Psicologia

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Psicologia

Luciano Mecacci

La prospettiva generale, accettata da una larga schiera di ricercatori e professionisti, secondo la quale si considera la p. degli albori del 21° sec., è quella di una scienza al confine tra scienze biologiche e scienze umane. Se per alcuni studiosi questa caratteristica della p. non le assicura quel rigore concettuale e metodologico auspicato a fine Ottocento, allorché si intendeva fondare una nuova disciplina ispirata ai principi delle scienze fisiche, naturali e biologiche, per altri la p. rispecchia, nel suo multidisciplinare statuto epistemologico, la complessità della dimensione umana, allo stesso tempo materiale (corpo) e soggettiva (psiche). Si sta assistendo a una radicalizzazione dei due poli, quello biologico e quello sociale, lungo i quali si colloca la ricerca psicologica: da una parte i processi psichici vengono descritti come funzioni cerebrali in ricerche che mirano a individuare le leggi e i meccanismi generali comuni a tutti gli esseri umani; dall'altra gli stessi processi vengono ricondotti a specifici e circoscritti microcontesti storico-culturali e sociali entro cui vivono e agiscono ristrette comunità di persone. Nei termini delle passate distinzioni tra scienze della natura e scienze dello spirito (o scienze umane), si va dall'estremo nomotetico (ricerche di leggi comuni) all'estremo idiografico (studio delle differenze individuali e culturali). Anche la varietà e la coesistenza delle impostazioni teoriche e metodologiche non sono più ritenute un aspetto problematico della p. (come era accaduto negli anni Trenta del Novecento, quando si parlò di crisi della p. dovuta allo sviluppo di teorie psicologiche tra loro contrapposte). Anzi, si stanno formando, soprattutto in ambito applicativo e in particolare nel settore della psicoterapia, correnti ibride o eclettiche aventi modelli teorici e progetti di intervento che cercano di conciliare impostazioni un tempo ritenute contrapposte: per es., la prospettiva psicoanalitica combinata con quella fenomenologica, la prospettiva comportamentista con quella cognitivista (Mecacci 1992 e 1999; Hunt 2005; Battacchi 2006).

Il progresso delle ricerche sulle funzioni cerebrali è stato notevole nella seconda metà del Novecento grazie soprattutto allo sviluppo di nuove tecnologie di indagine. Con l'introduzione della tecnica della registrazione dei microelettrodi è divenuto possibile rilevare l'attività di singoli neuroni della corteccia dei mammiferi, mettendo in evidenza un'organizzazione anatomofunzionale di notevole complessità. È stata avanzata l'ipotesi per cui l'integrazione di milioni di neuroni altamente specializzati (le assemblee cellulari di D.O. Hebb o i moduli di J.A. Fodor), sarebbe alla base di particolari processi cognitivi (per es., il riconoscimento di oggetti, facce, emozioni ecc.) (Fodor 1983). Tale ipotesi modulare trova riscontro in molti dati della neuropsicologia su pazienti cerebrolesi che, a seconda delle aree cerebrali danneggiate, perdono specifiche competenze cognitive e affettivo-emozionali. Uno dei settori di indagine più sviluppati riguarda la rappresentazione delle conoscenze, ossia l'esistenza nella mente umana di una o più reti di concetti e nozioni relativi ad aree conoscitive diverse. La distinzione più studiata è quella tra la rappresentazione delle cose viventi (animali e vegetali) e le cose non viventi, soprattutto artefatti e prodotti tecnologici (utensili, strumenti musicali, veicoli ecc.). Il riconoscimento di questi oggetti richiede l'attività di aree corticali distinte, come hanno dimostrato le ricerche su pazienti cerebrolesi e gli esperimenti condotti su soggetti normali con le tecniche di neuroimmagine (PET, Positron Emission Tomography). Una teoria molto interessante su questa diversa localizzazione corticale della rappresentazione delle cose viventi e non viventi sostiene che i mammiferi abbiano sviluppato dapprima un'organizzazione cognitiva relativa al mondo degli animali e dei vegetali ai fini della sopravvivenza (per difendersi dai predatori o cacciare una preda, per procurarsi il cibo ecc.) e successivamente, nella specie umana e, seppure in misura minore, in alcuni altri primati, siano stati progressivamente attivati moduli corticali relativi agli strumenti e al loro uso (Caramazza, Shelton 1998).

L'altra area al confine tra neuroscienze e p., sulla quale si stanno concentrando le ricerche, ha origine nella scoperta dei neuroni specchio (mirror neurons) (Gallese, Fadiga, Fogassi, et al. 1996; Rizzolatti, Craighero 2004; Rizzolatti, Sinigaglia 2006). Questi neuroni, localizzati nella corteccia premotoria (F5) e nel lobulo parietale inferiore delle scimmie, e nelle regioni omologhe del cervello umano (area 44 e area ventrale adiacente 6), rispondono sia quando un individuo (animale o umano) compie un'azione, sia quando osserva un'azione simile che viene compiuta da un altro individuo. La scoperta di questi neuroni ha cominciato a modificare radicalmente la prospettiva secondo la quale è stato studiato il cervello nelle sue funzioni di ordine psicologico. Le ricerche sulle funzioni cerebrali animali e umane venivano, e in gran parte vengono ancora, condotte mediante la registrazione dell'attività delle varie strutture cerebrali durante l'elaborazione di informazioni provenienti da fonti esterne (per es., stimoli visivi, uditivi, tattili ecc., generati da apparecchi in laboratorio). Si tratta di una condizione 'non ecologica' che tende a escludere la dimensione più importante nell'evoluzione dei mammiferi, soprattutto al livello dei primati e della specie umana, ossia l'interazione tra più individui, dove ciascun individuo è con il proprio comportamento la fonte di stimolazione dell'altro o degli altri individui. La nuova impostazione, che è stata denominata neurosociologia, si propone quindi di studiare i cervelli nella dinamicità delle loro interazioni sociali. Il sistema dei neuroni specchio interverrebbe per una serie di processi psichici e comportamentali che sarebbero costitutivi ed essenziali per le interazioni sociali nei primati e nella specie umana. In primo luogo queste cellule corticali sono al centro di una rete di connessioni neurali relative alla pianificazione e all'esecuzione delle azioni che coinvolgono l'uso di strumenti. La mente umana è un sistema funzionale la cui interazione con l'ambiente è mediata dall'uso di strumenti: non c'è azione nella vita quotidiana (mangiare, provvedere all'igiene personale, scrivere, guidare un veicolo ecc.) che non sia connessa a una varietà di utensili e strumenti. Per ciascuno di questi strumenti ogni individuo sviluppa una particolare competenza cognitiva che consiste non solo nel conoscere la relativa funzione (per es., a che cosa serve un cacciavite), ma anche nel saperlo usare (per es., come si impugna e come si gira un cacciavite). Conoscenza degli oggetti e azione su e con gli oggetti sono quindi competenze cognitive e motorie interdipendenti. Fin dai primi mesi di vita il bambino apprende a interagire con il mondo circostante attraverso la manipolazione di oggetti, e questo individuo, una volta divenuto adulto, ha ormai sviluppato una sorta di enciclopedia delle azioni che sono sia comuni agli individui appartenenti allo stesso suo contesto storico-culturale (per es., quasi tutti gli individui del 21° sec. di una società occidentale sanno cos'è un computer, come e perché viene usato), sia azioni sue proprie in relazione alla professione e agli interessi personali: per es., un chirurgo conosce e sa usare i ferri che sono necessari al suo lavoro e, se è un appassionato di golf, conosce e sa usare i vari tipi di mazza (Mecacci, in Ergonomia, 2000).

I neuroni specchio sono inoltre implicati nelle relazioni interpersonali in cui la caratteristica fondamentale è la capacità di ciascun individuo di conoscere e prevedere le azioni di un altro individuo, non tanto in base al suo comportamento (come si muove, cosa dice ecc.) quanto alle sue intenzioni non manifeste, a cosa sta progettando la sua mente. Viene avanzata un'ipotesi su quello che sarà il comportamento futuro di una persona attraverso un'analogia tra le proprie e le altrui intenzioni. Vi sarebbero quindi circuiti neuronali specializzati per lo sviluppo del sistema cosiddetto Teoria della mente (Theory of mind) grazie al quale ciascun individuo ha una rappresentazione sia della propria mente sia della mente degli altri, ossia di come esse sono strutturate e di come funzionano (producono conoscenze e ricordi, generano emozioni, progettano azioni ecc.): è un sistema di rappresentazioni esemplificato dalle espressioni 'io so cosa pensi', 'io so cosa provi', 'io so cosa intendi fare'. La Teoria della mente si sviluppa, fin dalle prime settimane di vita, come un sistema necessario per la sopravvivenza di un individuo umano all'interno di una rete di relazioni interpersonali, la prima delle quali è il rapporto con la madre. Gli studi sull'autismo convergono nell'ipotizzare che alla base di questa sindrome vi sia un deficit nello sviluppo della Teoria della mente, a sua volta ricondotto a un disturbo, probabilmente di origine genetica, nel funzionamento dei relativi circuiti neurali, compresi i neuroni specchio (Frith 1989, 20032). Le indagini sui singoli neuroni implicati nei processi di riconoscimento degli oggetti e delle azioni che possono essere condotte con questi stessi oggetti sono state svolte con tecniche di registrazione da singole cellule nelle scimmie, mentre in soggetti umani sono state impiegate generalmente le tecniche di neuroimmagine che registrano l'attività di intere aree corticali formate da milioni di neuroni. Da una parte i dati su animali sono relativi alla specializzazione di singoli neuroni, dall'altra i dati su soggetti umani riguardano il funzionamento integrato di più neuroni. Il rapporto tra i due tipi di risultati ripropone il problema della traducibilità delle conoscenze neurofisiologiche nelle conoscenze psicologiche, del passaggio dal livello molecolare riflesso nella scarica elettrica di singoli neuroni al livello molare rappresentato dal comportamento integrato dell'individuo. Questo problema non riguarda solo la relazione tra i risultati neurofisiologici su animali e i risultati ottenuti con tecniche di neuroimmagine e/o comportamentali nell'uomo, ma anche la stessa relazione tra i risultati delle tecniche di neuroimmagine e i dati comportamentali rispetto al medesimo processo psichico studiato.

I dati delle neuroimmagini potrebbero rispecchiare un'attività corticale che solo in parte corrisponde a quella riflessa dai dati comportamentali e dai resoconti dei soggetti sperimentali. Si ritiene che tale attività corticale possa riguardare processi inconsci (covert) che non sono rappresentati dal dato comportamentale e/o soggettivo. Se questo è un vantaggio delle tecniche di neuroimmagine (esse mettono in evidenza fenomeni che potevano essere indagati con i metodi tradizionali della p.), è d'obbligo tenere presente che la corrispondenza diretta tra quanto appare dai dati delle neuroimmagini e quanto è noto in base ai dati comportamentali e psicologici può indurre in errori interpretativi sul piano teorico. Su questa problematica è in corso un importante dibattito tra neuroscienziati e psicologi (come è dimostrato dagli articoli pubblicati sulla rivista di neuropsicologia Cortex nel 2006). L'orientamento generale è comunque quello dell'impiego di tecniche di indagine diverse: a) analisi dei resoconti verbali (verbal reports) dei soggetti sulle operazioni cognitive messe in atto durante l'esecuzione di un compito; b) misurazione dei tempi di reazione per la misurazione dei tempi di elaborazione (cronometria mentale); c) registrazione dell'attività elettrica cerebrale (potenziali correlati a eventi, event-related potentials o ERPs) per specificare gli stadi di elaborazione, nonché i relativi tempi di attuazione, interposti tra lo stimolo e la risposta; d) visualizzazione delle aree corticali che sono impegnate nella elaborazione cognitiva (Valutazione cognitiva e neuropsicologica, 2004).

Se l'impiego delle neuroscienze può essere considerato rilevante ed essenziale ai fini della descrizione della struttura e del funzionamento di base dei processi psichici comuni a tutti gli esseri umani, relativamente quindi a un patrimonio di potenzialità psichiche di origine genetica (per es., le emozioni o il linguaggio), da un altro punto di vista si insiste sulla varietà di manifestazioni ed espressioni di tale dotazione psichica sia nello sviluppo ontogenetico sia nei vari contesti storici. Nell'impostazione della p. tra fine Ottocento e prima metà del Novecento vi erano due principi che ormai sono sempre meno accettati. Da una parte lo sviluppo psichico del bambino in tutte le principali correnti, dalla psicoanalisi al comportamentismo alla teoria di J. Piaget, era considerato come un processo di graduale approssimazione a una modalità di funzionamento propria della mente adulta. Per questo motivo i processi psichici del bambino erano intesi come una tappa o uno stadio (secondo la terminologia piagetiana) che sarebbero stati superati e inverati dalla conquista di una tappa o uno stadio successivo, fino alla meta finale propria dell'età adulta. Per quanto le varie scuole di p., soprattutto la psicoanalisi e la teoria piagetiana, avessero messo in evidenza l'importanza dei processi di crescita psichica nel bambino, in realtà si valorizzavano tali processi dal punto di vista dello stadio finale, l'adulto. All'inizio del 21° sec. le ricerche tendono invece a studiare i processi psichici nel significato che essi assumono di per sé in ciascun momento del loro sviluppo e della loro involuzione, dalla nascita alla morte di ciascun individuo (Manuale di psicologia dello sviluppo, 2001). Si prendano come esempio due periodi della p. individuale nell'arco della vita, l'adolescenza e la vecchiaia, sui quali il numero delle ricerche è in continuo aumento. L'adolescenza non è più vista come una tappa intermedia tra l'infanzia e l'età adulta, ma come una dimensione della vita psichica che ha caratteristiche specifiche e nuove, in un'ottica ben diversa da quanto era descritto nelle opere sull'adolescenza di un secolo fa. In particolare nella società occidentale si è allungato il periodo in cui i giovani restano in famiglia per continuare gli studi o perché in attesa di lavoro. L'adolescenza non è quindi solo una fase della maturazione fisica e psicologica, ma è divenuta una dimensione che modifica le interazioni sociali all'interno della famiglia stessa. Si parla di 'famiglia lunga' per indicare la condizione di molte famiglie occidentali all'interno delle quali i figli continuano a vivere anche una volta divenuti giovani adulti. Per questo motivo lo sviluppo psichico non è considerato soltanto un percorso individuale a sé, ma un processo che modifica lo sviluppo dell'intera famiglia (Scabini 2003).

Allo stesso modo è cambiata la prospettiva attraverso la quale vengono studiati i processi psichici nella vecchiaia. Sebbene si possa parlare di involuzione psichica rispetto a valori normativi del giovane adulto, il tipico soggetto degli esperimenti di laboratorio, si tende a spostare le ricerche su aspetti che emergono soprattutto nelle società occidentali in cui l'età media di vita è aumentata notevolmente alla fine del Novecento. Nell'anziano si manifestano strategie cognitive e metacognitive che sono proprie della sua età, mentre i processi affettivi e le interazioni sociali assumono forme nuove. Si assiste negli anziani a una progressiva ristrutturazione sul piano cognitivo e psicodinamico che si prolunga nel tempo, anche di due decenni, per cui non si può parlare di p. della senescenza in termini generici, ma occorre articolare in sottoperiodi quest'ultima fase della vita, individuando per ciascuno di essi le caratteristiche salienti. Un notevole sviluppo ha avuto recentemente la p. dei disturbi psichici e psicodinamici nell'anziano, che in questa impostazione non sono considerati propriamente disturbi, ma modalità nuove attraverso cui si fronteggiano i problemi della vita quotidiana dopo il pensionamento, la morte del coniuge, il ritiro in case di riposo e così via. Sono stati quindi elaborati strumenti specifici che consentano di studiare gli anziani nel loro contesto familiare e sociale più che in situazioni artificiali di laboratorio. La nuova prospettiva, con cui si studiano quelle che in passato si individuavano come le fasi dell'evoluzione (dalla nascita all'età adulta) e della involuzione (dall'età adulta alla morte) dei processi psichici, viene indicata come 'psicologia dell'arco di vita' (life-span psychology) per sottolineare l'idea di uno sviluppo che prosegue per tutta la vita, con continue riorganizzazioni e adattamenti. Vi sono tre ordini di fattori che influenzano tale sviluppo: i fattori biologici relativi alla crescita dell'organismo, e in particolare alla maturazione del sistema nervoso, oltre alle trasformazioni cui l'organismo va incontro nel corso della vita; i fattori storico-sociali relativi al momento storico in cui vive l'individuo e alla comunità sociale in cui cresce, alle sue condizioni economiche, alla classe sociale ecc.; i fattori denominati non normativi, relativi alle particolari esperienze di vita dell'individuo (storia familiare, matrimonio, divorzio, figli, malattie ecc.: Baroni 2003). In relazione a questo complesso di fattori tra loro interagenti e lungo tutto il percorso della vita si forma e resta stabile la personalità individuale, un nucleo di riferimento che sul piano soggettivo costituisce la 'singolarità del Sé' (Harré 1998). Secondo R. Harré il Sé non va inteso nel senso cartesiano di una 'sostanza' o 'unità' compatta e immutabile: il Sé infatti è un sistema dinamico, in continuo cambiamento e riaggiustamento, seppure venga esperito sul piano soggettivo come un luogo fisso e circoscritto. Psicologi come Harré, M. Billig e altri hanno sviluppato nei quindici anni a cavallo tra il 20° e il 21° sec. una corrente, spesso denominata psicologia discorsiva, nella quale si sottolinea il ruolo del discorso e della narrazione nella costruzione della propria personalità. In questo orientamento vengono abbandonati i principi di certa p. tradizionale, che sono fondati sull'idea di un soggetto universale, con caratteristiche normative di derivazione filosofica (la res cogitans cartesiana e l'Io trascendentale kantiano), e vengono valorizzati i percorsi individuali, impiantati in precisi contesti storico-culturali, finalizzati alla realizzazione della propria personalità (Mecacci 1999). Le metodologie impiegate per studiare questa dinamica personale non sono quelle quantitative, proprie dei laboratori di p. sperimentali, ma si fondano su procedure qualitative, sull'etnometodologia, sull'analisi della conversazione ecc. (Metodi qualitativi in psicologia, 2003).

Inoltre si ritiene che, per comprendere la complessità dei processi psichici umani, non sia adeguata un'impostazione 'universalistica' secondo la quale le caratteristiche di questi stessi processi sarebbero uniformi e omogenee nella specie umana sia nel corso della sua storia sia nelle varie culture presenti in un dato momento storico. La p. culturale (cultural psychology), che tra la fine del Novecento e i primi anni del 21° sec. ha avuto una crescente diffusione, si differenzia nettamente dalla p. interculturale o transculturale (cross-cultural psychology) (Smorti 2003; Anolli 2004). Nella p. interculturale, già praticata dalla fine dell'Ottocento, le ricerche si fondano sul presupposto che la struttura dei processi psichici e il loro funzionamento siano relativamente stabili negli individui appartenenti a culture diverse. La comparazione tra culture è finalizzata alla verifica di una 'mente universale' che rimane identica come costitutiva e caratteristica della specie umana, al di là delle sue espressioni esterne di origine culturale. Al contrario, la p. culturale rifiuta l'idea dell'universalità dei processi psichici: i processi cognitivi, dalla percezione al pensiero, e i processi dinamici, dalle emozioni alle relazioni interpersonali e sociali, assumono modalità strutturali e funzionali che sarebbero proprie di ciascuna cultura e, quindi, difficilmente traducibili e comparabili da cultura a cultura. Mentre l'impostazione della p. interculturale era stata già delineata da W. Wundt nella sua Völkerpsychologie o p. dei popoli alla fine dell'Ottocento, la p. culturale ha le sue origini nella scuola storico-culturale fondata in Russia negli anni Venti e Trenta del Novecento da L.S. Vygotskij (Mecacci 2004; Veggetti 2006). La prospettiva neovygotskijana è stata adottata soprattutto nei contesti delle società occidentali in cui è forte l'immigrazione di popolazioni dai Paesi in via di sviluppo e si pone il problema del confronto, e spesso del conflitto, tra culture diverse sul piano degli stili di pensiero e delle dinamiche interpersonali e sociali (Mantovani 2004). Fra i temi di ricerca della p. culturale un particolare sviluppo hanno avuto i processi di conoscenza (rappresentazioni, concetti e categorizzazione; i sistemi 'empirici' di calcolo matematico o 'matematica quotidiana'), il riconoscimento-valutazione e l'espressione delle emozioni, la personalità e la classificazione-valutazione del comportamento altrui (Anolli 2004). Due concetti importanti sono scaturiti da questo tipo di indagini: da una parte l'idea di 'teorie implicite' dei processi mentali e dall'altra l'idea di 'teorie indigene'. Ogni individuo, senza essere uno psicologo professionista, in base alla cultura di appartenenza e al proprio contesto storico-sociale possiede una propria teoria su cosa siano i processi mentali propri e altrui (usa il lessico psicologico: memoria, pensiero, emozione ecc.; ha dei criteri di valutazione per classificare la personalità di altri individui e così via.). Le ricerche condotte sui lessici psicologici, in particolare in relazione alla sfera delle emozioni e ai tipi di personalità, mettono in evidenza una grande varietà di denominazioni e classificazioni tra le varie culture (Galati 2002). L'interesse di questi studi non consiste solo nel dimostrare una forte differenza tra culture diverse sul piano quantitativo (per es., si va da circa 2000 termini per distinguere gli stati emozionali nella lingua inglese a 750 nella lingua cinese di Taiwan a poche decine in alcune popolazioni della Micronesia). Infatti, la presenza di un ricco repertorio di termini riflette una speciale capacità di categorizzazione delle esperienze soggettive che consente non solo un'introspezione più articolata, ma anche una comunicazione interpersonale più efficace. Da un punto di vista teorico, viene messo in risalto come il rapporto tra processi cognitivi e dinamici assuma forme e dimensioni diverse nelle varie culture (Anolli 2004).

Le teorie implicite sono direttamente collegate alla Teoria della mente cui si è già accennato; esse ne sono la manifestazione sistematica seppure con forti differenze sul piano individuale e culturale. A partire dagli ultimi anni del 20° sec. le teorie implicite più studiate sono state quelle relative all'intelligenza e alla personalità ed è stato posto il problema della loro relazione con le teorie esplicite che si sono sviluppate secondo i canoni della ricerca scientifica e vengono diffuse attraverso l'insegnamento e applicate nell'ambito dell'attività professionale (M. Spinath, F.M. Spinath, Riemann, et al. 2003). Uno dei problemi più interessanti per queste ricerche è quindi la differenziazione delle teorie implicite in funzione della cultura, tema di cui si interessano le cosiddette psicologie indigene (indigenous psychologies) o la folk psychology (espressione in uso in ambiente anglosassone e talvolta tradotta con 'psicologia del senso comune', con la perdita del riferimento al termine folk e alla forte connotazione culturale di tali teorie implicite). Ciascuna cultura ha espresso una propria teoria della mente, che non va intesa come una concezione sistematica che adotta criteri di ricerca empirici o scientifici: queste teorie rappresentano piuttosto le modalità attraverso le quali i membri di ciascuna cultura interagiscono tra di loro e trasmettono concezioni del mondo e forme di convivenza sociale alle nuove generazioni. Nella folk psychology vi è uno stretto collegamento con l'antropologia culturale, dalla quale derivano le tecniche di indagine che sono fondate su metodi qualitativi più che sulle tecniche e le procedure proprie della ricerca psicologica praticata nei laboratori sperimentali (Lillard 1998). Come esempi di teorie implicite si fa spesso riferimento ai vari concetti di intelligenza presenti in culture diverse. In Giappone nel termine intelligenza sono comprese qualità differenti che vanno dalla capacità di prendere decisioni rapide al possesso di una buona memoria, ma anche a una bella grafia. In Nigeria una persona è considerata intelligente se obbedisce alle norme della sua comunità e ne segue le tradizioni e i costumi. Nello Zimbabwe, invece, il termine intelligenza è sinonimo di prudenza e accortezza nelle relazioni sociali. Molti psicologi ritengono che le teorie implicite rivestono un interesse di per sé, come sistemi di riferimento per l'interazione interpersonale nella vita quotidiana, mentre può essere oggetto di indagine anche la relazione tra esse e le teorie esplicite formulate dai ricercatori (Sternberg 1985). Le linee di ricerca possono essere due: da una parte, studiare l'influenza delle teorie implicite sullo sviluppo delle teorie esplicite (secondo la prospettiva della folk psychology); dall'altra, verificare l'ipotesi che la teoria implicita adottata da ciascuno nella vita personale e interpersonale dipende dal tipo di intelligenza o personalità posseduta dal soggetto stesso (come si cerca di dimostrare in M. Spinath, F.M. Spinath, Riemann, et al. 2003).

Nella critica sviluppatasi internamente al cognitivismo negli anni Settanta del Novecento (Neisser 1976; Mecacci 1992) era stato posto il problema della rilevanza ecologica dei risultati conseguiti in condizioni di laboratorio. Secondo Neisser "in primo luogo, gli psicologi cognitivisti devono compiere sforzi maggiori per comprendere l'attività cognitiva che si manifesta nell'ambiente ordinario e nel contesto di attività concrete. Questo non significa porre un termine agli esperimenti di laboratorio, bensì è un impegno a studiare le variabili ecologicamente importanti, anziché quelle facilmente manipolabili. In secondo luogo, sarà necessario dedicare maggiore attenzione ai particolari del mondo reale in cui vivono coloro che percepiscono e coloro che pensano, e alla delicata struttura di informazioni resa loro disponibile da quello stesso mondo" (1976; trad. it. 1981, p. 32). Negli anni Ottanta anche questo richiamo dei postcognitivisti all'impostazione ecologica, da una parte con il rifiuto di una concezione astratta della mente umana e dall'altra con l'esigenza di un nuovo tipo di indagini condotte in contesti della vita quotidiana, avrebbe contribuito allo sviluppo delle correnti postmoderne, degli indirizzi neovygotskijani e delle teorie indigene cui è stato già fatto riferimento.

Tuttavia, anche nell'ambito della prospettiva cognitivistica sono state condotte ricerche che si sono dimostrate assai rilevanti per la comprensione e la soluzione di problemi che la mente umana affronta in situazioni concrete: in primo luogo, devono essere ricordati gli studi sul pensiero e, in particolare, sul ragionamento. Si tratta di ricerche che hanno avuto una certa notorietà al di fuori delle scienze psicologiche anche perché i risultati hanno avuto l'importante riconoscimento del premio Nobel per l'economia (assegnato a H.A. Simon nel 1978 e a D. Kahneman nel 2002). Il concetto chiave di tali ricerche è quello di 'razionalità limitata' (bounded rationality) introdotto da Simon (1983). Studiando i processi di decisione in contesti concreti, all'interno di organizzazioni amministrative, sociali e politiche, Simon ha messo in evidenza che, a differenza di quanto affermavano le teorie economiche (e psicologiche) tradizionali (l'homo oeconomicus delineato nel Settecento), gli individui non prendono decisioni in modo ottimale. Infatti, la mente umana, che ha precisi limiti cognitivi e dispone di un ristretto insieme di informazioni, deve prendere decisioni in tempi brevi, senza una previsione sicura dei risultati conseguenti. A una concezione 'olimpica' o divina della mente umana, come l'ha definita Simon (1983), per cui la mente umana sarebbe guidata dal criterio della razionalità nella valutazione delle scelte da compiere, è subentrata una visione meno ottimistica per cui la mente è caratterizzata dalla ricerca e adozione di opzioni il cui esito è incerto o rischioso. La mente si fonda non tanto su forme di ragionamento guidate da regole formali precise (algoritmi), quanto su processi o strategie (euristiche) che combinano esperienze individuali e calcoli soggettivi sulla probabilità degli eventi (Tversky, Kahneman 1974, sui cui risultati v. logica e processi cognitivi e ragionamento, psicologia del). Tali studi hanno riguardato soprattutto la presa di decisione in contesti organizzativi e professionali, come il mondo finanziario, sanitario o militare, dove le scelte hanno effetti di rilevante portata sul piano politico, economico e sociale oltre che su quello individuale.

Un altro settore sviluppato dalla seconda metà degli anni Ottanta del 20° sec. nell'ambito della p. di orientamento cognitivista è l'ergonomia cognitiva (Ergonomia: lavoro, sicurezza e nuove tecnologie, 2000). L'ergonomia fu introdotta per lo studio delle condizioni di lavoro ottimali per il lavoratore, soprattutto in relazione all'uso di macchine e strumenti. All'ergonomia di tipo fisiologico-ingegneristico, che poteva riguardare, per es., il posizionamento e la postura di un operatore alla guida di un veicolo, si è affiancata progressivamente l'ergonomia cognitiva (Di Nocera 2004), che affronta i problemi relativi ai processi cognitivi implicati nell'elaborazione di informazione veicolata o mediata da strumenti. La relazione operatore-computer è stata quindi la condizione più studiata (Mantovani 1995).

Uno dei concetti fondamentali è quello di 'isomorfismo' o corrispondenza funzionale (Norman 1988) tra i processi cognitivi in atto nella mente umana e il tipo di elaborazione programmato nel computer. Se, come si è già accennato, nella ricerca della soluzione di un problema, la mente opera mediante euristiche e il computer mediante algoritmi, la collaborazione tra i due sistemi di elaborazione (la mente umana e la mente artificiale) può risultare problematica. L'isomorfismo riguarda anche processi di base come la percezione e l'attenzione. Poiché nella scrittura occidentale l'informazione scorre lungo righe da sinistra a destra (a differenza, per es., del cinese, in cui la scrittura è organizzata in colonne, dall'alto verso il basso e da destra verso sinistra), la mente di fronte a un testo scritto organizza automaticamente l'esplorazione dell'informazione lungo tale traiettoria. Questa 'sincronizzazione' fra testo scritto e processi mentali non è ancora pienamente garantita negli ipertesti dei siti web dove l'informazione è generalmente dispersa all'interno della schermata, a sinistra o a destra, in alto o in basso, senza alcun criterio di ordine cognitivo. Uno dei settori di indagine, in crescente espansione, dell'ergonomia cognitiva riguarda quindi l''usabilità', la caratteristica di un sito web di fornire informazioni in condizioni ottimali dal punto di vista cognitivo (Nielsen 2000). La trasformazione prodotta nella comunicazione interpersonale dalla diffusione del computer, da Internet e in genere dalla dimensione del cyberspazio, è un altro tema della ricerca psicologica contemporanea, dove i principi e le metodologie dell'ergonomia cognitiva confluiscono in quelli della p. sociale (Fogg 2003).

Tra gli orientamenti teorici più innovativi sviluppati negli ultimi anni del Novecento, con una significativa ricaduta in campo applicativo, risalta la teoria dell'attività. Le origini di questa teoria sono nella scuola russa vygotkijana degli anni Trenta e Quaranta, ma la sua diffusione, soprattutto nei Paesi occidentali, ha cominciato a manifestarsi non prima degli anni Ottanta del Novecento. La formulazione più generale e sistematica della teoria fu proposta da A.N. Leont´ev (1975) e venne successivamente ampliata e arricchita dalle ricerche di psicologi russi e occidentali (Veggetti 2006). La teoria dell'attività si propone di studiare i processi mentali di soggetti umani in contesti concreti, per cui una particolare attenzione è dedicata ai contesti scolastici, lavorativi e organizzativi. Un concetto fondamentale è quello di 'cognizione distribuita' per cui all'interno di un gruppo di persone che coopera ai fini della realizzazione di un'attività (dall'insegnante e gli alunni della sua classe che devono svolgere un programma di studio, all'equipaggio di un aereo che collabora durante il volo), le competenze e le azioni sono integrate tra di loro in modo sistemico, pur essendo assegnate singolarmente a ciascun membro del gruppo in relazione alle proprie specifiche conoscenze e ai propri compiti. Anche in quest'area di ricerca risultano forti differenze culturali e contestuali, perché l'organizzazione del lavoro dal punto di vista cognitivo dipende strettamente dalla pratiche fissate culturalmente e socialmente (Psicologia culturale delle organizzazioni, 2006).

In conclusione, le prospettive che si aprono alla p. del 21° sec. sono radicalmente mutate rispetto alla fine dell'Ottocento, quando nei laboratori di fisiologia e scienze naturali fu dato l'avvio al progetto di una p. come scienza. L'autonomia della p. dalle altre scienze, sia sul versante biologico sia su quello sociologico, non è più perseguita o comunque rispettata. Gran parte della ricerca sperimentale relativa ai processi psichici di base (dalla percezione alla memoria alle pulsioni e alle emozioni) è condotta nell'ambito delle neuroscienze con tecnologie che indagano direttamente le operazioni cerebrali in corso. Le risposte manifeste del soggetto, che un tempo costituivano la modalità di accesso ai processi interni alla mente (considerata una black box), sono considerate un correlato o una conferma di quanto viene determinato dalle neuroscienze. A queste ultime sembra che sia ormai destinato lo studio dell'architettura funzionale della mente umana: non solo nelle condizioni normali, ma anche in quelle patologiche, considerato il crescente sviluppo delle ricerche sulle basi genetiche e biologiche di vari disturbi del comportamento (dall'autismo o la dislessia nel bambino alla schizofrenia o la demenza senile nell'anziano). Il ruolo della p., come hanno indicato gli orientamenti più recenti talvolta ricompresi complessivamente sotto l'espressione 'psicologia postmoderna' (Harré 1998; Mecacci 1999), sarebbe invece quello di studiare come la mente umana si sviluppa in specifici contesti storici, culturali e sociali. La mente umana non adotta schemi fissi di comportamento o regole prefissate, ma modula sé stessa in relazione alle mutevoli condizioni contestuali. Più che una mente concepita come un computer i cui programmi sono rigidi, prefissati geneticamente, molte correnti della p. contemporanea insistono sulla compresenza di modalità diverse attraverso le quali la mente umana opera. Non può essere quindi più applicato il modello naturalistico della situazione di laboratorio in cui si studiano i processi psichici astraendoli dalla varietà dei contesti in cui, in modo altrettanto vario, essi si manifestano. Lo psicologo considera la mente umana come una sorta di 'testo' che si offre a letture diverse perché è la stessa mente che è capace di svolgere di volta in volta, da situazione a situazione, 'narrazioni' e 'discorsi' diversi (p. discorsiva). L'intercettazione di questo intreccio di narrazioni che un individuo umano sviluppa nel corso della propria vita rappresenta per molti psicologi contemporanei il fine della propria ricerca. Ritornano, in questa prospettiva, alcuni concetti che la p. ottocentesca o del primo Novecento aveva rifiutato perché richiamavano impostazioni filosofiche di tipo soggettivistico, come il concetto di persona o di Sé. Come ha sintetizzato Harré "la psicologia discorsiva è attuata scegliendo la 'persona' come essere elementare o particolare fondamentale di una scienza psicologica. In base a tale scelta, i cervelli diventano per le persone degli strumenti da impiegare nella realizzazione di determinati compiti. La maggior parte dei compiti cognitivi è posta culturalmente" (1998; trad. it. 2000, pp. 71-72).

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