PSICOLOGIA SOCIALE

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1981)

PSICOLOGIA SOCIALE

Luciano Arcuri

. Benché si ritrovino alcuni temi d'indubbio interesse psicosociale nella speculazione filosofica e nelle tradizionali discipline morali, si può collocare la nascita della p. s. come disciplina dotata di una sua autonomia teorico-concettuale all'incirca nei primi anni del Novecento. Sono numerose ovviamente, soprattutto nel primo periodo di sviluppo della disciplina, le suggestioni del pensiero sociologico. Parallelamente, sulla disciplina in via di sviluppo va manifestando chiare influenze soprattutto la p. funzione sociale, l'interazione con l'ambiente, le funzioni adattive della condotta umana. È invece limitato, in questo primo periodo, il contributo della p. di tradizione europea, centrata su problemi di conoscenza, prima nell'ottica dell'associazionismo di W. Wundt, poi nell'analisi dei processi dell'attività psichica della scuola di Würzburg. Non a caso i problemi di cui si occupano gli psicologi europei come G. Tarde riguardano la cosiddetta p. delle folle, in cui il comportamento collettivo viene spiegato mediante i costrutti dell'imitazione e della suggestione. Un'influenza più manifesta esercita invece sulla p. s. statunitense il behaviorismo che, a partire dal 1914, anno in cui appare il volume di J. B. Watson, va assumendo un ruolo di primo piano nel campo della ricerca americana. I primi studi sull'influenza sociale, sugli atteggiamenti, sulla suggestione, risentono chiaramente di tale influsso, attraverso la mediazione di autori come F. H. Allport o E. L. Thorndike. Questo primo periodo di sviluppo della disciplina si chiude verso il 1930 all'insegna di una profonda crisi; gli psicologi sociali non sembrano essere in grado di stabilire un comune schema concettuale per l'analisi del comportamento sociale. Le varie definizioni di p. s. risultano in qualche modo legate, più o meno direttamente, a diversi orientamenti teorici, ma non designano in maniera precisa l'insieme di concetti fondamentali dotati di una solida base empirica e capaci di spiegare la varietà dei fenomeni osservati. Non è un caso se dal 1930 al 1940 una delle tendenze più evidenti in p. s. sia stato il deciso rifiuto da parte degli psicologi sociali di definire e delimitare con esattezza il loro oggetto. Concomitante e forse in qualche misura responsabile di questo periodo di riflessione critica è una serie di avvenimenti destinati a incidere profondamente sui successivi sviluppi della disciplina. In primo luogo, l'arrivo negli Stati Uniti di studiosi legati alla scuola berlinese della p. della Gestalt, come K. Lewin, F. Heider, S. E. Asch, per citare i più noti. Questi autori, riprendendo alcuni concetti-chiave della p. della Gestalt come quello di "campo" o di "organizzazione dei dati percettivi", affronteranno alcune aree di ricerca tipicamente legate alla p. s., quali il processo d'interazione, la dinamica di gruppo, la motivazione, la struttura e il cambio degli atteggiamenti, con un solido supporto teorico-concettuale. In secondo luogo il behaviorismo classico alla Watson subisce delle profonde modificazioni, risultando ormai impossibile elaborare una teoria in cui non trovino posto dei costrutti ipotetici con una loro realtà in quanto concetti scientifici, anche se non appartenenti a un ordine di dati osservabili. E a partire da questa operazione di rottura, effettuata da brillanti teorici come E. C. Tolman o C. L. Hull, che autori come quelli appartenenti alla scuola di Yale affronteranno filoni di ricerca in diversi settori, quali la dinamica frustrazione-aggressività, i meccanismi di difesa in rapporto alla personalità e all'ansia, l'imitazione. In terzo luogo, vanno emergendo, nell'ambito della teoria psicanalitica di Freud, alcuni temi di carattere psicosociale che verranno ripresi e sviluppati da autori come S. Sullivan, A. Kardiner, T. W. Adorno, traducendosi anche in ricerche come quella di Adorno e collaboratori sulla "personalità autoritaria", in cui delle ipotesi chiaramente inquadrabili nell'approccio di tipo psicanalitico verranno sottoposte a verifica mediante l'impiego combinato di tecniche di ricerca psicosociale e clinica. Anche le definizioni della disciplina sono indicative di questa maturazione teorico-concettuale. Prendendo spunto dalla definizione fornita da M. Sherif secondo cui la p. s. "è lo studio scientifico dell'esperienza e del comportamento di individui in relazione a situazioni di stimolo sociale", ne possono derivare alcune considerazioni. Gli psicologi sociali sono sostanzialmente d'accordo su due fondamentali problemi: innanzitutto nel considerare l'organismo come un sistema di mediazione, di organizzazione e di elaborazione dello stimolo prima di produrre la risposta; in secondo luogo nell'analizzare il comportamento in termini molari, ossia nell'individuare unità significative isolabili rispetto ad altre unità e identificabili in funzione di un loro movente, dello scopo cui tendono e dei processi cognitivi e motivazionali che sottendono il raggiungimento dello scopo stesso. In base a quest'ottica acquista carattere di centralità lo studio dei motivi che spingono l'individuo ad agire nel mondo sociale tendendo verso un certo scopo e del modo in cui egli organizza le conoscenze e i significati.

Percezione sociale. - In p. s. è andato sviluppandosi un ricco filone di ricerche sulla percezione sociale nell'ambito delle quali sono stati analizzati i processi di organizzazione e strutturazione cognitiva in riferimento a due ordini di fattori, e cioè fattori dello stimolo e fattori riferibili a stati psicologici interni dell'individuo. Nel primo caso si sono innanzitutto individuate le più evidenti proprietà fisiche degli stimoli sociali anche complessi come persone ed eventi che esercitano un'influenza e orientano l'attività di percezione degl'individui. Si sono inoltre messe in luce alcune proprietà inerenti alle modalità di organizzazione configurale degli stimoli, capaci di determinare delle importanti conseguenze nell'attività di percezione sociale. Per es., in riferimento alla percezione del rapporto di causa-effetto, si è potuto constatare che tale rapporto è un autentico modo di organizzazione percettiva, che esercita un ruolo fondamentale anche nella percezione di eventi sociali che implicano le azioni di esseri umani. Anche il rapporto d'interazione sociale, mediante il quale due o più persone giungono a influenzarsi a vicenda e nell'ambito del quale ciascun partecipante riesce a comprendere le risposte dell'altro e quindi a rispondere a sua volta coerentemente, pone una serie di problemi riguardanti le proprietà della situazione stimolo e la loro configurazione. Ciò che una persona dice e fa, i suoi attributi sociali (per es. le caratteristiche di ruolo) e la natura della situazione sociale in cui avviene l'interazione, tutte queste variabili determinano una configurazione di stimoli capace d'influenzare la modalità di percezione dei soggetti interagenti. In riferimento al problema della formazione delle impressioni di personalità S. E. Asch ha messo in luce come il significato di un particolare stimolo o di un insieme di stimoli dipende dal contesto in cui essi sono inseriti nel senso che alcuni tratti sono percepiti, in relazione al campo degli altri, come centrali, risultando cioè cruciali nel determinare l'organizzazione degli altri tratti e quindi influenzando in maniera decisiva l'impressione globale. Prendendo invece in esame i fattori riferibili agli stati psicologici degl'individui, alcuni filoni di ricerca hanno evidenziato l'influenza degli atteggiamenti, delle emozioni, dei valori, delle motivazioni e dell'esperienza passata nei processi di percezione sociale e cognitivi in generale. Fattori emotivi e motivazionali sembrano, per es., determinare in larga misura sia le inferenze che i soggetti compiono circa i tratti di personalità degl'individui, sia la percezione delle loro caratteristiche fisiche: quando, per es., le differenze tra persone stimolo sono legate a differenze nel valore e nel significato emozionale che il soggetto ad esse attribuisce, allora gli stimoli tendono a essere percepiti fisicamente più diversi l'uno dall'altro di quanto in realtà non sia. Il fenomeno è stato collegato a uno degli aspetti fondamentali dello stereotipo sociale, ossia all'accentuazione delle differenze che esistono tra i membri di gruppi sociali diversi in riferimento a quelle caratteristiche che sono collegate al criterio di classificazione.

Gli atteggiamenti. - Questi problemi evidenziano il fatto che le strutture cognitive, cioè il sistema stabile e coerente di idee, credenze, concetti che caratterizza gli stati psicologici degl'individui, non sono neutrali: spesso contengono credenze e idee circa oggetti sociali ed eventi il cui carattere è valutativo. Si è per l'appunto individuato nel concetto di atteggiamento l'unità di analisi migliore per identificare un'importante categoria di stati psicologici interni capaci d'influenzare il modo in cui l'individuo pensa, ricorda, percepisce e si predispone ad agire nei confronti della realtà sociale. Il periodo tra le due guerre è appunto caratterizzato da un ricco filone di ricerche sul contenuto degli atteggiamenti, da indagini di tipo operativo sugli atteggiamenti di particolari gruppi sociali nei confronti d'istituzioni, temi culturali, valori, problemi politici, ecc., e da un contemporaneo sviluppo e affinamento di tecniche statistiche e di metodi per la misurazione degli atteggiamenti. Ma è con il secondo dopoguerra che il rinnovato interesse suscitato dalla ricerca di T. W. Adorno e collaboratori sulla "personalità autoritaria" si traduce in una serie di contributi teorici e di ricerca su temi quali il rapporto tra personalità e atteggiamenti, modalità di formazione e sviluppo degli atteggiamenti e loro basi motivazionali, loro caratteristiche strutturali, condizioni e modalità di cambiamento degli atteggiamenti. L'atteggiamento può essere definito un'organizzazione relativamente stabile di credenze circa un oggetto o una situazione, tale da predisporre l'individuo a rispondere secondo una certa modalità preferenziale. Quasi tutti gli studiosi sono sostanzialmente d'accordo sul fatto che l'atteggiamento sia costituito da un insieme di due o più elementi (credenze, cognizioni, aspettative, ipotesi) e che si articoli in tre componenti: a) una componente cognitiva che rappresenta le conoscenze possedute con diversi gradi di certezza da una persona circa l'oggetto d'atteggiamento e le sue relazioni con le categorie più generali del giusto e dell'ingiusto, del vero e del falso, ecc.; b) una componente affettiva, ossia l'insieme dei sentimenti, emozioni e reazioni affettive suscitate in particolari condizioni e con diversa intensità dall'oggetto d'atteggiamento; c) una componente conativa, cioè una disposizione comportamentale, un orientamento all'azione nei confronti dell'oggetto d'atteggiamento. Ciascuna di queste componenti può essere analizzata nei termini del suo contenuto, così come possono essere confrontate le caratteristiche strutturali delle varie componenti. Gli atteggiamenti tendono inoltre a formare dei raggruppamenti e quindi a essere legati l'uno all'altro, entro un ampio sistema di valori e in alcuni casi a esprimere, a livello superficiale, le tendenze profondamente radicate nella personalità dell'individuo. Il collegamento tra atteggiamenti e struttura della personalità pone in luce un altro importantissimo settore di problemi legati all'analisi delle basi funzionali degli atteggiamenti: questi infatti si sviluppano e si rafforzano dato che soddisfano i modelli fondamentali di motivazioni che caratterizzano una persona (per es. il bisogno di conoscenza, il bisogno strumentale o adattivo) o perché possono avere una funzione ego-difensiva, in quanto servono a esternalizzare impulsi inaccettabili evitando alla persona il periodo di riconoscerli come parte di sé. I modelli proposti circa l'organizzazione e le proprietà strutturali degli atteggiamenti e le loro basi funzionali sono stati impiegati anche nell'analisi dei processi di modificazione o cambiamento dell'atteggiamento. Per es., sviluppando l'ipotesi dell'equilibrio cognitivo di F. Heider, M. J. Rosenberg afferma che il mutamento dell'atteggiamento è collegabile al crearsi di un'incoerenza tra gli elementi cognitivi e affettivi, manifestandosi proprio per ristabilire le condizioni di equilibrio del sistema. L. Festinger interpreta il cambiamento dell'atteggiamento ponendolo in relazione al cambiamento di comportamento: in determinate condizioni un comportamento dissonante messo in atto da un individuo può determinare la necessità di un riequilibrio, che si concretizza, anche senza la spinta di un rinforzo esterno, in un'autopersuasione e quindi in una modificazione di atteggiamento. Altri autori d'impronta neo-comportamentista, come C. I. Hovland, I. L. Janis e H. H. Kelley, hanno utilizzato le tipiche categorie di analisi della teoria stimolo-risposta, come il rinforzo, la generalizzazione, il conflitto, per affrontare i problemi della comunicazione persuasiva e del cambio di atteggiamenti, prendendo in esame i tre aspetti della comunicazione persuasiva, la fonte di comunicazione, il messaggio, l'uditorio. L'assumere o il modificare un determinato atteggiamento, il grado di consistenza tra direzione e intensità dell'atteggiamento e modalità di effettivo comportamento della persona dipendono ovviamente anche dal contesto situazionale in cui tali processi tendono a manifestarsi; per es. il gruppo in cui l'individuo s'identifica, avendo una funzione di quadro di riferimento dei suoi atteggiamenti può agire come fattore facilitante il mutamento.

I gruppi. - Benché le ricerche sui piccoli gruppi godessero di una notevole tradizione anche anteriormente agli anni Trenta, esse si caratterizzavano per un'immagine vaga e imprecisa, quando non riduzionista, del gruppo stesso: considerato essenzialmente come un aggregato di persone, le sue caratteristiche erano derivate da quelle dei suoi membri, risultando quindi estraneo lo studio della natura e delle funzioni del gruppo come specifico fenomeno psicosociale. Si deve a K. Lewin e al suo Centro di Ricerche sulla Dinamica di gruppo (1945) un generale rinnovamento nello studio dei gruppi visti come insiemi dinamici costituiti da individui che si percepiscono vicendevolmente come più o meno interdipendenti per qualche aspetto. Il gruppo viene quindi assunto come unità di analisi non riconducibile alle caratteristiche dei singoli membri, e come sistema dinamico, nel cui ambito avvengono cambiamenti e trasformazioni. La dinamica di gruppo è allora per K. Lewin lo studio delle condizioni di vita di gruppo e delle forze che possono provocare dei cambiamentì od opporre resistenza ai cambiamenti. Uno dei concetti fondamentali utilizzati nello studio dei piccoli gruppi è quello di struttura, ossia l'insieme delle posizioni che ciascuno occupa nell'ambito del gruppo, indicando tale posizione la relazione dell'individuo con gli altri membri del gruppo secondo una data dimensione. Tali rapporti, ai quali si riconducono gran parte delle tematiche della psicologia del gruppo, come la coesione, la pressione di gruppo, le norme, la devianza, mettono in luce tre posizioni fondamentali della struttura, cui corrispondono i ruoli del leader, del membro normale, del deviante. Ovviamente tra i vari aspetti della struttura del gruppo esistono delle relazioni; per es. la suddivisione dei compiti privilegia un certo tipo di rete di comunicazione, così come la frequenza delle comunicazioni influisce sui rapporti affettivi. In ogni caso, comunque, qualsiasi differenziazione funzionale delle posizioni finisce per comportare una gerarchizzazione, introducendo la dimensione del potere: una posizione centrale può significare capacità d'influenzamento, sia in riferimento al flusso del lavoro, sia a quello delle comunicazioni. Indipendentemente dal grado di strutturazione e di gerarchizzazione, il funzionamento del gruppo è possibile solo se esiste uniformità di comportamento o di opinioni o di sentimenti tra i membri: uniformare la propria opinione e il proprio comportamento a quello del gruppo significa allora adeguarsi a una norma. Benché nella maggior parte dei casi una norma venga scelta per il raggiungimento di precisi fini ed essa venga fatta rispettare anche mediante l'uso di sanzioni negative e di coercizione manifesta, la situazione di gruppo può portare alla formazione della norma anche senza che si manifesti la volontà esplicita dei membri e tale norma può influenzare profondamente l'individuo anche senza che si esercitino nei suoi confronti pressioni sociali dirette e manifeste. M. Sherif ha potuto constatare che in situazione sociale l'individuo modifica le proprie prestazioni, tendendo a uniformarle a quelle degli altri. S. E. Asch, inserendo in un gruppo di persone che davano dei giudizi palesemente e volutamente errati sulla lunghezza di tre asticine un soggetto "ingenuo", ha messo in luce la pressione che un'unanimità di giudizi esercita su un individuo singolo: quest'ultimo manifesta segni di estremo imbarazzo per il fatto di trovarsi in disaccordo con gli altri, tanto che in una notevole percentuale di situazioni emette dei giudizi errati coincidenti con quelli della maggioranza sia per timore di essere considerato un escluso sia per sfiducia nella correttezza del proprio giudizio dovuta al fatto di trovarsi di fronte a un'unanimità di giudizi contrari.

Recenti sviluppi. - Il nuovo panorama che caratterizza la p. s. a partire dalla fine degli anni Cinquanta è quello di una disciplina che, abbandonati gli orientamenti teorici onnicomprensivi, va muovendo verso la formulazione di teorie a "medio raggio" o alla formalizzazione di modelli. Questa nuova ottica in primo luogo permette di focalizzare il dibattito teorico su alcuni specifici settori della disciplina, tanto più fecondo quanto più traducibile in precise ipotesi di lavoro e situazioni sperimentali. In secondo luogo l'analisi di alcuni fenomeni che per loro natura risultano complessi può essere condotta in maniera complementare a partire da diverse formulazioni concettuali e mediante l'impiego di metodologie di ricerca differenziate, la cui capacità esplicativa e adeguatezza descrittiva si manifestino in maniera privilegiata, in riferimento ai diversi livelli ai quali il fenomeno può essere affrontato.

Senza dubbio, uno dei filoni che in termini più qualificanti e scientificamente più produttivi ha caratterizzato la disciplina nell'ultimo decennio è quello che va sotto il nome di teorie della consistenza (o coerenza) cognitiva. Tali teorie a medio raggio, riconducibili all'ipotesi dell'equilibrio cognitivo del già citato F. Heider, s'inquadrano nell'orientamento cognitivista, la cui portata in p. s., grazie agli apporti consistenti della tradizione teorica lewiniana, risulta sempre più rilevante. L'approccio cognitivista infatti, postulando il ruolo intermediario dei processi mentali centrali tra variabili della situazione stimolo e variabili della risposta, mette in luce in termini originali il significato psicologico dell'esperienza e della condotta umana, focalizzando l'interesse sui meccanismi intermedi di elaborazione dell'esperienza che sottostanno e spiegano i dati di comportamento. In questo ambito, i modelli della consistenza cognitiva rappresentano il tentativo da un lato di formalizzare in chiave psicosociale gli schemi di alcune operazioni mentali, dall'altro di collegare tali schemi con dei modelli di comportamento, in maniera da verificare l'influsso degli schemi mentali sull'azione e viceversa. Assunzione di base comune ai diversi modelli è che l'uomo tenda alla coerenza (tra i propri atteggiamenti, tra atteggiamenti e comportamento, ecc.) e che il manifestarsi d'inconsistenza produca una tensione psicologica non a lungo sopportabile per l'individuo. Le modalità con cui uno stato d'inconsistenza può sorgere sono le più diverse: un'incoerenza psico-logica tra elementi cognitivi, il fatto di occupare simultaneamente ruoli sociali in conflitto, modificazioni nell'ambiente (o nello spazio di vita) della persona che determinano contrapposizioni tra realtà ed elementi cognitivi, l'attuazione di un comportamento non spontaneamente scelto e in conflitto con gli atteggiamenti posseduti da una persona. La tensione psicologica determinata dall'insorgere di una situazione d'inconsistenza porterebbe l'individuo a mettere in atto delle strategie volte alla modificazione degli elementi cognitivi e ambientali o dei loro rapporti, nel tentativo di raggiungere un nuovo stato di equilibrio. Il modello dell'equilibrio cognitivo di Heider è basato sull'analisi delle relazioni triadiche presenti nel mondo fenomenologico di una persona: tra il soggetto percipiente P, un'altra persona O e un qualche oggetto sociale X possono infatti esistere relazioni di unità (U) e di sentimento (L), ciascuna delle quali può essere positiva o negativa. Il concetto di stato di equilibrio si riferisce a una situazione nella quale le unità percepite e i sentimenti provati coesistono in maniera stabile e coerente. Il modello di Heider, sottoposto a revisioni successive da parte dello stesso autore, ha anche fornito lo spunto per interessanti approfondimenti da parte di D. Cartwright e F. Harary, i quali hanno affrontato il problema della determinazione dell'intensità e polarizzazione delle relazioni, fornendo degl'indici numerici in grado di prevedere quantitativamente l'equilibrio di una struttura. N. Feather ha analizzato le applicazioni del modello dell'equilibrio alla struttura della comunicazione, in cui fonte, messaggio e ricevente sono gli elementi della triade. In questa direzione si sono mossi C. E. Osgood e P. Tannenbaum, i quali hanno elaborato il modello della congruenza in riferimento all'accettazione della comunicazione.

Senza dubbio il contributo più originale, sia in relazione al grado di formalizzazione del modello, sia per la varietà delle situazioni sociali cui può essere riferibile (più sopra ne abbiamo accennato a proposito del problema dell'atteggiamento) è ascrivibile a L. Festinger e alla sua teoria della dissonanza cognitiva. Prendendo in considerazione le relazioni tra "elementi cognitivi" (ossia conoscenze, opinioni, credenze riguardanti il soggetto, il proprio comportamento, l'ambiente e la realtà esterna) e distinguendo tra relazioni psicologiche di consonanza, dissonanza e irrilevanza, l'autore analizza le modalità di riduzione della situazione di dissonanza e le strategie possibili per evitare situazioni o informazioni capaci di aumentarne l'ampiezza. Stabilendo una relazione positiva tra ampiezza della dissonanza e sforzi effettuati dal soggetto nel tentativo di ridurla, Festinger predispone delle ingegnose quanto rigorosamente controllate situazioni in maniera da condurre delle verifiche sperimentali della teoria. Tra le più interessanti ricordiamo le situazioni di decisione e di scelta e le situazioni di accordo forzato, quando cioè una persona è indotta a comportarsi in maniera contraria ai propri atteggiamenti e convincimenti. È in situazioni come queste che emerge chiaramente il legame tra comportamento e atteggiamento e l'influenza che sulla struttura di quest'ultimo possono esercitare gli elementi di condotta dell'individuo. A differenza del modello di Heider, viene perciò colto il duplice rapporto tra strutture cognitive, anticipatrici e organizzatrici dei dati comportamentali, a loro volta agenti retroattivamente e in grado di modificare le relazioni tra gli elementi cognitivi. Benché concetti come consonanza, equilibrio, congruenza, facciano implicitamente riferimento a una presupposta razionalità umana, l'osservazione dei mezzi per raggiungere uno stato di equilibrio cognitivo e per adottare un comportamento soggettivamente coerente può mettere in luce diversità interindividuali anche notevoli. Un filone ormai consistente di ricerche si è quindi interessato al rapporto tra dissonanza e personalità, individuando alcune variabili fondamentali di personalità che determinerebbero negl'individui maggiore o minore resistenza a situazioni di dissonanza e favorirebbero l'attivarsi di determinate strategie nel ristabilimento della situazione di equilibrio.

Non può esser tralasciato infine un accenno ai più recenti sviluppi della teoria cognitiva e a quei modelli da essa derivati, basati sul costrutto dell'uomo come "elaboratore di informazioni". Analogamente alla modalità di funzionamento di un computer, tale costrutto si articola nell'individuazione di alcune fasi, come la ricezione dell'informazione in entrata, l'esecuzione di certe operazioni su tali informazioni in base a determinate regole, l'immagazzinamento dei risultati in memoria, la modificazione dei contenuti di specifiche aree di memoria per le quali le nuove informazioni sono rilevanti. Modelli matematici dell'integrazione delle informazioni sono stati recentemente sviluppati da autori come N. H. Anderson, P. Warr, R. S. Wyer proprio in riferimento a quei fondamentali processi cognitivi che intervengono sia nelle più elementari situazioni d'interazione sia nelle più complesse forme di comportamento sociale: la percezione e il giudizio sociale, i processi decisionali e la strutturazione e modificazione degli atteggiamenti.

Bibl.: G. W. Allport, Attitudes, in Handbook of social psychology, a cura di C. Murchison, Worchester 1935; M. Sherif, The psychology of social norms, New York 1936; Autori vari, The authoritarian personality, ivi 1950 (trad. it. 1973); K. Lewin, Field theory in social science, ivi 1951 (trad. it., Bologna 1972); S. E. Ash, Social psychology, ivi 1952 (trad. it., Torino 1958); C. I. Hovland, I. L. Janis, H. H. Kelley, Communication and persuasion, New Haven 1953; F. Heider, The psychology of interpersonal relations, New York 1958 (trad. it., Bologna 1972); R. K. White, R. Lippitt, Autocracy and democracy, ivi 1960; L. Festinger, Conflict, decision and dissonance, Stanford 1964; M. Deutsch, R. M. Krauss, Theories in social psychology, New York 1965 (trad. it. Bologna 1972); The handbook of social psychology, a cura di G. Lindzey, R. Aronson, Reading, Mass., 1968; G. F. Minguzzi, Dinamica psicologica dei gruppi sociali, Bologna 1973.

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