizio dell’azione di accertamento non può svincolarsi dalla titolarità del rapporto; ii) il principio quae temporalia ad agendum perpetua ad excipiendum (desumibile dagli art. 1442, 1495 e 1667 c.c.) non offre un sicuro argomento a favore della tesi della prescrizione dell’azione, perché esso può invece trovare fondamento nell’esigenza di conservare la posizione di equilibrio instaurata sin dal principio tra i soggetti del rapporto (così, Auricchio, A. Appunti sulla prescrizione, cit., 53 s); iii) non è vero che l’art. 2940 c.c conferma l’idea che l’effetto prescrizionale attiene all’azione perché a fondamento dell’acquisto ex art. 2940 c.c. vi è una valida causa obligandi e non solo una iusta causa solvendi. Che l’effetto della norma citata sia soltanto apparentemente analogo a quello dell’art. 2034 c.c. non può, infatti, essere dimostrato sostenendo che mentre la traditio si pone, nel caso di debito prescritto, come una semplice attività materiale, nell’adempimento ex art. 2034 c.c. la consegna rappresenta un negozio dispositivo di esecuzione; né costatando che, mentre nella previsione dell’art. 2034 c.c., la soluti retentio costituisce una ‘sanzione’ civile di norme estranee all’ordinamento statuale, analogo fondamento non si addice alla irripetibilità di cui all’art. 2940 c.c. «che è conseguenza dell’adempimento di un’obbligazione civile e ragguagliabile all’obbligazione naturale solo a causa della sua inazionabilità per altro rinunciabile» perché in tal modo si determina un’inversione logica del ragionamento, in quanto gli argomenti addotti a sostegno della tesi che si intende provare basano la loro fondatezza sulla verità dell’affermazione secondo la quale l’adempimento del debito prescritto è adempimento di obbligazione civile anche dopo che la prescrizione si sia compiuta e perciò non possono servire a dimostrarla.

Inerzia e ‘non uso’; la imprescrittibilità del diritto di proprietà

Precisato, così, il funzionamento e l’efficacia della prescrizione, deve ora dirsi del fatto che la determina e cioè dell’inerzia protratta per il tempo previsto dalla legge (ordinariamente dieci anni).

Deve immediatamente precisarsi che l’inerzia è un comportamento giuridico permanente che consiste nel non esercizio del diritto, con la precisazione che l’inerzia acquista rilevanza giuridica allorché assuma i caratteri di comportamento concludente valutato in termini di obiettiva idoneità a creare nei terzi un ragionevole affidamento circa il disinteresse del titolare per l’esercizio del diritto e la sua realizzazione. In questa prospettiva può parlarsi di inerzia anche quando non si sia in presenza di una mancata reazione alla violazione del diritto stesso.

Con riferimento alla prescrizione dei diritti reali limitati, si ritiene che si debba parlare di ‘non uso’, piuttosto che di inerzia, consistente nell’obiettiva mancanza di esercizio dei poteri inerenti al diritto reale medesimo. Vale la pena di precisare che di ‘non uso’ possa parlarsi soltanto con riferimento ai diritti reali limitati: soltanto in tali casi, infatti, essendoci un soggetto che si avvantaggerebbe della perdita del diritto per non uso può pensarsi che esista un onere per il titolare di esercitarlo e, dunque, la mancata utilizzazione del bene corrisponda al mancato esercizio del diritto. Con riferimento alla proprietà, invece, il non uso può riferirsi soltanto al bene e pertanto la sua mancata utilizzazione non potrà collegarsi con l’esercizio del diritto che non è un onere per il proprietario. Invero tale consolidata posizione, è stata vivacemente contestata.

Si è detto: a) l’imprescrittibilità del diritto di proprietà non può basarsi sulla considerazione dell’inconfigurabilità del ‘non uso’ per il diritto di proprietà, in quanto l’art. 42 Cost., parlando di ‘funzione sociale’, avrebbe reso impossibile l’’abbandono’ da parte del proprietario; b) la norma di cui all’art. 948 c.c. dovrebbe trovare applicazione soltanto quando le cose rivendicate siano possedute da un terzo violentemente e clandestinamente e quindi non si riferirebbe al ‘non uso’ della cosa da parte del proprietario, ma alla mancata reazione alla violazione consistente nell’illegittimo impossessamento da parte di un terzo. Tale assunto sarebbe confortato dalla considerazione che: c) l’inerzia del titolare non è influente in ordine all’azione di rivendicazione (artt. 924, 925, co. 2, 935, co. 2, 937, co. 2, 939 c.c.); d) l’usucapione non è l’unica eccezione all’esperibilità dell’azione di rivendicazione (artt. 926, 936, 944, 1153, e 1994 c.c.); e la norma sarebbe pleonastica qualora di considerasse il potere di rivendicare come elemento del contenuto del diritto di proprietà (così, Troisi, B., La prescrizione come procedimento, cit., 135 ss).

In realtà tali argomentazioni non sono convincenti. Ed infatti: i) il fatto che l’art. 42 Cost. abbia funzionalizzato il diritto di proprietà non esclude che si possa ancora oggi negare la possibilità di parlare di ‘non uso’ dello stesso. Si è chiarito in dottrina che se la funzione sociale conforma dall’interno lo statuto proprietario, il fatto che il fascio di poteri assegnati al proprietario sia meno consistente di quello concesso in altre epoche storiche non esclude che si tratti pur sempre di un diritto soggettivo caratterizzato dal potere di agire. Se anche nell’attuale sistema costituzionale il proprietario ha il potere, non il dovere, di esercitare i poteri concessigli; e se la struttura del suo diritto, caratterizzato dall’immediatezza, impedisce di pensare ad un onere di comportamento per il soddisfacimento del proprio interesse – diversamente da quanto deve dirsi per il diritto di credito, il quale deve essere esercitato affinché il creditore possa realizzare il proprio interesse al bene oggetto della prestazione – significa che la mancata utilizzazione del bene non può confondersi con il mancato esercizio del diritto (Iannelli, A., La proprietà costituzionale, Napoli, 1980, 340 ss). Viceversa il titolare del diritto reale limitato, proprio per la presenza di un soggetto (il proprietario) che si avvantaggerebbe della perdita, ha l’onere di utilizzare il bene per non perdere il diritto e perciò può raffigurarsi l’inerzia (o il ‘non uso’) rilevante al fine dell’estinzione per prescrizione. ii) La ratio della norma dell’art. 948 c.c. non va individuata nello «sfavore nei confronti di chi si impossessa violentemente di un bene altrui», o «nella dubbia decorribilità dei termini di prescrizione (ex art. 2935 c.c.) finché dura tale violenza e clandestinità». Infatti, lo sfavore nei confronti di chi si è impossessato violentemente e clandestinamente di un bene altrui costituisce la ratio della norma che esclude, in tal caso, l’acquisto per usucapione, come risulta, tra l’altro, dalla stessa collocazione sistematica dell’art. 1163 c.c. Ed ancora: iii) l’imprescrittibilità del diritto di proprietà non implica l’assoluta irrilevanza dell’inerzia del titolare per la conservazione del diritto stesso, come quando una certa attività del titolare serve ad impedire non già l’estinzione per non uso del diritto medesimo, bensì che si creino i presupposti o si producano gli effetti di una fattispecie per la quale un terzo acquisti un diritto incompatibile con quello del precedente titolare. iv) L’usufrutto non è un’eccezione alla regola dell’imprescrittibilità, in quanto, verificatasi l’usucapione, la proprietà viene perduta dal precedente titolare a seguito dell’acquisto che se ne determina a favore di altri. Né tale obiezione potrebbe considerarsi meramente formalistica, in quanto dire che la proprietà è imprescrittibile significa soltanto negare che il diritto possa estinguersi per l’inerzia del titolare protratta per il periodo di tempo previsto dalla legge, non certo che il titolare non possa perdere il diritto per una ragione diversa dalla prescrizione. In questa prospettiva anche gli artt. 935 e 937 c.c. in tema di incorporazione, stabilendo che in ogni caso la rivendicazione dei materiali non è ammessa trascorsi sei mesi dal giorno in cui il proprietario ha avuto notizia dell’incorporazione, prevedono ipotesi particolari di accessione, ossia di acquisto del diritto di proprietà sui materiali da parte del proprietario del suolo. v) Dopo quanto si è detto, non può condividersi nemmeno il rilievo – peraltro non decisivo – sul presunto carattere pleonastico dell’art. 948 c.c., in quanto deve pensarsi che tale norma non si è limitata a riaffermare il noto brocardo in facultativis non datur praescriptio, ma, nel sancire l’imperscrittibilità del potere di rivendicare, ha, al tempo stesso, affermato l’imprescrittibilità sia della facoltà, sia del diritto di cui essa è parte.

Deve precisarsi che, alla luce della nozione di inerzia adottata, la distinzione tra inerzia e non uso non ha più ragione d’essere, perché il comportamento viene valutato non più in corrispondenza alla diversa natura – reale o obbligatoria – del diritto, bensì con riferimento al concreto modo in cui il diritto può essere goduto ed esercitato.

Decorrenza del termine di prescrizione

Circa la decorrenza del termine di prescrizione, deve precisarci che essa comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto, pur essendo perfetto e potendo quindi essere esercitato, non è, di fatto, esercitato dal suo titolare. La prescrizione non inizia a decorrere in presenza di un impedimento di ordine giuridico all’esercizio del diritto, mentre comunemente si ritiene che gli ostacoli di mero fatto che non rientrino nell’impossibilità legale (ad esempio, per essere stati determinati dalla violenza di terzi) e che non siano stati considerati come causa della sospensione della prescrizione (oltre all’ipotesi di cui all’art. 1442 c.c.) non hanno alcuna rilevanza. Tale ultima posizione, però, è stata oramai superata, specie con riferimento alla prescrizione riguardante i crediti da lavoro subordinato ed in particolare la retribuzione del lavoratore.

Solitamente viene dalla dottrina dominante negata la prescrittibilità del diritto sospensivamente condizionato, in quanto il destinatario sarebbe titolare di una situazione giuridica che, non potendosi far valere, non si potrebbero prescrivere.  È stato, però, precisato in dottrina che, anche nei confronti di una situazione condizionale, la quale di regola è di contenuto meramente negativo, può parlarsi di inerzia quando il titolare, pur avendo i poteri processuali ed extraprocessuali di reazione, non reagisce ad una lesione (così, Perlingieri, P., Rapporto preliminare e servitù su edificio da costruire, Napoli, 1966, 148).

Da un punto di vista pratico, si ritiene che il giorno in cui il diritto può essere fatto valere coincide, per i diritti reali in re aliena, con il giorno in cui è stato compiuto dal titolare l’ultimo atto di esercizio. Ma per le servitù negative e per quelle affermative, per il cui esercizio è necessario il fatto dell’uomo, la prescrizione incomincia a decorrere dal giorno in cui si è verificato un fatto che ne ha impedito l’esercizio. Ciò, però, non importa il disconoscimento del principio, prima enunciato, secondo cui un comportamento omissivo sarà qualificabile come inerzia anche se non si è in presenza di una mancata reazione alla violazione del diritto, in quanto quella posizione sta proprio ad indicare la diversità delle circostanze idonee in concreto a dare significato oggettivo al comportamento del soggetto. Pertanto il principio ivi postulato è valido per ogni diritto che abbia contenuto negativo, e quindi anche per le obbligazioni negative, per le quali la prescrizione comincia a decorrere soltanto da quando sia nata una situazione di fatto contraria al diritto soggettivo, proprio perché soltanto in questo momento il comportamento inerte assume quel significato oggettivo di atto omissivo necessario perché si possa parlare di inerzia.

Nel campo dei diritti di credito il termine iniziale coincide con il momento in cui la prestazione dovuta è esigibile dal creditore. Nel caso di debiti la cui scadenza è rimessa ad un atto meramente potestativo del creditore si ritiene che la prescrizione cominci a decorrere dal momento in cui il credito sorge, dato che è questo il momento in cui il diritto può essere esercitato.

Interruzione e sospensione della prescrizione

Il decorso del termine di prescrizione può interrompersi o sospendersi. Nel primo caso si determina un arresto del termine per cause che, o sopraggiungendo ne impediscono la continuazione o che, già esistendo nel momento iniziale, l’arresta fin fa tale momento. Tali cause consistono in talune circostanze che determinano un’impossibilità di fatto, materiale o morale, o quanto meno una grave difficoltà, di esercitare il diritto. Esse sono raggruppate in due categorie, disciplinate dagli artt. 2941-2942 c.c. (ma tali norme non esauriscono, però, le ipotesi di sospensione: v, infatti, l’art. 2952 c.c. e l’art. 168 l. fall.). Nel primo sono previste quelle cause fondate sui particolari rapporti fra le parti che operano, ad eccezione di quella di cui ai n. 7 e 8, in favore di entrambi i soggetti del rapporto su cui la sospensione si fonda; nel secondo quelle dipendenti dalla particolare condizione del titolare del diritto. La conseguenza della sospensione nel caso di cause sospensive che sopraggiungono durante il decorso del termine è che tale decorso si interrompe ma, venuta meno la causa di sospensione, il nuovo tempo di inerzia si aggiunge a quello trascorso prima.

Diversamente accade nel caso di interruzione, in quanto, essendo l’inerzia del titolare del diritto il presupposto della prescrizione, ne consegue che, venendo meno quella, resta senza effetto il decorso prescrizionale già iniziato ma non ancora compiuto. Secondo l’art. 2945 c.c., l’inizio del nuovo periodo di prescrizione coincide con la cessazione dell’efficacia delle singole cause interruttiva che, a tale fine, si distinguono a seconda che abbiano effetto istantaneo ovvero permanente. Nel caso in cui l’interruzione sia avvenuta mediante uno degli atti indicati dai primi due commi dell’art. 2943 c.c., la prescrizione riprenderà a decorrere dal momento della formazione del giudicato inteso in senso sostanziale; e, più precisamente, si è ritenuto che il momento rilevante a tal fine sia quello della pubblicazione della sentenza e non quello della sua notificazione.

Si è detto che ogni atto di esercizio del diritto, facendo venir meno l’inerzia, importa l’interruzione della prescrizione, ma non ogni atto interruttivo costituisce esercizio del diritto e, dunque, non può sostenersi che i concetti di prescrizione e di interruzione siano corrispondenti. Basta pensare all’ipotesi interruttiva di cui all’art 2944 c.c. per rendersi conto dell’inesattezza di una tale equiparazione. In realtà mentre l’essenza della prescrizione è da cogliersi, come si è visto, nel mancato esercizio del diritto, l’essenza dell’interruzione va individuata nel fatto che gli atti interruttivi possano essere considerati indici della vitalità del diritto stesso. In ciò sta il senso dell’innovazione voluta dal legislatore del ’42, il quale ha previsto nell’art. 2943 c.c. che la prescrizione sia interrotta dalla semplice notificazione dell’atto con cui si inizia un giudizio mentre prima occorreva che il giudizio fosse condotto a buon fine. La considerazione secondo cui la notificazione dell’atto introduttivo è presa in considerazione dall’art. 2943 c.c. non in quanto dia inizio al procedimento giudiziale, ma soltanto in quanto idoneo a produrre in modo formale nel convenuto la conoscenza della volontà dell’attore di esercitare il diritto (e quindi come atto che esprime la vitalità dello stesso), è oramai pienamente accolta, anche dalla giurisprudenza, la quale ha riconosciuto l’effetto interruttivo anche alla domanda di ammissione al gratuito patrocinio allorché abbia determinato la comparizione della controparte ovvero alla domanda di ammissione al passivo della procedura fallimentare.

Allo stesso modo si è detto che anche l’atto di costituzione in mora, di cui all’ultimo comma. 2943 c.c., è preso in considerazione come atto interruttivo, indipendentemente dal fatto che sia, o no, atto di esercizio del diritto, in quanto comunque esprime l’intenzione di far valere il diritto (così, Auricchio, A., Appunti sulla prescrizione, cit., 97).

Il rilievo, secondo cui gli atti interruttivi denotano un fenomeno di validità del diritto stesso, consente di assegnare la stessa efficacia della costituzione in mora nei riguardi del diritto di credito ad alcuni comportamenti analoghi che possano intraprendersi rispetto ai diritti reali limitati. Così, efficacia interruttiva del ‘non uso’ dovrà riconoscersi alla intimazione rivolta dall’usufruttario al proprietario per ottenere il possesso del bene, oppure alla richiesta formale del titolare della servitù al proprietario del fondo servente affinché renda possibile l’esercizio del suo diritto. Infatti, pur non trattandosi di atti idonei a realizzare il contenuto del diritto reale, si tratta comunque di atti che dimostrano la volontà del titolare di esercitare il diritto nei confronti del soggetto passivo.

Con riferimento ai diritti reali limitati si parla in dottrina anche di una interruzione naturale, che si avrebbe quando il titolare eserciti una qualsiasi facoltà del proprio diritto, in quanto ogni atto di godimento o di disposizione, in quanto atto di esercizio, fa venir meno l’inerzia e interrompe la prescrizione. Una tesi di così ampia latitudine non è, però, convincente perché, se l’inerzia capace di interrompere la prescrizione è il comportamento omissivo relativo al contenuto essenziale del diritto, non basta ai fini interruttivi l’esercizio di una qualunque facoltà, ma occorre appunto l’esercizio di una facoltà che rientri nel contenuto essenziale del diritto.

Altra forma di interruzione è quella prevista dall’art 2944 c.c., che disciplina il riconoscimento del diritto da parte di colui contro il quale il diritto stesso può essere fatto valere. Anche a questo proposito si è detto che dal momento che tale atto interruttivo viene in rilievo in quanto significativo della volontà del debitore di «adempiere la propria prestazione», non si può confondere «la dichiarazione della verità storica del fatto giuridico costitutivo del diritto di un terzo con il riconoscimento della situazione giuridica altrui e della propria»; e, dunque, il riconoscimento non può estrinsecarsi in un qualunque fatto che implichi l’ammissione dell’esistenza del diritto, ma è necessario che la dichiarazione del debitore abbia valore di impegno al rispetto della situazione giuridica opposta (Auricchio, A., Appunti sulla prescrizione, cit., 104 s).

Non essendo il riconoscimento dell’altrui diritto un atto dispositivo, si ritiene comunemente che non occorrono particolari requisiti di capacità nel soggetto, sì che è possibile il compimento di tale atto interruttivo anche da parte dei soggetti limitatamente capaci (Auricchio, A., Appunti sulla prescrizione, cit.). Sulla natura recettizia, o no, dell’atto in parola, la dottrina è divisa tra chi la esclude e chi invece, più convincentemente, la ammette, in coerenza con l’impostazione che inquadra l’intero fenomeno della prescrizione nell’ambito del rapporto giuridico (sul punto, cfr. Auricchio, A., Appunti sulla prescrizione, cit., 105 s).

Le prescrizioni lunghe e quelle brevi

L’art. 2946 c.c. stabilisce che il termine ordinario di prescrizione è di dieci anni. Ma esistono termini più lunghi – quale quello, ventennale, per la prescrizione del diritto di superficie, di enfiteusi, di usufrutto, di uso, di abitazione, di servitù e per l’estinzione dell’ipoteca, indipendentemente dal credito, dalla data di trascrizione del titolo di acquisto, nel caso di beni acquistati da terzi (art. 2880 c.c.) – nonché termini più brevi.

Fra i termini di prescrizione più brevi di quelli ordinari bisogna ricordare: quello di cinque anni, relativo: al risarcimento del danno derivante da fatto illecito (art. 2947 c.c., ma, se questo è considerato dalla legge come reato, si veda il co. 3 dell’art. richiamato); alle annualità delle rendite perpetue o vitalizie; alle annualità delle pensioni alimentari; alle pigioni delle case, di fitti dei beni rustici e ogni altro corrispettivo di locazioni; agli interessi e, in generale, a tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad un anno o in termini più brevi; alle indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro (art. 2948 c.c.); ai diritti che derivano dai rapporti sociali, se la società è iscritta nel registro delle imprese, nonché all’azione di responsabilità che spetta ai creditori sociali verso gli amministratori nei casi stabiliti dalla legge (2949 c.c.).

Quello di due anni, relativo: al risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli di ogni specie (art. 2947, co. 2, c.c.; v. anche l’analogo termine previsto dagli artt 487, 488, 974 c. nav.); ai diritti derivanti dal contratto di riassicurazione (art. 2952, co. 2, c.c.); quello di un anno, relativo: al diritto del mediatore al pagamento della provvigione (art. 2950 c.c.); ai diritti derivanti dal contratto di spedizione e da quello di trasporto (art. 2951, co. 1, c.c. ma v. il termine più a lungo di cui al co. 2 dello stesso articolo per l’ipotesi in cui il trasporto abbia avuto inizio, o termine, fuori d’Europa); al diritto al pagamento delle rate di premio dell’assicurazione; nonché agli altri diritti derivanti dal contratto di assicurazione (art. 2952, co. 1 e 2, c.c.).

Deve infine ricordarsi che l’art. 2953 c.c. stabilisce che i diritti prescrittibili in un tempo più breve del decennio, quando siano stati riconosciuti con un giudicato di condanna – e quindi non anche nel caso di sentenza di mero accertamento e costitutive – cessano di essere sottoposti alla prescrizione breve e diventano, prescrittibili nel termine ordinario.

Giusta la chiara disposizione letterale della norma, non può ritenersi che la conversione del termine di prescrizione sia invocabile anche nei confronti di diritti che si prescrivono in un termine più lungo di quello ordinario; come deve condividersi l’opinione dominante in dottrina, ma non seguita dalla giurisprudenza, secondo la quale il principio in parola si riferirebbe a qualsiasi diritto prescrittibile in un termine più breve di quello ordinario e, quindi, sia ai diritti soggetti a prescrizione presuntiva, sia a quelli soggetti a prescrizione breve stabilita in altre parti del codice civile o in leggi speciali (Azzariti, G.- Scarpello, G., Della prescrizione e della decadenza, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1964, 320 s).

La prescrizione presuntiva

La prescrizione presuntiva è una particolare categoria di prescrizione breve caratterizzata dal fatto che essa determina non l’estinzione dell’obbligazione, ma una presunzione – non iuris tantum, bensì mista, considerate le rilevanti limitazioni relative alla prova contraria (così, Gentile, F.S., Prescrizione estintiva e decadenza, Roma, 1964, 536) – di pagamento. La sua peculiarità non esclude, peraltro, che essa sia sottoposta alle stesse regole generali che disciplinano la prescrizione ordinaria, tranne talune disposizioni particolari (v., ad esempio, il diverso termine di decorrenza di cui all’art. 2957 c.c.), e, dunque, alla stessa saranno applicabili le norme relative alla rinunciabilità, all’opponibilità da parte di terzi, alla sospensione ed all’interruzione e così via. Le differenze strutturali e funzionali tra i due tipi di prescrizione consentono però che le stesse decorrano contemporaneamente.

Poiché si ritiene, correttamente, che il fondamento della prescrizione in parola consista nella presunzione della estinzione del debito, l’eccezione di prescrizione presuntiva deve considerarsi preclusa in ogni caso di difesa incompatibile con la prescrizione stessa e quindi, diversamente da quanto accade nel caso di prescrizione tout court, deve ritenersi incompatibile con la presunzione di avvenuto pagamento ogni discussione, da parte del debitore, sull’esistenza dell’obbligazione ovvero sull’ammontare del credito (Azzariti, G.- Scarpello, G., Della prescrizione e della decadenza, cit., 336 s.).

Con l’eccezione di prescrizione presuntiva il creditore potrà difendersi dimostrando la mancata soddisfazione del credito, ma tale prova è sottoposta a rilevanti limitazioni, e perciò prima si è condiviso quell’orientamento che assegna alla prescrizione in parola la natura di prescrizione mista, in quanto essa può essere fornita o avvalendosi dell’ammissione in giudizio – e pertanto le ammissioni stragiudiziali, se fatte prima del compimento del termine di prescrizione possono avere soltanto efficacia interruttiva, non preclusiva – che l’obbligazione non è estinta da parte di chi ha opposto la prescrizione (art. 2959 c.c.); o con il deferimento del giuramento decisorio (art. 2960 c.c.).

In tal caso, se il debitore presta il giuramento deferitogli, il creditore soccombe, se invece non lo presta è condannato.

L’art. 2960 c.c., prevede due tipi di giuramento, a seconda dei soggetti a cui sia stato deferito. Se si tratta del debitore originario, esso sarà de veritate, in quanto soltanto il debitore può essere costretto a giurare della verità dell’avvenuta estinzione, essendo l’estinzione del debito un fatto personale dell’obbligato originario; se si tratta del coniuge superstite, degli eredi o dei loro rappresentanti legali, sarà de scientia, in quanto, non essendo l’estinzione un fatto loro personale, tali soggetti possono essere chiamati a giurare soltanto sulla conoscenza o non conoscenza della mancata estinzione del debito.

Funzione ed efficacia della decadenza

La decadenza soddisfa l’esigenza del compimento di particolari atti entro un termine fisso e perentorio, stabilito dalla legge o dalla volontà dei privati, indipendentemente dalle circostanze soggettive od oggettive dalle quali dipende l’inutile decorso del tempo. Sì che la decadenza, più della prescrizione, assicura la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, alla luce del maggior vigore che informa la sua disciplina, che è caratterizzata da termini brevi di cui non è ammessa l’interruzione né la sospensione, tranne che in casi eccezionali (quale, ad esempio, quello previsto dall’art. 61, l. camb.).

La decadenza, che non è, come la prescrizione, una causa di estinzione ‘generale’ dei diritti (sì che la relativa disciplina non è suscettibile di applicazione analogica), può riguardare materie sottratte alla disponibilità della parti – per le quali non è ammessa deroga o rinuncia (art. 2968 c.c.) e che può essere rilevata di ufficio dal giudice (art. 2969 c.c.) – ovvero può avere ad oggetto diritti disponibili, per la quale si prevede l’inadempimento a causa del riconoscimento del diritto (art. 2966 c.c.), nonché la rinuncia e la sua irrilevabilità d’ufficio, essendo rimessa la sua disponibilità alla volontà della parte che se ne avvantaggerebbe attraverso l’esercizio della relativa eccezione in giudizio.

Questa seconda e più rilevanti specie di decadenza presenta intuitive somiglianze con la prescrizione estintiva; sì che rispetto a questa si è prospettata l’esigenza della ricerca di un criterio sufficientemente certo di differenziazione con la prescrizione.

Sennonché gli sforzi della dottrina si sono dimostrati vani ed infruttuosi, dovendosi riconoscere la sostanziale omogeneità delle due figure, una volta ricondotta nell'ambito del rapporto giuridico anche la concreta rilevanza della decadenza; giacché pure questa (si intende: quando riferita a diritti disponibili) è finalizzata alla tutela del soggetto passivo del rapporto mediante la sua liberazione dall'obbligo con il compimento del termine di decadenza e la conseguente estinzione dell'intero rapporto, estinzione che, anche qui, diventa rilevante per l'ordinamento quando transita nel mondo del diritto attraverso le regole del processo che ne impongono la irrilevabilità di ufficio e la sua disponibilità da parte del soggetto passivo che se ne avvantaggerebbe.

La dimostrata difficoltà se non impossibilità di fondare una distinzione tra prescrizione e decadenza sulla base degli elementi individuati dalla dottrina più risalente – che ad un serrato esame critico si dimostrano approssimativi e privi di valore costruttivo (vedili criticati in Grasso, B., Sulla distinzione tra prescrizione e decadenza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1970, 886 ss.) –, impone di concludere nel senso che prescrizione e decadenza sono due diversi modi di essere dello stesso fenomeno estintivo del rapporto, che deve soltanto realizzarsi, nel secondo caso, con maggiore urgenza e perentorietà (per questa posizione, cfr. Grasso, B., Sulla distinzione tra prescrizione e decadenza, cit., al quale aderisce la dottrina successiva. Per tutti, cfr. Travaglino, G., Decadenza e prescrizione nella elaborazione dottrinale, in AA.VV., La prescrizione e la decadenza, III ed., Milano, 2008, 379). Pertanto, la ricognizione dei rispettivi ambiti di operatività dei due istituti non può che passare attraverso l'analisi e la individuazione delle loro diversità empiriche desumibili della disciplina normativa (come opportunamente e correttamente suggerito di recente da Travaglino, G., Decadenza e prescrizione nella elaborazione dottrinale, cit. 380 ss.).

In questa direzione appaiono come particolarmente significative le seguenti caratteristiche e particolarità: i) la prescrizione opera soltanto ex lege (art. 2936 c.c.), mentre la decadenza tollera fonti di tipo contrattuale (art. 2965 c.c.); giudiziale (art. 152 c.p.a.); amministrativo (ad esempio, permessi di costruire); ii) la prescrizione postula per il suo impedimento un «atto di esercizio del diritto», mentre la decadenza può essere interrotta anche dal compimento di atti c. d. «singolari», consistenti in comportamenti del tutto estranei alla sfera di attività consistente nell'esercizio del diritto quanto al suo contenuto tipico; iii) il termine fissato per l'esercizio del diritto nella decadenza è essenziale e cogente, sì che non è ammessa la sospensione prevista per la prescrizione; iv) così anche per l'interruzione, giacché nella decadenza «ciò che conta non è il compimento di un atto (indeterminato) di esercizio del diritto, bensì il compimento dell'atto espressamente e specificamente previsto dalla legge o dal contratto» (così Tedeschi, V., Lineamenti della distinzione fra prescrizione estintiva e decadenza, Milano, 1948, 786); v) il riconoscimento ‘impeditivo’ della fattispecie decadenziale la esaurisce definitivamente, diversamente da quanto avviene con il riconoscimento ‘interruttivo’ nella prescrizione, che determina l'inizio di una nuova decorrenza del termine prescrizionale; vi) la disciplina legale della decadenza è derogabile, diversamente da quanto previsto per la prescrizione (art. 2936 c.c.); vii) i termini di decadenza sono assai più brevi di quelli prescrizionali; sì che le brevità del termine è già, di per sé, uno degli indici della natura decadenziale dello stesso.

Fonti Normative

Artt. 2934-2963 c.c.

Bibliografia essenziale

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