PSICOTERAPIA RELAZIONALE

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1994)

PSICOTERAPIA RELAZIONALE

Camillo Loriedo

Una concezione della dinamica psicologica in senso relazionale si è sviluppata negli Stati Uniti alla fine degli anni Quaranta, e si è diffusa rapidamente anche in Europa. Questo modello, usato per concettualizzare i problemi dell'uomo, si fonda sul principio che l'unità di osservazione per la comprensione del disturbo psichico non è tanto l'individuo quanto la relazione tra gli individui. Da tale prospettiva ha origine un approccio psicoterapeutico, la p.r., che si contrappone al tradizionale modello individuale della psicoterapia in quanto centrata non più sull'individuo ma sulle relazioni e sul sistema di relazioni a cui l'individuo appartiene.

In realtà anche il modello psicoanalitico aveva messo in evidenza l'importanza dei rapporti umani nella genesi delle nevrosi. S. Freud aveva indubbiamente colto il ruolo svolto dalle relazioni familiari nello sviluppo della patologia dei pazienti che aveva in trattamento e anzi le considerava un ostacolo indesiderato al buon andamento delle cure; ma la psicoanalisi aveva in generale un atteggiamento piuttosto intransigente nei confronti dei familiari dei pazienti in trattamento. Secondo la posizione più tradizionalista era ritenuto opportuno scoraggiare qualsiasi tipo di contatto tra l'analista e i familiari del paziente. Ma negli ambienti meno legati alla tradizione dapprima s'iniziò a ritenere meritevoli di attenzione alcuni aspetti della dimensione interpersonale della patologia psichica e, successivamente, si sviluppò un atteggiamento di maggiore considerazione per le persone che hanno un rapporto significativo con il paziente in terapia, fino a ritenerne utile, anche se solo occasionalmente, la presenza in seduta. Questa nuova tendenza si sviluppò soprattutto a opera di alcuni esponenti della scuola statunitense, particolarmente sensibili al valore delle influenze relazionali e familiari individuate da Freud. Inizialmente essi elaborarono i primi modelli teorici e d'intervento della p.r. sollecitati dalle risultanze degli studi sulla schizofrenia in cui le relazioni interpersonali dimostravano di esercitare un ruolo preminente.

Il più noto di questi studi è quello che darà luogo alla teoria ''interpersonale'' della schizofrenia di H.S. Sullivan. Questi interpretò alcuni aspetti della sintomatologia schizofrenica come risposta a rapporti interpersonali inadeguati. Alcuni sintomi della schizofrenia vennero considerati come risposte a una situazione interpersonale in cui l'Io, non ricevendo le necessarie conferme dagli altri, svilupperebbe a scopo difensivo uno o più ''sistemi funzionali dissociati''. Si tratta di un'operazione difensiva che determina l'acquisizione di una relativa sicurezza a spese di un grave impoverimento esistenziale che riduce quantitativamente e qualitativamente lo spazio relazionale dell'individuo. L'opera di Sullivan segna formalmente l'inizio della prospettiva relazionale. Prima di allora, nessuno aveva tentato di costruire una teoria sulla genesi relazionale delle patologie psichiche. Nel 1948, F. Fromm Reichmann, allieva di Sullivan, propose la teoria della cosiddetta ''madre schizofrenogena'', una donna fredda, dominante e con forte tendenza al controllo, che stabiliva una relazione ambivalente e iperprotettiva con il figlio. Nei primi anni Cinquanta si iniziò a prendere in considerazione anche lo stile di relazione del padre, e vennero indicate le caratteristiche ritenute tipiche del padre schizofrenogeno, un uomo tirannico, ma insieme indifferente e tendente al rifiuto.

Successivamente venne ipotizzata anche una teoria multigenerazionale della patologia psichica e vennero quindi chiamate in causa anche le influenze delle famiglie d'origine. In questa prima fase della prospettiva relazionale emerge una forte tendenza, derivata probabilmente dalla prospettiva individuale non ancora completamente superata, a identificare uno o più individui (la madre, il padre, i nonni) come responsabili della patologia del loro familiare. Ma nel periodo immediatamente successivo assumono gradualmente maggiore importanza i meccanismi comunicativi e relazionali, e s'inizia a riconoscere la possibile reciprocità tra emittente e ricevente degli scambi interattivi. Non si tende più a ritenere malato uno dei due partecipanti a una relazione, ma si considera disturbata la loro interazione.

Diventa in tal senso predominante la teoria della comunicazione, che viene applicata ai sistemi interattivi umani, con la connessa descrizione di una serie di meccanismi comunicativi disfunzionali capaci di dar luogo a patologie più o meno conclamate. Numerose sono le ipotesi comunicative proposte sulla genesi della patologia psichica, tra le quali la teoria del doppio legame è certamente la più nota e la più significativa. Tale teoria venne presentata nel 1956 da un gruppo di studiosi di Palo Alto, guidato da G. Bateson. La ricerca fu condotta su famiglie di pazienti schizofrenici allo scopo di verificare l'esistenza di modalità comunicative ambigue e contraddittorie.

Bateson si servì della teoria dei tipi logici di B. Russell e A.N. Whitehead per dimostrare l'esistenza, nelle famiglie degli schizofrenici, di modalità comunicative paradossali, contenenti cioè una contraddizione tra livelli di complessità diversi. Si tratta in sostanza di messaggi il cui contenuto presuppone e prescrive tutta la relazione in corso e che contengono pertanto una totalità illegittima. Sono esempi di comunicazione paradossale che genera il doppio legame messaggi del tipo: ''devi essere indipendente'', ''sii autonomo'', ecc., che prescrivono un'indipendenza o un'autonomia totale nell'ambito della relazione in corso e quindi prescrivono autonomia e indipendenza anche nei confronti del messaggio stesso. La paradossale conseguenza è che si può obbedire al messaggio solo se gli si disobbedisce e gli si può disobbedire solo se gli si obbedisce. Ciò che deriva da tale situazione è un'oscillazione infinita, un circolo vizioso logico-pragmatico che determina l'''indecidibilità'' non solo del messaggio, ma anche dell'intera relazione. L'ipotesi del doppio legame suscitò un grande interesse intorno alla prospettiva relazionale che acquistò rapidamente notorietà nell'ambito scientifico. Gli studi sulle famiglie si moltiplicarono sia negli Stati Uniti che in Europa, e in alcuni centri il tradizionale setting individuale venne modificato per iniziare le prime sedute congiunte con l'intera famiglia del paziente. Ebbe inizio così la p.r. che venne soprattutto, ma non esclusivamente, rivolta alla famiglia.

La pratica della psicoterapia della famiglia fece incrementare l'interesse dei ricercatori a indagare sistematicamente l'insieme delle relazioni familiari e non più i singoli componenti o il loro stile interattivo. Contemporaneamente al progetto Bateson, nel National Institute of mental health di Bethesda e alla Yale University, rispettivamente L. Wynne e Th. Lidz condussero analoghi studi su famiglie di pazienti psicotici. Di lì a poco, a Washington, M. Bowen con i suoi collaboratori presentarono un modello trigenerazionale delle famiglie con paziente designato schizofrenico, fondato sulla ''differenziazione del Sé'' dal sistema emotivo di appartenenza.

Negli anni Settanta si verificarono alcuni importanti cambiamenti. La p.r. iniziò a estendere il suo campo d'interesse al di là della schizofrenia che per lungo tempo aveva monopolizzato l'attenzione dei ricercatori, e vennero condotti i primi studi sulle famiglie nelle quali erano presenti problemi di tossicodipendenza, anoressia e malattie psicosomatiche. Inoltre la teoria generale dei sistemi di L. von Bertalanffy acquistò una posizione determinante nella prospettiva relazionale in quanto si rivelò lo strumento più adeguato a descrivere l'insieme delle relazioni della famiglia o del gruppo naturale nel quale i componenti hanno una storia e un progetto futuro in comune. Nel corso di questa fase della prospettiva relazionale, che venne definita ''periodo sistemico'', s'iniziò a prendere in considerazione la famiglia in toto come unità strutturale-funzionale con modalità transattive proprie. Il concetto di relazione venne quindi arricchito dal concetto di ''sistema''; questo concetto permette di allargare l'ottica relazionale a sistemi sociali più ampi e, al tempo stesso, di non tralasciare il valore delle singole individualità che li compongono. La prospettiva relazionale-sistemica consente infatti di cogliere l'importanza dell'insieme (sistema) senza per questo tralasciare i sottosistemi e gli individui che ne fanno parte, ed è per questo motivo che il concetto risulta così appropriato per spiegare la struttura e il funzionamento del sistema familiare o di altri aggregati sociali.

I concetti chiave della prospettiva relazionale. - Il concetto di ''relazione'' e quello di ''sistema'' costituiscono gli aspetti innovativi della prospettiva relazionale. Nella relazione si evidenziano alcuni aspetti psicologici e comportamentali che un'osservazione esclusivamente individuale non consente di rilevare. La relazione permette di comprendere il rapporto tra due o più variabili e di cogliere come, al mutare di certe condizioni esterne o di parametri comportamentali in un individuo o in un sistema, si possano determinare correlativi cambiamenti in altri individui o sistemi. Il concetto di relazione consente anche di superare l'ottica limitativa dell'aut/aut in cui si devono sempre esprimere giudizi di certezza che talvolta vengono addirittura ritenuti inappellabili. In un'ottica che tenga conto della relazione è possibile distinguerli, ma considerando anche le loro possibili correlazioni.

Quando si verifica un dato comportamento è quindi possibile considerarlo nell'ambito di una relazione, pur senza dover rinunciare alla sua valutazione rispetto all'individuo che lo ha messo in atto. La relazione quindi non prescinde dagli individui, ma li comprende e li unisce, consentendo all'osservatore di avere dell'individuo una conoscenza che tenga conto del variare del comportamento in funzione delle situazioni ambientali e del comportamento degli altri. Una visione superficiale della prospettiva relazionale potrebbe condurre a trascurare l'importanza degli individui nella relazione o nel sistema, così come talvolta si considera la famiglia un'unità a sé stante ignorando l'importanza dei singoli componenti. In altri termini, quando si osserva l'interazione tra due persone si dovrà tener conto sia dell'influenza reciproca (la cosiddetta retroazione) dei rispettivi comportamenti, sia degli atti comportamentali separati che ciascuno dei due mette in atto.

Il ''sistema'' rappresenta una modalità di descrizione degli individui e delle relazioni che intercorrono tra di loro; va inoltre tenuto presente che la teoria generale dei sistemi di von Bertalanffy fu ideata dall'autore con la finalità di fornire un linguaggio interdisciplinare a studiosi che operavano in campi diversi.

Descriviamo brevemente alcuni aspetti del sistema che hanno maggiore rilevanza per la prospettiva relazionale.

La struttura del sistema è la disposizione dei sottosistemi e componenti di un sistema nello spazio tridimensionale in un dato momento. Il ''processo'' è rappresentato da tutti i cambiamenti di materia-energia e d'informazione che avvengono nel tempo in un sistema. Questi cambiamenti possono essere reversibili o irreversibili. Il processo si compone di funzione e storia. La ''funzione'' è costituita dall'insieme delle azioni reversibili che si susseguono da momento a momento. La ''storia'' riguarda invece cambiamenti a reversibilità minore o non reversibili come nascita, crescita, sviluppo, invecchiamento, morte, ecc. La struttura del sistema cambia di solito in rapporto al funzionamento, ma quando il cambiamento è così grande da essere sostanzialmente irreversibile si è verificato un processo storico che origina una nuova struttura. Un ''componente'' (membro, parte) del sistema è un'unità strutturale specifica, discreta e ben definita di quel sistema. Il ''sovrasistema'' è il sistema di livello superiore più prossimo di cui quel sistema è un componente o sottosistema. Il ''sottosistema'' è costituito dalla totalità delle strutture di un sistema che svolgono una particolare funzione. Un sottosistema è quindi identificato dalla funzione che svolge.

Un concetto di particolare rilevanza ai fini della comprensione della prospettiva relazionale è quello di ''complessità'' con il quale viene indicata la molteplicità dei livelli che possono essere osservati all'interno di un sistema. I diversi livelli del sistema assumono caratteristiche differenti, caratteristiche che emergono in funzione del livello che viene prescelto per l'osservazione. Le caratteristiche emergenti si manifestano quando si attua l'osservazione a un livello di complessità superiore rispetto al livello di riferimento prescelto per l'osservazione iniziale del sistema. Per chiarire il concetto delle caratteristiche emergenti potremmo riferirci all'esempio di un sistema familiare: quando si osserva il livello di maggiore complessità − la famiglia estesa − i membri di una famiglia nucleare acquistano caratteristiche che prima non erano presenti. Il padre, che prima sembrava assente e disinteressato, in presenza dei suoceri dimostra di occuparsi dei figli con grande impegno; la madre di fronte ai suoi genitori dimostra uno strano disagio che in precedenza non era neppure immaginabile, vista la disinvoltura con la quale abitualmente parlava e agiva; i ragazzi che da soli erano irrequieti e litigavano, si dimostrano calmi e riflessivi. Con la presenza dei nonni i membri della famiglia hanno acquisito delle particolari qualità che nella sola famiglia nucleare non erano osservabili e che non possono essere considerate semplicemente il frutto di un aumento numerico dei partecipanti.

Metodologie e tecniche psicoterapeutiche. - La struttura e la concezione stessa dell'approccio relazionale consentono tecniche e modelli terapeutici vari e tra loro anche molto diversi. Di essi diamo qui di seguito una breve rassegna.

Il modello psicoanalitico. Le prime sedute di terapia della famiglia furono condotte quasi di nascosto per timore delle critiche di quanti ritenevano inviolabili le regole dell'ortodossia analitica. Dapprima si pensò che fosse opportuno vedere separatamente i diversi membri della famiglia e, solo più tardi, si tentò l'inconsueta procedura della terapia familiare ''congiunta'' alla quale erano presenti contemporaneamente tutti i componenti del nucleo familiare. Inizialmente furono utilizzate le più comuni tecniche analitiche, come se si attuasse un'analisi individuale in presenza dei congiunti del paziente. Le tecniche vennero quindi modificate per adattarle al contesto familiare. Tuttavia, ben presto fu evidente che non era sufficiente compiere un'operazione del genere perché lo strumento utilizzato non era in grado d'intervenire sugli scambi interattivi e, più in generale, sulle relazioni in atto. Per questo motivo gli psicoterapeuti della famiglia si sono impegnati per elaborare un proprio modello d'intervento che potesse prescindere da quello psicoanalitico. Inizialmente la psicoterapia della famiglia si sviluppò addirittura in contrapposizione a quella psicoanalitica, rigettandone tutte le procedure terapeutiche che tuttavia, dopo la fase iniziale di totale rifiuto, vengono attualmente di nuovo prese in considerazione da alcuni terapeuti relazionali.

Il modello strategico. È il modello che più si discosta da quello psicoanalitico, per il suo orientamento spiccatamente pragmatico. J. Haley lo propose agli inizi degli anni Sessanta, dopo aver studiato a lungo le tecniche psicoterapeutiche di M. Erickson, il più grande ipnotista dell'era contemporanea. Nelle sue ''terapie non comuni'', Erickson utilizzava l'ipnosi senza ricorrere alle forme rituali d'induzione della trance, precedentemente in voga, e dimostrava molta attenzione per le dinamiche familiari dei suoi pazienti che spesso coinvolgeva nella terapia. Haley colse nell'approccio di Erickson la presenza di un accurato disegno ''strategico'' che mirava al raggiungimento in tempi brevi dell'obiettivo terapeutico.

Nella p.r. strategica è il terapeuta colui che stabilisce le modalità attraverso le quali il problema del paziente o della famiglia può essere risolto; anzi il problema diviene la guida del procedimento terapeutico che su di esso dev'essere opportunamente calibrato. Questa terapia del problem solving si basa soprattutto su prescrizioni che in genere devono essere eseguite dalla famiglia e dai suoi componenti al di fuori della seduta. Talvolta le prescrizioni sono proposte alla famiglia in forma di compiti gravosi o ordalie che tendono a rendere indesiderabile il verificarsi del sintomo. Più spesso si tratta invece di prescrizioni paradossali che tendono a incoraggiare il verificarsi del sintomo o delle resistenze messe in atto dalla famiglia. Questo tipo d'intervento pone il sintomo sotto il controllo del terapeuta e, quindi, della famiglia. Il terapeuta strategico interviene sui giochi di potere della famiglia e attribuisce molta importanza all'acquisizione e al mantenimento del proprio potere nei confronti della famiglia, per poter condurre l'intero processo, fino alla sua conclusione, nella direzione dell'obiettivo terapeutico che consiste essenzialmente nella soluzione del problema che ha condotto la famiglia in terapia. I conflitti esistenti nella famiglia e soprattutto i conflitti di coppia vengono ignorati dal terapeuta strategico, che non ritiene indispensabile la loro soluzione per il conseguimento dell'obiettivo terapeutico. I genitori non vengono visti sotto l'aspetto coniugale, ma esclusivamente sotto quello genitoriale. L'alleanza genitoriale richiesta dal terapeuta per la risoluzione del sintomo del figlio può influire indirettamente anche sul conflitto coniugale, ma questo viene considerato soltanto un effetto collaterale della terapia. Va inoltre rilevato che il terapeuta considera il proprio coinvolgimento emotivo come un fattore di disturbo e tende pertanto a evitarlo.

Il modello strutturale. S. Minuchin elaborò il modello della terapia strutturale della famiglia per necessità, quando si rese conto che il linguaggio abitualmente utilizzato dagli psicoterapeuti si dimostrava di scarsa utilità nel lavorare con le famiglie povere degli slums di Filadelfia. Per quelle famiglie occorreva un approccio semplice ma efficace sul piano emotivo, un approccio immediato, fatto di poche parole e di molti interventi non verbali carichi di significato implicito. La metafora dei ''confini'' divenne uno strumento insostituibile nel gestire, con un numero molto limitato di atti terapeutici, il flusso comunicativo delle ''famiglie invischiate'', fatto di interruzioni e sovrapposizioni continue. L'aumento dell'intensità affettiva aveva invece lo scopo di attivare risposte comunicative che sembravano spente nelle ''famiglie disimpegnate''.

La terapia strutturale è concreta ed essenziale anche nelle manovre terapeutiche che utilizza: non vengono affidati alla famiglia compiti da eseguire a casa, come nella terapia strategica, ma vengono invece date prescrizioni da attuare nel corso della seduta. In questo modo il terapeuta si accerta direttamente della compliance (disponibilità a mettere in atto le prescrizioni) della famiglia e può intervenire immediatamente per migliorare i risultati ottenuti. Inoltre il cambiamento avviene sotto gli occhi di tutti, suscitando risposte emotive intense che tendono a rafforzarlo. La finalità della terapia è la ristrutturazione del sistema familiare per ripristinare confini distinti che consentono il passaggio di un flusso adeguato di informazioni. La ristrutturazione viene attuata attraverso un agire terapeutico che si rivolge tanto ai genitori che ai coniugi e che riguarda sia la generazione dei figli che quella dei nonni. Il sistema viene quindi considerato nella sua globalità, prestando anche attenzione ai suoi rapporti con il mondo esterno. Il terapeuta strutturale interviene sulle ''coalizioni'' e su altri triangoli che, quando si verificano all'interno della famiglia, tendono a danneggiare uno dei suoi membri, per trasformarle in ''alleanze'' che non sono dirette contro terze persone. Il terapeuta impegna se stesso attivamente nel corso della seduta, ma tende a evitare il proprio coinvolgimento emotivo.

Il modello esperienziale. La terapia esperienziale di C. Whitaker è quella che più si avvicina al modello psicoanalitico, ma che meno delle altre può essere ricondotta a uno schema ben preciso. Non è un caso che Whitaker stesso l'abbia definita ''terapia non razionale'' e che si basi soprattutto sull'inventiva e sull'esperienza del momento.

L'assurdo, il gioco e l'umorismo costituiscono altrettanti fattori terapeutici di quest'approccio e l'unità sulla quale interviene è l'intera famiglia; ma soprattutto si dà importanza ai rapporti transgenerazionali per comprendere la genesi della patologia e per richiedere la collaborazione delle generazioni precedenti nella terapia del nucleo familiare. I genitori sono coinvolti nella terapia come coppia genitoriale, come coniugi, ma anche come figli rispetto alle famiglie d'origine.

Nella terapia esperienziale viene posta un'enfasi ridotta sul problema del potere e il coinvolgimento personale del terapeuta viene considerato un requisito indispensabile per ottenere il cambiamento della famiglia. L'obiettivo più importante è quello di raggiungere la crescita della famiglia che, secondo Whitaker, dev'essere accompagnata da quella del terapeuta.

Le tecniche e i modelli psicoterapeutici dell'orientamento relazionale sistemico sono in continuo aumento soprattutto per la maneggevolezza dell'approccio e per la sua utilizzabilità nel contesto assistenziale dei servizi territoriali. Inoltre la prospettiva ha già dimostrato di avere, non soltanto come approccio psicoterapeutico, ma anche come modello esplicativo e descrittivo, molte potenzialità ancora in larga misura inesplorate date le origini ancora molto recenti della disciplina.

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