FEDOZZI, Prospero

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 45 (1995)

FEDOZZI, Prospero

Carlo Bersani

Nato a Matelica (Macerata) il 12 luglio 1872, da Carlo ed Emilia Ranucci, nel 1894 si laureò a Padova, dove prese la libera docenza nel 1896. Fino al 1899 fu nell'amministrazione della giustizia: prima uditore giudiziario presso il tribunale di Venezia, e lì, nel 1896, vicepretore. Nel 1897 fu aggiunto giudiziario presso la procura di Udine, ma già nel '98 fu alla procura di Bologna, dalla quale si dimise nel '99 dopo un anno di aspettativa.

È da quella data che iniziò per il F. una lunga e ricchissima carriera accademica. Ma già prima, nel 1895, L'Ateneo veneto aveva pubblicato la sua tesi, stampata anche a parte con la data di Venezia 1895 col titolo Ilprincipio di nazionalità.

Il testo era già dominato da alcuni tratti significativi della personalità scientifica e intellettuale del F., alcuni dei quali ne resteranno caratteristici: la centralità della nozione di "coscienza nazionale" nell'interpretazione della nazionalità; un certo anticlericalismo (p. 13); un radicato organicismo; un tendenziale antigermanesimo; una particolare attenzione alla "scuola positiva" (in particolare Enrico Ferri e Cesare Lombroso: pp. 54, 56) e all'analisi sociologica dei comportamenti collettivi (p. 43); numerose tracce di una formazione hegeliana (si vedano ad esempio le pp. 43, 46); l'evoluzionismo come chiave interpretativa analogica per il politico e sociale (si veda ad esempio p. 61); lo scetticismo nei confronti delle prospettive pacifiste; una certa debolezza di senso storico cui fa da contrappeso una solida, e in definitiva non poco pregevole, consapevolezza della questione sociale, che gli consente, fra l'altro, una particolare attenzione agli argomenti del cosmopolitismo socialista. Molti di questi elementi ritorneranno nei numerosi saggi che il F. dedicherà alla questione della nazionalità.

Muovendo da un costante richiamo alle riflessioni di P.S. Mancini - e, più criticamente, ma con altrettanta frequenza, a E. Renan - il F. fonda l'identità nazionale sulla coscienza di essere nazione, come coronamento di un insieme di presupposti, storici e naturali. che vengono in sostanza ricondotti alle categorie del "territorio", della "razza", del "linguaggio" e, più in generale, di cultura e costumi. Nel caso dell'Alsazia, ad esempio, per il F. "non si fa alcuna discussione" che, per quanto essa sia "di razza e di lingua tedesca", vada sostenuta la rivendicazione francese, poiché essa "durante la rivoluzione e l'impero dette prove inalterabili di volontà e di coscienza nazionale francese"; mentre la rivendicazione tedesca trova fondamento in una prospettiva che vede "l'origine etnografica e la comunanza di cultura intellettuale" come "base sufficiente e necessaria per la vita nazionale", una prospettiva grazie alla quale "tutte le popolazioni originariamente germaniche o che si sono assimilate in modo completo la cultura tedesca sono da lei ritenute tedesche anche contro volontà" (p. 60). E non a caso il F. saluta nell'"istituto dei plebiscito" un nuovo strumento di legittimazione (pp. 49 s.).

La fiducia in una progressione storica per "fasi" spinge il F. a leggere la "fase della nazione" ben distinta dalla precedente, "dello Stato" (che segue quella della "tribù") (p. 24). Non è, comunque, che un caso di un uso del concetto di "nazione" come nettamente distinto, sotto il profilo giuridico, dalla nozione di Stato. Il che per un verso gli consente di cogliere appieno gli elementi di frattura tra ordinamento statale e comunità civile che in quegli anni vanno prendendo una forma più precisa e, radicalizzandosi, porteranno a quell'antigiolittismo così diffuso tra gli intellettuali italiani, al quale, come si vedrà, il F. sarà tutt'altro che indifferente; e per altro verso gli consente una lettura del diritto internazionale aperta a considerare altri soggetti, ancorché affievoliti, oltre allo Stato sovrano: sebbene una certa componente "realista" del suo pensiero lo induca a non riconoscere agli interessi delle nazionalità non sovrane una capacità e soggettività che superino la mediazione degli Stati sovrani, nelle transazioni di diritto internazionale, la prospettiva del F. arriva a negare "valore giuridico" ai trattati "se non rispettano la legge di nazionalità, perché il diritto naturale non può subordinarsi alla politica" (p. 47). E questo per quanto egli mostri anche una particolare consapevolezza dei rischi legati all'abbandono di una prospettiva a centralità dello Stato sovrano, se nel "pangermanesimo" e nel "panslavismo" intravede "due spettri enormi che si trovano sull'orizzonte e che s'incontreranno forse un giorno in urto spaventevole" (p. 63 n. 1).

Appena due anni dopo, nel 1897, il F. pubblicò la monografia Glienti collettivi nel diritto internazionale privato con particolare riguardo al diritto di successione (Verona-Padova) e il Saggio sul protettorato (Venezia), prime rilevanti espressioni di un'attività scientifica assai ampia, estesa a numerosissimi aspetti del diritto internazionale privato. Nel 1899 il F. fu nominato straordinario di diritto internazionale a Perugia, nel 1901 passò a Macerata e nel 1903 a Palermo, dove nel 1905 fu ordinario (di questo periodo sono anche le sue Lezioni di diritto civile, Palermo 1907). Nel 1909 fu nominato prima straordinario, poi ordinario a Genova.

E nel 1909, sulla Rivista di diritto pubblico (I, I, pp. 312-321), il F. espose le sue tesi sulla riforma del diritto internazionale in un breve saggio dedicato a La tutela del principio di nazionalità. Sotto il profilo del metodo, il F. mette in luce la necessità negli studi di diritto internazionale di "limitare il proprio campo ai problemi strettamente giuridici ed escludere inesorabilmente quelli che non son tali "come" primo postulato del nuovo indirizzo dei nostri studi". Quindi, propone di "procedere rigorosamente a un'opera di epurazione da tutti gli elementi estranei, che si sono a mano a mano infiltrati nel campo del diritto internazionale fin dal primo periodo in cui la sua costituzione non parve possibile senza prestiti da altre discipline", in particolare "la scienza sociale, l'etica e sopratutto la politica" (p. 312). Un disegno, questo, che indica una particolare sensibilità verso le prospettive della scuola orlandiana, e che assieme ad altri elementi concorre a bene inquadrare l'avvicinamento a Santi Romano, col quale il F. ebbe consuetudine di incontri quantomeno negli anni al Consiglio superiore della Pubblica Istruzione e con cui curerà un Trattato di diritto internazionale in più volumi di vari autori.

In questo saggio del 1909 il principio di nazionalità si configura pienamente come "sociologico e non affatto giuridico", fondato sulla "natura essenzialmente dinamica" della nazionalità medesima (p. 313). I riflessi della "nazione" nel campo del diritto pubblico interno e di quello internazionale investono la questione "dei rapporti fra l'elemento materiale e quello forinale nella vita giuridico-politica" (p. 314).

II sistema proposto dal F. per affrontare la questione delle identità nazionali esclude un loro riconoscimento di personalità di diritto internazionale. Piuttosto, il F. propone di ricorrere alla garanzia internazionale di diritti subbiettivi istituiti da un ordinamento sovrano al proprio interno (pp. 315 ss.). Il migliore modello di riferimento restano per il F. gli accordi di Berlino (p. 316) che, per quanto solo in parte resi effettivi, hanno predisposto garanzie che sono "quanto di meglio la diplomazia abbia saputo escogitare" (p. 317). La "garanzia internazionale", che consiste "nell'obbligo imposto allo Stato plurinazionale di creare diritti subbiettivi individuali" atti a tutelare l'identità nazionale di cittadini appartenenti a gruppi minoritari, può tuttavia cedere il campo, crede il F., ad un'ancora più efficace forma di garanzia consistente "nell'obbligo imposto allo Stato di attribuire a tutto il nucleo nazionale omogeneo una propria individualità nel campo interno" (p. 317). In particolare, oltre agli esempi tratti dall'ordinamento imperiale britannico, il F. rimanda alla nozione tedesca dei cosiddetti "frammenti di Stato" - cara anche alle riflessioni di Romano - poiché i rapporti fra un "popolo" e gli altri "possono acquistare significato giuridico soltanto per mezzo della loro connessione con la personalità dello Stato"; solo "nello Stato e per mezzo della organizzazione statuale", il "popolo" "può diventare portatore di una volontà" (p. 317). Il F. propone così un acquisto di "capacità giuridica" da parte di un "frammento, di Nazione a fronte di un ordinamento statale, a seguito di un'obbligazione internazionale fra questo e altri" (p. 318): anche, ad esempio, a seguito di trattato di pace, in cui allo Stato cedente un frammento di territorio venga riconosciuto, quale "nazione madre", il "diritto subbiettivo internazionale che la popolazione ceduta abbia una forma di autogoverno" (p. 318). La questione, per il F., sta nel fatto che la "vita moderna ha vieppiù ristretto i confini della assoluta indipendenza" statale, consentendo che una norma giuridica internazionale, per tramite di trattato o consuetudine, impegni uno Stato sovrano all'emanazione di norme concernenti la sua organizzazione territoriale e amministrativa, cioè al riconoscimento al suo interno di una qualche forma di autonomia ai territori, o etnie, oggetto di annessione (p. 318). Anche se il F., nel caso di specie dei territori ottomani nei Balcani annessi all'Impero austro-ungarico, sollecita la concessione spontanea di speciali statuti, a protezione della loro identità nazionale, come un saggio strumento di pace.

Nel 1915 il F. fu vicepresidente dell'Associazione nazionale professori universitari, che in quell'anno pubblicò un volume collettaneo dedicato al nuovo conflitto e alle sue ragioni morali, con interventi di G. Arias, A. Solmi, P. S. Leicht, P. Bonfante, e altri, nonché dello stesso Fedozzi.

Qui, accanto a temi classici della retorica nazionalista, ne apparivano altri ricorrenti nella riflessione del F., anche in sede scientifica. Se, da un canto, la partecipazione italiana al conflitto è completamento del processo di unificazione nazionale e del percorso delle guerre d'indipendenza, a fronte di un'Austria dipinta a fosche tinte, il fulcro dell'argomentazione del F. è il concetto di "coscienza nazionale" (La nostra guerra, Firenze 1915, p. 23).

Con l'affermazione di Renan per cui "l'esistenza" di una nazione è un "plebiscito di tutti i giorni", unico criterio di legittimità è il voto popolare, e così, afferma il F., il principio della sovranità popolare ha sostituito come fondamento dell'esistenza di una nazione quello della coscienza nazionale, caro alle teorie di Mancini (p. 23). Ma cosmopolitismo e socialismo non hanno definitivamente sopito il sentimento nazionale (p. 22), anche se, aggiunge il F., "bisogna pur dire che alla mortificazione del sentimento nazionale italiano ha non poco contribuito lo stesso nostro governo, troppo spesso curante soltanto degli equilibri parlamentari, troppo spesso negante al popolo ogni ragione ideale di vita, troppo spesso propenso a una politica estera debole e scarsamente dignitosa" (p. 24). Come si vede, una felice sintesi dei principali argomenti su cui si fondò il duro, profondo antigiolittismo di gran parte della cultura italiana in quegli anni, e certo non solo quella di parte nazionalista, sebbene è a quest'ultima che il F. sembra riferirsi, quando indica un "soffio animatore" della vita politica italiana "nel sangue di un nuovo partito, giovane e ardente col preciso scopo di restaurare sia negli animi che nei concreti atteggiamenti della vita pubblica l'imperio pieno e incontrastato dell'identità nazionale" (p. 25).

Nel 1919 il F., ormai rettore all'università di Genova, entrava nel Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, dove restò fino al 1923, e del quale nello stesso periodo furono membri anche, fra gli altri, Giovanni Gentile, Santi Romano, Arrigo Solmi, Oreste Ranelletti.

L'attività del F. al Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, viste le competenze di quest'organo, si concentrò per lo più su problemi di ordinaria amministrazione, come questioni concorsuali o l'istituzione di nuovi insegnamenti. Ma non mancano interventi su aspetti particolari della politica universitaria più significativi per la ricostruzione della sua figura di intellettuale e giurista. Ad esempio, nella seduta del 1º dic. 1919, il F. si oppose alle pressanti richieste ministeriali di una revisione degli incarichi per esigenze di bilancio, e chiese che il governo provvedesse piuttosto a tagli alle spese militari, a suo avviso caratterizzate da "sperperi" ed "eccessi" (Roma, Ministero della Ricerca scientifica, Verbali del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, anno 1919, pp. 508 s.). L'episodio è rilevante, in primo luogo per l'argomento adoperato dal F., che, considerando la sua attenzione ai temi nazionalisti, dà la misura di una personalità in definitiva moderata, ma anche perché, sul problema della revisione degli incarichi, il F. si trovò ricorrentemente in attrito con G. Gentile, che nel 1923, com'è noto, passerà alla guida del ministero. A più riprese il F. intervenne contro una serie di accorpamenti disciplinari sostenuti da Gentile per andare incontro alle esigenze ministeriali: come sulla fusione di filosofia teoretica e filosofia morale proposta dalla Commissione permanente di filosofia e lettere, di cui Gentile era appunto relatore (ibid., anno 1922, 7 ottobre, pp. 277-282); o sulla proposta riduzione delle cattedre di romanistica: a parere di L. Severi, che a sua volta cita A. Scialoia, nelle università minori dell'insegnamento di storia del diritto romano poteva essere incaricato il docente di istituzioni (come, sempre secondo quel che Severi attribuiva a Scialoia, il diritto costituzionale poteva andare al docente di diritto amministrativo), mentre per il F. "lo studio del diritto romano è lo studio fondamentale di tutta la facoltà di Giurisprudenza" (ibid., pp. 323 s.) e pertanto ne andava difesa la posizione.

L'esperienza del F. presso il Consiglio superiore offre, tra l'altro, una prima testimonianza del suo incontro con Santi Romano, ovvero con un giurista di animo liberale e conservatore, che raggiunse altissimi vertici istituzionali con la presidenza del Consiglio di Stato, nel 1926, ed è fra i maggiori teorici dello Stato liberale, e il più rappresentativo del passaggio da questo al regime fascista.

Nel 1929 il F. pubblicò uno studio su L'efficacia extraterritoriale delle leggi e degli atti di diritto pubblico (L'Aia 1929) e tenne sullo stesso tema un breve ciclo di lezioni all'Accademia di diritto internazionale dell'Aia. Sono questi stessi gli anni in cui il F. curò con Santi Romano il Trattato di diritto internazionale.

Qui, in apertura, il F. affermava la necessità di superare una prospettiva che aveva fondato il diritto internazionale sulla volontà statuale: "La società internazionale non è stata costituita con un contratto o patto sociale, ma al contrario con un processo storico complesso, che si è imposto alla volontà degli Stati e non può pertanto essere considerato come una conseguenza di questa volontà" (Trattato di diritto internazionale, I, Padova 1933, p. 16). A rispondere alle nuove esigenze di costruzione teorica era, secondo il F., la prospettiva di Romano, per il quale "il diritto non è un prodotto caratteristico ed esclusivo dello Stato, ma è invece il prodotto naturale ed immancabile di qualsiasi istituzione, di qualsiasi corpo cioè avente proprie determinate finalità" (p. 15).

Nel primo volume del Trattato il F. torna ancora sulla questione della nazionalità. E ritorna sull'impossibilità di attribuire alla nazione, separata dall'organismo statuale, una piena soggettività di diritto internazionale. La nazione "per sé non è che una espressione sociologica", e nell'intento della "scuola italiana" di Mancini di "attribuire alla nazione la personalità internazionale" e anzi di "sostituire in tale qualità la nazione allo Stato", in definitiva non va letto altro che "una forma particolarmente energica di affermare un principio di legittimità nella costituzione degli Stati" (p. 168). Anche nel caso del riconoscimento, da parte delle potenze dell'Intesa, dei "comitati nazionali polacco e cecoslovacco", in pieno periodo bellico, si tratta in sostanza di non più che "impegni morali" presi dalle potenze con "associazioni di fatto" in ordine, ad un riconoscimento a venire, per quanto le rappresentanze nazionali chiamate in causa godessero in ogni caso di una "limitata capacità giuridica internazionale" a seguito del "generico riconoscimento avvenuto" (pp. 170 s.). In realtà, a parere del F. l'obiettivo "della integrità delle figure nazionali" può essere raggiunto solo considerando "le nazionalità non già come soggetti, ma bensì come oggetti di relazioni internazionali e ovvero nella forma di quella "tutela internazionale delle nazionalità" nel quadro dei trattati di pace, come già sostenuto dal F. nel 1909, e come accolto poi, secondo una prassi dalla quale deriva "il principio della tutela delle minoranze nazionali". Da questo, e dai trattati e convenzioni relativi, derivano per gli appartenenti a una minoranza diritti subbiettivi "fondati sulle norme di diritto interno emanate dallo Stato in osservanza del suo obbligo internazionale", ma assolutamente non ne discende per la minoranza nel suo complesso una qualche forma di personalità internazionale (pp. 171 ss.).

In questo medesimo testo è possibile seguire il F. nella qualificazione giuridica della Società delle nazioni, ovvero di un fatto che tra le due guerre pone l'urgenza di verificare a fronte di una realtà di diritto internazionale i limiti del concetto stesso di Stato. Il F. aderisce all'ipotesi di quelli che la "assimilano nettamente ... ad una confederazione" (p. 137), il che ne configura una personalità internazionale distintamente recisa da quella dei suoi membri, personalità del resto "ormai riconosciuta generalmente" (p. 138). Da ciò tuttavia non discende che essa "sia dotata di tutti i diritti subbiettivi, che son proprii di quelle persone internazionali per eccellenza che sono gli Stati c la "capacità internazionale" dello Stato, "persona. internazionale-tipo", resta "illimitata", mentre quella della persona di diritto internazionale "è limitata a quei diritti di cui l'ente stesso sia riconosciuto titolare dal trattato che l'ha costituito" (p.139).

Il F. morì a Genova il 19 genn. 1934.

Oltre a quelle citate vanno ricordate del F. le seguenti opere: La frode alla legge nei rapporti di diritto internazionale privato, Torino 1900; Il diritto amministrativo internazionale: nozioni sistematiche, Perugia 1901; L'arbitrato nel diritto processuale civile internazionale, Palermo 1908; Lezioni di diritto internazionale, ibid. 1908; La condizione giuridica delle navi mercantili, L'Aia 1925; Corso di diritto internazionale, I, Padova 1930.

Fonti e Bibl.: Necrol., in Circolo giuridico univ. di Palermo, 1934; Roma, Arch. centrale dello Stato, Min. di Grazia e Giustizia, Dir. gen. dell'Organizzazione giudiziaria e degli Affari generali, fasc. pers. magistrati, I vers., busta 0298, fasc. 39039; Ibid., Min. della Pubblica Istruzione, Dir. gen. dell'Istruzione superiore, fasc. pers. prof. univ., II vers., ad vocem; Chi è?, Roma 1931, ad vocem; Annuario dell'Univ. di Genova, 1933-34, p. 339; Nuovo Digesto ital., V, ad vocem; Enciclopedia Italiana, App, I, p. 581.

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